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Metatesi nel dialetto di Suelli (CA) tra fonetica e fonologia.

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INDICE

Ringraziamenti

Introduzione

1) Le lingue della Sardegna 1.1) I dialetti non sardi

1.1.1) Catalano 1.1.2) Ligure 1.1.3) Gallurese 1.1.4) Sassarese 1.1.5) Veneto 1.2) I dialetti sardi 1.2.1) Metafonia 1.2.2) Le vocali paragogiche 1.3) Individuare le varianti del sardo

1.3.1) Il macro-dialetto arborense 1.3.2) Il macro-dialetto nuoresse 1.3.3) Il macro-dialetto logudorese 1.3.4) Il macro-dialetto campidanese 1.4) Il dialetto di Suelli

1.5) Sulla variazione diatopica in diacronia

2) La metatesi

2.1) le metatesi sarde

2.1.1) Metatesi a Lunga Distanza (MLD) 2.1.2) Metatesi locale (ML)

2.1.3) Metatesi dalla Posizione di Coda a quella Iniziale di Parola e Metatesi Sud-Occidentale (MCIP e MSO)

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3) Le consonanti rotiche

3.1) Distribuzione cross-linguistica delle consonanti rotiche

4) Metodologia

4.1) Il sistema di annotazione

5) Analisi acustica

5.1) Esiti di /rː/ in posizione intervocalica 5.2) Esiti di /r/ in posizione intervocalica 5.3) La fonetica dei nessi metatetici in sardo

5.3.1) Il nesso [mr] 5.3.2) Il nesso [sr] 5.3.3) Il nesso [ʦr] 5.3.4) Il nesso [ʧr]

5.3.5) Analisi acustica di alcuni nessi cross-linguisticamente non marcati

5.4) Discussione

5.5) Determinare lo status del vocoide

6) La struttura sillabica metatetica secondo il modello CVCV 6.1) Government Phonology

6.2) Analisi della sillaba metatetica in sardo 6.2.1) Il modello CVCV

6.2.2) la Teoria Coda Mirror

6.2.2.1) La teoria Coda Mirror, seconda versione

6.2.3) La metatesi come frutto di fattori posizionali: la proposta di Lai (2013)

6.2.4) Riflessioni sui nessi marcati [mr] e [sr]

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Ringraziamenti

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1 I dialetti della Sardegna

Lo scopo di questo capitolo è quello di illustrare la composizione linguistica della Sardegna con l’intento di fornire al lettore un quadro dell’evoluzione diacronica del sardo e delle sue varietà diatopiche. Vedremo quindi in rassegna come dalla comune base latina si è giunti alla struttura odierna dei dialetti parlati in Sardegna. Il focus di questo capitolo (come del resto in tutto il testo) è incentrato sui mutamenti fonetici del sardo e come tali evoluzioni abbiano condotto alla struttura linguistica dei dialetti sardi odierni a partire da una comune base lessicale latina.

1.1 I dialetti non sardi

La prima distinzione che deve essere considerata è quella tra dialetti propriamente sardi e dialetti non sardi parlati in Sardegna. Come è ampiamente noto, infatti, non in tutta la regione è parlato sardo.

1.2.1 Catalano

Ad Alghero, cittadina situata a nord-ovest nella provincia di Sassari, si parla una variante del catalano orientale, l’algherese: si tratta di un dialetto a rischio i cui ultimi locutori rimasti sono identificabili, oramai, prevalentemente con gli appartenenti alla fascia d’età più anziana. La lingua di Alguer (nome della città in

alguerés, ‘alghesere’) è stata ampiamente studiata dal linguista catalano Eduardo

Blasco Ferrer1.

1

Per una dettagliata analisi diacronica e sincronica della fonetica, morfosintassi e del lessico di questa variante rimandiamo al suo Grammatica storica del catalano e dei suoi dialetti con speciale

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1.2.2 Ligure

Nell’estremo sud-ovest, invece, e più precisamente sull’isola di San Pietro e a Calasetta, uno dei due comuni amministranti l’isola di Sant’Antioco, situata poco più a sud, è parlato il tabarchino2. Si tratta di un dialetto ligure giunto in Sardegna nel XVIII secolo, più precisamente nel 1738, insieme alle migrazioni di pescatori provenienti originariamente dalla città di Pegli, in Liguria: si stanziarono inizialmente per motivi commerciali nel nord della Tunisia, a Tabarca (da cui il nome del dialetto) e successivamente si trasferirono nelle due isole sarde sopra menzionate, probabilmente ancora per ragioni legate al commercio (Marcato 2002).

1.2.3 Gallurese

Il gallurese3, parlato a nord-est, nei confini della sub-regione della Gallura, è un dialetto affine al corso meridionale con un forte influsso proveniente dai dialetti sardi limitrofi. È stato introdotto in Sardegna all’inizio del diciottesimo secolo, periodo in cui vengono datati i primi documenti letterari scritti in gallurese, costituiti prevalentemente da componimenti poetici. Ciononostante, una più antica documentazione, risalente al periodo bassomedievale, indurrebbe a una nuova datazione della formazione di questo dialetto. Il gallurese è considerato dai parlanti nativi una lingua a sé stante e ne viene rimarcata fortemente la non appartenenza al gruppo dei dialetti del sardo. Tuttavia, il profondo influsso della lingua maggioritaria dell’isola fa sì che, all’orecchio di un parlante logudorese o campidanese (i due macro-dialetti del sardo), appaia come un’altra variante sarda, la cui origine corsa è spessissimo ignorata, a differenza dell’algherese e tabarchino, le cui lingue tetto sono da chiunque riconosciute essere rispettivamente catalano e genovese.

2 Il tabarchino, o tabarchin, è stato studiato prevalentemente da Fiorenzo Toso in “Struttura,

evoluzione storica, aspetti sociolinguistici” (2004).

3

Per un’analisi approfondita del gallurese segnaliamo “Studi storici sui dialetti della Sardegna settentrionale” di Mauro Maxia (1999).

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1.2.4 Sassarese

Nella nostra rassegna, la quarta “isola” linguistica della Sardegna è il sassarese4, o turritano, parlato principalmente nell’omonima sub-regione, a nord-est dell’isola, comprendente l’isola dell’Asinara, Sorso, Porto Torres (da cui il glottonimo “turritano”) e ovviamente Sassari. Si tratta di un creolo a base toscana, corsa e logudorese creatosi, come spesso accade (Turchetta 2009), per necessità commerciali in un’area densamente popolata e costituita da genti di varia provenienza: pisani, liguri, catalani e ovviamente sardi. A riguardo, il linguista tedesco Max Leopold Wagner scrive:

« ... un dialetto plebeo che, secondo tutti gli indizi, si stava formando a poco a poco a partire dal sec. XVI, dopo che varie pestilenze mortalissime avevano decimato la popolazione della città; dei superstiti la massima parte era di origine pisana e corsa, e non mancavano neanche i genovesi. Così nacque quel dialetto ibrido che oggi si parla a Sassari, a Porto Torres ed a Sorso, la cui base è un toscano corrotto con qualche traccia genovese, e con non pochi vocaboli sardi. » (Wagner, “La questione del posto da assegnare al sassarese o gallurese”, in “Cultura neolatina” (1943).

Dal 1997 è riconosciuto ufficialmente dalla Regione Autonoma della Sardegna al pari delle altre lingue e dialetti dell’isola.

1.2.5 Veneto

Degna di nota è infine la situazione di Arborea. Parliamo di un comune situato poco più a sud di Oristano, la cui fondazione risale al periodo fascista, inaugurata precisamente il 28 aprile del 1928 con il nome di Villaggio Mussolini, in cui è presente una fortissima componente veneta discendente dai primi coloni che popolarono la zona. Nel 1944 il nome mutò nell’attuale Arborea, in onore dell’antico giudicato la cui area comprendeva anche il territorio bonificato dal duce, dopo una fase in cui fu ribattezzato Mussolinia di Sardegna5. La situazione sociolinguistica di Arborea è peculiare: i coloni veneti che vi giunsero negli anni

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Rimandiamo al testo di Antonio Sanna, “Il dialetto di Sassari” (1975), per un’analisi approfondita.

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venti non hanno mai avuto grossi rapporti con gli autoctoni sardi dei paesi limitrofi, mantenendo la propria cultura, le proprie tradizioni e festività e soprattutto conservando il proprio dialetto. Le ultime generazioni, anche grazie alla scuola dell’obbligo che, aumentando il numero degli iscritti alle scuole, ha permesso una grande interazione e confronto con ragazzi provenienti dai comuni della provincia di Oristano, hanno visto modificare il proprio dialetto6 soprattutto a causa dell’introduzione di numerosi prestiti dal sardo campidanese e arborense7. Ciononostante, come in passato, nella comunità linguistica di Arborea le varianti sarde non godono di grande prestigio e si tende a preservare, o a ritenere di farlo, il proprio dialetto veneto. Il pesantissimo influsso dell’italiano, come altrove, ha avuto comunque il ruolo di smussare i cardini che tenevano salda la presenza di una variante veneta in Sardegna e attualmente, tra i più giovani, questo dialetto pare destinato a scomparire. Tuttavia, gli anziani e la fascia d’età compresa tra i 45 e i 65 anni circa non parlano una variante sarda, bensì un misto di dialetto veneto e italiano, con qualche prestito proveniente prevalentemente dai dialetti sardi dei paesi limitrofi.

