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Academic year: 2021

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Le parole che non usiamo:

l’errore in storia

di Aurelio Musi

In storia non esiste una nomenclatura linguistica specifica. A differenza di discipline e saperi tecnico-scientifici, che dispongono di un linguaggio proprio e di parole-concetti corrispondenti molto spesso agli stessi oggetti delle scienze matematiche, fisiche e naturali, le parole della storia sono desunte dal linguaggio comune. Nelle scienze normative, come ad esempio quelle giuridiche, l’apparato linguistico è fondamento del loro statuto epistemologico. Le parole, in questo caso, corrispondono molto spesso ad istituti, norme, forme: la loro definizione è parte integrante del sapere giuridico nelle sue più diverse articolazioni. Certo anche istituti e norme hanno una loro determinazione storica, sono soggetti al cambiamento, non possono essere fissati una volta per tutte nel cielo del formalismo giuridico. Il diritto ordina il sociale perché ha radici profonde, ma ha bisogno della comprensione e dell’interpretazione, come ha scritto Paolo Grossi (2008: 78). E tuttavia il circolo fonti-forme-comprensione-interpretazione crea la norma.

Le parole della storia assai di rado hanno radici profonde. Vanno di volta in volta definite e collocate nello spazio-tempo, ricomprese e reinterpretate alla luce di un delicato equilibrio fra contestualizzazione e comparazione: la contestualizzazione si riferisce al tempo-spazio storico a cui attribuiamo le parole come sua rappresentazione; la comparazione all’atto del confronto fra quelle parole, usate per descrivere e interpretare un processo storico, e il loro uso nel senso comune.

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La prima possibilità dell’errore in storia deriva dall’intreccio fra la parola, lo spazio e il tempo: un intreccio che può trasformarsi in un possibile corto circuito. Alla base c’è l’assoluta indifferenza per la cronologia, lo stravolgimento di date e secoli interi così frequente oggi nell’apprendimento dei nostri allievi nei corsi universitari. Ma è un errore frequente anche in esponenti del nostro ceto politico nazionale e locale. Da ultimo la neoeletta sindaco di Torino, Chiara Appendino, ha sostenuto che la sua vittoria alle amministrative rappresenta la “seconda liberazione” di Torino dopo quella del 1806, confondendosi di un secolo (in realtà 1706). Lo schiacciamento del senso comune contemporaneo sull’istante provoca l’assoluta estraneità alla parola-concetto di “svolgimento”. Noi docenti di qualsiasi ordine e grado scolastico e universitario facciamo molta fatica ad insegnare la storicità del presente. Il senso comune dell’immediatezza della comunicazione va in tutt’altra direzione: quella di uno spazio decontestualizzato, privo di qualsiasi mediazione e riferimento conoscitivi; quella di un tempo scomposto, fatto di istanti, di frammenti sconnessi, privi di relazione, schegge impazzite che vagano in un universo senza senso. Il tempo storico come svolgimento, sia pure non lineare, fatto di fughe in avanti e di ritorni indietro, calato in un contesto che ad esso conferisce senso, è dimensione abbastanza estranea alla coscienza comune. È difficile far passare oggi l’idea della contemporaneità della storia, elaborata non solo da Benedetto Croce, ma anche da altri grandi intellettuali del Novecento: quella per cui ogni momento storico è contemporaneo nell’atto in cui lo pensiamo. Il concetto di attualità è oggi sempre più associato all’effimera percezione dell’istante in cui si svolge un fatto, un evento, che coincide esattamente col tempo rapidissimo della comunicazione. E naturalmente la comunicazione dell’evento successivo cancella la memoria di quello precedente: svanisce così non solo il tempo lineare, ma la stessa possibilità di considerare il tempo storico come svolgimento. Ben s’intende che questo modo di concepire l’attualità è assai distinto e distante dall’idea di storia contemporanea o storia presente come atto del pensiero, cioè come processo conoscitivo che richiede la mediazione della conoscenza dell’evento collocato nello spazio-tempo della coscienza.

