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Quei due che insieme vanno. Traduzione e commento letterario e traduttivo di The World Was All Before Them di Matthew Reynolds

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Academic year: 2021

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D

IPARTIMENTO DI

F

ILOLOGIA

, L

ETTERATURA E

L

INGUISTICA

C

ORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN

T

RADUZIONE LETTERARIA E SAGGISTICA

TESI DI LAUREA MAGISTRALE

Quei due che insieme vanno

Traduzione e commento letterario e traduttivo di

The World Was All Before Them di Matthew Reynolds

CANDIDATA RELATORE Chiar.mo Prof.

Caterina Cappelli Alessandro Grilli

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Accettiamo responsabilmente i sacrifici, ma non quello dell’intelligenza.

STEFANO BENNI

...è proprio qui sulla Terra la mela proibita e non Dio, ma qualcuno che per noi l’ha inventato

ci costringe a sognare in un giardino incantato.

FABRIZIO DE ANDRÉ, Un blasfemo (dietro

ogni blasfemo c’è un giardino incantato)

Mi ha lasciato in mano questo fiore aperto e vivo senz’acqua e io lo tengo a sfida, ben in alto, perché non diventi mai solo memoria. Mi ha lasciato questo amore incrollabile che c’è nel sentire all’unisono tutte le felicità possibili contate nella parola.

ROBERTO VECCHIONI, Le parole non le

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INDICE

Ringraziamenti 9

Introduzione 11

CAPITOLO 1

DETTAGLI E LIBERTÀ.

COME LA LINGUA COSTRUISCE IL PROPRIO TESTO 16 1. L’autore e il romanzo: un’introduzione 16 2. Tra linguistica e letteratura, la stilistica 23 3. Fenomenologia dei dettagli: la funzione della lingua 25

4. Parole e libertà 30

5. Parlare «di niente» 37

6. L’interconnessione 43

CAPITOLO 2

DA T1 A T2, IN TRE TEMPI.

COMMENTO ALLA TRADUZIONE DI

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1. Prima di tradurre: leggere T1 50

1.1 Alla ricerca della dominante 53

1.2 L1: tipologia, caratteristiche e problemi della lingua di partenza 56

2. Tradurre: come nasce T2 59

2.1 L2, ovvero: come cambia la lingua del traduttore 64

2.2 La lingua, il ritmo, lo stile 65

2.3 Quando non si trova «quasi la stessa cosa» 90 2.3.1 Quali riferimenti intertestuali? 90

2.3.2 Cosa fare dei realia 93

2.3.3 Tradurre il titolo 95

3. Dopo aver tradotto: revisionare 98 3.1 «Sentire» la lingua: hearing, feeling, seeing 98

Nota bibliografica 103

Appendici 111

1. Conversazione con Matthew Reynolds (Oxford, 17 03 2015) 112 2. Matthew Reynolds intervistato da Richard Barnett per Sick City Talks

(Londra, 28 02 2013) 121

The world was all before them. Antologia e proposta di traduzione

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Ringrazio l’Università di Pisa, che attraverso il «contributo di mobilità per la tesi all’estero» mi ha permesso di trascorrere alcuni mesi a Oxford, consentendomi di fare un’esperienza formativa fondamentale per la riuscita di questo lavoro; ringrazio anche le strutture e gli operatori della Bodleian Library di Oxford, del Sistema Bibliotecario di Ateneo e della rete Reanet.

Ringrazio Matthew Reynolds per l’incredibile disponibilità che ha dimostrato nei miei confronti e per essere uno di quelli che «e poi dobbiamo farne di mestieri noi che viviamo della nostra fantasia»: accademico eclettico, essere umano brillante, disarmante autore implicito e l’autore empirico che ogni traduttore vorrebbe avere.

Ringrazio davvero di cuore il mio relatore, il professor Alessandro Grilli, che mi ha dato l’opportunità di lavorare con lui e di mettermi alla prova con questa tesi. Lo ringrazio per il suo indispensabile aiuto intellettuale e spirituale, oltre che per essere la dimostrazione vivente che Nietzsche sulla storia del caos dentro e delle stelle danzanti aveva ragione da vendere.

Desidero ringraziare anche chi, negli anni, interpretando con dedizione e in maniera del tutto peculiare il ruolo di docente, mi ha regalato strumenti, passione, rigore e ispirazione: Anna Rusconi, Aglaia Viviani, Antonio Taddei e Cinzia Biagiotti.

Ringrazio la mia famiglia, i miei genitori e mio fratello, per il loro sostegno umano prima che materiale, e per l’amore di cui a modo loro continuano a ricoprirmi.

