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Cosa c’è dietro la satira. Intervista a John Niven

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Academic year: 2021

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Scrivi, maledetto, che altro sai fare?” – è la citazione di Joyce che leggiamo in ben netto stampatello come motto di Kennedy Marr, l’esuberante scrittore protagonista del secondo romanzo di John Niven tradotto da Marco Rossari per Einaudi, Maschio

bianco etero (2014; nell’originale inglese Straight White Man, 2013). Si tratta di un campus novel ambientato tra l’America delle esagerazioni (letterarie e mondane,

sessuali e alcoliche) e il più composto, ma non troppo, paesaggio di un college inglese, dove Marr approda dopo avere vinto un prestigioso premio letterario. In mezzo, tra le due parti e i due paesi (e poi, sostanzialmente, ovunque) c’è la morte, che trasforma tutte le prospettive e cambia i più prevedibili significati, che rende più pesante la frivolezza e più leggero ogni orgoglio intellettuale.

Il primo romanzo, invece, A volte ritorno (2012; The Second Coming, 2011), è la bizzarra e umoristica storia del ritorno di Cristo sulla Terra – o meglio, a New York, – in un’umanità infestata da fanatismi, pregiudizi e odio, inquinamento e genocidi, alla quale il Messia lancia un ultimo, dissacrante ma potentissimo, messaggio d’amore, dopo che il primo semplice comandamento (“fate i bravi!”) non è stato rispettato.

John Niven, nato nel 1976 a Irvine in Scozia, ha una laurea in letteratura inglese e, come si ricava anche dai molti spunti di dialogo e dalle citazioni di Maschio bianco etero, è appassionato lettore di Joyce, Nabokov, Fitzgerald, Orwell, Saul Bellow, Graham Greene e Bret Easton Ellis. Negli anni novanta ha lavorato nell’industria musicale inglese e internazionale, dedicando a questo mondo disordinato ed effervescente i suoi primi romanzi: Music from Big Pink (2005) e Kill Your Friends (2008), quest’ultimo definito tra i migliori romanzi inglesi degli ultimi anni dopo Trainspotting, e da cui ora viene tratto il film, una dark comedy di cui lo stesso Niven è sceneggiatore. A questi sono seguiti The Amateurs (2009) e Cold Hands (2012), oltre ai due romanzi che leggiamo in italiano.

Più ancora che la satira sociale, però, l’aspetto più interessante dei romanzi di John Niven è l’incandescente rapporto tra scrittura e vita, in una continua tensione – quasi orfica – tra creazione e distruzione trattata sotto il segno dell’ironia e del paradosso. Persino Dio, in A volte ritorno, è un creatore che ha qualcosa dello scrittore. E pazienza se, per raccontare, si gioca con i peggiori clichés cinematografici e mediatici, perché quel che basta è rovesciarli: “Nelle risse da bar, come in ogni altra forma d’arte, l’importante è evitare in luoghi comuni”. Quel che conta è cercare di riportare alla luce qualche relitto di umanità tra le macerie, dopo la distruzione, di cui la letteratura è complice e antidoto al tempo stesso (“La letteratura aiutava. Era tutto lì sulla pagina, l’opera di uomini che avevano distrutto l’amore”, leggiamo in Maschio bianco etero; “Forse questa era una buona definizione di quello che facevano gli scrittori: ripulivano quella camera dai resti umani […] Cercavano di trovare l’oro in mezzo all’orrore e poi lanciavano i cadaveri sopra la pira. Il «cubetto di ghiaccio dentro il cuore» a cui si riferiva Graham Greene?”). Che cosa si può fare dopo avere distrutto la vita e l’amore? Oltre a ubriacarsi, nient’altro che scrivere.

Intervista a John Niven

L: In questo suo secondo romanzo, “Maschio bianco etero”, che segue la

fortunata pubblicazione di “A volte ritorno”, lei sembra allontanarsi in parte dai temi affrontati in precedenza. Qui è presente una sorta di gioco di specchi rifrangenti, ovvero lei sembra voler mettere in scena un vero e proprio rapporto ironico tra lei come scrittore e il suo personaggio.

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Quanto c'è di Niven in Kennedy? Questa domanda potrebbe essere una trappola per lettori ingenui, ma a me è parso di vedere delle corrispondenze sospette...

N: Sì, io ho giocato con Kennedy e ho giocato con le armi dell’esagerazione. Lui è molto più di me, si muove con disinvoltura a Hollywood e ha avuto tutto quello che si può desiderare: denaro, carriera, donne, sregolatezza, divertimento senza responsabilità. Ha davvero fatto fortuna. Naturalmente, però, è un personaggio che ho reso paradossale. E l’ho caricato così tanto per usarlo come lente d'ingrandimento per catturare quello che sta dietro di lui. Infatti, oltre al glamour, c'è dell'altro.

L: “Il sospetto d'altro” come diceva Camus. Infatti lei usa molti stereotipi,

come sesso, droga, sballo, tutto ciò che comporta una vita condotta verso l'eccesso per guardare oltre. Ma quello che colpisce molto e che commuove è il senso, spesso stridente, della vita, dell’amore e della morte, al di là della frivolezza. Molto interessante il contrasto che nasce tra il livello di lettura superficiale e quello più profondo.