Abbiamo visto in rassegna le cinque varietà linguistiche non appartenenti al gruppo dei dialetti sardi che sono parlate in Sardegna: algherese e tabarchino, rispettivamente dialetti del catalano e del gruppo ligure, sassarese, lingua creola a base sardo-corso-toscana, gallurese, una variante del corso meridionale, e infine l’arborese8, un dialetto veneto introdotto in Sardegna nei primi decenni del Novecento. Nei paragrafi successivi analizzeremo in dettaglio i vari dialetti che compongono il gruppo sardo, analizzandone le differenze fonetiche e, in minor misura, morfologiche e sintattico-lessicali.

6 , ad Arborea, non è affatto raro sentire qualcosa come /eja tɛ gɔ kɔmpratɔ le tegɔlinɛ/ “sì, ti ho

comprato i fagiolini”, in cui si vede il prestito pansardo /eja/ “sì”, una sintassi italiana e lessemi e flessioni verbali tipici del veneto. Il dialetto veneto in Sardegna, per quanto noto all’autore di questa tesi, non è mai stato preso in esame dai linguisti. I suoi locutori si aggirano intorno ai 3500, pressappoco equivalenti al numero di abitanti del comune.

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Uno dei quattro macro-dialetti del sardo (Virdis 1988). Vedi in dettaglio più avanti nel testo.

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1.2 I dialetti sardi

La lingua sarda è tradizionalmente suddivisa in due macro-varianti: logudorese, parlato nel centro-nord della Sardegna, e il campidanese, parlato nelle aree meridionali dell’isola. Tuttavia, Virdis ha proposto una tripartizione che vede aggiungere alle due principali varianti storiche, il dialetto nuorese come entità separata dal gruppo di dialetti logudoresi (Virdis 1978). Successivamente, lo studioso ha ampliato la suddivisione del sardo a quattro macro-dialetti: campidanese, logudorese, nuorese e arborense; quest’ultimo comprende l’area centrale del dominio sardo che si pone al confine tra il gruppo di dialetti meridionali e quelli settentrionali. A questo dialetto verrà dedicato un paragrafo più avanti. D’ora in avanti, fino alla fine del capitolo, ci atterremo alla suddivisione linguistica proposta da Maurizio Virdis (1988) in quanto riteniamo sia, tra le tante proposte in letteratura, quella più completa e puntuale.

Come scrive Virdis (1988), il sardo è stato sempre esente, come lo è tuttora, da un’unitarietà linguistica e, soprattutto, non ha mai goduto di una varietà standard che fungesse, e funga anche al giorno d’oggi, da variante tetto per tutti i micro-dialetti parlati, corrispondenti pressappoco al totale dei comuni della Regione Autonoma della Sardegna. Lo studioso indica però l’esistenza di due varianti sub-standard: una settentrionale, il logudorese comune, e una meridionale basata sul dialetto di Cagliari. Entrambe, ma ognuna nelle rispettive aree geografiche, erano, e in parte sono anche oggi, le varietà “colte” per la poesia e per l’intermediazione linguistica tra Chiesa e popolo e soprattutto, e valido in particolar modo per i dialetti meridionali, come variante veicolare sovralocale (Virdis 1988). L’area campidanese, infatti, è sempre stata più propensa agli scambi economici, culturali e, più banalmente, interumani, a differenza di una maggiore chiusura e un più accentuato senso di appartenenza a sa bidda (“il paese”) dell’area logudorese, fenomeno sociale che è comunque molto vivo anche nell’area campidanofona (n.d.a). Nonostante, come abbiamo detto sopra, ogni comune sardo presenti le proprie peculiarità linguistiche, il sardo ha i propri, e numerosi, tratti comuni che ne

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fanno dunque una lingua (a Cagliari tale variazione è addirittura più fine, con parlate anche abbastanza diverse da quartiere a quartiere: al gruppo di dialetti dei quattro quartieri storici di Castello, Stampace, Villanova e Marina, si oppongono quelli dei quartieri più periferici come San Michele, Is Mirrionis e Sant’Elia, i quali mostrano una fonetica e una sintassi peculiari, sulle quali non ci soffermeremo in questa sede; sociolinguisticamente subiscono gli uni la stigma degli altri, la quale alimenta però il prestigio all’interno delle relative comunità linguistiche, creando un parallelismo abbastanza paritario per cui le due macro-varianti cittadine, la prima considerata diastraticamente alta, la seconda di livello più basso, gravitano intorno a se stesse, condizionandosi reciprocamente ma mantenendosi allo stesso tempo nettamente distinte.

Tratti comuni a tutti i dialetti sardi sono: il mantenimento di I e U brevi latine9 ([ˈpiːlu] < PILUS “pelo”; *ˈpiːra] < PIRA “pera”; *ˈnuːkɛ] log., [ˈnuːʒi] camp. < NUX

“noce”; *ˈdurkɛ] log., [ˈdurʧi] camp. < DULCIS “dolce”10), il complesso fenomeno della metafonesi per cui le vocali medie si innalzano se seguite da vocale alta11 (/ˈkɛːlu/ > [ˈkeːlu+ “cielo”; /ˈbɔːnu/ > [ˈboːnu+ “buono”)12, l’assenza di dittonghi etimologici13 ([ˈpaːku] log., [ˈpaːɣu] < PAUCU “poco”, seppur con qualche eccezione come *ˈlau] <

LAURUS “alloro”14), il quasi totale mantenimento delle vocali atone e delle vocali e consonanti finali15 (in campidanese, tuttavia, in posizione finale di parola le vocali medie si innalzano a vocali alte16), il mutamento di /v/ in /b/ a inizio di parola1718 ([ˈbiːa] < VIA “via”, *ˈbakːa] < VACCA “mucca”)19, l’epentesi vocalica paragogica a fine

di parola quando questa termina per consonante20(/ˈtɛmpus/ > [ˈtempuzu]

9 Wagner (1941:§14). 10

Gli esempi sono tratti da Wagner (1941:§14).

11 Wagner (1941:§15), Virdis (1978). 12 Da Wagner (1941:§15). 13 Wagner (1941:§17). 14 Wagner (1941:§18). 15 Wagner (1941:§27). 16 Virdis (1978). 17 Wagner (1941:§149), Virdis (1978).

18 Fenomeno assente nel dialetto di Bitti (Virdis 1988). 19

L’esito di /v/ in /b/ in posizione iniziale è comune anche all’Iberia, l’Africa e l’Italia meridionale (Wagner 1941:§149).

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“tempo”), l’evoluzione di /lː/ in /ɖː/21 ([ˈbiɖːa] < VILLA “paese, villaggio”22, -s come

morfema del plurale23 (/ˈkani/ sing. /ˈkanis/ pl. “cane/-i”, la realizzazione analitica del futuro e del condizionale espressi con l’ausiliare ai + la preposizione “a” + inf. (ad es. deu appu a bandai “io andrò”), la duratività espressa tramite il verbo essere più il gerundio24 (/sɛu anˈdɛndɛ/, letteralmente “sono andando” per “sto andando”).

Di seguito prenderemo in esame alcuni fenomeni pansardi, come la metafonesi e l’epentesi paragogica, che riteniamo essere rilevanti al nostro lavoro. La metafonesi, infatti, ha portato, almeno in campidanese (associata alla riduzione vocalica a fine di parola alle sole tre vocali cardinali [a], [i] e [u]), alla formazione di coppie minime come [ɔlːu+ “io voglio” e *ˈolːu+ “olio” o *ˈbɛːni+ “bene” e *ˈbeːni+ “vieni”, imp. (Virdis 1978, Bolognesi 1998). L’inserimento vocalico paragogico, fenomeno anch’esso abbastanza complesso, d’altro canto impedisce che una parola, almeno al livello superficiale, termini in consonante.

1.2.1 Metafonia

Il sistema vocalico del sardo è costituito, fonologicamente, da cinque qualità vocaliche: la vocale bassa centrale [a], la medio-bassa anteriore [ɛ], la medio-bassa posteriore [ɔ], le vocale alta anteriore [i] e la posteriore [u]. Per effetto della matafonesi, tuttavia, le due vocali medio-basse si innalzano rispettivamente a [e] e [o] se seguite da una vocale alta ([i] e [u]). Gli esempi sotto illustrano la sistematicità di questo fenomeno25:

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Wagner (1941:§346).

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Segnaliamo che la pronuncia retroflessa va perdendosi in favore di un’articolazione più anteriorizzata, ossia un’occlusiva alveolare sonora *d+, n.d.a.