Ringrazio tutti coloro che per varie ragioni o scherzi del destino hanno incrociato la mia strada, e si sono sentiti fare bizzarre domande tecniche o la temibile «senti un po’ se ti suona», e hanno sempre risposto con pazienza: le regine di eleganza del threesome sfrante, Caterina Bemer e Simone Bonistalli; le concilianti Irene Bottai, Anna Ferrari e Milly Russo; e poi Denise Latini, Simone Melai, Eleonora Pierini, Carlo Viti e di certo tanti altri ancora.

Ringrazio Giulio, che ha inspiegabilmente deciso di condividere con me gioie e dolori, ansie e soddisfazioni, la casa, la vita e soprattutto la libreria.

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INTRODUZIONE

(ovvero come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare l’eclettismo)

Questo lavoro è dedicato al commento letterario e traduttivo del romanzo The World Was All Before Them di Matthew Reynolds1.

Spoiler alert: il titolo dice già «come va a finire».

*

I due capitoli che compongono questo saggio non avranno carattere metodologico: serviranno piuttosto a raccontare nel dettaglio il lavoro del traduttore/interprete che si trova alle prese con un testo in prosa, che in questo caso specifico è piuttosto complesso sia dal punto di vista linguistico che letterario.

Nel primo capitolo, dopo aver introdotto l’autore e aver contestualizzato il romanzo all’interno della sua – breve – produzione narrativa, mi dedicherò a commentare il testo. La prospettiva da cui prenderò le mosse sarà essenzialmente stilistica, forse non il più affascinante e universalmente produttivo tra i modi dell’ermeneutica2, ma di certo quello che ha influenze più immediate e

fenomenologicamente evidenti su una traduzione. Il punto di partenza del ragionamento è l’idea che ogni idioletto generi un particolare testo, e che debba

essere pertanto preservato in traduzione. Una volta individuati quei tratti

1 M. REYNOLDS, The World Was All Before Them, Bloomsbury, Londra 2013 [tutte le citazioni,

compresi i numeri di pagina, faranno riferimento a questa edizione].

2 È sempre dietro l’angolo il rischio di realizzare l’incubo di Spitzer, che paragona molte tesi di

laurea a macchine da salsicce che hanno come unico effetto quello di triturare l’intera letteratura francese.

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idiolettali (stilistici) che ritengo essere peculiarmente significativi nel romanzo di Reynolds, passerò a delineare, a partire da quelli, alcune linee interpretative che in The World Was All Before Them, oltre a rivestire una grande importanza, vengono anche trattate in maniera interessante e originale. Mi concentrerò, in particolare, sull’aspetto più evidente del romanzo, e cioè l’insistenza ipertrofica sul piano denotativo della lingua, fatto che si estrinseca primariamente nella proliferazione dei dettagli, a cui attribuirò una funzione straniante. Rifletterò su come i personaggi del romanzo usano le parole, che possono alternatamente funzionare come strumento di potere e di oppressione sulle persone, o come strumento attraverso cui l’uomo può liberamente, seppur non necessariamente e di certo con fatica, conoscere il mondo. Individuerò infine un momento della trama in cui si realizza questa opposizione, e rifletterò brevemente su come lo fa.

Questo breve commento letterario sarà anche affiancato da sezioni di natura comparatistica, in cui accosterò al romanzo di Reynolds alcuni testi della letteratura occidentale (in lingua originale, ove possibile), così da disegnare un arco di varianti tematico-formali utili a riflettere, per somiglianza o differenza, sul loro trattamento e sulla loro funzione in The World Was All Before Them3.

