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Sciascia on screen, tra pamphlet e thriller. Due riletture postume: 'Porte aperte' e 'Una storia semplice'

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23 URN:NBN:NL:UI:10-1-113003 - Publisher: Igitur publishing

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Sciascia on screen, tra pamphlet e thriller

Due riletture postume: Porte aperte e Una storia

semplice

Alessandro Marini

Nelle ultime opere di Leonardo Sciascia si sommano vocazione al racconto e lucida tensione argomentativa, unite da un’inesausta tensione intellettuale che fa della contraddizione il principale strumento di indagine e di analisi del presente. Se, infatti, la narrazione implica tout court un possibile sviluppo e un insopprimibile desiderio di cambiamento e di scoperta, la riflessione complessiva sostenuta dall’autore sembra segnata da un pessimismo radicale, derivante dalla percezione di un universo politico e sociale segnato dalla sistematica marginalizzazione di ogni sforzo verso un suo necessario aggiustamento secondo ragione ed equità. Il carattere testamentario della tarda produzione scasciana risveglia, dopo un silenzio durato quasi quindici anni,1 l’attenzione del cinema verso l’opera dello scrittore di

Racalmuto: a breve distanza di tempo dalla morte di Sciascia escono così due adattamenti che intendono sia ricordare la scomparsa dell’autore, sia, nello stesso tempo, ripercorrere i caratteri delle sue ultime opere. Si tratta di Porte aperte, uscito nel 1990 con la regia di Gianni Amelio, adattamento dell’omonimo romanzo-saggio pubblicato nel 1987, e di Una storia semplice, del 1991, con cui Emidio Greco rielabora l’ultima opera di Sciascia, un racconto lungo uscito il 20 novembre 1989, lo stesso giorno della morte del suo autore.

Come vedremo, a separare i due testi letterari interviene, oltre che la distanza temporale della loro ambientazione, una ben visibile differenza di genere, poi per altro in parte smussata, nell’adattamento, dalla necessità di narrazione propria del linguaggio cinematografico. L’opportunità di un confronto tra i due testi è però sostenuta soprattutto dalla significativa convergenza del sentire dell’autore, volto, sia in Porte aperte che in Una storia semplice, ad un’indagine tanto dettagliata quanto inconcludente, vista la radicale impermeabilità del contesto oggetto di analisi all’azione dei pochi che ancora cercano, come l’autore e anche in se stessi, quello slancio utopico che potrebbe, forse, tradursi in un esempio, o in una qualsivoglia virtuosa e utile conseguenza. In entrambi gli adattamenti delle due opere, nonostante l’atteggiamento assai diverso che Amelio e Greco dimostrano nei confronti dei rispettivi antecedenti letterari, la contraddizione tra sfiducia e incapacità di rassegnarsi è esplicita, come vedremo, nei tratti dei protagonisti, al punto da poter riconoscere, in queste due opere, una breve stagione della fortuna

1 Una vita venduta di Aldo Florio è l’ultimo adattamento realizzato prima della morte di Sciascia. Tratto dalla novella L’antimonio, risale al 1976.

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cinematografica dell’opera di Sciascia, di cui non appare dunque inutile delineare i caratteri.2

Due testi per due progetti

‘Romanzo che accoglie dentro di sé un vero e proprio antiromanzo filosofico’,3 Porte aperte è una sorta di pamphlet contro la pena di morte, che prende le mosse dalla cronaca di un processo celebrato negli anni del fascismo imperante per argomentare, con una trattazione lucida, coerente e ricca di riferimenti letterari, storici e filosofici, contro la tesi che vede nella pena di morte un efficace deterrente al fine del contenimento della criminalità. Per sostenere la sua posizione, umanitaria e abolizionista, l’autore mostra programmaticamente l’illusorietà delle promesse suggerite dalla metafora di fondo del testo: le porte aperte come allegoria di un paese che si vuole dire sereno, in cui il potere garantisce la tranquillità e la pacifica convivenza dei cittadini, anche ricorrendo, se necessario, all’uso della violenza nella sua forma più estrema, quella della pena capitale. Una storia semplice è opera meno complessa, caratterizzata da un’estrema brevitas narrativa. La vicenda prende le mosse da un’indagine su un omicidio che vede coinvolti personaggi di spicco delle istituzioni: magistrati, commissari di polizia, preti. Stato e Chiesa appaiono organicamente compromessi in un progetto di negazione della legalità, volto sia alla realizzazione sistematica di azioni criminose, sia alla copertura dei loro responsabili.

