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La visione del 'bellum iustum' nella dottrina giusantichistica italiana tra la fine del Ventesimo e l'inizio del Ventunesimo secolo

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA

TESI DI LAUREA

La visione del bellum iustum nella dottrina giusantichistica italiana tra la fine del Ventesimo e l'inizio del Ventunesimo secolo

RELATORE CANDIDATO Chiar.mo Professor Silvia Poli Aldo Petrucci

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INDICE

Introduzione ……… p. 1

Capitolo I Lecturae Vergiliane ………... p. 5

Capitolo II Cicerone tradito? ……… p. 25

Capitolo III Cronistoria del ius fetiale: dal teatro bellico alla funzione giurisprudenziale-consultiva ……….... p. 59

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Introduzione

Prendendo le mosse dal rinnovato interesse dimostrato negli ultimi decenni dagli studiosi di diritto romano per le problematiche del bellum

iustum, con il presente studio si è inteso procedere ad una disamina delle

posizioni manifestate, concentrando l’attenzione sulla dottrina giusantichistica in ambito italiano. Nello specifico, l'analisi si è svolta facendo convergere lo sguardo su tre autori che, partendo da contesti ed ambiti teorico-concettuali comuni, ma perseguendo obiettivi diversi, hanno dedicato la propria attenzione ad analizzare ed interpretare le fonti: Francesco Sini, Antonello Calore e Giovanni Turelli.

Di particolare rilievo è risultato il contributo di Francesco Sini che, con i suoi studi, aggiunge al novero delle fonti sul bellum iustum le opere di Virgilio, dedicandosi in modo particolare all’Eneide. Attraverso questa importante operazione teorica, Sini mette fine alla subordinazione dell’opera virgiliana nell’ambito delle fonti sul bellum iustum più accreditate dagli studiosi di diritto romano, intraprendendo un percorso di individuazione e valorizzazione degli aspetti giuridici e religiosi presenti nei versi del sommo poeta romano. Ciò che più conta, per Sini, è produrre argomenti utili alla confutazione della tesi della bellicosità strutturale e necessaria del popolo romano; per far ciò, compie un erudito ma agile

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percorso attraverso etimi e versi virgiliani, riuscendo in conclusione di studio a convincere il lettore della propria interpretazione dell’orizzonte giuridico, politico e religioso dei Romani come dialetticamente tendente al pacifismo, di come tale interpretazione si trovi in perfetta assonanza con l’epica virgiliana e sia, nel complesso, sostanzialmente corretta e condivisibile.

Il contributo di Antonello Calore all’analisi del concetto di bellum iustum, che l’autore ha sviluppato non solo nello studio in analisi – Forme

giuridiche del ‘bellum iustum’ – ma anche attraverso altre pubblicazioni

dedicate all’argomento della ‘guerra giusta’,1 facendone così il tratto

distintivo della propria produzione scientifica, è tutto volto a verificare se l’espressione ‘guerra giusta’ abbia ancora un significato euristico o se, di contro, rifletta semplicemente situazioni superate e appartenenti ad un passato molto lontano. È convinzione dell’autore che tale espressione, richiamata “in vita” dal linguaggio contemporaneo, se non debitamente ri-conosciuta attraverso una corretta collocazione nell’ambito culturale che le appartiene, rischi di ingenerare confusione, ostacolando la formazione di quel comune sentire utile alla costruzione di uno stato di pace.

1 Calore, A., “Guerra giusta” tra presente e passato in Guerra giusta? La metamorfosi di

un concerto antico, Milano, 2003; Bellum iustum tra etica e diritto, in Diritto@Storia, n.

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Da ultimo, si è preso in esame il lavoro di Giovanni Turelli, impegnato a fornire al lettore una ricognizione storica del ius fetiale svolta attraverso vari passaggi: richiami puntuali alla dottrina in argomento, analisi delle fonti e riferimento ad alcuni eventi storici utili a suffragare la tesi secondo cui il collegio sacerdotale feziale ebbe un ben definito ruolo giuridico che, nello svolgersi dei secoli, andò trasformandosi, fino a divenire unicamente consultivo.

Conclusivamente, si può affermare come alla dottrina giusantichistica italiana manchi, pressoché totalmente, un’idea di ricongiunzione delle istanze giuridico-filologico-erudite con una visione più ampia ed onnicomprensiva dell’atteggiamento dell’uomo romano arcaico rispetto agli dèi e all’incidenza del soprannaturale nella vita sociale e, ciò che a noi più interessa, nel mondo delle relazioni politiche. Questa auspicata ricongiunzione, ove sviluppata, potrebbe meglio strutturare ed arricchire la comprensione dell’aspetto più eminentemente giuridico della ritualità feziale, e del bellum iustum ad essa connesso. Tale contributo, potenzialmente capace di meglio illuminare l’essere “uomo” del romano antico e le motivazioni del suo agire, potrebbe, a mio parere, venir colto attingendo agli studi di antropologia e storia delle religioni compiuti in

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Francia da Georges Dumézil2, e dagli studiosi formatisi alla sua scuola;

tra questi, Jacqueline Champeaux3 risulta essere colei che, in maniera

più consapevole e lucida, ha saputo offrire alla riflessione giusantichistica in argomento elementi nuovi per gettare un ponte tra il diritto romano e le discipline antropologiche e storico-religiose cui si è fatto cenno, al fine di perseguire una miglior comprensione dell’uomo romano nel suo porsi al cospetto del sacro, della religione e delle pratiche “necessarie” a mantenere in equilibrio le due sfere del “terreno” e del “divino”.

2 Dumézil, G. La religion romaine archaïque Paris, 1966, trad. it. Furio Jesi, Milano,

1977.

3 Champeaux, J. La religion romaine Paris, 1998, trad. it. Graziella Zattoni Nesi,

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Capitolo I

Lecturae Vergilianae

Francesco Sini introduce la sua trattazione dedicata al problema del diritto internazionale dei Romani nell’opera virgiliana – recante il titolo

Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico” -,

rilevando una vacatio negli studi di diritto romano, che si sono interessati all’opera di Virgilio in modo per lo più sporadico e occasionale, lasciando nell’ombra gli «aspetti giuridici presenti nei versi del sommo poeta romano». 4 In riferimento diretto ai rapporti di Roma con homines et

hostes e, più nello specifico, al concetto romano di bellum, tra le fonti più

conosciute, citate e fatte oggetto di studio da parte della dottrina, figurano infatti in posizione assolutamente preminente Marco Tullio Cicerone e Tito Livio, autori di lineare connotazione “giuridica”, che ci hanno fatto pervenire in maniera compiuta, il primo, un’imponente e diffusa riflessione sul tema della guerra, il secondo, minute descrizioni dei cerimoniali feziali connessi alla gestione romana dei rapporti coi popoli finitimi prima, ultramarini poi, tesi a comporre controversie e, ove inevitabile, a dare inizio alla guerra.

4 Sini, F. Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”

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A tale assenza di Virgilio dal novero delle fonti giuridiche degli studi romanistici, caratteristica predominante dell’approccio alla poesia virgiliana giunta a noi dalla cultura romana tardoantica, convinta che l’Eneide fosse un poema eminentemente “religioso”, ha posto parziale rimedio negli anni Ottanta del secolo appena trascorso la pubblicazione, a cura dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, di una “monumentale” 5

Enciclopedia Virgiliana, il cui piano, sebbene caratterizzato da una

predominante e pienamente giustificata matrice storico-letteraria, ha comunque dedicato un notevole spazio alla redazione di voci propriamente giuridiche. Ed è questo approccio “giuridico” all’opera virgiliana ad informare il lavoro di Sini che, prendendo le mosse dall’evoluzione dottrinale sul merito e dall’indagine analitica compiuta sui termini fas, finis e nefas6, presenti nelle formule solenni dei sacerdoti

feziali fin dall’età più risalente della storia romana, aggiunge un elemento di specialità, un plus di informazioni e suggestioni che, mentre capitalizza gli studi fino ad allora svolti, individua al contempo un particolare angolo visuale che illumina l’argomento di nuove ed ulteriori possibilità di comprensione.