Il tempo storico è la radice della libertà della storia. È una libertà a due dimensioni: retrospettiva e prospettica. È vero che il presente sollecita la considerazione e la riconsiderazione del passato. Ma questo non può essere schiacciato sul presente secondo la diffusa tendenza all’uso pubblico della storia. Il passato rivendica cioè la sua differenza, la sua piena autonomia dal presente. E in questo consiste la libertà retrospettiva della storia. Poi la storia ne sa una più del diavolo: sfugge a qualsiasi nostra capacità di previsione, ha una straordinaria creatività, ci riserva non poche sorprese. È la dimensione della libertà prospettica. La “fine della storia” è una contraddizione in termini.

Un altro errore frequente nell’apprendimento della storia deriva dall’incomprensione di parole non di uso comune, e dal loro schiacciamento su parole di più semplice conoscenza perché appartenenti ad altri linguaggi più familiari come quello medico. Faccio un esempio ricavato direttamente dalla mia esperienza d’insegnamento. Tanti anni fa, all’inizio della mia carriera accademica, svolsi un corso sulle teorie della sovranità tra Medioevo e prima Età moderna. Durante le lezioni

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avevo, ovviamente, fatto riferimento all’opera di Marc Bloch, I re taumaturghi. A fine corso mi venne l’idea di sperimentare la prova scritta. In ben venti dei cento compiti finali i re taumaturghi divennero i re “traumaturghi”. Dopo questa esperienza decisi di adottare come prova d’esame solo quella tradizionale orale.

Ma questo è solo un aneddoto, indicativo tuttavia della tipologia dell’errore sul versante dell’apprendimento linguistico della storia, a valle, per così dire, di un processo che investe a monte il rapporto tra lo storico e le fonti.

È stato Marc Bloch, nella sua magistrale opera Apologia della storia o mestiere di storico, ad andare alla caccia della menzogna e dell’errore e a tracciarne un vero e proprio inventario. Bloch inizia dai “veleni capaci di viziare una testimonianza”: di essi “l’impostura è il più virulento” (1969: 89). Questa può assumere due aspetti. Il primo è l’inganno sull’autore e sulla data. Un esempio sono le lettere pubblicate con la firma falsa di Maria Antonietta. Il secondo è l’inganno nel contenuto: Cesare nei suoi Commentarii ha molto deformato e omesso; I Protocolli dei Saggi di Sion sono falsi sia per il nome dell'autore sia perché, in larga misura, lontani dalla verità. La critica deve cercare dietro l’impostura l’impostore: ossia l’uomo. Non ci furono solo individui, ma anche epoche mitomani come le generazioni preromantiche o romantiche e il periodo tra la fine del Settecento e il principio dell’Ottocento.

È tutta una vasta sinfonia di frodi da un capo all’altro dell’Europa in quei decenni (…) Il plagio poi in quel tempo sembrava l’atto più innocente del mondo: l’annalista, l’agiografo si appropriavano senza rimorsi, a brani interi, scritti di autori precedenti. Il Medioevo non conosceva altro fondamento per la propria fede come per il proprio diritto che la lezione degli antenati; il romanticismo sognava di dissetarsi alla fonte viva del primitivo e del popolare. Così, i periodi più legati al passato furono anche quelli che si presero le maggiori libertà con il preciso retaggio di esso. Quasi che, per una singolare rivincita di un’irresistibile esigenza creatrice, a forza di venerare il passato fossero naturalmente portati ad inventarlo. (Bloch 1969: 92)

Ma la forma più insidiosa di frode è costituita dalle interpolazioni nelle carte autentiche, da chiose inventate su un fondo attendibile. Tra la finzione e l’errore involontario c’è poi una gamma intermedia. Bisogna tenere in considerazione le condizioni psicologiche dell’osservatore, il suo livello di attenzione, la sua emotività. “Molti avvenimenti storici furono osservati soltanto in momenti di violento turbamento emotivo, o da testimoni la cui attenzione o tardivamente richiamata, se colta di sorpresa, o trattenuta dalle preoccupazioni dell’azione immediata, era incapace di concentrarsi con sufficiente intensità sui punti ai quali lo storico giustamente attribuirebbe oggi un interesse preponderante” (1969: 97). Un esempio ricordato dallo storico francese: non si sa se il primo colpo di arma da fuoco che scatenò la rivoluzione del febbraio 1848 a Parigi partì dai soldati o dalla folla. Quasi sempre l’errore è orientato in anticipo. Esso si diffonde e prende radici solo se si accorda con le convinzioni preconcette dell’opinione comune. Diventa quasi lo specchio in cui la coscienza collettiva contempla i propri lineamenti. Ma l’inventario affollato di errori proposto da Bloch non tocca