Porte aperte e Una storia semplice sono segnati da un esplicito valore testamentario, orientati a ribadire sia i valori filosofici e morali che hanno mosso la ricerca e la scrittura di Sciascia (razionalismo e umanità, in Porte aperte), sia un quadro complessivo della società italiana contemporanea, rappresentata nel pieno di un disfacimento morale di cui le istituzioni sono a pieno titolo responsabili (in Una storia semplice). In entrambi i testi emergono i motivi del complotto, della sinergia che unisce forze strutturalmente orientate alla realizzazione dell’ingiustizia, e della conseguente difficoltà che il cittadino consapevole incontra nel tentativo di comprendere un sistema solidamente e ambiguamente organizzato. A poco serve, dunque, l’iniziativa degli onesti, condizionata, come nel Cavaliere e la morte, dalla malattia e dall’isolamento di fronte a un potere tentacolare e intoccabile. L’impossibilità ad agire contro di esso è così il risultato di un’interazione tra la sua amoralità e l’indifferenza dei più, secondo il principio che ‘di brav’uomini è la base di ogni piramide di iniquità’.4 Sciascia sembra dunque giungere ad un doloroso

paradosso: anche l’onestà, dunque, se si somma al silenzio, a un astratto senso del dovere e all’inefficienza delle istituzioni, può divenire organica e funzionale alla realizzazione del crimine.

Amelio e Greco lavorano su testi diversi adottando strategie diverse: a grandi linee si potrebbe dire che Amelio interviene sull’intreccio con significative alterazioni della vicenda e del sistema dei personaggi, mentre Greco mantiene, nei confronti del modello, un atteggiamento più neutrale e distaccato, senza modificarne l’assetto narrativo e lavorando molto su alcune scelte di ambientazione, per marcare il carattere amaro e conclusivo della riflessione sciasciana. Per altro, l’incipit dei due film è caratterizzato dall’uso di un procedimento analogo, finalizzato a inserire la vicenda narrata in un macrotesto più ampio, quello delle aspettative del lettore/spettatore, che tende a collocare l’opera di Sciascia in un

2 Tra gli adattamenti cinematografici da opere di Sciascia, seguirà i due film oggetto della nostra analisi soltanto Il consiglio d’Egitto, curato dallo stesso Greco nel 2002, a distanza dunque di oltre dieci anni da Una storia semplice.

3 M. Onofri, Storia di Sciascia, Roma-Bari, Laterza, 1994, p. 264. 4 L. Sciascia, Porte aperte, Milano, Adelphi, 1987, p. 28.

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preciso contesto di genere, in cui si intrecciano poliziesco e denuncia, nello specifico contesto siciliano.

Non è dunque un caso che sia Porte aperte che Una storia semplice si aprano con un riferimento esplicito e concreto alla Sicilia geografica, assente in entrambi gli antecedenti letterari. Nel film di Amelio, l’avvocato Spadafora, la prima e la più illustre tra le tre vittime dell’imputato del processo di cui si occupa il romanzo, appare impegnato a mettere insieme una cartina della Sicilia, unendo fogli di carta che poi verranno mostrati in primo piani macchiati del suo sangue. L’inserimento di un evidente rimando geografico funziona così come segno allusivo di una strategia di adattamento: ricondurre un testo argomentativo e in buona sostanza filosofico alla misura del legal thriller, il romanzo d’azione di ambientazione giudiziaria, ben ancorato, in questo caso, ad un contesto geografico di forte impatto sull’immaginario dello spettatore.