L’analisi di Sini è tutta tesa a dimostrare, attraverso riflessioni svolte sia sul lessico che sulle fonti, la perfetta aderenza dell’orizzonte teorico e

5 Sini Bellum nefandum cit., p. 14.

6 Sini, F. in Enciclopedia Virgiliana diretta da F. Della Corte, 5 voll. Roma 1984-1990,

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concettuale virgiliano, sui temi della guerra e della pace, alla concezione giuridica e religiosa romana, per la quale la guerra si presenta sempre come una rottura della pacifica neutralità delle relazioni tra popoli, ed è finalizzata quindi alla restaurazione della pace. Questa subordinazione della guerra alla pace appare evidente a Sini, in primo luogo, dall’analisi dell’etimologia che gli eruditi antichi (fra tutti: Varrone) davano della parola fetiales, collegandola a fides e foedus, a dimostrazione del fatto che «nella competenza di questi sacerdoti la funzione di ristabilire la fides

pacis con il foedus, piuttosto che quella di concipere un bellum iustum»

fosse predominante.7 Inoltre, anche la gerarchia dei sacerdoti lascia

intendere, per Sini, la subordinazione della guerra alla pace, poiché «nell’ordo sacerdotum il flamine di Iuppiter, della divinità che tra le altre cose tutelava i foedera pacis, si presenta sovraordinato al flamine di Marte». 8

Ma ben altri e più pregnanti argomenti Sini trae dalla dottrina: prendendo le mosse da una rapida, ma puntuale disamina dagli studi sviluppati in argomento da Mommsen,9 secondo il quale l’ostilità

permanente e l’assenza di diritti per gli stranieri erano le caratteristiche strutturali dei rapporti tra il Romano e gli altri popoli, e passando

7 Sini Bellum nefandum cit., p. 27 nota 34. 8 Sini Bellum nefandum cit., p. 27 nota 34.

9 Mommsen, Th. Abbris des Rômischen Staatsrechts Leipzig, 1893, trad. italiana a cura

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attraverso la radicale critica che di tale dottrina hanno compiuto Francesco De Martino10 e Pierangelo Catalano11, Sini giunge fino

all’enunciazione di quello che ritiene essere il punto di arrivo e di assestamento degli studi sull’argomento: il completo rovesciamento della teoria (sostenuta non solo da Mommsen, ma, in tempi più recenti, anche tra gli altri da Piganiol12 e Guarino13) secondo la quale la guerra per i

Romani sarebbe stata condizione naturale delle relazioni umane con gli stranieri, denominati hostes perché «avversari, se non proprio attuali, almeno potenziali della citivitas Quiritium e della sua sfera di interessi».14

Come Sini afferma perentoriamente, i risultati conseguiti nel proprio studio «offrono solidi argomenti per criticare convinzioni inveterate della dottrina romanistica contemporanea»,15 riferendosi direttamente in

questo passaggio alle posizioni di quanti appunto «teorizzano l’assenza di diritti per gli stranieri e l’ostilità permanente quali condizioni primordiali dei rapporti tra i popoli».16 La posizione teorica di Sini è quindi totalmente

allineata, in merito all’argomento trattato, a quella di De Martino e Catalano, ma le convinzioni dell’autore si basano sulla rilevazione delle assonanze e concordanze esistenti tra questa specifica visione delle

10 De Martino, F. Storia della costituzione romana, II Napoli, 1973, pp. 1-12.

11 Catalano, P. Linee del sistema sovrannazionale romano Torino, 1965, pp. 30-48. 12 Piganiol, A. La conquête romaine Paris 1927, trad. it., Milano, 1971, pp. 147 ss. 13 Guarino, A. Storia del diritto romano 7° ed., Napoli, 1987, p. 82.

14 Guarino Storia del diritto romano cit., p. 82. 15 Sini Bellum nefandum cit., p. 28.

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caratteristiche dei rapporti internazionali di Roma con la limpida e univoca considerazione della guerra espressa da Virgilio.

L’analisi svolta da Sini è infatti tutta volta a chiarire come nei testi virgiliani, e in particolare nell’Eneide, sia forte il convincimento che «la guerra, lungi dall’essere condizione naturale delle relazioni umane, costituisca invece una violazione della religione e del diritto: una triste necessità cui si deve talora ricorrere, ma solo dopo aver fatto constatare agli dèi, mediante rituali che si ripetevano immutati nel tempo, l’esistenza dell’ingiustizia e il rifiuto degli uomini a riparare». 17 L’epica virgiliana è

pervasa, per Sini, da una evidente connotazione negativa della guerra; prova ne sia, in primo luogo, che le occorrenze del termine bellum non sono mai associate agli aggettivi tipici del lessico giuridico e religioso quali iustum, pium e felix, bensì ricorrono sempre abbinate ad aggettivi o all’interno di locuzioni che collocano esplicitamente la guerra nella sfera del nefas. Le citazioni testuali dall’Eneide, spiegatamente elencate da Sini, non lasciano adito a dubbi: il bellum è horridum (Aen. 6, 86; 7, 41;

11, 96), asperum (Aen. 1, 14), crudele (Aen. 8, 146; 11, 535), dirum (Aen. 11, 21).18

Questo è il punto di partenza che serve a Sini per sviluppare un’originale linea di ricerca, perseguita iscrivendo la sua riflessione all’interno

17 Sini Bellum nefandum cit., pp. 40-41. 18 Sini Bellum nefandum cit., p. 40 nota 64.

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dell’ambito concettuale delineato dal termine fas, e dal suo contraltare teorico, il nefas: la funzione delle formule sacerdotali è quella di esorcizzare le conseguenze nefaste di una dichiarazione di guerra compiuta “fuori dalle regole”, di uno sconfinamento non protetto né autorizzato oltre i limiti del fas, inteso nella precipua accezione di “lecito, consentito, permesso”. I termini fas, nefas e fines (quest’ultimo latore peraltro solo di precise connotazioni spaziali) sono presenti nelle formule solenni dei sacerdoti romani fin dall’età più risalente della storia cittadina. «Nella determinazione del fas e dei fines doveva certo consistere una parte rilevante di quella cautela sacerdotale, volta ad assicurare la pax deorum al popolo romano, mediante la precisazione di comportamenti e limiti spazio-temporali, affinché in alcun modo le attività umane potessero risultare sgradite agli dèi. L’esigenza di assicurare la conoscenza del fas e l’intangibilità (religiosa) dei fines emerse già in fase antica, perché Pontefici, Auguri e Feziali, fissando regole precise e minuziose, tramandate in formule solenni giuridico-religiose, soddisfacevano, davano voce e risposta all’incessante preoccupazione di determinare nel tempo e nello spazio la sfera del fas e la certezza dei fines».19

È dunque in questo orizzonte concettuale che Sini colloca la sua riflessione sul bellum: la funzione delle formule feziali, parallelamente a

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quella del collegio degli Auguri, era di neutralizzare le conseguenze ed implicazioni negative collegate all’esercizio dell’attività guerresca svolta al di fuori, o addirittura contro, le regole prescritte nei rituali sacerdotali. Dopo aver analizzato la formula dell’inauguratio, riferibile al collegio degli Auguri, Sini si dedica alla formula dell’indictio belli così come pervenutaci attraverso Tito Livio20; il complesso schema legato a questo rito aveva

come presupposto legittimante la violazione del ius da parte del popolo nemico, qualificato, in ragione di ciò, iniustus di fronte agli dèi. Secondo la convincente interpretazione di Sabbatucci, alla quale Sini dimostra di aderire, la guerra era da intendersi come un affronto alla stabilità, e dunque un affronto diretto a Giove; proprio per cautelarsi rispetto a questo dio i Romani, quando indicevano una guerra, adoperavano i rituali feziali, che «richiedevano una esplicita giustificazione, dalla quale risultasse che se i Romani entravano in guerra la colpa era dei loro nemici».21 Per Sini, nel passo liviano «finis e fas, con la forte connotazione

religiosa che li caratterizza, sono chiamati ad attestare, assieme alla massima divinità romana, l’esigenza di giustizia perseguita nella rerum

repetitio pronunciata dal sacerdote (per conto del popolo romano). Agli homines del popolo straniero, destinatari della richiesta, altro non si

domanda che di adeguarsi alle regole del fas e alla intangibilità dei fines.