3 Mi pare interessante il modo in cui Guido Paduano riflette sulle modalità e sullo statuto della

disciplina detta “letterature comparate”, statuto che definisce difficile e incerto: «Difficile perché, dal momento che i testi in questione, che per ipotesi hanno qualcosa in comune, fondano assai spesso le loro differenze proprio sulla rispettiva adesione a diversi codici linguistici, a chi li studia vengono richieste le competenze relative a tutte le culture in questione (in parole povere il comparatista è un polispecialista e non, neanche in campo linguistico, un dilettante). Incerto perché la denominazione da un lato fa pensare a un compito impossibile come la comparazione tra intere civiltà letterarie; dall’altro sembra volersi arrogare in via esclusiva un metodo che invece è essenziale a qualunque analisi di testi, anche scritti nella stessa lingua. Sarebbe dunque più corretto dire che le barriere linguistiche non costituiscono un impedimento a che il testo sia collocato dentro il reticolo di tutte le sue relazioni, procedimento ermeneuticamente necessario perché la letteratura non nasce dal silenzio e nel silenzio, ma come risposta a un sistema di sollecitazioni omogenee.[…]. Una relazione genetica fra (questi) due testi è impensabile, ma non per questo la loro sovrapponibilità andrà sbrigativamente liquidata come “casuale”: non di caso si tratta a mio parere, ma di una poligenesi sviluppata a partire da condizioni storico-culturali che, pur nella loro incompatibilità, risalgono a matrici comuni […]. Considerazioni di questo tipo sono ai miei occhi di gran lunga preferibili al postulare universali psicologici o antropologici (in linguaggio junghiano, archetipi) capaci di operare con valore metastorico in ogni contesto; ma comunque si costituisca l’invariante, credo che sia prioritario ribadire che verso i macrotesti, siano o no tenuti insieme da relazioni genetiche, il compito del critico letterario è deduttivo piuttosto che induttivo, rivolto cioè principalmente alla valorizzazione delle varianti. [...] mentre infatti l’esame delle differenze si allarga per cerchi concentrici fino al dettaglio, alla parole, alle province tradizionalmente ricche e rispettabili della stilistica o dell’analisi lessicale, quello delle somiglianze insegue a ritroso un’essenzialità e una totalità che al limite coincidono addirittura con l’assenza di significazione» (Cfr. G. PADUANO, Il testo e il mondo. Elementi di teoria della letteratura,

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Il secondo capitolo sarà invece interamente dedicato allʼanalisi della mia traduzione del romanzo: accanto a considerazioni di ordine principalmente linguistico sulla peculiare lingua di partenza e sull’omologa lingua di arrivo, proporrò esempi precisi tratti dall’originale inglese e dalla versione italiana per illustrare e chiarire, ove necessario, quei nodi testuali che hanno richiesto una più profonda riflessione teorica e quei passaggi che, rivelatisi per ragioni diverse particolarmente ostici alla traduzione, possono meglio mostrare qual è il «compito del traduttore», fino a dove il traduttore può e deve spingersi nella sua attività sempre in bilico tra arte, artigianato e mestiere4, in quali trappole è inopportuno

che cada e, al contrario, quando invece è necessario che si assuma dei rischi. Ho volutamente evitato di inserire una specifica sezione dedicata a riflessioni teoriche generali sulla traduzione, in cui esplicitare una volta per tutte quale strategia avessi attuata5: se cioè avessi scelto la strada dello straniamento o dell’invisibilità,

per usare lʼormai canonica dicotomia formulata da Venuti6, che rielabora con

qualche differenza quella ottocentesca di Schleiermacher7. Non l’ho fatto per

esimermi dal prendere direttamente parte a un dibattito che va avanti da più di duemila anni, e di cui peraltro molti vedono i limiti8, ma perché ritengo che la

4 Cfr. F. CAVAGNOLI, La voce del testo, Feltrinelli, Milano 2012, p. 9 e A. WILSON, Translators

on translating. Inside the invisible art, CCSP Press, Vancouver 2009, pp. 23-50.

5 Confesso peraltro che tra le infinite metafore che la lingua corrente impiega per definire

lʼattività del tradurre, questa della strategia, che sposta il testo letterario sul campo di battaglia – quando invece la traduzione è prima di tutto un gesto d’amore nei confronti del testo e del lettore – è quella che trovo meno felice (sulle metafore della traduzione nella storia e sulle loro implicazioni si veda M. REYNOLDS, The Poetry of Translation: from Chaucer & Petrarch to Homer & Logue, Oxford University Press, Oxford 2011).

6 Si veda L. VENUTI, The Translatorʼs Invisibility. A History of Translation, Routledge, Londra

1995.

7 Cfr. F. SCHLEIERMACHER, «Sui diversi modi del tradurre», trad. di G. Moretto, in S. Nergaard,

(a cura di) La teoria della traduzione nella storia, Bompiani, Milano 1993, pp. 143-180.