N: Il mio personaggio, Kennedy, ha molti talenti, come scrittore e come seduttore. Ama molto la vita, ma non ne è schiavo. Perché guarda alla morte in senso materialista: laddove c’è lei, non ci sono io. Certo, rispetto ai vent’anni e ai trenta, alle soglie dei quarant’anni si vive una crisi molto profonda: è un’età in cui – come ha scritto Saul Bellow – si perde l’equilibrio: tutto sembra diventare più opaco, più difficile e incomprensibile.

L: Si può parlare di autofiction?

N: sì, per questo romanzo è meglio parlare di autofiction che di autobiografia per l’ironia e il taglio satirico che ho cercato di dare.

L: La morte, appunto, è una presenza importante nel romanzo. In

particolare la morte della sorella del protagonista, Geraldine, cambia il punto di vista e le prime aspettative del lettore. Ed è qui che cogliamo la profondità del personaggio.

N: Il contrasto tra vita e morte, nel romanzo, si manifesta nell’emergere dei ricordi traumatici su Geraldine, ma dipende anche dal fatto che il protagonista è uno scrittore. Sente di dover distruggere parte della sua vita, ma è come se si trattasse di un sacrificio inconsapevole. Questa è la ragione per cui molti scrittori, come Kennedy, bevono: per prendere una vacanza da se stessi e dai ricordi lasciati da coloro che non ci sono più, per avere la sensazione di liberarsi da quell’ingombrante desiderio di vita e dalla paura della morte.

L: in questo senso la relazione tra arte e vita è uno degli aspetti che

colpiscono di più nei suoi romanzi, perché si tratta di un rapporto costruttivo e distruttivo al tempo stesso. Ciò rivela anche una notevole autocritica. Sono evidenti due posizioni contrastanti, una forma di umanesimo contrapposto ad un antiumanesimo.

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N. Sì, ed è il segno della potenzialità infinita della scrittura che supera i confini tra realtà e arte e sperimenta questo sconfinamento. Come diceva Nabokov riprendendo Joyce, tra vita e arte è come una partita di ping-pong. Ma c’è anche un rapporto magico, alchemico che coinvolge più livelli di realtà e più ambiti artistici. Io lavoro anche per il cinema ed ho cominciato con la musica. Sono abituato ad avere a che fare con forme diverse!

L. Nel suo romanzo è interessante lo stile. Noi lo leggiamo nell’ottima

traduzione di Marco Rossari, che riprende il suo modo ironico e paradossale, molte contemporaneo, e ci dà l’idea di una satira sul mondo. Ma che cos'è per lei la satira? Possiamo parlare di satira contemporanea per i suoi romanzi come per quelli, ad esempio, di Saul Bellow?

N: non ho scritto satire in senso stretto, ma la satira per me si riferisce all’eccesso caricaturale. Quel che interessa è l’oggetto della satira, che spesso sfugge alla visione comune. Ad esempio, ho cercato di descrivere sotto il segno dell’esagerazione due ambienti che si prestano molto alla satira, anche se a volte non sono considerati da questo punto di vista: quello musicale e quello accademico. Nella musica ho lavorato a lungo. Il mondo dei campus, poi, dove si muovono passioni forti come odio, invidia, scandali morali con accenti spesso comici, è un terreno privilegiato anche per altri autori contemporanei. Quando vediamo persone di una certa età attirate da persone più giovani, oppure persone intellettualmente molto impegnate che si abbandonano ai più bassi istinti soprattutto sessuali, si verifica quello che ho cercato di mostrare nel romanzo. E anche lo stile risente di questa mescolanza tra alto e basso.

L.: Di questo mi ha anticipato che parlerà anche suo prossimo libro.

N.: nel prossimo romanzo intendo raccontare di alcuni pensionati che vanno a rubare in banca... Sarà sempre scritto intrecciando più livelli, usando l’esperienza che mi arriva dal cinema e dalla musica, appunto. Si ambienterà nel mondo musicale in modo un po’ rocambolesco e comico. L.: Anche il suo romanzo “A volte ritorno”, giocata sul personaggio

umano di Cristo, è costruito e scritto in modo paradossale. C’è anche una presa di posizione piuttosto severa contro la chiesa. Ma qual è la sua idea della religione?

N.: se si vive a Los Angeles, si capisce che la religione americana è molto eterogenea e, in molti casi, poco ortodossa. Ognuno cerca di farsi un’idea di Gesù sua personale, in genere molto umana. La polemica contro la chiesa, però, dipende da altri fattori e ha anche influenzato molto le traduzioni del mio romanzo. Proprio in Italia, ad esempio, ho incontrato molti uomini di fede che hanno compreso che il messaggio del romanzo in realtà non era contro la religione, ma contro l’ipocrisia.

L.: Che cosa rende un libro grande?

N.: Soltanto il tempo, il confronto con altri libri, con altre opere. 3

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