20 Livio Ab urbe condita 1, 32, 6-14.

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Dall’inadempienza scaturisce per quegli uomini la condizione di hostes, che il Feziale determina con il lancio dell’asta insanguinata nel loro territorio; sarà lecito scatenare contro di essi un bellum». 22 Contro gli

homines divenuti hostes sarà dunque fas (cioè consentito, permesso, e

quindi lecito) scatenare un bellum qualificabile come iustum proprio perché tutti i rituali prescritti erano stati pedissequamente adempiuti. Nonostante l’esercizio legittimo della guerra, una volta compiuti tutti i rituali feziali previsti, i milites entravano comunque in contatto con la sfera del nefas, poiché «…la guerra, nella concezione giuridico-religiosa romana, si presenta sempre come una rottura della pacifica naturalità delle relazioni tra popoli». 23 E qui Sini inserisce un ulteriore passaggio

teorico, offrendo una chiave di lettura latamente “psicologica” della questione: i riti sacerdotali non avrebbero avuto come unica ragion d’essere quella di dichiarare una guerra conforme alle regole, poiché a questa funzione “formale” seguiva un essenziale effetto “rassicurante” sui soldati, che riuscivano così a vincere il terrore della battaglia, proprio attraverso la convinzione acquisita di esser parte di un contesto religioso conosciuto e approvato dalla società e dagli dèi. «Formule e riti del ius

fetiale e del ius pontificium furono perciò elaborati con la funzione

precipua di liberare i cittadini soldati dalla paura del sangue versato, di

22 Sini Bellum nefandum cit., p. 26. 23 Sini Bellum nefandum cit., pp. 26-27.

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aiutarli con la religione a vincere l’antico terrore davanti al furor, segno di un possesso che priva l’uomo della sua libertà, di esimerli infine dal timore di impegnarsi in azioni sgradite agli dèi». 24

L’esercizio della guerra, con i suoi effetti devastanti di morte e contaminazione, si colloca quindi comunque, anche dopo l’intervento dei Feziali, nella sfera del nefas; e Virgilio affida alle parole di Enea tale certezza:

Tu, genitor, cape sacra manu patriosque penatis; me, bello e tanto digressum et caede recenti attrectare nefas, donec me flumine vivo abluero.

[Tu, o padre, prendi i sacri arredi e i patrii

Penati; io non posso toccarli appena uscito da tale Lotta e strage, finché non mi mondi a una viva Sorgente]. 25

«Nessun biasimo – secondo Sini - può addebitarsi al soldato che ha ucciso in battaglia; anzi, il fatto era considerato dai Romani non solo utile alla comunità, ma addirittura onorevole». 26 Tuttavia per la religione i

24 Sini Bellum nefandum cit., p. 194.

25 Virgilio Aen. 2, 717-720, trad. Luca Canali, Milano, 1978. 26 Sini Bellum nefandum cit., p. 201.

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soldati dopo una battaglia erano impuri, e necessitavano perciò di purificazione; è per questo che, rientrando a Roma, tenevano in mano rami di alloro. E anche la scansione del tempo fu impostata seguendo il ritmo della guerra: sono infatti da intendersi in questo senso le feste e le cerimonie religiose legate all’inizio e alla fine delle attività belliche. In particolare, come generale purificazione dell’esercito alla fine della stagione della guerra, nel calendario romano figurava l’armilustrium, una cerimonia che aveva luogo il 19 ottobre sull’Aventino, consistente essenzialmente nella purificazione, ad opera dei sacerdoti Salî, delle armi sacre di Marte.

Secondo Sini, quindi, stante comunque il bellum nella sfera del nefas, poteva esservi legittima dichiarazione di guerra solo dopo aver fatto constatare agli dèi, mediante rituali che si ripetevano immutati nel tempo – i rituali sacerdotali feziali, appunto – l’esistenza dell’ingiustizia e il rifiuto degli uomini a riparare. Al contrario, la pace viene concepita come condizione naturale che, fin dalla mitica età dell’oro, presiedeva alle relazioni tra gli uomini, perché fondata sull’osservanza di precetti religiosi e giuridici comuni a tutti (gli uomini e) i popoli.

Nella sua trattazione Sini prescinde quasi completamente dall’analisi delle fonti “tradizionali” del bellum iustum (Cicerone e Tito Livio, soprattutto), dimostrando così scarso interesse per lo studio puntuale dei

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rituali feziali, e si addentra invece nell’analisi lessicale di alcuni essenziali termini virgiliani. In particolare, nell’ambito della riflessione su finis e

fines, Sini sostiene come la concezione virgiliana si presenti del tutto

conforme ai principi giuridici fondamentali del sistema romano, in cui è stato dimostrato come la nozione giuridico-religiosa di fines si applichi fin da antico anche agli altri popoli. Proprio analizzando il termine fas, Sini cita due etimologie ugualmente probabili, tanto da lasciare dubbioso, nella scelta tra le due, persino un grande linguista come Devoto27: fas

avrebbe il significato di porre, fondare, stabilire, oppure di cosa detta,

apparizione, manifestazione della volontà divina (etimo quest’ultimo

sostenuto da Varrone nel De lingua Latina28). Testimonianza antichissima

dell’uso di ritenere lecito un determinato comportamento in relazione ad un potere soprannaturale è il calendario romano, in cui alcuni giorni erano preceduti dalla lettera F per significare che in essi era fas compiere attività umane, che non erano invece lecite nei giorni segnati con la lettera N (nefas), creando così una distinzione manichea tra dies fasti e

dies nefasti all’interno della quale era possibile agire nella certezza di non

27 Devoto, G. I problemi del più antico vocabolario giuridico romano in Atti del Congresso

Internazionale del Diritto romano, I, Pavia 1934, p. 25.

28 Varrone De lingua Latina 6, 29: Dies fasti, per quos praetoribus omnia verba sine

piaculo licet fari [I giorni fasti (leciti) sono quelli in cui i pretori sono autorizzati a fati

(pronunciare) ogni formula deliberativa senza peccare]; 6, 53: Hinc fasti dies, quibus

verba certa legitima sine piaculo praetoribus licet fari; ab hoc nefasti, quibus diebus ea fari ius non est et, si fati sunt, piaculum faciunt [Da qui deriva la definizione dei giorni fasti, in cui ai pretori è permesso fati (pronunciare) certe formule legali senza

commettere colpa; da qui i giorni nefasti, in cui è vietato fari quelle formule e, se le pronunciano, debbono farne ammenda], trad. a cura di Antonio Traglia, Torino, 1974.

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incorrere, col proprio contegno, nell’ira degli dèi. Trattando degli usi del termine fas, Sini parla del solenne carmen della rerum repetitio recitato nel ritus belli indicendi dal pater patratus dei sacerdoti Feziali:

Legatus ubi ad fines eorum venit unde res repetuntur, capite velato filo – lanae velamen est – “Audi, Iuppiter”, inquit; “audite, fines” – cuiuscumque gentis sunt, nominat - , “audiat fas: ego sum publicus nuntius populi Romani; iuste pieque legatus venio, verbisque meis fides sit”

[Quando l’ambasciatore giunge al confine di quel popolo a cui si chiede soddisfazione, col capo cinto da una benda di lana dice: “Ascolta, o Giove, ascoltate, o confini – e fa il nome del popolo cui appartengono -, ascolti il fas: io sono il nunzio ufficiale del popolo romano; vengo delegato giustamente e santamente, e alle mie parole sia prestata fede”]. 29

In questo passo, con il quale Livio dà inizio alla descrizione dei rituali che precedevano la stipulazione di un foedus o, in caso di insuccesso delle trattative, la dichiarazione di guerra, Sini individua l’utilizzazione di fas per esprimere il concetto astratto di lecito che, nel I secolo a. C., è tratto comune alla lingua di Cicerone, Livio e Virgilio.