8 «La sfera della traduzione è da sempre il luogo di una curiosa contraddizione. Da un lato, la si

considera come una pratica puramente intuitiva – metà tecnica, metà letteraria –, che non esige in fondo alcuna teoria, alcuna riflessione specifica. Dallʼaltro, esiste – almeno a partire da Cicerone, Orazio e San Gerolamo – unʼabbondante quantità di testi sulla traduzione, di natura religiosa, filosofica, letteraria, metodologica o – da poco – scientifica. Ora, sebbene numerosi traduttori abbiano scritto sul loro mestiere, era fino ad oggi innegabile che la maggior parte di questi scritti provenisse da non-traduttori. La definizione dei “problemi” della traduzione se lʼaccollavano i teologi, i filosofi, i linguisti o i critici. Ne sono risultate almeno tre conseguenze. Innanzi tutto, la traduzione è rimasta unʼattività sotterranea, nascosta, poiché non si esprimeva in prima persona; inoltre, essa è rimasta come tale largamente “impensata”, poiché coloro che ne trattavano avevano la tendenza ad assimilarla ad altro; a una (sotto-) letteratura, a una (sotto-) critica, a una “linguistica applicata”; infine, le analisi praticate quasi esclusivamente da non-traduttori comportano fatalmente – quali che siano le loro qualità – numerosi “punti ciechi” e non pertinenti» (A. BERMAN, La prova dell’estraneo. Cultura e traduzione nella Germania romantica, trad. di G. Giometti, Quodlibet, Macerata 1997, p. 11).

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riflessione sulla traduzione, per essere davvero feconda, non possa prescindere dalle basi. Nella parte finale di questo lavoro tenterò di fare esattamente questo: mostrare cosa succede, e perché, quando un testo di partenza diventa un testo di arrivo. Sarà necessario sciogliere ed esplicitare, mettendo su carta, i pensieri e le scelte (e le loro conseguenze possibili) che si pongono al traduttore quando ha davanti un testo su cui lavorare e una schermata bianca, scindendo il processo traduttivo nelle sue tre componenti imprescindibili, ovvero la lettura, la traduzione in senso proprio e la revisione: tre processi dalla natura profondamente diversa, ma che hanno la medesima importanza per la buona riuscita del lavoro finito, e richiedono che venga loro prestata la medesima attenzione.

*

Chi sono i due che insieme vanno, quindi? Sono tante cose insieme, a seconda del punto di osservazione, proprio come tutti i segni linguistici, che acquisiscono un significato soltanto quando vengono messi in relazione ai diversi livelli della lingua. Sono senz’altro Paolo e Francesca di Inferno, V, 749, verso che ho rubato a

Dante per farne il titolo della mia traduzione; sono anche Philip e Sue, i protagonisti del romanzo, e allo stesso tempo sono Adamo ed Eva, sia i personaggi protagonisti della Genesi che i protagonisti del Paradise Lost di Milton10, il cui quartultimo verso è servito a Reynolds come titolo per il romanzo.

Riflettendo, però, questo breve saggio parla di molte altre coppie: parla del testo e del suo lettore, dell’autore e del suo traduttore, di un ipotesto e dei suoi ipertesti, più o meno espliciti; parla di letteratura e di linguistica. Che genere di rapporto – e se di un solo genere di rapporto si tratta – esiste tra queste coppie, che all’apparenza potrebbero parere tutte dicotomie antitetiche (e così spesso vengono trattate dalla vulgata corrente, in effetti), è il tema delle prossime pagine.

Le mie non saranno considerazioni generate da una voglia irrefrenabile di reductio ad unum, tutt’altro. Il campo della traduzione, che tanto spazio occupa all’interno di questo lavoro, come attività sia teorica che pratica, è

9 D. ALIGHIERI, Commedia, 1304-1321 (a cura di U. Bosco, G. Reggio, Le Monnier, Firenze

1979).

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indiscutibilmente quello in cui più regna la differenza11, aspetto di cui anche tutte

le altre riflessioni dovranno tenere conto.

Tendo però a preferire – un po’ per attitudine intellettuale e un po’ per quello che ho imparato nella mia (temporalmente limitata) esperienza di vita – quegli approcci che rifiutano la separazione di cose, persone, discipline e di idee, a quelli che invece la rivendicano e la praticano. Cercherò pertanto di non farlo io, ma di servirmi delle sollecitazioni di pensieri e di testi vari che forse, apparentemente, possono «cozzare» tra loro per raccontare un romanzo che già da solo fa dell’eclettismo la propria bandiera.

11 Per il dibattito sul concetto di differenza applicato alla traduzione si veda la sezione

«Deconstructing Translation», in H.J. SILVERMAN, G.E. AYLESWORTH (a cura di), The Textual Sublime. Deconstruction and Its Difference, State University of New York, Albany 1990, pp.

163-202 e S. ARDUINI, R. HODGSON (a cura di), Similarity and Difference in Translation. Proceedings in the International Conference on Similarity and Translation (New York May 31 - June 1 2001), Guaraldi, Rimini 2004.

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