Nella scena iniziale di Una storia semplice, l’elemento originale, anch’esso assente nel testo di partenza, proviene da un altro romanzo di Sciascia, Il consiglio d’Egitto. Si tratta del passaggio in cui il viceré Caracciolo lascia l’isola. Caracciolo è stato un amministratore illuminato, per venti anni ha fatto carriera a Parigi, prima di approdare a Palermo, passando così ‘dal luogo della ragione all’hic sunt leones’.5 Nell’accomiatarsi dalla nobiltà, di cui aveva cercato di limitare abusi e privilegi, sussurra all’avvocato Di Blasi, che con lui condivide un giudizio negativo sull’aristocrazia e il sogno di una società migliore: ‘Come si può essere siciliani?’.6 Caracciolo, insomma, allude alla difficoltà di chi è costretto a confrontarsi con l’immobilismo e il parassitismo dei potenti, all’impossibilità di cambiare, anche minimamente, lo stato delle cose.

Trasferendo la battuta nel contesto di Una storia semplice Greco si concede l’unica vistosa interpolazione dell’intero film. In uno dei traghetti che attraversano lo stretto di Messina assistiamo a un dialogo a tratti surreale tra il professor Franzò, un anziano, consapevole e disincantato insegnante, e il rappresentante che sarà poi vittima degli abusi degli inquirenti. Mentre però nel Consiglio d’Egitto la domanda, posta ‘con un sorriso d’intelligenza’,7 stabilisce un legame, una corrispondenza tra

due personaggi animati da una comune visione delle cose, la comunicazione tra i due personaggi di Una storia semplice appare quasi paradossale, e sembra quasi voler marcare un’idea tutta negativa del potenziale dell’azione e della scrittura intellettuale, costretta a confrontarsi, nel migliore dei casi, con una realtà assurda e inconoscibile e con una classe media onesta, ma incapace di capire l’abisso di sopruso e corruzione che ha segnato la Sicilia del secondo dopoguerra. Ora, la domanda sul come si fa ad essere siciliani non viene nemmeno posta dal rappresentante, ma solo intuita o immaginata dal professore e, soprattutto, lasciata senza risposta, quasi a voler alludere all’amarezza di un percorso, quello dello stesso Sciascia, che non è riuscito, nonostante l’attenzione dell’analisi e dell’osservazione, a sciogliere la difficoltà dell’essere siciliani, quando, della Sicilia, se ne sono comprese regole e miserie. Anche in questo caso, dunque, l’inserimento appare allusivo dell’operazione di rilettura operata da Greco: sottolineare il valore consuntivo e amaramente testamentario del testo sciasciano.

Infine, unisce Porte aperte e Una storia semplice la presenza di Gian Maria Volonté, attore legato a Sciascia da stima e apprezzamento, quasi un suo portavoce sullo schermo, che non casualmente interpreta i due personaggi intellettuali, i principali portavoce del coraggio della comprensione proprio dell’autore di Racalmuto.

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L. Sciascia, Il Consiglio d’Egitto, Milano, Adelphi, 1989, p. 71. 6 Sciascia, Il Consiglio d’Egitto, cit., p. 74.

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Porte aperte: sceneggiare un’idea

