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Certificazione competenze: un castello di carta

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@ 2013 ADAPT University Press

Certificazione competenze:

un castello di carta

di Michele Tiraboschi

Non solo flessibilità e articolo 18. Per contrastare la disoccupazione, soprattutto giovanile, sempre più spesso ci si appella a una maggiore e migliore integrazione tra scuola e lavoro. Non sempre, tuttavia, il quadro normativo si muove in una direzione coerente a questo obiettivo che pure, almeno a parole, è da tutti condiviso.

Emblematico, a questo riguardo, è il recente decreto legislativo sulla validazione degli apprendimenti e certificazione delle competenze approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 11 gennaio in attuazione della riforma Fornero e pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 39 del 15 febbraio 2013 (in appendice).

Il decreto è perentorio nell’affermare che l’apprendimento permanente costituisce un vero e proprio diritto della persona. E che, conseguentemente, le istituzioni dello Stato sono impegnate ad assicurare a tutti pari opportunità di riconoscimento e valorizzazione delle competenze comunque acquisite. Difficile però è capire come ciò potrà realizzarsi visto che il nuovo sistema nazionale di certificazione delle competenze dovrà essere realizzato “senza maggiori oneri per lo Sato”. Non solo. La lettura del decreto – possibile, invero, solo a una stretta cerchia di adepti, dato l’elevato grado di tecnicismo – evidenzia rilevanti

* Professore ordinario di diritto del lavoro, Università degli studi di Modena e Reggio Emilia.

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2 Michele Tiraboschi

www.bollettinoadapt.it

limiti e condizionamenti culturali. In parte provenienti dall’Europa, con la recente raccomandazione del 20 dicembre 2012 (in appendice), e in parte legati a una riforma del lavoro caratterizzata da un forte centralismo regolatorio che relega in secondo piano, proprio sul delicato tema degli apprendimenti e della certificazione delle competenze, i fondi interprofessionali, le agenzie polifunzionali del lavoro, gli enti bilaterali e, quantomeno con riferimento ai percorsi strutturati e intenzionali di formazione in apprendistato professionalizzante o di mestiere, anche le imprese.

Basti pensare che per il decreto legislativo la “formazione formale”, e cioè la formazione strutturata e intenzionale, è unicamente la formazione pubblica ovvero la formazione correlata al riconoscimento di un titolo di studio. In questo modo il provvedimento di recente approvazione confina le competenze acquisite in ambito lavorativo in un secondo piano come se si trattasse di una formazione di serie inferiore rispetto a quella principale acquisita nell’ambito del sistema scolastico e universitario. In una fase in cui si discute delle criticità e dei molti aspetti negativi del valore legale del titolo di studio si delinea insomma un nuovo sistema pubblicistico di certificazione delle competenze e dei saperi, che rischia, proprio perché non calibrato sui profili professionali e sui sistemi di classificazione e inquadramento professionale dei contratti collettivi, di essere lontano dalla realtà del mercato del lavoro e possibile fonte di contenzioso tra lavoratore e impresa.

Evidente è, al riguardo, il rischio del proliferare di inutili declaratorie professionali, definite a tavolino dall’attore pubblico che, oltre ad essere lontane dalla realtà, diventano presto obsolete. Per non parlare dei costi enormi di una simile operazione, come dimostra la disastrosa esperienza dell’ultimo decennio, con tavoli e repertori pubblici delle professioni che non hanno portato a nessun risultato concreto e utile. Più opportuno sarebbe stato ricondurre le qualificazioni e le competenze certificabili al sistema già previsto dal Testo Unico dell’apprendistato, basandole cioè sui fabbisogni professionali espressi dal mercato del lavoro e quindi sui sistemi di classificazione e inquadramento del personale previsti dai contratti collettivi di lavoro a questo scopo, ove necessario, adeguatamente rivisitati.

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