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Riguardo invece all’opposto concettuale di fas, il nefas, l’opinione prevalente in dottrina, e sostenuta in particolare da Guarino,30 è che con

tale termine gli antichi Romani indicassero tutto quello che non era possibile fare, senza incorrere nella reazione della natura stessa o nell’ira degli dei: nefas come connesso quindi alla sfera del vietato, del non permesso o lecito.

Al termine di questa disamina, Sini è quindi pronto a trarre le necessarie conclusioni sul contesto concettuale dei termini fas e nefas: «…il significato ed il valore di fas non possono cogliersi appieno senza riferimento al segno antitetico espresso con nefas. Sebbene sul piano terminologico-concettuale questa parola sia derivata da fas, attraverso l’espressione ne fas est, in cui, com’è noto, ne- ha valore di negazione e non di prefisso; tuttavia proprio alla definizione di nefas l’esperienza giuridica della comunità romana primitiva rivolgeva le sue prime e maggiori cautele. Per preservare anzi tutto la pax deorum, che riposava sulla perfetta conoscenza di ciò che potesse turbarla, degli atti che mai dovevano essere compiuti e delle parole che mai dovevano essere pronunciate. Emerge dunque il concetto di fas al negativo: è fas tutto quello che non è nefas (sia esso permesso, obbligatorio, autorizzato, consigliato)». 31 Ciò serve quindi all’autore per chiarire come alla sfera del

30 Guarino, A. L’ordinamento giuridico romano Napoli, 1990, p. 93. 31 Sini Bellum nefandum cit., pp. 107-108.

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nefas rimandino gli aggettivi nefandum e infandum utilizzati da Virgilio

per qualificare il bellum, a dimostrazione della chiara intenzione del poeta di dare al contesto del bellum connotazioni di forte valenza negativa. A questo punto Sini introduce, a suffragio della sua tesi, una serie di esempi tratti dall’Eneide: l’aggettivo infandum viene utilizzato da Virgilio per qualificare un bellum che i Latini chiedono di intraprendere, non solo

contra omina, ma addirittura contra fata deum (Aen. 7, 583-585); nella

seconda citazione (Aen. 12, 572-573) è lo stesso Enea che parla, definendo nefandum il bellum che Turno e i Latini hanno scatenato contro i Troiani, in aperta violazione del foedus stipulato in precedenza; da ultimo (Aen. 12, 803-806) abbiamo un discorso di Iuppiter, il quale rimprovera la dea Giunone per il bellum suscitato contro Enea e i compagni nelle contrade d’Italia, nonostante fosse ben conosciuto dalla dea l’ineludibile fatum dell’eroe troiano: da cui infandum accendere

bellum.

Inserendo a pieno titolo Virgilio nel novero delle fonti che consapevolmente asserivano l’opportunità e la necessità di rispettare le procedure feziali per dichiarare ‘lecitamente’ guerra, Sini procede nella sua analisi, affermando che nel perseguimento della pace, e non nella guerra, risiedono per Virgilio le motivazioni religiose e storiche dell’espansione mondiale dell’imperium populi Romani. Ed è proprio qui

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che si può rilevare il contributo di specialità dato dall’autore agli studi sulla materia. Quando i Romani sono in guerra e dichiarano che il loro scopo è quello di paci imponere morem [stabilire norme alla pace32]

chiariscono, secondo l’autore, l’essenza della loro vocazione pacifista, perseguita dialetticamente attraverso una lunga e ininterrotta serie di guerre. A questo proposito Sini cita Sabbatucci, che in tale fatto non rileva alcuna contraddizione: «…la pax romana era sostanzialmente un patto con gli dèi (pax deorum), tra popoli, tra cittadini; ma un patto da conseguire, e se per conseguirlo con gli dèi bisognava operare ritualmente, per conseguirlo con i popoli bisognava operare bellicosamente». 33

Sini liquida le testimonianze antiche, per quanto riguarda la definizione di bellum iustum, come informate non a principi di astratta morale, ma a valutazioni di conformità con la sfera religiosa e rituale del ius fetiale; il riferimento è certo a Varrone, ma anche, e soprattutto, a Cicerone nel De

re publica34, per il quale «il bellum, per poter essere considerato iustum

abbisognava di requisiti formali e sostanziali. I primi derivavano dalla esatta osservanza dei riti e delle procedure dello ius fetiale […]. I requisiti sostanziali dovevano consistere in motivazioni validamente determinabili, e quindi riconoscibili come tali in maniera oggettiva sia di fronte agli dèi,

32 Virgilio Aen. 6, 852.

33 Sini Bellum nefandum cit., pp. 249-250 nota 40. 34 Cicerone De re publica, 3, 34.

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sia di fronte agli uomini».35 Secondo Sini, quindi, il principio illa iniusta

bella sunt, quae sunt sine causa suscepta, serve in ultima istanza – in

una situazione protesa verso la pace, ma che ineluttabilmente affonda le radici nella guerra - a limitare l’arbitrio e la cupidigia del popolo romano,

assicurando contemporaneamente la legittimazione religiosa

dell’imperium universale.

A questo proposito Sini cita – come paradigmatico delle sue convinzioni in merito all’essenzialità e alla predominanza della pace rispetto alla strumentalità della guerra – un altro passo dell’Eneide, che illumina la nozione “romana” della pace, intesa nei suoi aspetti essenziali, sia religiosi che giuridici:

Excudent alii spirantia mollius aera

(credo equidem), vivos ducent de marmore voltus, orbunt causas melius, caelique meatus

odescribent radio et surgentia sidera dicent: tu regere imperio populos, Romane, memento (hae tibi erunt artes) pacique imponere morem, parcere subiectis et debellare superbos

[Foggeranno altri con maggiore eleganza spirante bronzo, credo di certo, e trarranno dal marmo vivi volti,

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patrocineranno meglio le cause, e seguiranno con il compasso i percorsi del cielo e prediranno il corso degli astri:

tu ricorda, o romano, di dominare le genti;

queste saranno le tue arti, stabilite norme alla pace, risparmiare i sottomessi e debellare i superbi]. 36

La lettura dell’evoluzione e del dissolvimento dei rituali feziali in sincronia con lo sviluppo della civiltà romana, che da tribù giunge ad essere potenza egemone nel Mediterraneo, tanto cara a studiosi come, tra gli altri, Antonello Calore37, non viene toccata se non in maniera marginale

dallo studio di Sini, interamente concentrato a dimostrare quello che è l’assunto iniziale del suo lavoro: la perfetta adesione di Virgilio alla cultura irenistica del suo tempo, che propugnava la guerra aspirando alla pace. Se la guerra per Virgilio appartiene quindi inequivocabilmente, secondo Sini, all’orizzonte concettuale del nefas, la pace al contrario è concepita come condizione naturale dell’uomo, che fin dalla mitica età dell’oro, la più antica era dell’umanità, presiedeva alle relazioni tra gli uomini, poiché si fondava sull’osservanza di precetti religiosi e giuridici comuni a tutti gli uomini. Nei versi del libro VIII dell’Eneide, dove Virgilio canta gli aurea saecula e il regno di Saturno nell’antichissimo Lazio, si

36 Virgilio Aen. 6, 847-853.

37 Calore Forme giuridiche del ‘bellum iustum’ [Corso di Diritto romano – Brescia – a.a.

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chiariscono l’indubbio senso religioso e le implicazioni giuridiche del concetto virgiliano di pace:

Haec nemora indigenae Fauni nymphaeque tenebant gensque virum truncis et duro robore nata,

quis neque mos neque cultus erat, nec iungere tauros aut componere opes norant aut parcere parto,

sed rami atque asper victu venatus alebat. Iovis fugiens et regnis exsul ademptis.