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Virdis (1978, 1988).

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Virdis (1988).

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[ˈpotːu+ “porto”, nome maschile singolare, contro *ˈpɔtːa+ “porta”, nome femminile singolare26; *ˈnou+ “nuovo” contro *ˈnɔa+ “nuova”; *ˈfemina+ “donna” contro *ˈfɛsta]27 “celebrazione”; *niˈedːu+ “nero” contro *niˈɛdːa+28 “nera”.

Gli esempi mostrano come le vocali alte postoniche causano l’innalzamento delle vocali toniche medio-basse a vocali medio-alte. Esistono però delle eccezioni a questo fenomeno, che vedremo essere solo eccezioni apparenti. Nel dominio campidanese, di fatto, esistono lessemi nei quali, nonostante terminino con una vocale alta, non è presente alcun innalzamento della vocale medio-bassa precedente. Sempre dai dati forniti da Bolognesi (1998) cerchiamo di illustrare tali eccezioni. Nel macro-dialetto campidanese infatti abbiamo:

-*ˈdɔmu+, “casa”, invece dell’atteso, e non attestato, **ˈdomu+;

-*ˈfrɔri+, “fiore”, invece dell’atteso, e non attestato, **ˈfrori+;

-*ˈmɛli+, “miele”, invece dell’atteso, e non attestato, **ˈmeli+29.

Se confrontiamo questi dati con quelli di Pittau (1972), e riportati in Bolognesi (1998:19), notiamo un parallelismo per quanto riguarda la vocale tonica e

26 Inoltre, [

ˈpotːu+ “porto” s.m., costituisce una coppia minima insieme a [ˈpɔːtu+ “io possiedo”. Infatti, come vedremo più in dettaglio nel testo, per via della riduzione vocalica a fine parola del campidanese, si riscontrano nel lessico di questo dialetto numerose coppie minime. Si tratta però di un fenomeno di superficie: al livello soggiacente, non vi è nessuna riduzione da cinque a tre vocali in posizione finale di parola e questo è visibile grazie alla metafonia, la quale tiene conto, appunto, delle vocali etimologiche e non si attiva con le vocali alte emerse per via della riduzione a fine di parola.

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Bolognesi (1988), basando il suo lavoro sul dialetto di Sestu, considera la sibilante preconsonantica /s/ una fricativa pre-palatale sorda [ʃ]. Noi preferiamo invece trascrivere tale fonema come [s], in quanto la sua palatalizzazione è un fenomeno ristretto a un sub-dialetto particolare del campidanese, ossia il dialetto di Sestu e alle parlate dei quartieri periferici di Cagliari (vedi sopra nel testo). Nelle altre varianti il fenomeno è assente.

28 Anche qui abbiamo scelto di modificare la trascrizione fonetico-fonematica adottata da Bolognesi

(1988) per quanto riguarda la cacuminale: come accennato sopra nel testo, la realizzazione di /lː/ latina come occlusiva retroflessa sonora geminata è un fenomeno che attualmente pare non essere più attestato e si riscontra piuttosto, in sua vece, l’occlusiva alveolare sonora *dː].

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Ancora una volta ci discostiamo dalla trascrizione di Bolognesi (1998): nel suo testo vediamo in luogo della nostra laterale intervocalica /l/ una fricativa uvulare sonora [ʁ], evoluzione della laterale scempia intervocalica latina nel dialetto di Sestu, oggetto del suo studio, il quale rientra nel dialetto campidanese centrale (Virdis 1978). Noi preferiamo trascrivere secondo la variante sub-standard meridionale di cui si è parlato sopra nel testo, la quale vede invece il mantenimento della laterale.

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un’asimmetria in luogo della vocale finale (in questa posizione, campidanese e logudorese mostrano qualità vocaliche differenti). I dati di Pittau concernono il dialetto di Nuoro (o, più generalmente, il logudorese) e perciò abbiamo:

-*ˈdɔmɔ+ “casa”, *ˈfrɔrɛ+ “fiore”, *ˈmɛlɛ+ “miele”.

Comparando i due macro-dialetti, con il primo che prevede la riduzione a un sistema trivocalico a fine parola, fenomeno assente nel secondo, diventa subito chiaro il perché la metafonia non si attivi in queste parole del lessico campidanese: la vocale che dovrebbe fungere da trigger dell’innalzamento è, al livello soggiacente, una vocale medio-bassa e quindi non può azionare il fenomeno pansardo della metafonia. Bolognesi (1988), nel suo account basato sulla teoria

dell’ottimalità (Prince & Smolensky 1993), sostiene che la riduzione vocalica a fine

parola del campidanese sia da attribuire a un vincolo sincronico e, conseguentemente, tutti i casi di metafonia possono essere ricondotti a un fenomeno sincronico di armonia parziale che occorre quando le vocali medio-basse sono immediatamente seguite da una vocale alta soggiacente.

In campidanese inoltre, la metafonia ha anche la funzione di marca morfologica (Loi Corvetto 1983:48), in alcuni casi. In questo dialetto, infatti, esistono alcuni vocaboli che contengono una /s/ a fine parola (facente parte della radice del lessema): /ˈtɛmpus/ “tempo”, /ˈpɛɤus/ “capo di bestiame”, /kɔrpus/ “corpo”, etc. Al livello superficiale, la forma plurale di queste parole è praticamente identica a quella singolare, dato che la marca del plurale –s è “coperta” dalla /s/ etimologica. L’unica differenza tra il plurale e il singolare di questi termini risiede nel grado di altezza della vocale tonica: avremo una vocale medio-alta, [e] o [o], nel singolare, mentre è riscontrata una vocale medio-bassa, [ɛ] o [ɔ+, nel plurale. L’innalzamento vocalico nel singolare, che prevede che la forma di superficie delle parole sopra elencate sia *ˈtempuzu+, *ˈpeɤuzu+, *ˈkropuzu+30, non è attestato nella forme al plurale, dando

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Oltre al timbro della vocale tonica, in questo esempio, la differenza tra la forma soggiacente e quella di superficie riguarda anche la posizione di /r/ all’interno della sillaba: dalla posizione di coda si sposta fino a diventare il secondo elemento di un attacco complesso. Ciò avviene per via della

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luogo a una serie di apparenti eccezioni alla metafonia. Se però confrontiamo i lessemi campidanesi con i corrispettivi logudoresi/nuoresi, la situazione diventa subito cristallina: nei dialetti settentrionali, “i sostantivi che terminano in –u sono maschili e il loro plurale è in –os”31. La vocale medio-bassa nel morfema del plurale maschile non attiva la metafonia della vocale tonica e, perciò, la qualità della vocale in superficie è in questi casi identica a quella soggiacente. Questo avviene con tutte le parole terminanti in –u che presentano una vocale medio-bassa in sillaba tonica e addirittura con le parole inventate: se a un qualsiasi parlante sardo venisse chiesto di declinare al plurale una parola di fantasia come, ad esempio, <bretu> la quale sarà pronunciata con una vocale medio-alta, quindi *ˈbretu+, questo dirà sicuramente *ˈbrɛtuzu] se gli venisse chiesto di marcare tale parola al plurale. Al momento non esiste uno studio sulla metafonia nelle parole inventate, almeno per quanto noto all’autore.

Mura e Virdis (2015) ampliano la gamma di fonemi che attivano l’innalzamento delle vocali medio-basse. Nel loro account, oltre alle vocali alte [i] e [u], il set di segmenti che azionano la metafonia è esteso alle consonanti palatali [ʤ], [ɲ] e [j], come appare dai seguenti esempi presi da Mura & Virdis (2015):

1) *ˈleʤːa+ “brutta”, e non **ˈlɛʤːa+32; 2) *isˈterʤɔzɔ+ “stoviglie”, e non *isˈtɛrʤɔzɔ]; 3) *ˈoɲːa+ “ogni”, e non *ˈɔɲːa+.

Secondo Mura & Virdis, infatti, la “chiusura” articolatoria delle consonanti palatali, ossia il fatto che nell’articolare questi suoni la mandibola diminuisca il volume del cavo orale per permettere alla lamina della lingua di accostarsi alla zona centrale del palato, determina conseguentemente la chiusura delle vocali medio-basse adiacenti (sia precedenti che seguenti questa classe di consonanti). Nel loro testo leggiamo che per le altre consonanti palatali [ʧ], [ʃ] e [ʒ] non è stato possibile determinare il

metatesi di /r/, fenomeno già citato nel testo e che verrà ampiamente discusso nel capitolo successivo, nonché dalla vocale paragogica la cui qualità rispecchia quella della vocale precedente.

31

Pittau (1972:67) in Bolognesi (1998:21).

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Anche se, stando alla competenza linguistica (plausibilmente opinabile) di parlante nativo dell’autore, in questo caso la vocale medio-bassa tonica non subisce l’innalzamento.