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la struttura elementare del passato. La parola di Bayle rimane sempre giusta – Non si troverà mai obiezione valida contro questa verità: che Cesare sconfisse Pompeo e che, qualunque fondamento si voglia dare alla discussione, non si troveranno verità più salde di questa proposizione: Cesare e Pompeo sono esistiti e non furono una semplice modificazione dell’anima di coloro che scrissero la loro vita. (1969: 98) (corsivo nel testo)

Si tocca qui un punto della massima importanza: il rapporto fra storia, finzione, arbitrarietà. La non distinguibilità fra storia e finzione può condurre anche al negazionismo dell’Olocausto. La prova, in passato parte integrante della retorica, oggi è fondamentale nel modo di lavorare dello storico, come scrive Ginzburg (2001: 86). Certo i fatti non esauriscono i significati degli eventi. Ma essi ne costituiscono comunque la base. In alcune interpretazioni costruttivistiche della storia la coerenza formale diventa essa stessa parametro esclusivo del discorso storico e principio di realtà. Se la narrazione storica può riferirsi a eventi reali del mondo solo attraverso figure del discorso e figure di pensiero, il rischio dell’arbitrario soggettivismo assoluto è continuamente presente. Sul piano formale questa procedura può anche non contenere nessun errore, perché sono salvaguardate tutte le regole della logica, della retorica e dell’argomentazione. Ma sul piano sostanziale si nasconde un pericolosissimo errore. Il fatto storico non può essere integralmente costruito, cioè inventato: esso ha la sua legittimazione e, al tempo stesso, il suo limite nel sistema delle fonti.

Un esempio di integrale costruttivismo è l’uso pubblico della storia nella scrittura dei manuali scolastici controllati dall’autorità statale.

Anni fa Giuliano Procacci svolse uno studio sistematico sui manuali di storia in uso nelle scuole degli Stati-nazione nati dalla dissoluzione dei regimi comunisti e in altri paesi afroasiatici. I “last comers” dell’ex Unione Sovietica riscrivevano la loro storia scoprendo le loro identità nazionali in lontane radici etniche. Così la Moldova e l’Estonia attribuivano valenza patriottica alle rivolte contadine nel Medioevo, che avevano avuto esclusivamente una radice economico-sociale dovuta alla crisi generale. In molti paesi dell’Asia centrale Tamerlano e Gengis Khan diventavano, nei manuali scolastici, gli eroi che avevano combattuto contro la dominazione russa. L’errore ricorrente, in questi casi, era dunque l’anacronismo, lo schiacciamento del passato sul presente, la sua strumentalizzazione a fini ideologici.

Nazionalismi e fondamentalismi, l’identità storica ricostruita su basi etniche, revisionismi e pesantissime strumentalizzazioni politiche ad opera di élite del momento al potere sono alcuni tratti distintivi dei manuali di storia di molti paesi extraeuropei. Ma, d’altro lato, la civiltà occidentale, nella molteplicità delle sue espressioni in Europa e fuori d’Europa, da qualche decennio è andata smarrendo dal suo orizzonte il senso storico, la possibilità di riconoscersi in quadri ricostruttivi e interpretativi forti su cui fondare anche valori condivisi. Le scienze sociali, lungi dall’arricchire di strumenti teorici e metodologici la scienza storica, le hanno sottratto valore sintetico e centralità nel processo della conoscenza.

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La fondazione della storia come scienza risale alla seconda metà dell’Ottocento. È stato Droysen (1966) a formulare le regole principali della storia come scienza. Ancora oggi quelle norme rappresentano i fondamentali della conoscenza storica. Gli errori più frequenti derivano dall’ignoranza o dal mancato rispetto di essi.