Protagonista del Porte aperte sciasciano è un ‘piccolo giudice’, che, contro le aspettative del regime fascista, dei suoi superiori e dell’opinione pubblica, cerca di evitare la pena di morte all’imputato di un triplice omicidio. Il giudice, nel romanzo di Sciascia, si fa portavoce di un’istanza morale che riesce a farsi storia anche grazie al coraggio di un giurato popolare, un agricoltore colto e sensibile, ‘cittadino autodidatta che vive a contatto con la ciclicità della terra e che apprende dalla natura più che dai libri il più cruciale dei principi – il rispetto per la vita’.8 In Sciascia il giudice è personaggio squisitamente intellettuale: di lui conosciamo soprattutto letture e opinioni, e anche ‘in azione’ lo vediamo soprattutto in alcuni impegnativi confronti intellettuali con il procuratore e l’agricoltore. Incarnazione della fiducia illuminista in un patto sociale fondato sulla ragione, il giudice si oppone, in un serrato argomentare filosofico, a un’idea di stato garante dell’ordine grazie a un uso assoluto della forza, che ha il suo modello in De Maistre e che in Porte aperte assume le sembianze di Sua Eccellenza Alfredo Rocco, ispiratore del codice penale del 1930. Ricordi, citazioni e pensieri occupano interamente il personaggio del magistrato, di cui mai Sciascia riporta una parte delle arringhe o un intervento nel dibattimento, né presenta il background familiare, se si fa eccezione per una rapida allusione alla figura della moglie, preoccupata per il futuro professionale del marito nell’eventualità di una sentenza che non fosse di morte. Il ‘piccolo giudice’ è insomma un criterio di giudizio, una posizione morale, più che un agente di eventi: più che la vita dell’imputato difende un principio e la sua dignità, e nella responsabilità di tale scelta riconosce ‘il punto d’onore della sua vita, dell’onore di vivere’.9

Nel cinema di Amelio, scrive Paola Malanga, ‘non c’è protagonista […] che non possieda nel proprio intimo un’idea di mondo diverso da quello in cui si trova a vivere’.10 Tuttavia, la sceneggiatura di Porte aperte integra tale dimensione utopica e speculativa con una articolata rappresentazione della vicenda processuale, filmata, secondo il pattern del genere, con lenti carrelli e ampie inquadrature frontali; in particolare rilievo sono posti sia la refrattarietà dell’imputato, sia la corruzione del contesto professionale in cui l’omicida si era trovato a operare, sia l’ostinazione e lo scrupolo del giudice. Inoltre, il giudice di Amelio appare solidamente collocato in un ben preciso ambiente sociale e familiare: non è più un borghese, come nel romanzo di Sciascia, ma il figlio di un panettiere, il che configura uno scarto funzionale a modificare la percezione del finale del film, quando il giudice viene punito con un trasferimento in un’insignificante pretura di provincia.11 Il contesto familiare viene

estesamente rappresentato nella sequenza del pranzo con i parenti: una famiglia odiosa e conformista, divisa tra rispetto per il magistrato – per il suo ruolo e non per la sua coscienza – e desiderio di veder punito il ‘mostro di Palermo’ con una condanna capitale, esemplare e rituale: ‘il sublime delle anime ignobili’ di cui scrive anche Sciascia, mutuando da Stendhal.

Il ridimensionamento della statura intellettuale del personaggio eroico e positivo e l’apertura alla dimensione quotidiana sono in linea con la crisi del ‘genere’

8

G. Cheshire, ‘L’immagine persistente’, in: E. Martini (a cura di), Gianni Amelio: le regole e il gioco, Torino, Lindau, 1999, p. 64.

9 Sciascia, Porte aperte, cit., p. 101. Per un approfondimento su tale aspetto del personaggio, rimando a P. Milone, ‘Il diritto e le sue metafore. Letteratura e giustizia nell’opera di Sciascia’, in: L. Pogliaghi (a cura di), Giustizia come ossessione. Forme della giustizia nella pagina di Leonardo Sciascia, Milano, La Vita felice, 2005, pp. 33-76 e in particolare pp. 51-57.

10 P. Malanga, ‘Il lato oscuro dell’utopia’, in: E. Martini, Gianni Amelio, cit., p. 31. 11

‘Lui è già in qualche modo abituato a non far parte della classe alta della sua città, e rinunciarci significa solo rinunciare tecnicamente a dei privilegi’: E. Martini (a cura di), ‘Cinema e cinemi. Intervista a Gianni Amelio’, in: Idem, Gianni Amelio: le regole e il gioco, cit., p. 137.