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loro effettivo potere metafonetico in quanto “nel lessico di frequenza non esiste alcuna parola che includa queste tre consonanti nei contesti in cui si dovrebbe presentare l’adeguamento vocalico”; è tuttavia ipotizzata una risposta affermativa a tale quesito in quanto, nell’italiano parlato da sardi, “feccia” e “rovescia” vengono realizzate come [ˈfeʧʧa+ e *roˈveʃʃa] (Mura & Virdis 2015).

Inoltre, se il fenomeno della metafonia è riflesso anche nell’italiano regionale di Sardegna33, il quale, a differenza del sardo, ha nel suo inventario fonematico la laterale palatale [ʎ+, questo suono dovrebbe azionare anch’esso la metafonia. Di fatto pare che sia così: la vocale tonica in “meglio”, in italiano standard, è aperta (o medio-bassa), contrariamente alla realizzazione di un parlante nativo sardo che modulerà la stessa vocale come medio-alta (*ˈmeʎːɔ]), sicuramente per influsso della palatale [ʎ].

Abbiamo visto come, in italiano regionale di Sardegna, le vocali medio-basse che precedono un suono palatale si innalzano a medio-alte. Talvolta però ci sono delle divergenze tra l’italiano parlato da sardi e il sardo vero e proprio. È il caso della parola “coscia”, la quale è realizzata come *ˈkoʃːa+ nell’italiano parlato da sardi, ma /ˈkɔʃːa/ nello standard. Potrebbe stupire osservare che l’equivalente sardo di questo lessema è realizzato invece con una vocale medio-bassa [ɔ+, come in *sːaˈɣɔʃːa+ “la coscia”34.

Siamo dunque di fronte a una evidente asimmetria. Abbiamo detto che la metafonia è un fenomeno che fa parte sia del sardo (nessuna variante esclusa), sia dell’italiano parlato in Sardegna. Ciononostante, abbiamo appena visto che, nel caso di “coscia”, in sardo la metafonia è assente, mentre pare essere attiva nella forma in italiano come è parlato da sardofoni. Se il trigger della metafonesi è il tratto [+PALATALE], per

quale motivo si hanno due esiti differenti? Una possibile soluzione potrebbe risiedere nell’evoluzione diacronica di questi suoni. Il termine per indicare la parte

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Mura & Virdis (2015:27).

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Non siamo in possesso di dati empirici relativi alla realizzazione fonetica di questa parola, pertanto l’analisi è basata sulla percezione dell’autore: un parlante nativo di sardo campidanese.

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degli arti inferiori umani soprastante il ginocchio deriva dal latino COXA. Come

vediamo, nell’originale parola latina non sono presenti suoni palatali, perciò, nel passaggio da CS a /ʃ/, in sardo, la metafonia non ha potuto avere luogo per via

dell’assenza di un trigger (il passaggio a [ʃ] deve essere relativamente recente, o comunque posteriore alla comparsa del fenomeno della metafonesi). Ma, quando un parlante sardo utilizza il codice italiano, la metafonia ha luogo perché qui, al livello soggiacente (e anche superficiale), è presente un suono palatale, quindi

trigger dell’innalzamento vocalico. La medesima riflessione può essere associata

anche al caso di *ˈbɛʧa+ “vecchia”: *ˈbɛʧa] deriva dal latino VET(U)LA(M),in cui non è

presente alcun suono palatale e di conseguenza non è attestato l’innalzamento di [ɛ] a [e]. Anche la fricativa pre-palatale sonora [ʒ+, stando all’account proposto da Mura & Virdis, dovrebbe attivare il fenomeno. Se ciò non accade potrebbe essere dovuto al fatto che tale suono è assente nella forma soggiacente del sardo (è assente in logudorese, essendo un’innovazione campidanese). Un esempio può essere dato da *ˈbɔʒi+ “voce”: qui la metafonia è assente perché sia la fricativa pre-palatale sonora [ʒ], sia la vocale alta anteriore [i] non sono presenti nella forma soggiacente della parola, la quale è, per l’appunto, /ˈbɔɣɛ/ (equivalente alla forma logudorese-nuorese in cui sono assenti i fenomeni della palatalizzazione delle velari di fronte a /i/ e /ɛ/ e della neutralizzazione vocalica a fine di parola di /ɔ/ e /ɛ/, assimilatesi in campidanese in [u] e [i]). Se la trascrizione fonetica di /ˈlɛʤʤa/35 “brutta” fornita da Mura & Virdis (2015:28) è effettivamente erronea, ossia la sua realizzazione prevede che nella sillaba tonica la vocale sia medio-bassa [ɛ] e non medio-alta *e+, come l’autore di questo testo riterrebbe che sia, l’innalzamento vocalico di /ɛ/ potrebbe non occorrere in quanto nell’etimologia di questo termine sono assenti elementi palatali: la parola sarda per “brutta” deriva dal catalano “letja”, la cui forma fonologica è approssimativamente /ˈlɛʧa/; è presente dunque una palatale che dovrebbe attivare la metafonia. Tuttavia, il catalano “letja” deriva dall’antico occitano “laid” o “lag”36, in cui erano assenti suoni palatali (se si esclude

35

Che, ricordiamo, è trascritta con una vocale medio-alta: [ˈleʤʤa].

36

(16)

16

la “i” in “laid”37). Possiamo per questo motivo ipotizzare che al tempo in cui il prestito catalano entrò nel lessico del sardo la sua forma non includeva una consonante palatale o una vocale alta?38 Forse; restano tuttavia ancora altri casi inspiegati: [ˈbɔʧʧa+ “palla” dal catalano <botxa>39, in cui il digramma <tx> sta per l’affricata palatale sorda *ʧ]40, quindi con un suono articolato nel palato e presente in diacronia. L’equivalente italiano “boccia” è invece realizzato con una vocale medio-alta posteriore *o+. C’è sicuramente bisogno di ulteriore ricerca in questo senso.

Parrebbe, dunque, che l’elemento che attiva la metafonia sia di fatto la palatalità delle consonanti (e l’altezza delle vocali), ma solo se *+PALATALE] e [+ALTO] sono tratti

dei fonemi nella forma soggiacente della parola. Ovviamente, queste sono solo considerazioni dell’autore di questo studio e hanno perciò bisogno di dati empirici (registrazioni di parlanti nativi) per essere verificate. Mura & Virdis (2015:53, nota 19) ipotizzano che in realtà potrebbe avere un ruolo attivo la grafia di queste parole nell’attivare la metafonia. Per quanto concerne la differente realizzazione delle vocali medie da parte di sardofoni nella parola italiana “pesce” *ˈpɛʃːɛ], con una vocale tonica medio-bassa, e nel toponimo “Pescia” *ˈpeʃːa+, infatti non è chiaro perché nel secondo caso la vocale media si innalzi a [e]. I due autori teorizzano che la <i> grafemica, che qui non ha nessun valore fonetico, possa influenzare la rappresentazione mentale della parola portando il locutore a fare un’analogia con le altre parole in cui invece la <i> è foneticamente realizzata. Questo, a nostro avviso, concilierebbe con le varie asimmetrie che abbiamo illustrato sopra: la rappresentazione mentale dei vocaboli sardi non è condizionata dalla grafia, non esistendo di fatto una grafia ufficiale per il sardo.

37

Non sappiamo come la parola fosse realizzata foneticamente.

38 È opportuno però riconoscere che questa ipotesi appare, in primis all’autore, molto forzata. 39

Secondo l’etimologia del dizionario online di Rubattu alla pagina web http://www.antoninurubattu.it

40

(17)

17

Per concludere, seguendo Mura & Virdis (2015), possiamo dire che nel sardo meridionale (campidanese) vengono attivate in successione le seguenti regole (9a e 9b nel testo di Mura & Virdis 2015:27):

a) Metafonesi. Le vocali medio-basse si innalzano a vocali alte quando seguite da vocale alta o consonante palatale;

b) Innalzamento vocalico. Le vocali medio-basse si innalzano a vocali alte quando si trovano a fine di parola.

La metafonia si rivela dunque, almeno nelle varietà meridionali, un’ottima spia per individuare la qualità vocalica soggiacente.

1.2.2 Le vocali paragogiche

Un altro fenomeno comune a tutto il dominio del sardo implicato nell’alterazione delle forma soggiacente della parola fonologica è quello delle vocali paragogiche. Le vocali paragogiche, ossia vocali inserite post-lessicalmente, hanno lo scopo di evitare che una parola termini con una consonante. Bolognesi (1988) si riferisce alle vocali epitetiche del sardo in fine di parola come a vocali eco (echo-vowels, Bolognesi 1998:46) in quanto la loro qualità è una copia della vocale che le precede, quindi della vocale in sillaba finale. Per via della loro posizione nella parola e della loro assenza nella parola fonologica, queste vocali sono molto meno intense delle vocali etimologiche e la loro realizzazione varia dalla stessa forza delle vocali atone lessicali, fino a un mormorio appena udibile (Bolognesi 1998:46).