Per Droysen l’indagine storica è fondata sulla mediazione del ricordo. Per indagare la mediazione sono necessari tre passaggi: l’Euristica, la Critica, l’Interpretazione. Punto di partenza di qualsiasi indagine è il problema storico. L’euristica procura i materiali per il lavoro storico: avanzi, cioè quel che resta ancora immediatamente del passato nel presente; fonti, quanto cioè è passato nelle idee degli uomini al fine di ricordarlo; monumenti, l’unione delle prime due specie. La critica appura l’autenticità dei materiali, le loro eventuali alterazioni nel tempo, il valore probante del materiale all’origine e nei suoi sviluppi, lo ordina criticamente. Droysen tiene a precisare che il risultato della critica non è il vero e proprio fatto storico, ma la preparazione del materiale, che consente una concezione relativamente sicura e corretta. Infine l’interpretazione. L’indagine storica non vuole spiegare, cioè derivare dall’antecedente il susseguente, da leggi i fenomeni come necessari, come meri effetti e svolgimenti. Se la necessità logica del susseguente fosse insita nell’antecedente, invece del mondo etico avremmo qualche cosa di analogo alla materia eterna e al ricambio organico, dice Droysen. Essenza dell’interpretazione è di ravvisare, negli eventi passati, delle realtà con tutta la ricchezza di condizioni che ne promosse l’attuazione effettiva.

Lungo queste linee e procedure si muove ancora oggi, nella sostanza, la ricerca storica. Fu anche questo un contributo decisivo dell’Ottocento alla cultura europea.

Sono tre i passaggi logici e cronologici dell’operazione storica: 1) l’analisi critica delle fonti,

2) la ricostruzione del fatto storico, 3) la sua interpretazione.

L’errore più comune, a volte intenzionale, caratterizzante l’uso pubblico della storia, consiste nel passare direttamente a 3), saltando a piè pari 1) e 2). L’interpretazione in storia non può essere mai arbitraria, assolutamente soggettiva. Essa è fondata su tipologie di concetti storici. Irenée Marrou ne ha indicato quattro (1988: 131-133):

a) concetti universali, applicabili all’uomo in qualsiasi epoca e ambiente, come quelli di natura biologica o legati alla personalità umana;

b) concetti tecnico-istituzionali, prodotti materiali e spirituali di una cultura e civiltà, lo Stato, ecc.;

c) concetti analogici o metaforici, a volte applicati anche in contesti diversi da quelli in cui e per cui sono stati creati (tirannia, barocco, rinascimento, ecc.); d) concetti che si possono designare col termine weberiano di idealtypus; come

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Il tipo ideale è uno schema organico con le parti interdipendenti, costituito da un’organizzazione fondata su relazioni strutturali, enucleate dall’analisi dei casi singoli; ma i caratteri organizzati nel tipo ideale non sono necessariamente quelli forniti dai casi più numerosi, bensì quelli tratti dai casi che si mostrano più significativi in quanto suggeriscono allo storico la nozione più coerente, più ricca e meglio intelligibile. (1988: XXI)

Attenersi all’uso di queste quattro tipologie – ma altre possono essere e sono state individuate – consente allo storico e al ricercatore di sfuggire agli errori nella fase interpretativa del suo lavoro.

La prima tipologia torna particolarmente utile oggi: in un tempo storico, cioè, in cui è ormai obsoleta la distinzione, se non la vera e propria opposizione, fra le “due culture”, quella umanistica e quella tecnico-scientifica. Un dialogo sempre più serrato fra le procedure della conoscenza storica e quelle delle cosiddette scienze della vita sta dimostrando che la storia fa a pieno titolo parte di esse. Basti pensare ai rapporti fra memoria biopsichica e memoria storica. Già con Freud la riflessione sulla memoria ha assunto un ruolo di straordinaria importanza nell’evoluzione del pensiero del padre della psicoanalisi. In estrema sintesi per Freud la memoria è una delle principali caratteristiche del tessuto nervoso, un regolatore del rapporto tra mutamenti e permanenze nella nostra vita psichica. I residui mnestici, lasciati dai processi di eccitamento, costituiscono la base della memoria, ma sono distanti e distinti dalla coscienza. Il tempo della memoria non è dunque lineare e continuo, ma frammentario e discontinuo. La traccia mnestica può essere non solo ontogenetica, ma anche filogenetica, può affondare le sue radici nell’esperienza vissuta da generazioni precedenti. Ma l’eredità più importante lasciata da Freud alla biopsicologia successiva e alla ricerca delle neuroscienze è la seguente: ricordi e percezioni sono strutturati dalle emozioni. Così, forse ancora inconsapevolmente e allo stato embrionale, Freud si avvicinava alle teorie più recenti sul sistema limbico, sulle strutture interconnesse all’interno dell’encefalo. La teoria freudiana avrebbe potuto fornire una comprensione del sistema limbico e del suo ruolo nelle funzioni cerebrali in generale più completa di quella fornita dagli studi neuro anatomici frammentari che vengono pubblicati oggi.