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civile propria degli anni Ottanta, che pure i romanzi di Sciascia avevano contribuito a fondare solo pochi anni prima con gli adattamenti di Elio Petri, Francesco Rosi e Damiano Damiani.12 Amelio cura soprattutto la rappresentazione di un ambiente, fissando in interni cromaticamente opprimenti la dimensione claustrofobica e concentrazionaria dello spazio psicologico proprio del ventennio fascista. Inoltre, la sceneggiatura del film arricchisce il plot con vari episodi e un articolato sistema di personaggi, alleggerendo così lo spessore letterario e filosofico del testo. Si tratta di un’operazione consapevole:

la volontà era di allontanare, sfumare, l’invadenza dell’argomento, facendo emergere quelli che io definivo i tempi morti della coscienza, lavorando sulle digressioni, imponendo una fisicità ai personaggi, contro la rappresentazione tutta ideologica del racconto di Sciascia.13

Amelio dà così un volto alle istanze intellettuali dell’antecedente letterario, costruendo un ‘film che, più degli altri, mette in discussione quello che Sciascia ha scritto’.14 Un segnale visibile di tale virata dalla riflessione alla narrazione è costituito dall’accentuarsi della dialettica opposta e simmetrica tra il personaggio del giudice e quello dell’imputato: a entrambi Amelio inventa un figlio, sovrapponendo al testo letterario la propria costante attenzione per il mondo infantile; molto spesso, inoltre, i due personaggi si trovano faccia a faccia e si scontrano divisi dal campo/controcampo, come nella sequenza, anch’essa assente nell’originale, della perizia psichiatrica:

mi piaceva molto che ci fosse una specie di specchio scuro, nel quale uno vedeva l’altro, il giudice e l’assassino. Nel libro di Sciascia l’assassino quasi non esiste, è un pretesto. Nel film ho fatto i salti mortali per farli incontrare.15

Inoltre, per delineare un movente più articolato, la sceneggiatura di Porte aperte intreccia al motivo della corruzione quello della violenza privata: l’imputato confessa di aver costretto la moglie a prostituirsi con il suo superiore da lui stesso poi assassinato, e la violenta prima di ucciderla. Il carattere estremo ed esemplare della vicenda raccontata da Sciascia si colora dunque di un tono passionale e morboso, e il potenziale di denuncia di un intero sistema di potere viene attenuato dalla motivazione privata dell’omicida, dalla sua frustrazione sessuale, oltre che professionale.

Nello stesso tempo, Porte aperte al cinema perde alcune sfide che il testo di Sciascia pone ai suoi adattatori. Pensiamo ai due incontri tra il giudice e il procuratore che incorniciano la vicenda, così carichi di sospetto, scetticismo e disincanto, semplificati nella contrapposizione un po’ schematica tra impegno e opportunismo che divide i due personaggi cinematografici, e soprattutto pensiamo all’attenzione che Sciascia dimostra per l’immagine, in tutto il suo spessore memoriale, identitario e culturale. Ci sono due oggetti, nel romanzo, cui viene dato uno spazio assai significativo. Il primo è la foto di Giacomo Matteotti, trovata a casa dell’omicida e a lungo sottratta all’esame della magistratura: sottratta intenzionalmente, nel tentativo di non voler dare un significato politico a una condanna che si auspicava dovesse esemplarmente colpire un assassino, e non un

12 Di Petri sono A ciascuno il suo (1967) e Todo modo (1976), Damiani adatta Il giorno della civetta (1968), Rosi Il contesto (Cadaveri eccellenti, 1976).

13 In P. Spila, ‘Visto dall’interno. Incontro con Gianni Amelio’, in: Linea d’ombra, n. 70 (aprile 1992), pp. 66-67.

14 G. Amelio, Amelio secondo il cinema. Conversazione con Goffredo Fofi, Roma, Donzelli, 1994, p. 49. 15 Martini, Cinema e cinemi, cit., p. 137.