La loro funzione è quindi quella di riparare una struttura sillabica malformata in sardo: questa lingua non ammette consonanti in fine di parola (a parte alcune parole funzionali come /kun/ “con” e /in/ “in”). In sardo le parole che terminano in consonante non sono poche. Oltre ad alcuni lessemi monomorfemici, come /ˈmɛlːus/ “meglio”, /ˈtɛmpus/, “tempo”, /ˈpɛɣus/41 “capo di bestiame”, etc., la morfologia verbale è ricca di desinenze consonantiche ereditate dal latino (<-s>,

41

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della 2° pers. sing., <-t>, della 3° pers. sing., <-aus>/<-eus>, <-ais>/<-eis>, <-ant>/<-int> della prima, seconda e terza pers. plurale, rispettivamente); infine, rientrano tra le parole con consonante in posizione finale tutti i sostantivi e gli aggettivi plurali, essendo marcati dal morfema <-s>.

Alla fine di queste parole, come abbiamo detto, viene aggiunta una vocale eco (paragoge), dopo la consonante finale in modo tale che il lessema termini per vocale: questo accade in posizione finale di parola quando si trova al confine tra due sintagmi, a fine di frase o in elicitazione di parole singole o quando la frase è costituita da una sola parola. Abbiamo accennato al fatto che la funzione di questi segmenti vocalici è quella di riparare una struttura mal formata. Per chiarire cosa si intende con “struttura mal formata” è necessario introdurre i concetti di

Faithfulness e Wellformedness42. I primi a parlare di vincoli di Fedeltà e di Buona Formazione della parola sono stati Prince & Smolensky (1993) quando presentarono per la prima volta la Teoria dell’ottimalità43. OT si basa sulla tesi per cui gli output fonologici, ossia le parole così come vengono realizzate fisicamente e che arrivano al nostro orecchio, emergono in una determinata forma, e non un’altra, per via dell’interazione di due classi di vincoli, Faithfulness e Wellformedness, che operano al momento della produzione fonetico-fonologica. La prima classe di vincoli si assicura che l’output sia il più possibile “fedele” all’input, ossia alla forma soggiacente della parola; i vincoli di Buona Formazione d’altro canto si occupano di modificare l’input in modo tale che, quando emergerà, sia costituito da una struttura “ben formata”, ossia che rispetti le regole fonologiche di una determinata grammatica.

Sono state avanzate diverse critiche all’approccio teorico di OT. Come osserva Carvalho (1997), tra gli altri, i vincoli di Buona Formazione sono da intendersi come mere riformulazioni dei fatti osservati espressi in termini ad hoc. L’autore fa l’esempio del vincolo Onset (ossia: “le sillabe hanno un attacco”), introdotto da Prince & Smolensky (1993), il quale non deriva da un principio indipendente ma

42

“Fedeltà” e “Buona Formazione”.

43

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dalla semplice osservazione che le sillabe che hanno un attacco sono cross-linguisticamente preferite rispetto a quelle che non ce l’hanno. Perciò, vengono considerate come non-marcate perché rispettano il vincolo Onset e il vincolo Onset è la condizione necessaria affinché queste siano non-marcate. Si tratta di un’affermazione circolare per cui A è vero (non-marcato) se è vero B (vincolo Onset) e B è vero perché è vero A (ossia perché A è considerato non marcato).

In questa sede è importante però osservare come la parola soggiacente venga alterata fino a raggiungere la forma di superficie che un parlante effettivamente produce; nel processo di alterazione, l’input viene modificato in modo tale che rispetti i vincoli imposti dalla grammatica di una determinata lingua, nel nostro caso del sardo; i vincoli sono inseriti in una gerarchia, la quale varia di lingua in lingua. L’inserimento paragogico è un vincolo quindi di Buona Formazione, vincolo che possiamo chiamare *Consonante finale44.

Gli avverbi e sostantivi sopra elencanti che terminano con consonante al livello soggiacente emergono infatti come [ˈmelːuzu], [ˈtempuzu] [ˈpeɣuzu] e lo stesso accade per le forme verbali come, ad esempio, /isːuˈandat/ “lui va”, realizzato come [isːuˈandaða] e /tuɛˈkastjas/ “tu guardi”, che emerge con la forma *tuiˈɣastjaza].

Il primo effetto di tale fenomeno è l’aumento del numero di sillabe della parola. Infatti, la consonante che nella forma soggiacente si trova nella posizione di coda a fine di parola va a formare una nuova sillaba il cui nucleo è costituito dalla vocale paragogica, post-lessicale. Inoltre si riscontra la lenizione della consonante soggiacentemente in coda, lenizione che si manifesta con la fricativizzazione e, nel caso si tratti di consonante sorda, con la sonorizzazione del segmento. Gli esempi sotto tratti da Bolognesi (2008:46) illustrano quanto sopra:

a) /isːu si salˈvat fɛndɛ kɔziˈtːɛdːas/ , letteralmente “(lui) si salvava facendo cosettine”, con il significato di “(lui) sbarcava il lunario facendo dei piccoli lavori”, è realizzato come *isːu zi zalˈvaða vɛndi ɣɔzitːɛdːaza];

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b) /si arːamanˈgat is pantalːɔnɛs/, “si tirava su i pantaloni”, che emerge come [sːarːamaŋˈgaða s pantaˈlːɔ izi]

La vocale in grassetto negli esempi è la vocale paragogica inserita post-lessicalmente. Come si vede, il segmento occorre tra i confini sintagmatici e a fine di frase e aumenta di uno il numero di sillabe nelle parole in cui è presente. Contestualmente notiamo la lenizione delle ostruenti adiacenti alla paragoge, le quali, essendo scempie e venendosi a trovare in contesto intervocalico, si fricativizzano (se occlusive) e sonorizzano (se sorde); il fenomeno colpisce anche le ostruenti in posizione iniziale nella parola che segue: si tratta dunque di un tipo di inserimento vocalico fonologicamente visibile45, diversamente da altri tipi di epentesi vocaliche che non sortiscono effetti alla struttura sillabica, come vedremo nei capitoli successivi.

Un’altra strategia di riparazione messa in atto per evitare una coda sillabica a fine parola è l’assimilazione regressiva. Vediamo sotto un esempio (Bolognesi 1998:47):

a) /sːu prɔpriɛˈtːariu dːis dɔˈnat pilːɔnɛdːɔs apːɛna ˈnaʃːɔs/, “il proprietario dava loro dei pulcini appena nati”, realizzato come: *sːu βrɔpːiɛˈtːarju dːiz ɔˈna pːilːɔˈnɛdːuzu].

Qui in grassetto è segnata la consonante rafforzata. La geminazione è un effetto dell’assimilazione regressiva di /-t p-/ > [pː]. In fine di frase invece si riscontra l’inserimento epitetico. In Bolognesi (1998) si sostiene che l’assimilazione regressiva sia la strategia di riparazione regolare, o meno marcata, dell’incontro consonantico all’interno dei confini sintagmatici.

Più complesso è il trattamento di /s/ a fine parola. In questa sede ci limiteremo a citare i processi principali. Se seguito da una ostruente sorda, all’interno di un sintagma nominale, nessuna riparazione ha luogo. La regola è violata solamente dall’affricata palatale sorda [ʧ+: /s/ cade e l’affricata digrada in *ʃ]. Se è seguito da

45

Per una definizione di “visibilità fonologica” rimandiamo al capitolo 5 di questa tesi e al testo in cui viene introdotto tale concetto: “Phonological patterns of vowel intrusion”, Hall, 2006.

(21)

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un’ostruente sonora, /s/ cade e la consonante adiacente si lenisce (sonorizzazione e fricativizzazione). Sotto alcuni esempi:

a) Mantenimento: /dɛɔ kustas ˈkɔzas dːas biˈrɛmɔ/, “(io) vedevo queste cose”, [dɛu kustasˈkɔzaza dːaza birɛmu].

b) Coalescenza: /ɛ ndi bˈɛsːit a is ʧinku dɛ a mɛnˈʤanu/, “e esce alle cinque del mattino”, [ɛ ndi ˈɛsːið a i ˈʃːiŋku di a mɛɲˈʤanu].

c) Caduta: /is ˈbraβɛis ʤai dːazas ˈtɔkːɔ dɛɔ/, letteralmente “le pecore già le tocco io”, con l’accezione di “mi occuperò io delle pecore”, *i ˈβraβɛj ʤɛ dːazas ˈtɔkːu ɛu].