Le neuroscienze hanno recato un ulteriore contributo nella direzione di una migliore comprensione della memoria ontogenetica e filogenetica. Confrontando i risultati freudiani con le più recenti acquisizioni neuroscientifiche è possibile stabilire non poche analogie tra le procedure della memoria biologica e quelle della memoria storica. Evidenzio qui di seguito qualcuna delle analogie:

1) Il rapporto passato-presente. Tutti i processi della memoria hanno a che fare con questa dimensione. La dinamica dello svolgimento è comune al sistema nervoso e al processo storico: le scienze che li studiano sono scienze del mutamento.

2) Non linearità del tempo. Tempo biologico e tempo storico sono frammentati, discontinui, sono caratterizzati da durate differenti (breve, media, lunga).

3) Il contesto. Memoria biologica e memoria storica conferiscono senso in stretta dipendenza con il contesto. Ricordi ed emozioni fanno parte di esso. In questo senso la vita è storia e la storia è vita.

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4) Il caso e la necessità. In un inestricabile intreccio dominano sia la scena biologica sia la scena storica.

Su queste basi si può costruire un nuovo sistema di relazioni tra le scienze del vivente.

La seconda tipologia proposta da Marrou ha a che fare con quelle parole abitualmente usate dallo storico soprattutto per interpretare processi e fenomeni politici. Naturalmente anche termini-concetti come quello di Stato hanno bisogno, per non incorrere negli errori dell’anacronismo e della generica attribuzione di significato, di essere utilizzati nella condizione di equilibrio fra contestualizzazione e comparazione, nel senso a questi termini attribuito all’inizio di questo scritto. Inoltre il termine-concetto istituzione deve essere inteso nella sua dimensione più larga: quella che comprende cioè non solo il suo significato formale, ordinamentale per così dire, ma anche quello informale, riferibile a fenomeni e strutture che sono entrati ed entrano ancora oggi a pieno titolo nella dinamica del politico come i sensi di appartenenza alla famiglia, al clan, alla fazione, al partito, ecc.

La terza tipologia, analogie e metafore, rappresenta forse quell’insieme di parole maggiormente utilizzate dallo storico. La frequenza del loro uso è direttamente proporzionale alla possibilità dell’errore derivante dall’estrapolazione di parole-concetti dal loro contesto spazio-temporale di riferimento. Basti pensare agli stessi esempi citati da Marrou. Generalmente l’errore consiste nell’assumere come una totalità solo una parte dei significati contenuti nella parola-concetto così come si è storicamente manifestata. Così barocco viene spesso usato per designare un oggetto esteticamente ridondante, un processo in cui prevale il formalismo e l’esteriorità rispetto al suo contenuto più intimo e profondo. Rinascimento è una delle parole più abusate. Dopo il 1993 è stata persino utilizzata per rappresentare il rinnovamento nel governo cittadino napoletano ad opera di un sindaco della città, eletto direttamente dai cittadini a seguito della legge 81/93. Un’altra parola abusata è quella di feudalesimo. Una rapida ricerca attraverso Internet rivela la molteplicità di significati che i linguaggi della politica, dei mezzi di comunicazione e il senso comune corrente attribuiscono ai termini feudalesimo e neofeudalesimo. Così, in ordine sparso, neofeudalesimo può essere inteso come: estrema deregulation istituzionale, per esempio nel caso dei Balcani dopo la caduta dei regimi dell’Europa orientale; come manovra di corporazioni e lobbies; come ricerca di protezione. Il termine è poi spesso associato ad altri come neoliberismo e agli attributi più diversi come legislativo, universitario, industriale, mediatico, globale, postmoderno, ecc.

