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Risk reporting e il settore finanziario: impatto dei big data.

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA' DI PISA

Dipartimento di Economia e Management

Corso di Laurea Magistrale in

CONSULENZA PROFESSIONALE ALLE AZIENDE

TESI DI LAUREA

RISK REPORTING E IL SETTORE FINANZIARIO:

IMPATTO DEI BIG DATA

Candidato: Diego Gauditano

Relatore: Prof. Marco Allegrini

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INDICE

INTRODUZIONE ...

p. 1

CAPITOLO I

COMUNICAZIONE ECONOMICO-FINANZIARIA: VOLUNTARY

DISCLOSURE E REPORTISTICA DEL RISCHIO

1. Introduzione ... p. 9 2. Comunicazione economico-finanziaria: definizioni ... p. 10 3. Evoluzione dell’informativa economico-finanziaria ... p. 12 3.1. Domanda di informazione ... p. 14 3.2. Offerta di informazione ... p. 16 3.2.1. Informativa obbligatoria... p. 17 3.2.2. Informativa volontaria ... p. 20 4. Costi e benefici dell’informativa volontaria ... p. 23

CAPITOLO II

IL RISCHIO DI IMPRESA: GESTIONE DELL’INFORMAZIONE

1. Aspetti introduttivi ... p. 29 2. Il rischio d’impresa: aspetti generali ... p. 30 3. I rischi e il sistema bancario ... p. 32 3.1. Come costruire il RAF? ... P. 33 4. I rischi delle imprese finanziarie ... p. 35 4.1. Risk Appetite: alcune considerazioni ... p. 38 5. La documentazione in tema di rischi ... p. 39 5.1. IFRS 7 e Commentary Management ... p. 40

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CAPITOLO III

BIG DATA AND RISK MANAGEMENT

1. Premessa... p. 45 2. I big data: prime considerazioni ... p. 46 3. Genesi e sviluppo dei big data ... p. 47 4. Definizioni ... p. 48 5. Vantaggi dei big data nel Risk Management ... p. 52 6. Aspetti controversi sui big data (cenni) ... p. 56 7. Visione integrata del rischio: tra sistemi di gestione e reportistica ... p. 57 8. Risk data aggregation and reporting ... p. 59 8.1. I Principi ... p. 60 8.2. Progressi nell’adozione dei Principi ... p. 66

CAPITOLO IV

ANALISI ECONOMICO-FINANZIARIA IN TEMA DI RISCHIO:

UK G-SIB E BCBS 239

1. G-SIB: definizione ... p. 71 2. Qualche informazione sul nostro campione ... p. 73 3. Principi 1 e 2: Overarching Governance and Infrastructure... p. 75 4. Risk data aggregation capability: i Principi in tema di accuratezza e integrità, completezza. tempestività e adattabilità ... p. 86 5. Reporting practices: i Principi in tema di accuratezza, esaustività, chiarezza ed utilità, periodicità, diffusione nella comunicazione aziendale ... p. 91 6. Qualche riflessione finale ... p. 95

CONCLUSIONI ...

p. 99

NOTA BIBLIOGRAFICA

...

p. 101

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1

INTRODUZIONE

Nel Gennaio 2013 è stato emanato da parte del Comitato di Basilea per la Vigilanza Bancaria il

Framework dal titolo “Principles for Effective Risk Data Aggregation and Risk Reporting” che

ha lo scopo di indicare quattordici Principi volti alla raccolta, all’analisi e alla comunicazione di dati in tema di rischio aziendale1.

Com’è noto infatti negli ultimi anni, a seguito del susseguirsi di crisi economiche e instabilità finanziarie, l’azione del legislatore e degli Organi di Vigilanza si è concentrata sulle pratiche di gestione del rischio (con interventi sia di natura quantitativa che qualitativa) da parte delle banche, e nella conseguente attività reportistica, anch’essa lambita dall’intervento del Comitato. Queste, e nello specifico le cd. (Global Systemically Important Banks), naturali destinatarie dei Principi, hanno a disposizione una pluralità di dati i quali inesorabilmente aprono la strada per due ulteriori considerazioni: i) aggregazione dei data e disclosure informativa; ii) tenuta del sistema poiché un maggior rigore da parte delle banche nella selezione dei clienti cui concedere credito (le imprese, piuttosto che le famiglie) dovrebbe mitigare il rischio default, anche se vi sono comunque altri effetti negativi di cui tener conto.

L’intento del presente lavoro è quello di capire come le banche, e nello specifico un campione di banche inglesi, per un totale di quattro G-SIB, si siano comportate a livello di voluntary

disclosure nelle comunicazioni circa il progressivo stato di adozione dei Principi stessi.

Il campione che verrà analizzato nel Capitolo IV ha ad oggetto banche inglesi, in quanto, è proprio l’Inghilterra e nello specifico Londra, il luogo dove Chi scrive ha approfondito lo studio della tematica sul Risk Reporting e le implicazioni dei Big Data presso “the University of

Greenwich” coordinato dal Dottor L. Neri, Senior Lecturer del Dipartimento di Accounting and Finance.

Il punto i) in tema di aggregazione verrà approfondito nel Capitolo III dedicato appositamente all’analisi del Framework BCBS 239; il punto ii) sinteticamente indicato con l’espressione “tenuta del sistema” necessita di qualche parola in più. Con questa formula volevamo indicare il cambiamento e le necessità che sono sorte a seguito della crisi finanziaria del 2007, la quale ha portato per l’appunto ad una radicale innovazione nell’intero sistema economico inteso quale ripensamento nella gestione del rischio; è così infatti che si spiegano gli innalzamenti dei livelli di natura quantitativa di alcuni indici, volti da un lato a proteggere il capitale delle banche e

1 Nel corso della trattazione tale Framework verrà anche indicato con la sigla BCBS 239, Basel Committee on Banking Supervision.