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oppositore del regime. ‘Volto sereno e severo, ampia fronte, sguardo pensoso e con un che di accorato, di tragico’, la fotografia di Matteotti riporta alla mente del giudice altre immagini del passato, ‘ricordi visuali che non sapeva di avere così nitidi, così precisi’, risvegliando così una ‘passione che anche lui aveva sentito, ma dentro la passione del diritto, della legge, della giustizia’.16 A un’immagine è insomma affidato il senso di un’identità individuale resistente, di un’appartenenza morale.

Analogamente, non resta traccia nel film di Amelio della silografia popolare che l’agricoltore fa avere al giudice, rappresentazione figurativa di ‘uno dei più oscuri culti, dei più spontanei che nella chiesa cattolica si fossero ad un certo punto manifestati’: quello per le ‘anime sante dei corpi decollati’, che nella fantasia popolare si sovrapponevano alle anime del purgatorio, e grazie al quale ‘la storia della pietà aveva fatto un passo avanti’.17 Nel contesto del romanzo, il regalo non esprime solamente il valore della pietà e della compassione, ma afferma anche il rifiuto della diffidenza e del sospetto propri del periodo fascista. Nello stesso tempo, la presenza della silografia porta alla silenziosa sintonia tra l’agricoltore e il giudice, un’intesa che può fare a meno delle parole e contare invece sul non detto, sul potere evocativo di un’immagine che non casualmente Sciascia indugia a ricostruire nella pagina scritta. Può sembrare curioso che un procedimento quindi squisitamente cinematografico, che investe di senso la rappresentazione figurativa, venga eluso dalla sceneggiatura di Porte aperte, che preferisce alla silografia popolare L’idiota di Dostoevskji, romanzo che, fisicamente, appare più volte nel film, e di cui il giudice, nella sequenza finale, legge all’agricoltore le pagine che più esplicitamente condannano la barbarie della pena capitale. Si tratta insomma di una esplicitazione del non detto, che, rinunciando al potenziale evocativo dell’immagine cinematografica, affida alla letteratura, e quindi al valore convenzionale della parola, il compito di trasmettere un significato.

Un altro piccolo ma significativo segnale del carattere della rilettura di Amelio è infine leggibile, a mio avviso, in un particolare solo apparentemente secondario. C’è un oggetto, nel testo di Sciascia, che allegoricamente rappresenta la condizione del giudice, uomo diviso tra pulsione e autocontrollo: un anello

da girarselo al dito: e quell’uomo sarebbe svanito dalla gabbia […]. Quell’uomo gli dava terribile disagio: quasi che, sollecitandolo nell’istinto e a momenti insopportabilmente acuendoglielo, gli impedisse quel colloquio con la ragione cui era abituato. E l’istinto era quello di cancellarlo.18

L’anello, al dito del magistrato, è insomma uno strumento di tortura: la tortura di chi ‘ha contraddetto e si è contraddetto’,19 portando avanti un’istanza con tutta la

consapevolezza della precarietà del controllo di essa da parte di un soggetto pensante. Amelio sposta l’anello dalle dita del giudice a quelle di un influente cancelliere, cui viene affidato nel film il compito di esporre il punto di vista del regime sulla pena di morte, di cui l’anello diviene un’allegoria: uno strumento magico e perfetto per ‘cancellare dalla faccia della terra tutti i ladri, i violenti, i maniaci, gli spostati’. La semplificazione mi sembra evidente: rivolgendo il suo effetto all’esterno, l’anello è ora allegoria dell’indiscutibile e aproblematico esercizio del potere, laddove in Sciascia esso rappresentava il lavorio, tutto interno e

16 Sciascia, Porte aperte, cit., p. 15. 17 Ivi, pp. 62 e 63.

18

Ivi, pp. 37-38.