Is genus indocile ac dispersum montibus altis Composuit legesque dedit Latiumque vocari Maluit, his quoniam latuisset tutus in oris. Aurea quae perhibent illo sub rege fuere Saecula: sic placida populos in pace regebat, deterior donec paulatim ac decolor aetas et belli rabies et amor successit habendi

[Abitavano questi luoghi Fauni indigeni e Ninfe, forti creature nate da tronchi di duro rovere;

non avevano civiltà di costumi, né sapevano aggiogare tori, o raccogliere provviste, o serbare il raccolto,

ma gli alberi e la dura caccia li sostentavano di nutrimento. Primo venne Saturno dall’etereo Olimpo,

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fuggendo le armi di Giove ed esule dal regno usurpato. Raccolse la stirpe indocile e dispersa per gli alti monti, e diede leggi e volle che si chiamassero Lazio

le terre nella cui custodia era vissuto nascosto. Sotto quel re vi fu il secolo d’oro, che narrano; così reggeva i popoli in placida pace;

finché a poco a poco seguì un’età peggiore, che mutava

in peggio il colore, e la furia della guerra e il desiderio di possesso].38

Virgilio canta la guerra come strumento della pace romana finalmente conquistata o prossima a conquistarsi dopo mille vicissitudini, esprimendo compiutamente la profonda aspirazione alla pace diffusa fra gli uomini della sua generazione, in sintonia con la politica di Cesare Augusto e del suo nuovo impero, fatto di pace, giustizia e fraternità, una sorta di ritorno al mito di Saturno e ai secoli d’oro dell’antichissimo Lazio, quando pace e stato di natura coincidevano. Da Virgilio, il lettore coevo apprende il suo presente: che «per merito del princeps diverranno pacifici gli aspera saecula (Aen. 1, 291), che si chiuderanno per sempre le dirae

portae della guerra (il tempio di Giano), dove resterà imprigionato il furor impius con le sue armi crudeli finalmente inoffensive (Aen. 1, 293-296)»39.

38 Virgilio Aen. 8, 314-327.

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24

E che la guerra è, o sarà, storicamente datata, perché estranea all’essenza originaria della natura umana.

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25

Capitolo II Cicerone tradito?

Nel 2003 Antonello Calore dà alle stampe il corso di Diritto romano tenuto all’Università di Brescia nell’a.a. 2003-2004, dedicato alle Forme

giuridiche del ‘bellum iustum’; come appare chiaro fin dall’introduzione,

sono le emergenze belliche degli anni Novanta del secolo scorso a far sorgere il bisogno di analizzare il concetto di “guerra giusta”, oggi usato da più parti per giustificare il ricorso allo scontro armato, con l’intento di riposizionarlo all’interno dell’orizzonte teorico nel quale è nato e dal quale ha acquisito i propri connotati. Il concetto di ‘guerra giusta’ correntemente utilizzato «con la funzione di indicare nell’evento bellico uno strumento utile alla difesa di valori umani “universali e pregiuridici”, uno strumento cioè che travalica quasi lo stesso principio di sovranità, “attributo naturale” degli Stati»,40 nelle parole di Calore è «un’espressione

con una storia molto lunga dietro di sé, risalente al periodo medievale, quando il pensiero politico-religioso propugnò la dottrina del bellum

justum ancorandola alla elaborazione giuridica e filosofica romana dello

stesso concetto, che aveva comunque in origine un senso diverso ed altre implicazioni.» 41 L’intento primario dell’autore, che segna la traccia del

suo studio, è quindi apertamente dichiarato: «andare all’origine di tale

40 Calore, A. Bellum iustum tra etica e diritto in Diritto@Storia n. 5 – 2006.

41 Calore, A. Forme giuridiche del ‘bellum iustum’ [Corso di Diritto romano – Brescia –

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concetto, e quindi alla cultura romana» 42 che fu artefice dell’espressione,

ma con lo sguardo puntato verso l’emergenza del presente, cavalcando lucidamente l’onda di un dibattito più politico che teorico, che a più riprese ha fatto uso del concetto romano di bellum iustum attribuendovi contenuti mutuati dall’idea di “guerra giusta” di ispirazione e matrice tomistica; resta da vedere se già in Cicerone, come parte della dottrina (in particolare la Albert43 e la Clavadetscher-Thürlemann44) vorrebbe,

possano individuarsi tracce di questa “finalizzazione” dell’attività bellica, individuando quindi nell’Arpinate un sostenitore ante litteram della guerra “giustificata dal fine”, e soprattutto non vincolata unicamente a necessità ed obblighi formali e giuridici. Approfondire l’origine dell’espressione bellum iustum significa quindi ripercorrere la riflessione che gli stessi Romani fecero sulla guerra, riflessione che ha accompagnato la storia del popolo di Roma dalle origini della civitas sulle rive del Tevere fino alla pax augustea sull’intero mondo mediterraneo. Ma, leggendo le pagine introduttive al testo, si ha a più riprese l’impressione che lo studioso intenda candidare (il suo pensiero o, nella migliore delle ipotesi) l’attualizzazione del diritto romano in argomento quale strumento

42 Calore Forme giuridiche del ‘bellum iustum’ cit. p. 10.

43 Albert, S. Bellum iustum. Die Theorie des «gerechten Krieges» und ihre praktische

Bedeutung für die auswärtigen Auseinandersetzungen Roms in republikanischer Zeit

Frankfurt, 1980, pp. 13, 17-25.

44 Clavadetscher-Thürlemann, S. Polemos dikaios und bellum iustum: Versuch einer

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27

privilegiato, tra i molti possibili, per ridurre gli spazi della guerra favorendo l’espandersi della pace.

Cicerone ha dedicato moltissime pagine al tema della guerra e alcune di esse contengono espliciti richiami alla “guerra giusta”, tanto che in dottrina, a chi lo considera – come la Clavadetscher-Thürlemann45 - un

vero e proprio innovatore per aver introdotto la giustificazione “morale” della guerra, avendo elaborato la teoria del bellum iustum tanto nell’aspetto formale della dichiarazione di guerra quanto (ed è ciò che per l’autrice più conta) in quello contenutistico del fine, si contrappone chi – come Sigrid Albert46 - gli attribuisce il merito di aver sistemato in chiave

teorico-filosofica l’antica prassi Feziale della dichiarazione di guerra insieme alla sostanza della iusta causa belli. Alla fine di questo breve

excursus sulla dottrina, Calore conclude che la maggior parte degli

studiosi, che si sono interrogati sulla portata del concetto di bellum

iustum nella cultura e nella prassi politica dell’antica Roma, è stata

concorde nel riconoscere come «l’idea della guerra giusta fu presente nel mondo romano fin dalle origini. Cicerone […] trattò la materia e, per la quasi totalità degli studiosi, fu proprio lui ad introdurre la distinzione tra l’aspetto formale (il rituale Feziale della dichiarazione di guerra) e quello

45 Clavadetscher-Thürlemann Polemos dikaios und bellum iustum cit., pp. 147, 151,

183-184.