1.3 Individuare le varietà del sardo

Con l’obbiettivo di delimitare diatopicamente le varietà sarde, Virdis (1988) propone il criterio della “sovrapposizione tendente alla coincidenza di due o più fenomeni linguistici” per identificare una varietà in base a determinati fenomeni linguistici in opposizione a quelli di altri dialetti. Ad esempio, l’area in cui le velari latine si sono mantenute coincide quasi perfettamente con l’area caratterizzata da un sistema pentavocalico a fine parola; l’area linguistica che vede invece la palatalizzazione delle velari latine è associata, in quasi tutta la sua superficie, anche dal fenomeno della riduzione vocalica a fine parola. Stabilito questo criterio, egli prosegue con la gerarchizzazione delle isoglosse secondo i seguenti parametri:

-parametro spaziale: le isoglosse che comprendono un’area maggiore avranno più rilievo e assumono maggiore rilevanza se tendono a coincidere con altre isoglosse;

-parametro storico-comparativo: le isoglosse caratterizzate da un fenomeno di conservazione, opposte a quelle relative a un fenomeno di innovazione, avranno più importanza;

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-parametro strutturale: alle isoglosse che comprendono l’area in cui sono diffusi due o più fenomeni linguistici affini o strutturalmente collegabili verrà attribuito maggior rilievo.

Sulla base dei parametri sopra elencati, Virdis (1988) procede con l’individuazione delle isoglosse fondamentali, ossia quelle con maggiore estensione geografica. Tra quelle di grandissimo rilievo abbiamo l’isoglossa che individua l’area del mantenimento di /k/ e /g/ prima di vocale anteriore /ɛ/ e /i/ e che si oppone all’area in cui le valeri della parola etimologica si sono palatalizzate davanti a suddette vocali. Sotto, alcuni esempi (da Virdis 1988) illustrano tale divergenza.

-CAELU(M):*ˈkelu+ “cielo”, nei dialetti settentrionali, *ˈʧelu] in quelli meridionali;

-CENTU(M):[ˈkentu+ “cento”, al nord, *ˈʧentu] a sud;

-LUCE(M):[ˈlukɛ+ o *ˈluɤɛ+ “luce”, nella macro-area logudoro-nuorese, *ˈluʒi] in quella

campidanese;

ACINA(M):[ˈakina+ o *ˈaɤina+ “uva”, a settentrione, *ˈaʒina] a meridione.

Questa isoglossa suddivide il territorio sardofono in due metà pressoché identiche: una a nord e l’altra a sud. L’area a nord è l’unica della Romània46 a mantenere le velari etimologiche del latino.

La stessa area, settentrionale, è caratterizzata, inoltre, da un sistema pentavocalico a fine di parola, differente dall’area meridionale che vede invece un sistema trivocalico in cui /ɛ/ e /ɔ/ si sono fuse a /i/ e /u/, rispettivamente. Vediamo sotto alcuni esempi.

-CANE(M):[ˈkanɛ+, a nord, *ˈkani+ a sud.

-BENE:[ˈbɛnɛ+, nei dialetti logudoresi e nuoresi, *ˈbɛni], in quelli campidanesi;

-FLORE(M):[ˈfrɔrɛ+ / *ˈfjɔrɛ] opposto alla variante meridionale *ˈfrɔri];

46

Il termine indica l’area di diffusione delle lingue romanze, sia attuali che esistite in passato e ora estinte, come, ad esempio, l’afro-romanzo |inserisci info da fanciullo|.

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-EGO:[ˈdɛɤɔ] / [ˈdɛɔ] a nord, [dɛu] a sud.

Per questo tratto, l’innovativa area meridionale è associata ai dialetti del sud d’Italia e del sud della Corsica (Virdis 1988). Esistono altre isoglosse, la cui area è equivalente a quelle succitate, come ad esempio quella che neutralizza il genere nel plurale dell’articolo determinativo e quella che lo mantiene. A nord, tale neutralizzazione è assente e abbiamo infatti /sɔs/, articolo determinativo maschile plurale, e /sas/, articolo determinativo femminile plurale; a sud non esiste tale distinzione e abbiamo un unico morfema sia per il genere maschile che per il genere femminile: /is/ (Virdis 1988). Una terza isoglossa che divide in modo uguale le aree menzionate sopra è quella relativa all’esito delle labiovelari latine. L’area a nord è contraddistinta dall’esito in *bː+, in contrapposizione all’area meridionale che vede invece mantenute le articolazioni labiovelari del latino [kw] e [gw]. Vediamo sotto alcuni esempi.

-AQUA: [ˈabːa+ vs. *ˈakːwa+, il primo è l’esito settentrionale, il secondo quello

meridionale;

-EQUA:[ˈɛbːa+, del logudorese e nuorese e *ˈɛɣwa] del campidanese;

-SANGUEN:[ˈsambɛnɛ+ a nord, *ˈsaŋguni+ a sud;

-LINGUA: [ˈlimba] a settentrione, [ˈlingwa] a meridione.

Un’altra isoglossa molto importante è quella relativa al mantenimento delle occlusive sorde intervocaliche che riguarda la Barbagia, il Nuorese e buona parte della Baronia. Questa si oppone al resto delle varianti sarde in cui le consonanti occlusive sorde si leniscono e mutano in fricative sonore (Virdis 1988). Quest’area riguarda quasi lo stesso territorio dell’isoglossa relativa al mutamento di CJ- e TJ- in

[θ] ([ʦ] negli altri dialetti), fricativa dentale sorda, e di quella che vede il dileguo di [f] a inizio di parola, mantenuta invece nelle altre aree (Virdis 1988).

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Figura 1. Mappa delle sub-regioni storiche della Sardegna (www.nurnet.it)

Con il metodo della sovrapposizione delle isoglosse sono state quindi riconosciute tre zone: una meridionale (campidanese), una orientale (nuorese) e una nord-occidentale (logudorese). Queste tre aree sono quelle a cui comunemente, in letteratura, si fa riferimento quando si tratta di identificare i principali dialetti del sardo. Tuttavia, in Virdis (1988) vengono individuate altre isoglosse che delimitano altre aree linguistiche come, ad esempio, quella da lui definita arborense, di cui già abbiamo parlato sopra e che vediamo più in dettaglio nel paragrafo successivo.

1.3.1. Il macro-dialetto arborense

Abbiamo accennato più volte all’esistenza di un quarto macro-dialetto, individuato da Virdis (1988) e da lui denominato arborense, in quanto comprendente buona parte del territorio occupato in passato dal Giudicato di Arborea, nell’area centro-occidentale dell’isola. Per Virdis, questo macro-dialetto è identificabile grazie alla

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distribuzione di tre isoglosse: quella relativa agli esiti dei nessi CJ- e TJ latini, del

nesso LJ- e dell’evoluzione di /l/ intervocalico.

Innanzitutto è opportuno procedere con la delimitazione delle isoglosse sopra menzionate. Nel farlo, ci atterremo al lavoro di Virdis (1988). I nessi latini TJ- e CJ-, in

sardo, hanno intrapreso la stessa direzione evolutiva; dai nessi etimologici si riscontrano oggi cinque esiti differenti:

1) L’affricata alveolare *ʦ] è riscontrata nella maggior parte del dominio campidanese e in una vasta area situata a nord-ovest di esso, quindi nelle sub-regioni del Montiferru, Mandrolisai, del Marghine meridionale, più precisamente nei comuni di Borore e Dualchi, fino alla Barbagia occidentale, nei comuni di Sedilo, Olzai e Ovodda;

2) l’affricata palatale *ʧ+ è l’esito che si ha nella Barbagia meridionale, a Desulo, e nel Sinis;

3) la sibilante alveolare sorda geminata [sː+ è l’esito in Ogliastra;

4) la dentale sorda [t] invece è il risultato del mutamento che si ha nel dominio logudorese;

5) infine, la fricativa dentale sorda [θ+ è l’esito che si ha in nuorese.

Per quanto riguarda invece l’isoglossa relativa agli esiti del nesso LJ-, abbiamo i seguenti risultati: una laterale alveolare geminata [lː+ in quasi tutto il dominio campidanese e in una zona a nord di esso, definita come arborense meridionale; l’affricata palatale *ʤ+, in gran parte dell’Ogliastra, nella Barbagia meridionale; la fricativa pre-palatale [ʒ+ nell’arborense orientale e in alcuni comuni del Nuorese; l’affricata alveolare *ʣ+ si ha invece nell’arborense settentrionale, in nuorese e in logudorese; infine la laterale palatale [λ] e il nesso [lʤ] caratterizzano alcuni centri ogliastrini.

La terza isoglossa in questione è parallela a quella appena analizzata: si tratta dell’esito di -L- latina in posizione intervocalica. Infatti, dove questo suono si evolve

in [l], laterale alveolare, il nesso LJ- è mutato nei suoni affricati [ʤ] e [ʣ]; dove,

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evolve in una serie di suoni diversi ma caratterizzati tutti dal tratto [+grave]47, ossia da foni articolati nelle zone periferiche dell’apparato fonatorio. Questi suoni sono: la fricativa bilabiale sonora [β+, l’approssimante labiovelare *w+, la fricativa uvulare sonora [ʁ+, l’occlusiva glottale, o colpo di glottide, [ʔ], un nesso composto da un elemento velare sonoro e un suono approssimante labiovelare [g(w)]. Per Virdis (1988), la perifericità di tali esiti presupporrebbe lo status di velare dell’originale laterale latina. Il sardo, infatti, tende a evitare un’opposizione tra scempie e geminate e perciò le aree in cui il nesso LJ- è mutato in una laterale rafforzata, la

laterale intervocalica si è evoluta cambiando modo di articolazione ma conservando il tratto [+grave].