19 L. Sciascia, La Sicilia come metafora, intervista di M. Padovani, Milano, Mondadori, 1984 (1979), p. 88.

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intellettuale, e la consapevolezza dell’abisso tra istinto e ragione propria dell’uomo sensato che, come scrive Sartre, ‘cerca penosamente’ e ‘sa che i suoi ragionamenti sono soltanto probabili’.20

Una storia semplice, in cerca di giustizia

Sciascia apre Una storia semplice con una citazione in esergo da Giustizia di Friedrich Dürrenmatt: ‘Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia’.21 Parole che mettono in rilievo il carattere conclusivo ed esemplare del testo, presentato come un estremo tentativo di verifica sulle possibilità del bene, nonostante la disillusione. Tale posizione trova riscontro programmatico anche nell’orizzonte di ricerca dello stesso Sciascia:

Tutto è legato, per me, al problema della giustizia: in cui si involge quello della libertà, della dignità umana, del rispetto tra uomo e uomo. Un problema che si assomma nella scrittura, che nella scrittura trova strazio e riscatto.22

La frase di Dürrenmatt costituisce dunque il programma del testo: la giustizia sembra almeno astrattamente conoscibile, anche se attualmente non riconoscibile. Il percorso verso di essa è in sostanza il contenuto della narrazione, ma, nonostante la faticosa ricerca messa in atto dalla riflessione, la realtà, chiusa e impenetrabile, sembra sottrarsi allo sforzo del soggetto. Il procedimento è chiaramente quello dell’allegoria moderna: si riprende una modalità di trasmissione del significato già diffusa fin da Medioevo, basata su un’associazione logico-razionale, ma ora lo ‘scandagliare scrupolosamente’ della ragione esprime una tensione logico-conoscitiva verso un significato che le sarà precluso. L’oggetto della quête, così, non dà esito che non sia quello della consapevolezza della sua inattualità: non certo a caso, è proprio l’unico personaggio assolutamente innocente dell’intero racconto, il rappresentante casualmente imbattutosi in un assassinio, a trovarsi paradossalmente ad esserne sospettato e a pagare colpe non sue con una breve detenzione, quando dalla legge, vestita di equivoche sembianze umane, avrebbe dovuto invece essere protetto e tutelato. In questo mondo alla rovescia, pronto a eludere aspettative elementari di impegno e di equità, anche i pochi altri personaggi che provano a interrogarsi sulle possibilità della giustizia sono costretti a scontrarsi con una macchina ambigua e strutturalmente corrotta, sviluppando così rabbia e delusione – nel brigadiere che capisce che il suo superiore è un omicida – e disincanto – nel professor Franzò, costretto dalla malattia e dalla vecchiaia ad un’impotenza carica di dolorosa comprensione.

Greco si muove in una prospettiva filologica di grande rispetto per l’intreccio, i dialoghi e il sistema dei personaggi del testo di partenza.23 La semplicità della rappresentazione risponde così alla semplicità della scrittura sciasciana, ora privata di quello spessore meditativo proprio di altre sue opere. Occorre ricordare che l’unica accezione ironica del titolo riguarda il mondo rappresentato, gli intrighi di potere che aspirano a ricondurre la complessità del reale a una sua leggibilità a senso unico, orientata alla difesa criminale di interessi consolidati. Invece, sul piano della sua rappresentazione, in Una storia semplice Sciascia sceglie la prosa asciutta ed

20

J.P. Sartre, L’antisemitismo, Milano, Mondadori, 1990, p. 29. 21 F. Dürrenmatt, Giustizia, Milano, Marcos y Marcos, 2005, p. 13.

22 ‘14 domande a Leonardo Sciascia’, intervista a cura di C. Ambroise, in: L. Sciascia, Opere 1956-1971, Milano, Bompiani, 1987, p.XIII.