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28

sostanziale (la causa belli) del bellum iustum. Il termine iustus, in questa prospettiva, acquisterebbe quindi il significato di «conforme alla giustizia, legittimando sul piano filosofico-politico la guerra fin dal periodo della tarda repubblica». 47

Voce dissonante dal coro è stata quella di Luigi Loreto, che nel suo testo, significativamente dedicato agli ‘equivoci del bellum iustum’ 48, sostiene

che mai Cicerone elaborò una teoria del bellum iustum collegata alla iusta

causa belli intesa come ‘causa sostanzialmente giusta di guerra’. Tale

connessione, stabilita più tardi dal pensiero tomistico, sarebbe basata per Loreto su una lettura ‘equivocata’ di un passo ciceroniano del De re

publica (3, 23, 35), nel quale si legge che sono “giuste” solo le guerre

compiute per vendicare un torto subito o per respingere l’aggressione dei nemici. Secondo Loreto, infatti, questo testo, l’unico in cui Cicerone esplicitamente parla di “giusta causa” della guerra dal punto di vista “sostanziale”:

Illa iniusta bella sunt, quae sunt sine causa suscepta. <Nam extra ulciscendi aut propulsandorum hostium causam bellum geri iustum nullum potest>

47 Calore Forme giuridiche del ‘bellum iustum’ cit., p. 41.

48 Loreto, L. Il ‘bellum iustum’ e i suoi equivoci (Cicerone ed una componente della

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29

[Ingiuste sono quelle guerre, che sono intraprese senza motivo. Infatti nessuna guerra può essere fatta giustamente, salvo che per vendicare un’offesa o per ricacciare il nemico],49

non apparterrebbe propriamente al De re publica ciceroniano, come peraltro tutte le edizioni critiche correnti del testo (Teubner, Les Belles Lettres, Loeb, UTET, Mondadori) riportano,50 bensì a Isidoro di Siviglia,

che nelle sue Etymologiae51 inserisce un frammento che la dottrina ritiene

di poter collocare a pieno titolo nel libro III del De re publica (non pervenuto ai moderni). Poiché tutti gli scritti ciceroniani sull’argomento - dal De legibus al De officiis, agli altri passi autografi del De re publica -, concorrono a favore della tesi secondo cui «il concetto di bellum iustum fu impiegato da Cicerone come strumento per vincolare la guerra a precise regole del sistema giuridico romano»52, e l’eccezione a ciò si trova in un

solo frammento – appunto il già citato passo del De re publica ciceroniano (3, 23, 35) che Loreto suppone essere spurio – nel quale «accanto allo schema tradizionale derivante dallo ius fetiale troviamo espressamente indicato il riconoscimento della iusta causa come giustificazione della guerra, esterna alle regole del diritto».53 Calore si dichiara «propenso ad

49 Cicerone De re publica 3, 23, 35, trad. L. Ferrero, Torino, 1997. 50 Calore Forme giuridiche del ‘bellum iustum’ cit., p. 153.

51 Isidoro di Siviglia Etymologiae 18, 1, 2.

52 Calore Forme giuridiche del ‘bellum iustum’ cit., p. 152. 53 Calore Forme giuridiche del ‘bellum iustum’ cit., p. 152.

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30

accogliere l’ipotesi dello studioso, perché più in sintonia con la concezione di “guerra giusta” emersa dalla lettura dei testi ciceroniani».54 Dunque per

Loreto, e per Calore con lui, il sintagma bellum iustum sarebbe da interpretarsi solo come “guerra legittima in quanto conforme all’ordinamento vigente romano interno” 55, dove l’aggettivo iustum

avrebbe quindi esclusivo significato tecnico-giuridico di “legale”.

Nella ricostruzione del pensiero di Loreto, utile a Calore per segnare uno spartiacque in dottrina tra coloro che vedono in Cicerone un precursore della “compromissione” finale del bellum iustum e chi invece intende mantenere l’Arpinate all’interno dell’orizzonte giuridico-politico romano, Calore individua due ordini di problemi meritevoli di essere ripresi e approfonditi: l’indagine sul senso da attribuire all’espressione bellum

iustum nel periodo che precede la riflessione di Cicerone e il significato da

assegnare alla riflessione ciceroniana. Di più: Calore intende verificare se tra il concetto di bellum iustum dell’antico ius fetiale e quello elaborato da Cicerone esista un collegamento, se cioè il carattere giuridico delle forme rituali dei Feziali sia nella sostanza stato mantenuto nella concezione ciceroniana, nonostante il verificarsi di profondi mutamenti, quali la trasformazione della formazione economico-sociale della civitas romana, il processo di laicizzazione del diritto e la nuova natura della guerra,

54 Calore Forme giuridiche del ‘bellum iustum’ cit., p. 155. 55 Loreto Il ‘bellum iustum’ e i suoi equivoci cit., p. 18.

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divenuta ormai transmarina, oppure se tale ‘giuridicità’ sia stata scalzata dalla causa finale, eticamente giusta, così come ritenuto dalla quasi totalità della dottrina.

L’angolo prospettico programmaticamente adottato da Calore nello studio in analisi è quello attinente allo scenario internazionale romano, che lo porta a considerare il sintagma bellum iustum come sistema ordinante i conflitti armati tra i Romani e gli altri popoli e descrittivo delle guerre ‘esterne’, denominate per comodità espositiva ‘internazionali’, soprattutto per distinguerle dalle guerre civili, qualificabili per contro come ‘interne’. Calore esclude dunque «dall’indagine da una parte quei fenomeni che, pur rientrando nella sfera bellica e nell’espressione ‘bellum iustum’, risultano concettualmente antitetici alla guerra esterna, come nel caso della guerra civile in Cicerone, dall’altra gli usi metaforici del sintagma, come in Ovidio,56 dove le parole “iusta bella” qualificano la vendetta di

Minosse per l’uccisione del figlio; o anche in Livio, dove il falso testimone è incalzato dal questore con “iustum ac pium bellum”». 57

Calore nella sua ricerca è quindi orientato ad approfondire l’impianto concettuale del bellum iustum così come espresso dalla cultura politica, giuridica e militare dell’ultima fase della repubblica, e in particolare da

56 Ovidio Metamorphoses 8, 58. 57 Livio Ab urbe condita 3, 25, 3.

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Cicerone; per far ciò, individua, rileggendo i passi di Tito Livio sul punto (Ab urbe condita, 1, 32, 6 – 14), i caratteri strutturali del bellum iustum attraverso l’analisi dei rituali Feziali nel periodo dell’esperienza arcaica romana, così da poterne cogliere le trasformazioni alla fine della repubblica, tenendo sempre presente l’evoluzione diacronica che caratterizzò la storia bellica romana - dalle prime guerre italiche alle guerre transmarine -, e le modifiche profonde che, nell’arco di questo lungo periodo, interessarono insieme diritto e guerra.

Calore interseca dunque i piani, intrecciando i dati storici di provenienza liviana con quelli più propriamente teorici di Varrone e Cicerone, con l’intento di ricostruire la storia del significato di bellum iustum attraverso le trasformazioni economiche, giuridiche e di ‘politica estera’ che interessarono la civitas romana dalla fase più antica a quella della tarda repubblica, per coglierne la funzione di strumento giuridico nelle relazioni internazionali. In ultima analisi, Calore mira quindi ad approfondire prevalentemente gli aspetti teorici del bellum iustum, gli unici che, a suo parere, rimangono all’interno dell’orizzonte giuridico-politico romano, muovendo verso l’individuazione della presenza e del peso delle categorie giuridiche che contribuirono alla formazione del concetto che ha poi attraversato i secoli per giungere, tradito, fino ai giorni nostri.

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L’espressione ‘bellum iustum’ e le altre ad essa affini, come bellum

iniustum, pium, purum, inpium, compaiono in un buon numero di testi

latini, cui Calore dedica un’analisi puntuale concentrando la sua attenzione sulle tre fonti ‘principali’, Marco Terenzio Varrone, Tito Livio e Marco Tullio Cicerone, riservando a quest’ultimo, nell’economia della trattazione, un più ampio spazio rispetto agli altri autori, proprio in considerazione dell’importanza e dell’estensione della produzione dell’Arpinate sull’argomento.

In Marco Terenzio Varrone il sintagma bellum iustum è utilizzato in due contesti: il primo indica le azioni belliche promosse dai Romani tramite i sacerdoti Feziali (Varr., De lingua Latina 5, 86: […] nam per hos (=

Fetiales) fiebat ut iustum conciperetur bellum), il secondo – dove il bellum è

invece pium - attiene al tipo di rapporto che intercorreva tra l’operato dei Feziali, inviati come ambasciatori a chiedere le opportune riparazioni a coloro dai quali ritenevano di aver subito azioni ingiuste, e lo schema del

bellum iustum:

Itaque bella et tarde et magna diligentia suscipiebant, quod bellum nullum nisi pium putabant geri oportere: priusquam indicerent bellum is, a quibus iniurias factas sciebant, fetiales legatos res repetitum mittebant quattuor, quos oratores vocabant

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34

[Quindi decidevano di impegnarsi in guerre soltanto dopo un’attenta e ponderata analisi della situazione, poiché pensavano che nessuna guerra doveva essere condotta se non fosse stata pia: prima che (i Romani) dichiarassero guerra inviavano a coloro, dai quali avevano la certezza di aver ricevuto azioni ingiuste, come ambasciatori per chiedere le opportune riparazioni quattro feziali, che chiamavano oratori]. 58

Secondo questo illuminante passo di Varrone, quindi, i Romani decidevano di dichiarare guerra solo dopo “attenta e ponderata analisi della situazione, poiché nessuna guerra poteva essere condotta se non fosse stata “pia”, dichiarata cioè a seguito di azioni ingiuste e relative formali riparazioni richieste, ma non ottenute. I passi varroniani si attagliano quindi perfettamente alla convinzione secondo la quale lo scrupoloso rispetto dei rituali Feziali, di natura giuridico-religiosa, era l’unico requisito per garantire una ‘giusta guerra’.