Partiamo dal linguaggio della politica. Nella seduta della Camera dei Deputati del 10 gennaio 1996, l’on. Bossi si scaglia contro i “boiardi”, ossia tutti i nemici del federalismo: essi sanno – afferma il leader della Lega – “che un’assemblea costituente federale distruggerebbe ogni forma di feudalesimo politico, e soprattutto bloccherebbe le operazioni restauratrici in atto per riaprire la vecchia strada di compromesso che passa attraverso la politica, tra gli interessi del grande capitale del Nord e della mafia del Sud”.

Un capitolo a sé meriterebbe il ricorso al feudalesimo per spiegare la fenomenologia del successo di Silvio Berlusconi in Italia, ma anche il suo declino: un

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Berlusconi personificazione fuori del tempo e della storia di qualsiasi potere autoritario. Solo così la procedura analogica può mettere insieme feudalesimo, fascismo, populismo, caudillismo latinoamericano, e chi più ne ha più ne metta.

In un altro caso non si esita ad associare con disinvoltura impero, monarchia assoluta, feudalesimo. Le elezioni regionali del 16 maggio 2005 hanno visto in Sicilia la nascita del fenomeno Lombardo: nato dalle costole del partito di Forza Italia, Lombardo si è poi alleato con la Lega di Bossi e, con quattro liste inventate in pochi mesi, ha ottenuto alle elezioni del 2006 il 20% dei voti. In questo caso nei commenti il termine feudalesimo investe diversi profili: la struttura gerarchica del potere, in cui la subalternità al capo coesiste con l’ autonomia del feudatario Lombardo nella gestione del potere locale; la natura ambigua del rapporto di reciprocità, per il quale il capo-imperatore si avvale dei voti di Lombardo, ma crea perciò stesso un legame di dipendenza con lui; la logica “corporativa” che presiede alla composizione delle liste civiche, formate dalle più diverse categorie professionali.

Altro esempio: quello dell’economia. Prendiamo un concetto molto utilizzato negli anni passati: quello di feudalesimo industriale. Qui la procedura analogica che mette in comunicazione rapporti feudali e rapporti industriali postfordisti è assai più completa e totalizzante, per così dire, rispetto alle procedure che abbiamo visto operanti negli esempi precedenti. La stessa terminologia è quasi desunta per intero dalle categorie feudali. Perciò il contratto di lavoro durevole è un privilegio. Il rapporto tra lavoratore e impresa è totalmente fondato sulla fedeltà e sulla disponibilità dell’operaio ad adeguarsi agli umori e ai capricci del mercato: come un servo della gleba il lavoratore è legato al suo padrone feudatario. Frammentazione e differenziazione di ceto prendono il posto dei diritti universali stabiliti nei contratti collettivi di lavoro: è il cuore del passaggio dalla regolamentazione di tipo normativo del mercato del lavoro al feudalesimo industriale.

L’ultimo esempio di questa carrellata riguarda la Russia dopo il 2000. Molti giornalisti economici russi hanno sostenuto che il sistema del loro paese somiglia più al feudalesimo medievale che al moderno capitalismo: per gli ostacoli allo sviluppo frapposti dalla normativa fiscale, per l’esistenza di un debole Stato di diritto, per il cattivo funzionamento del sistema giudiziario, per l’assenza di un serio sistema bancario.

La semantica corrente di feudalesimo, dunque, oscilla fra il polo del rapporto di natura privilegiata riconosciuto e/o codificato, la ricerca e la pratica della protezione, il cedimento del potere pubblico a corpi ed enti privati. Nell’ultimo caso molto spesso neofeudalesimo si identifica con neocorporativismo. Volendo schematizzare si potrebbe dire che, in gran parte dei casi, in neofeudalesimo venga assimilata qualsiasi tendenza alla privatizzazione del pubblico.

Ci troviamo dunque in presenza di uno dei tanti casi in cui una parola storica subisce tali e tanti slittamenti semantici nell’uso comune da non essere più riconoscibile nella sua precisa determinazione temporale e spaziale. Ancora una volta l’errore consiste nell’assumere alcuni attributi, pur presenti nel fenomeno storico a cui quella parola si riferisce, nel decontestualizzarli e nell’applicarli alla descrizione e

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interpretazione di vicende contemporanee. È questo un uso completamente distorto del principio della contemporaneità della storia.