23

Per una lettura complessiva dell’opera di Greco rimando a ‘La norma effimera. Il cinema di Emidio Greco’, a cura di S. Gallerani, Roma, Museo Nazionale del Cinema, 2009, e a Pensa alla tua libertà. Il

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essenziale che il titolo del racconto lascia immaginare, una scrittura scarna e lineare che fa del testo un concentrato della sua intera produzione, in forma di exemplum amaro e disincantato. Greco ne rispetta il carattere, traducendolo nella rappresentazione neutrale di una Sicilia ordinaria e silenziosa, lontana da stereotipi turistici e di genere: un modo per portare avanti un discorso chiaro, ma privo di ogni enfasi e teatralità. Spazi aperti e silenziosi, masserie in abbandono, piccole stazioni ferroviarie, uffici di polizia semideserti sono i luoghi che danno al film un efficace carattere di antispettacolarità. Una Sicilia polverosa e quasi invernale, che traduce in immagini l’ordinarietà di un mondo chiuso alla giustizia, il carattere necessario dell’omertà e la normalità del male.

Conclusione

Sembra difficile scommettere sull’ipotetico apprezzamento da parte di Sciascia di questi due film. Indubbiamente, l’atteggiamento dell’autore nei confronti del cinema è sempre stato segnato da apertura e disponibilità, sia per la consapevolezza della forte strutturazione narrativa della propria opera,24 sia per una concezione complessiva dell’atto della scrittura, in cui Sciascia vedeva necessariamente un’operazione di rielaborazione del già detto e di emersione del dimenticato:

non è più possibile scrivere: si riscrive. E in questo operare – più o meno consapevolmente – si va da un riscrivere che attinge allo scrivere […] a un maldestro e a volte ignobile riscrivere. Del riscrivere io ho fatto per così dire la mia poetica: un consapevole, aperto, non maldestro e certamente non ignobile riscrivere.25

Anche Amelio e Greco riscrivono. E con le migliori intenzioni, anche se, come abbiamo visto, la rilettura di Amelio accoglie consapevolemente suggestioni di genere, scorciatioie ed effetti che fanno del suo film un testo indubbiamente più vicino agli orizzonti di attesa del grande pubblico che aderente alla tensione concettuale e argomentativa del suo antecedente letterario. Una storia semplice di Greco, si distingue per rigore e accortezza della riscrittura, progetto affrontato quasi tenendo conto delle indicazioni sciasciane: con apertura, attenzione e consapevolezza del valore etico dell’operazione ermeneutica.

24 ‘Ai registi che traggono dei film da alcuni miei libri, mi viene da dire: ma perché fate fare una sceneggiatura, non vedete che il libro è già sceneggiato?’ (L. Sciascia, La palma va a nord, Milano, Gammalibri, 1982, p. 134).

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31 Parole chiave

Sciascia, mafia, adattamento cinematografico, romanzo giudiziario, pena di morte Alessandro Marini si divide tra la Repubblica Ceca, dove è assistente specializzato di letteratura italiana e cinema presso l’Università di Olomouc, e la Toscana, dove vive nel cono d’ombra di una cupola rinascimentale. Si occupa prevalentemente di adattamenti di opere letterarie; in questo ambito ha pubblicato saggi sulle opere di Paolo e Vittorio Taviani, Matteo Garrone, Marco Bellocchio. Attualmente, sta lavorando a una monografia su Prima della rivoluzione, il secondo film di Bernardo Bertolucci, che dovrebbe uscire entro la fine del 2012.

Via Curtatone e Montanara 24 51100 Pistoia (Italia)

ale@volny.cz

S

UMMARY

Sciascia on Screen: Between pamphlet and thriller.

Two

Posthumous Re-readings: Porte aperte and Una storia semplice

This essay treats two adaptations of Leonardo Sciascia’s novels, that, as they appeared soon after the author’s death, stand as a sort of literary memorial to the author: Porte aperte by Gianni Amelio, published in 1990, and Una storia semplice by Emidio Greco, from 1991. The intention is to highlight the original project of transposition from novel to film by means of the structural approach and the analysis of passages that are significant to the screenplay.

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