Il macro-dialetto arborense viene dunque identificato con quella zona centro-occidentale del dominio sardo in cui convivono l’area che vede mantenute le velari *k+ e *g+ del latino davanti alle vocali anteriori e l’area dove i nessi CJ- e TJ- si sono

evoluti in [ʦ+, con l’esclusione dei comuni di Olzai e Ovodda che invece vengono annessi al nuorese con il quale hanno molti più tratti in comune: la caduta di [f] iniziale, il mutamento di *k+ in un’occlusiva glottale *ʔ] e il mantenimento di [p] in posizione intervocalica.

Virdis considera la situazione appena descritta come un contrasto strutturale sia a livello intra-linguistico che extra-linguistico. Lo studioso, per spiegare la presenza della palatalizzazione da una parte e del mantenimento delle velari dall’altra, sostiene che la zona dell’Arborea abbia avuto una prima fase evolutiva in comune con il campidanese: l’affricata alveolare sorda *ʦ] sarebbe un esito molto antico (la palatalizzazione (o, meglio, l’affricazione) dei nessi in questione è comune a tutta la Romània e avrebbe causato la palatalizzazione delle velari di fronte a vocali anteriori, Virdis (1988)) e già ben radicato nella fonologia di questo dialetto al tempo in cui si optò per i suoni velari [k] e [g] in opposizione alle loro controparti palatali di altri dialetti. La fascia arborense è una zona identificata in negativo, ossia è un’area che comprende alcuni tratti propri delle varietà meridionali, ma non di

47

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quelle settentrionali, e viceversa possiede caratteristiche fonetico-fonologiche dei dialetti logudoro-nuoresi che son assenti in campidanese. È un’area particolare in cui in si intrecciano più varianti diatopiche e fortemente caratterizzata da contrasti strutturali. Riassumendo, i tratti principali di quest’area sono:

1) La compresenza della palatalizzazione dei nessi CJ- e TJ- in [ʦ] e della

non-palatalizzazione delle velari di fronte a [ɛ] e [i];

2) La presenza degli esiti in affricata [ʣ] derivati dal nesso LJ- contestuale al

mutamento di -L- nei vari suoni caratterizzati dal tratto [+grave]: [β], [w],

[ɣ(w)], [ʁ], [ʔ] (in contrapposizione al mantenimento della laterale, in altri dialetti, articolata però nella regione alveolare);

3) La riduzione, a fine di parola, alle sole tre vocali [a], [i] e [u];

4) La neutralizzazione del genere nell’articolo determinativo plurale (qui /is/, contro /sɔs/ e /sas/ dei dialetti settentrionali);

5) La prostesi vocalica davanti alla vibrante etimologica a inizio di parola; 6) La prostesi di [i] davanti ai nessi costituiti da sibilante più consonante sC; 7) La caduta della nasale alveolare intervocalica [n] e conseguente

nasalizzazione della vocale che la precede.

Virdis (1988) ritiene che i contrasti e le stratificazioni elencati sopra potrebbero essere una conseguenza di accadimenti storico-linguistici che hanno assunto in questa zona configurazioni proprie, frutto di dinamiche molto particolari. Per il linguista sardo, i contrasti e le stratificazioni sarebbero in buona parte dovuti a questioni extra-linguistiche. Anche oggigiorno, questa zona, più di altre, è emblematica dello scontro tra la cultura contadina e quella pastorale (Virdis 1988).

1.3.2 Il macro-dialetto nuorese

Il nuorese (o meglio, i dialetti nuoresi) è spessissimo associato al dialetto logudorese48 per via dell’alto tasso di conservatività che li accomuna. Il gruppo di

48

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dialetti del nuorese, però, rispetto al gruppo logudorese, presenta maggiori arcaicità e una maggiore conservazione della fonetica latina.

In questo gruppo dialettale, le occlusive latine -P-, -T-e -K-non digradano in fricative

sonore come nelle altre aree sardofone. Dagli esempi in Virdis (1988) si può vedere come, in quest’area, la lenizione in posizione intervocalica non ha mai luogo: questo vale per la posizione intervocalica all’interno di parola e in fonosintassi.

1) posizione intervocalica all’interno di parola:

FOCUS:[ˈfoku], a differenza delle altre varianti *ˈfoɣu];

NEPOTE(M): [nɛˈpɔtɛ], contrariamente a [nɛˈβɔðɛ], log., e [nɛˈβɔði],

camp.

2) posizione intervocalica in fonetica sintattica:

*sːaˈtɛrːa+ “la terra”, contro *sːaˈðɛrːa+ delle altre varianti sarde; *isːuˈpɔnɛtɛ+ “lui mette”, in opposizione a *isːuˈβɔnɛðɛ], log. e [isːuˈβɔniði], camp.

Il nuorese costituisce un gruppo di dialetti molto compatto per quanto riguarda la conservatività ma che, ciononostante, presenta una variazione diatopica relativamente alta. Virdis (1988) sostiene che in “quest’area è assente, o quasi, qualunque processo tendente all’unificazione e, qui forse più che altrove, le varianti locali tendono a diventare fattori di identificazione comunitaria”.

In linea con questo sostenuto sopra, è possibile infatti suddividere il dominio nuorese in tre sub-aree, le quali si differenziano per il grado di mantenimento delle tre occlusive [p], [t] e [k] intervocaliche.

1) Sub-varietà settentrionale: le tre occlusive sorde sono mantenute tali e nessun processo di lenizione (sonorizzazione e fricativizzazione) è osservato. Quest’area comprende la sub-regione storica della Baronia, i comuni di Lula, Bitti e Lodè.

2) Sub-varietà centro-occidentale: vengono mantenute solo le occlusive sorde [p] e [k], mentre la dentale [t] è mutata in [ð], salvo quando -T(-) è la

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desinenza verbale della terza persona singolare. Si tratta dell’area che include il capoluogo di provincia Nuoro e i comuni di Orani, Orune, Sarùle, Oniferi e Orotelli (Paulis 1984).

3) Sub-varietà meridionale/orientale: qui solo [p] non subisce dei processi di digradazione. Le altre due occlusive sorde [t] e [k] sono mutate in [ð] e [ʔ], rispettivamente. Il colpo di glottide occorre anche nei nessi consonantici. Un caso a parte, che si discosta parzialmente dall’evoluzione intrapresa dai vari dialetti delle tre sub-aree appena elencate, è quello di Dorgali. Qui, l’occlusiva sorda bilabiale [p] si fricativizza, ma non sonorizza, in [ɸ+; l’occlusiva dentale (o alveolare) sorda [t] si sonorizza e fricativizza in [ð+ quando intervocalica e all’interno di parola ma rimane sorda, seppur subendo un processo di fricativizzazione, se si trova in posizione intervocalica in fonetica sintattica ([ˈmuðu+ “muto” a differenza di [sːaˈθɛrːa+ “la terra”); l’occlusiva velare *k] si laringalizza in [h]. Questo dialetto, dunque, prevede la lenizione delle occlusive sorde intervocaliche ma, diversamente dagli altri dialetti, non presenta alcun processo di sonorizzazione. Inoltre, la fricativa labiodentale sorda [f] è soggetta a caduta quando si trova in posizione iniziale di parola: tende a riemergere, però, quando, in fonetica sintattica, è preceduta da consonante (*sːuˈohu+ “il fuoco”, *sɔrˈfɔhɔzɔ+ “i fuochi”). Questa indica che è presenta nella forma soggiacente della parola.