L’ultima tipologia suggerita da Marrou è l’idealtipo. Con essa siamo al massimo livello possibile dell’astrazione e della modellizzazione per arrivare alla spiegazione storica. Nell’idealtipo weberiano coesistono l’ancoraggio ai fatti storici, alle loro connessioni e interdipendenze, e il ruolo dello storico che organizza con coerenza, ricchezza, intelligibilità i fatti e perviene al livello dell’interpretazione. Ma anche a questo livello si annida la possibilità dell’errore. L’idealtipo non è costruito sulla base di frequenze statistiche, di elementi quantitativi ricorrenti. La conoscenza storica è selettiva: ma la selezione deve rispettare i caratteri della coerenza, della ricchezza delle relazioni e connessioni, della loro intelligibilità. E naturalmente non è difficile incorrere nell’errore quando si costruisce l’idealtipo.

Il regista della storia, come l’ippocampo per il circuito della memoria cerebrale, è lo storico: egli classifica e colloca nel tempo, contestualizza, generalizza, ricostruisce, interpreta un sistema complesso. È il garante dell’integrità del sistema a partire dallo stadio della critica delle fonti. E la critica delle fonti in storia, cioè quell’operazione che consente di raggiungere correttamente lo stadio dell’elaborazione e dell’interpretazione, in una parola del giudizio storico, può essere paragonata alla metilazione del DNA, cioè a quella funzione epigenetica che coinvolge una modificazione chimica della citosina, una delle quattro basi che costituiscono il DNA. Senza una corretta metilazione del DNA gli organismi superiori, dalle piante agli esseri umani, hanno problemi di sviluppo: nanismo, insorgenza di tumori, la morte nei topi, ecc.

Lo storico è l’artefice dell’attività selettiva della memoria e il responsabile dell’integrità della storia. Anche lui deve fare i conti con le cellule smemorate che possono facilitare lo sviluppo di un tumore, con quegli enzimi che interferiscono con la loro memoria genetica durante il meccanismo di replicazione cellulare. Ogni volta che la cellula si replica, deve ricordarsi quali geni tenere accesi e quali spenti. Se ciò non avviene, si determina uno sviluppo anormale che può essere all’origine del cancro. Come il danneggiamento dell’ippocampo compromette memoria e immaginazione, l’irresponsabilità dello storico può compromettere l’integrità della storia.

A conclusione di queste brevi considerazioni è possibile confrontare con la più generale definizione di errore le tipologie specifiche dell’errore in storia.

Tre sono i profili del significato generale di errore: la violazione di una norma giuridica e/o morale; il risultato della mancata applicazione di una regola; la distrazione, la disattenzione.

L’errore in storia può comprendere una o più delle seguenti tipologie:

- l’errore temporale, quello cioè derivante dalla mancata collocazione di un evento nella sua precisa cronologia;

- l’errore spaziale, quello cioè derivante dalla mancata collocazione di un evento nel suo contesto geografico di riferimento;

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- l’errore paleografico e filologico, comprendente tutte le fattispecie identificate da Marc Bloch;

- l’errore operativo, derivante dal salto di passaggi dell’operazione storica così come precedentemente configurata.

BIBLIOGRAFIA

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Aurelio Musi è professore ordinario di Storia Moderna presso l’Università degli Studi

di Salerno. In questo stesso ateneo è stato preside della facoltà di Scienze Politiche. E’ profesor titular di Teoria e Storia dei sistemi imperiali presso la Universidad Catolica de Colombia. È socio della Real Academia de la Historia. Giornalista pubblicista, è editorialista delle pagine napoletane de “La Repubblica”. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Il feudalesimo nell’Europa moderna, Il Mulino 2007; Memoria, cervello e storia, Guida 2008; Historia como vida, Planeta 2010; El imperio de dos mundos, Planeta 2011;

L’impero dei viceré, Il Mulino 2013; Freud e la storia, Rubbettino 2015; Mito e realtà della nazione napoletana, Guida 2016, Il Regno di Napoli, Morcelliana 2016.

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