Quanto a Tito Livio è nel suo Ab urbe condita (dal paragrafo 6 al paragrafo 14) che troviamo minuziosamente descritta l’intera procedura romana dell’indictio belli propria del periodo arcaico: narrando delle origini della monarchia romana, Livio entra in argomento individuando in Anco

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Marcio, successore di Tutto Ostilio, il re che introdusse i rituali giuridici per dare inizio all’attività bellica:

…a se bellicae caerimoniae proderentur, nec gererentur solum, sed etiam indicerentur bella aliquo ritu, ius ab antiqua gente Aequicolis, quod nunc fetiales habent, descripsit, quo res repetuntur

[… (Anco Marcio) volendo per parte sua istituire un sacro cerimoniale di guerra, perché non si facessero guerre senza prima averle dichiarate secondo un certo rito, introdusse dall’antica gente degli Equicoli il rituale per chiedere soddisfazione, che ancor oggi i feziali osservano]. 59

Nei paragrafi seguenti (e precisamente dal sesto al quattordicesimo), Livio ci tramanda una minuziosissima descrizione del cerimoniale utilizzato per dare inizio alla guerra – bellum indico facioque – all’interno del quale possono essere individuati gli atti autonomi della procedura Feziale, disposti in serrata successione temporale, e riconducibile a due fasi distinte: la clarigatio, cioè la manifestazione, palesemente espressa, della volontà del popolo romano offeso di essere reintegrato nel diritto violato, scandita dalle azioni dei Feziali impegnati con la formula del res repetere a portare a conoscenza del popolo nemico, attraverso formule orali

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36

accompagnate da gesti rigidamente prescritti, le richieste del popolo romano, e dalla constatazione del rifiuto del popolo nemico ad adempiere, segnata dalla formula solenne della testatio:

Audi Iuppiter, et tu, Iane Quirine, alique omnes caelestes, vosque terrestres, vosque indermi, audite: ego vos testor populum illum" - quicumque est, nominat - "inisutam esse neque ius persolvere. Sed de istis rebus in patria maiores natu consulemus, quo pacto ius nostrum adipiscemur"

[“Ascolta, o Giove, e tu, o Giano Quirino, e voi tutti, o dèi del cielo, della terra e degli inferi, ascoltate; io vi invoco a testimoni che il popolo – e qui fa il nome – è ingiusto e non concede la dovuta riparazione. Ma su queste cose consulteremo gli anziani in patria, sul modo come possiamo far valere il nostro buon diritto”]; 60

e l’indictio belli, seconda fase della dichiarazione di guerra, suddivisa nella deliberazione dello stato di guerra ad opera delle istituzioni romane e nella cerimonia formale dell’emittere hastam, affidata di nuovo al sacerdote Feziale più anziano. Entrambe le formule del res repetere e della testatio avevano come tratto peculiare forme solenni e rituali, che nel periodo arcaico erano conosciute e gelosamente custodite da esperti

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sacerdoti quali appunto i Feziali. E anche la formula con cui il re chiedeva all’assemblea dei patres di decidere il comportamento da tenere:

Confestim rex his ferme verbis patres consulebat: “Quarum rerum, litium, causarum condixit pater patratus populi Romani Quiritium patri patrato Priscorum Latinorum hominibusque Priscis Latinis, quas res nec dederunt nec fecerunt nec solverunt, quas res dari, fieri, solvi, oportuit, dic ” inquit ei quem primum sententiam rogabat, “quid censes?”

[Immediatamente il re consultava il senato all’incirca con queste parole: “Intorno alle cose, controversie e accuse di cui il padre patrato del popolo romano dei Quiriti trattò con il padre patrato dei Prischi Latini e con gli uomini Prischi Latini, le quali cose né restituirono, né fecero, né pagarono, mentre era doveroso che fossero restituite, fatte, pagate, dimmi – diceva rivolto a colui che per primo veniva richiesto del suo parere – che cosa proponi?”], 61

secondo Calore, rimanda indiscutibilmente, sia per le corrispondenze lessicali che per l’esatta e puntuale sovrapposizione dei concetti richiamati, alla formula del res repetere del pater patratus, sintetizzando in modo preciso la pretesa rituale da lui avanzata al patres patratus

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nemico. Subito dopo la deliberazione dello stato di guerra, il capo dei Feziali portavoce del popolo romano si recava in prossimità del confine nemico per compiere un atto gestuale e verbale che formalizzava la deliberazione presa dalla civitas: portando con sé un’asta di ferro o di legno di corniolo rosso appuntita nel fuoco, alla presenza di almeno tre uomini puberi declamava la formula solenne:

“Quod populi Priscorum Latinorum homines [ve] <que> Prisci Latini adversus populum Romanum Quiritium fecerunt, deliquerunt, quod populus Romanus Quiritium bellum cum Priscis Latinis fieret, ob eam rem ego populusque Romanus <Quiritium> populis Priscorum Latinorum hominibusque Priscis Latinis bellum indico facioque”

[“Poiché i popoli dei Prischi Latini e gli uomini Prischi Latini agirono ingiustamente contro il popolo romano del Quiriti, poiché il popolo romano dei Quiriti ha proposto, approvato, deliberato che si facesse la guerra coi Prischi Latini, e per questo io a nome del popolo romano dichiaro e muovo guerra ai popoli dei Prischi Latini e agli uomini dei Prischi Latini”], 62

cui faceva seguire il lancio del giavellotto nel territorio nemico. È interessante notare come, secondo Calore, il lancio dell’asta rivesta una

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39

precisa valenza magico-religiosa, poiché tale gesto è latore della maledizione distruttiva degli dèi schierati con i Romani; ma altrettanto importante è la sua valenza giuridica, visto che nel processo arcaico le due parti, per rivendicare la proprietà dell’oggetto, si servivano di una bacchetta (festuca) con la quale toccavano l’oggetto conteso imponendo il proprio diritto. «Il lancio del giavellotto nel territorio nemico da parte del sacerdote Feziale rappresentava non solo la manifestazione della potenza divina schierata al fianco dei Romani, conseguenza della natura pura e pia della guerra, ma anche la pretesa del popolo romano di conseguire con la forza il risarcimento del danno.» 63

Di Marco Tullio Cicerone Calore utilizza e sottopone ad analisi tutte le opere nelle quali il sintagma bellum iustum è proposto in relazione alla guerra esterna, in particolare De re publica, De legibus e De officiis. Qui Cicerone, occupandosi della guerra e dell’evoluzione che essa subì nel corso dei secoli, tenne conto in primo luogo dell’evoluzione della funzione del fenomeno bellico, che da occasionale e di vendetta quale fu alle origini della città-stato romana si era ormai trasformato in guerra di dominio, cominciando ad acquisire, dopo il conflitto cartaginese, i connotati della guerra di mantenimento del periodo imperiale e, in secondo luogo, del processo di laicizzazione del diritto, che può ritenersi concluso alla fine

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40

del III secolo a.C., quando accanto agli antichi negozi formali e alle procedure rituali si imposero i negozi dello ius gentium, che alla efficacia della parola e del gesto tout-court anteponevano la volontà individuale e il riconoscimento dell’ordinamento cittadino.