1.3.3 Il macro-dialetto logudorese

Tra i quattro macro-dialetti o principali gruppi dialettali del sardo, il logudorese è quello che sociolinguisticamente gode di maggior prestigio tra la comunità linguistica sardofona. Considerazione che è basata sul preconcetto, linguisticamente di valore nullo, per cui la variante logudorese sia “il vero sardo” o “il sardo originale”. Ovviamente, affermazioni del genere non hanno un riscontro nella realtà dei fatti linguistici, in quanto ogni variante deriva dalla medesima matrice lessicale latina, la quale, a seconda del luogo (in modo diverso quasi per ogni comune), ha

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preso differenti linee evolutive originando quella che oggi è una finissima variazione diatopica. Ciononostante, l’alta considerazione che si ha in Sardegna del dialetto logudorese ha tuttavia un grosso impatto, sociolinguisticamente parlando. Infatti, è per questo motivo che è stato scelto come base morfo-lessicale della Limba Sarda Comuna49: si tratta della lingua proposta dalla Regione Autonoma della Sardegna come “lingua franca” all’interno dell’isola, la lingua delle istituzioni e degli atti politici e dell’amministrazione. I tratti principali di questa proposta di standardizzazione linguistica sono la tendenza all’uniformità fonologica e morfologico-lessicale, quindi la tendenza a eliminare le irregolarità (ad esempio nelle declinazioni verbali) nonché compattare le varie regole e processi fonologici che, come abbiamo visto finora, sono soggetti a grandissima variazione diatopica. Il logudorese, sicuramente per le ragioni a monte, ha da sempre l’egemonia sulla poesia, sulla letteratura e in generale negli usi artistici della lingua (situazione che negli ultimi anni sta mutando per via della “riscoperta” delle varietà campidanesi, §1.3.5, come gruppo dialettale “non da meno” dovuto all’emergere di numerosissimi artisti musicali provenienti principalmente dal cagliaritano e che hanno scelto il proprio dialetto, meridionale appunto, come lingua delle loro canzoni; tra gli artisti che hanno intrapreso la battaglia politica di valorizzazione delle varietà meridionali ricordiamo, tra gli altri, Joe Perrino, Claudia Aru e Dr Drer50). In realtà, lo stesso Virdis, in “Cronodiatopia sarda” (2014), scrive a favore di una base storico-culturale per giustificare lo status di prestigio di cui gode il dialetto logudorese: il linguista sardo rianalizza le due principali e più comuni varietà sarde (dialetti meridionali vs. dialetti settentrionali) come aventi, storicamente, la medesima diffusione diatopica e la loro differenziazione era piuttosto di natura diafasica e diastratica51.

49

http://www.regione.sardegna.it/documenti/1_72_20060418160308.pdf

50

Su sardu alfabetu, “l’alfabeto sardo”, di Dr Drer è un vero e proprio manifesto dell’ “orgoglio” campidanese (o meglio della sub-varietà cagliaritana) nelle cui liriche, l’autore condanna chi non usa i corretti lessemi attribuiti alla varietà meridionale, confondendoli con italianismi e/o equivalenti lessicali degli altri dialetti sardi.

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Tornando a questioni più prettamente linguistiche, il logudorese può essere suddiviso in tre principali aree.

Il logudorese centrale. Questa variante, storicamente, ha svolto la funzione di codice linguistico standard o sub-standard (Virdis 1988). La sua estensione geografica va dalla sub-regione storica della Planargia52, a occidente, fino al comune di Posada, nel versante orientale; comprende, inoltre, la zona di Bonorva-Giave, quella di Pattada-Buddusò e infine la zona di Monti-Berchidda. A Olbia, cittadina situata a nord-est e caratterizzata negli ultimi due decenni da una forte crescita demografica ed economica, è parlato logudorese (centrale), nonostante il centro si trovi all’interno del dominio gallurese. Questa sub-varietà è caratterizzata da:

a) iotacizzazione della liquida etimologica /l/ nei nessi con ostruente labiale, /pl/ e /fl/: PLUS >[ˈpjus], FLORE >*ˈfjɔrɛ];

b) evoluzione del nesso CL nell’affricata alveolo-palatale sonora [ʥ]: COMPLERE >

*CLOMPERE > *ˈʥɔmpɛrɛ+ “arrivare, raggiungere”, CLAVE(M) > *ˈʥaɛ+ “chiave”, OCULU(M)> OCLU(M)>[ˈoʥu+ “occhio”;

c) condensazione del nesso triconsonantico SCL nella fricativa alveolo-palatale

sorda [ɕ]: MASCULU(M)> MASCLU(M)>*ˈmaɕu+ “maschio”.

d) lambdacizzazione della consonante rotica nei nessi del tipo rC: PORCU > [ˈpolku+ “maiale”, FORTE >[ˈfɔltɛ+ “forte”, MORTE >[ˈmɔltɛ+ “morte”.

Logudorese sud-orientale. Si intende l’area coperta dalle sub-regioni storiche del Marghine e del Gocèano. In quest’area è assente il fenomeno della lambdacizzazione di /r/ nei nessi consonantici (vedi sopra). Al contrario, e analogamente alle varietà campidanesi e nuoresi, è (o è stato) attivo il fenomeno della rotacizzazione di /l/ in posizione pre- e postconsonantica. Si associa alle altre varietà logudoresi per quanto riguarda l’evoluzione dei nessi TJ e CJ in [t] e il

digradamento delle occlusive sorde in posizione intervocalica in fricative sonore. Virdis (1988) riporta i seguenti esempi:

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a) PLUS >[prus+ “più”;

b) FLORE > [ˈfrɔrɛ+ “fiore”;

c) CLOMPERE > *ˈkrɔmpɛrɛ+ “raggiungere, arrivare”;

d) MORTE > *ˈmɔrtɛ+ “morte”;

e) SALTU > *ˈsaltu+ “campagna”.

Logudorese nord-occidentale. Questo sottogruppo dialettale è distribuito lungo l’area situata a nord-ovest dell’isola. Non comprende ovviamente l’area sasserese e la regione dell’Anglona gallurese. Il confine orientale è delimitato dal fiume Coghinas, mentre quello meridionale passa per una linea immaginaria che va da San Nicolò Nughedu, nella sub-regione storica denominata Monteacuto, a Monteleone Roccadoria, nell’entroterra algherese, a sud della provincia di Sassari.

Il gruppo dialettale in questione è caratterizzato dai fenomeni elencati di seguito.

a) Assimilazione di S, R, L + [k] in [xː+, ossia in una fricativa velare sorda

geminata: PORCU(M) > *ˈpoxːu+; PISCE(M) > *ˈpixːɛ].

b) Assimilazione di S, R, L + [g] in [ʒː+, una costrittiva post-alveolare sonora geminata, “fortemente fricativa” (Paulis 1984): LARGU(M) > *ˈlaʒːu+; ALGA(M) > *ˈaʒːa+.

c) Assimilazione di S, R, L + [t] in [ɬ(t)], una fricativa sibilante laterale sorda accompagnata da un’occlusiva dentale sorda o, talvolta, con una completa assimilazione in cui il segmento dentale [t] non è più udibile (Paulis 198453):

MORTE(M) > [ˈmɔɬ(t)ɛ]; FORTE(M) > [ˈfɔɬ(t)ɛ].

d) Assimilazione di s, r, l + [d] in [ɮ(d)], una fricativa sibilante laterale sonora seguita, talvolta, da una occlusiva dentale sonora: LARDU(M) > [ˈlaɮ(d)u], it.

/solˈdato/ > [sɔɮˈ(d)aw].

e) Assimilazione di s, r, l + [p]/[b] in [i pː+/* i bː+, semivocale palatale seguita da un’occlusiva bilabiale sorda e sonora, rispettivamente (Paulis 1984): CULPA(M)

> *ˈkui pːa+, CORPUS > [ˈkoi pːuzu+, BARBA(M) > [ˈbai bːa+, SPINA(M) > [ipˈpina].

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f) Assimilazione di s, r, l + [ʣ] in [ʑː], fricativa alveolo-palatale sonora geminata: HORDEU(M) > *ˈorʣu+ > *ˈoʑːu+ “orzo”, varia > *ˈarʣa] > [ˈaʑːa+

“tarantola”.

In comune con il logudorese centrale, invece:

g) Palatalizzazione dei nessi PL e FL in [pj]/[fj], dove la laterale

post-consonantica diventa un legamento palatale.

h) Palatalizzazione del nesso CL in [ʥː+, affricata alveolo-palatale sonora

geminata: OC(U)LU(M) > [ˈoʥu+ “occhio”.

i) Palatalizzazione del nesso scl in [ɕː+, fricativa alveolo-palatale sorda geminata: MASC(U)LU(M) > [ˈmaɕːu+.

In letteratura, nell’arco di quasi un secolo e mezzo, sono state avanzate teorie diverse e estremamente discordanti per spiegare gli esiti originatisi dall’assimilazione dei nessi S, R, L + consonante: Spano (1840) e Bottiglioni (1919)

ritenevano che tali suoni erano un retaggio del sistemo fonetico del sostrato paleo-sardo (quindi del periodo pre-latino); Wagner (1941), d’altro canto, propone l’intervento del superstrato pisano durante il Medioevo per spiegare la loro occorrenza; infine, Paulis (1984) sostiene che il fenomeno sia indigeno e, dal punto di vista diacronico, relativamente recente.

1.3.4 Il macro-dialetto campidanese

Il quarto e ultimo macro-gruppo dialettale che prenderemo in considerazione è il gruppo dei dialetti campidanesi, ossia l’insieme di codici linguistici parlati nella metà meridionale della Sardegna (escluso ovviamente il dialetto tabarchino, di origine ligure). La quadripartizione che abbiamo illustrato è, ricordiamolo, basata sulla suddivisione proposta da Virdis (1988) che riteniamo essere la più accurata tra le tante avanzate in letteratura. Riteniamo, infatti, che una partizione più fine, che tenga conto anche delle peculiarità di alcune aree centrali, le quali sono sempre state di difficile classificazione (includendo tratti dei dialetti settentrionali, ora di

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