Calore approfondisce la riflessione ciceroniana privilegiando l’aspetto giuridico meno indagato dalla dottrina, provando cioè a riconsiderare i testi dell’Arpinate sulla guerra e, in particolare, quelli dove esplicitamente viene trattato il tema del bellum iustum, attraverso gli schemi logico-descrittivi utilizzati dalla cultura giuridica coeva, per individuarne le influenze sul pensiero di Cicerone.

Come detto, tra gli scritti di Cicerone Calore sceglie di concentrare la sua indagine sui tre lavori a carattere speculativo, che meglio si prestano alla ricostruzione del pensiero dell’autore rispetto alle orazioni, meno affidabili quanto a tenuta e coerenza concettuale perché finalizzate ad impressionare l’uditorio, piegando, ove necessario, l’impianto teorico alle esigenze della retorica.

Il primo dei tre testi analizzati da Calore è il secondo libro del De re

publica, scritto nel 54 a.C., dove Publio Cornelio Scipione emiliano,

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innovazioni introdotte dal re Tullo Ostilio affronta il tema del bellum

iustum:

Mortuo rege Pompilio Tullium Hostilium populus regem interrege rogante comitiis curiatis creavit, isque de imperio suo exemplo Pompili populum consuluit curiatim, Cuius excellens in re militari gloria magnaeque extiterunt res bellicae, fecitque idem et saepsit de manibus comitium et curiam constituitque ius quo bella indicerentur, quod per se iustissime inventum sanxit fetiali religione, ut omne bellum, quod denuntiatium indictumque non esset, id iniustum esse atque inpium iudicaretur

[Morto il re Pompilio, il popolo creò re nei comizi curiati, su proposta dell’interrè, Tullio Ostilio, ed anch’egli dietro l’esempio di Pompilio fece deliberare il popolo, riunito in curie, sul proprio potere… e stabilì la procedura relativa alle dichiarazioni di guerra, e questa innovazione legittimò con il rituale dei Feziali, affinché fosse ritenuta ingiusta ed empia ogni guerra che non fosse stata annunciata e dichiarata]. 64

Questo fondamentale passo richiama il sistema giuridico feziale quale elemento fondante della dichiarazione di guerra, lega le antiche formule

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42

feziali usate per la dichiarazione di guerra agli aggettivi iniustum e inpius, e usa contestualmente i due verbi denuntiare e indicere, dove indicere rimanda a quella parte della procedura relativa alla decisione istituzionale di avvalersi dell’uso della forza armata per avere soddisfazione, mentre la denuntiatio – come Calore desume da alcuni passaggi delle Filippiche65 - si articolava nella richiesta delle pretese alla

controparte (res repetere) e, in caso di risposta negativa, nella notificazione del giusto diritto di ricorrere a qualsiasi mezzo per avere soddisfazione (testatio): era quindi una sorta di atto complesso che condensava le differenti fasi dell’antica procedura in un atto condizionato somigliante ad un ultimatum, ed era molto simile nella sostanza, e fatti salvi i rituali e le forme solenni ormai in desuetudine, alla dichiarazione di guerra riferita da Livio per il periodo arcaico.

Ciò è confermato dalla cronaca che Livio fa dell’inizio della seconda Guerra Punica,66 quando Roma invia a Cartagine un’ambasceria per

chiedere la consegna di Annibale e il ritiro delle truppe da Sagunto. Quando a Roma giunse la notizia della non volontà cartaginese di

65 Cicerone Philippicae 6, 2, 4: Quamquam, Quirites, non est illa legatio, sed denuntiatio

belli, nisi paruerit: ita enim est decretum ut si legati ad Hannibalem mitterentur. [Ad ogni

modo, Romani, non si tratta tanto di un’ambasceria quanto di una dichiarazione di guerra, se non obbedirà alle sue intimidazioni; ché non sarebbe diverso il decreto nel caso dell’invio di un’ambasceria a un Annibale”] [trad. G. Bellardi, Torino, 1983].

66 Livio Ab urbe condita, 21, 17, 4: Latum inde ad populu vellent iuberent populo

Carthaginiensi bellum indici [Quindi fu proposto al popolo che decretasse ed ordinasse

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43

adempiere alle richieste avanzate, il senato non decise immediatamente di dichiarare guerra (bellum indici), e inviò ai Cartaginesi cinque legati anziani per appurare se Annibale avesse agito di propria iniziativa o in seguito a deliberazione cittadina; solo in caso di responsabilità collettiva sarebbe stata dichiarata guerra. Siamo di fronte dunque ad una ‘nuova’ procedura, decisamente più articolata e complessa rispetto all’originario schema feziale, che ‘limitava’ la fase interlocutoria del rapporto con il popolo antagonista al momento iniziale delle trattative. L’intero procedimento, dalla decisione comiziale alla dichiarazione di guerra fatta

ad opera dell’ambasciatore, che Livio aveva indicato con

l’espressione ‘indicere bellum’, viene ora dallo stesso definito ‘denuntiatio

belli’: entrambe le locuzioni stavano certamente ad indicare

l’espletamento di una procedura giuridica conosciuta dall’ordinamento romano.

Ma si colgono qui rilevanti differenze tra il sistema arcaico e quello della media repubblica, come l’assenza del rigido formalismo e la separazione tra gli atti religiosi e quelli giuridico-militari, riconducibili alle trasformazioni giuridiche e politiche che avevano segnato l’esperienza romana dalle origini alla conquista del Mediterraneo. L’analisi delle riflessioni a carattere teorico-generale di Cicerone, comparata con alcune

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delle vicende più sintomatiche delle guerre transmarine di Roma,67 mette

in evidenza come il denuntiare bellum consistesse in un atto che non si risolveva esclusivamente nella dichiarazione formale di guerra, ma poteva richiamare in sintesi le istanze dibattute nella precedente rerum repetitio, oppure, come nel caso appena citato da Livio, contenere un’ulteriore proposta ultimativa che, se accettata, avrebbe scongiurato in extremis il conflitto armato. Nelle procedure belliche, probabilmente a partire dalla II Guerra Punica, risulta così difficile separare in modo netto il denuntiare dall’indicere bellum. Registriamo infatti un uso combinato dei due termini, con l’intento di descrivere le finalità da sempre presenti nel sistema romano del bellum iustum: l’attestazione del rifiuto all’adempimento da parte del popolo antagonista e l’enunciazione della decisione del popolo offeso di muovere guerra per la difesa dei diritti ritenuti lesi. Mentre quindi nella originaria procedura Feziale si registrava una rigida e formale separazione dei due momenti, prima la rerum

repetitio e la testatio, poi il censere-iubere bellum e l’emittere hastam, nella

procedura “riformata” le scansioni temporali e conseguentemente rituali tendono a scomparire. Molti passaggi dell’antico procedimento persistettero anche nel nuovo, come l’articolazione delle pretese e l’intervento diplomatico finalizzato a preparare l’evento militare, mentre caddero per lo più le forme solenni, molte delle quali – tra tutte: l’emittere

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hastam - divenute impraticabili semplicemente per questioni logistiche.

Calore conclude quindi che anche dal testo ciceroniano del De re publica si trova confermata la convinzione che il sintagma bellum iustum indicasse la guerra conforme al sistema giuridico.

La seconda opera di Cicerone analizzata da Calore è il De legibus, iniziato nel 52 a.C. e concluso probabilmente nel 46 a.C. Nel terzo libro Cicerone fa un cenno alla guerra giusta analizzando il fenomeno bellico nel suo complesso:

Imperia, potestates, legationes, quom senatus creverit populusve iusserit, ex urbe exeunto, duella iusta iuste gerunto, sociis parcunto, se et suos continento, populi <suo> gloriam augento, domum cum laude redeunto

[I magistrati investiti di imperio e di potestà, e i legati, quando il senato decreterà o il popolo delibererà, escano dalla città, conducano legalmente guerre giuste, siano moderati con gli alleati, raffrenino se stessi e il seguito, accrescano la gloria dello Stato, tornino in patria con encomio]. 68

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