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dall’altro a permettere un miglioramento nella capacità di assorbimento di perdite in periodi di stress e di crisi.

Il problema della mancata tenuta del sistema, il cui collasso viene fatto coincidere con la chiusura della banca d’affari americana Lehman Brothers2

, è attribuibile ad una pluralità di fattori.

Senza stare a ripercorrere tutte le tappe della crisi, limitiamoci a dire che essa fu originata da una pluralità di fattori, primo fra tutti le cartolarizzazioni, le quali sono emblematiche per il superamento di un modello cd. buy and hold, in cui il mutuante tiene nel proprio bilancio il rapporto credito/debito con il mutuatario. A tale sistema “tradizionale”, l’ingegneria finanziaria ha sostituito un modello cd. originate to distribuite (OTD) che ha portato all’elaborazione di strumenti finanziari molto complessi. In questa situazione i finanziamenti concessi vengono cartolarizzati e concessi ad una platea di soggetti estremamente ampia.

Definiamo meglio la cartolarizzazione: gli istituti di credito potevano trasformare questi mutui in un titolo. Ciò consentiva quindi la cessione dello stesso (e del relativo rischio) a soggetti terzi (cd. società veicolo) e l’immediato recupero (seppur parziale) del credito: il diritto ovvero il credito, veniva quindi incorporato in una cartula (si parla infatti di cartolarizzazione), la quale come bene mobile, veniva sottoposta ad una più sicura disciplina di circolazione3. La società veicolo4 a sua volta rivendeva il titolo-mutuo cartolarizzato quale prodotto finanziario a breve termine. Qualcuno parla a riguardo di impacchettamento dell’originario mutuo, ossia tramite operazioni di finanza si cercava di arginare il rischio di fallimento del singolo mutuo, <<sottovalutando il rischio di fallimento generale>>.

La cartolarizzazione allora consentiva alle banche di ottenere nuova liquidità, pronta e immediata, con la quale potevano essere concessi ulteriori mutui.

2 The Wall Street Journal titolava così la prima pagina del quotidiano il 15 Settembre 2008: “Crisis on

Wall Street, as Lehman totters, Merrill is sold, AIG seeks to raise cash”.Prima della bancarotta i valori degli asset di Lehman Brothers erano stati valutati circa 600 miliardi. Fonte: BusinessInsieder.uk. Merril Lynch diviene parte di un’operazione di fusione con Bank of America, per un valore che sfiora i 50 miliardi; AIG, colosso delle assicurazioni, nel 2008 registra perdite per oltre 12 miliardi, pone in essere un ambizioso piano di dismissione di asset per 50 miliardi e chiede prestiti alla FED per un valore di 40 miliardi. Fonte: www.ilsole24ore.com.

3 Nella cd. cartolarizzazione, il creditore cede il su credito ad un terzo, il quale si obbliga ad incorporare lo stesso in uno o più titoli da cedere, a loro volta, a terzi. In particolare, con la cessione a scopo di cartolarizzazione, il cedente, trasferisce il proprio credito ad un terzo il quale si obbliga a cartolarizzarlo e a immettere sul mercato i titoli di credito ad esso corrispondenti. Sul punto si veda G.F. CAMPOBASSO, Diritto Commerciale 3, a cura di M. CAMPOBASSO, Contratti, Titoli di credito, Procedure concorsuali, Torino, 2013.

4 <<[…] le società veicolo (SIV e conduit) che esibiscono all'attivo gli impieghi a medio e lungo termine ceduti dalle banche e al passivo titoli a breve termine (le cosiddette Asset backed commercial paper – ABCP), garantiti dalle attività bancarie cedute e assistiti da linee di liquidità messe a disposizione dalle banche stesse. Una modalità alternativa di cartolarizzazione prevedeva l'emissione dei cosiddetti

Collateralised Debt Obligations (CDO) sempre tramite apposite società veicolo (spesso indicate

anch'esse con la sigla CDO); risultano sempre più frequenti, inoltre, le ri-cartolarizzazioni, ossia le operazioni nelle quali le attività sottostanti sono in prevalenza titoli strutturati >>. N. LINCIANO, La

crisi dei mutui subprime. Problemi di trasparenza e opzioni di intervento per le autorità di vigilanza,

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L’uso sfrenato di questa prassi, sommato all’effetto leverage, ha quindi comportato un aumento di prodotti finanziari poco standardizzati: per comprendere la gravità del fenomeno, si tenga conto che vennero concessi mutui anche per il 100% del valore delle abitazioni persino a clienti che non presentavano condizioni di solvibilità5 (clienti sub-prime). Le operazioni di “impacchettamento” e “re-impacchettamento” dell’originario mutuo in altri prodotti finanziari hanno poi permesso di spostare il rischio dalle banche all’ultimo soggetto che si accollava tale strumento. Alla base di questa pluralità di operazioni ve ne è quindi una, il mutuo al cliente, che risulta essere un impiego a media-lunga scadenza, mentre le successive operazioni derivate sono a breve termine. Affinché il processo non si interrompesse era necessario che la liquidità a breve si “rigenerasse” più volte, a seguito di plurime cessioni, sfruttando appunto l’effetto leva. Tutto ciò altro non rappresenta che una scorretta correlazione impieghi-fonti tale per la quale era assai comune che risorse con un tempo di realizzo di breve termine andavano a coprire investimenti che avevano prospettive di realizzo nel medio-lungo termine con una consequenziale crisi di liquidità6.

Questo insano collegamento creato dai mercati finanziari tra le famiglie e gli investitori è stato alimentato anche dalla complicità delle società di rating. Scopo di queste società è l’emissione di un giudizio circa l’affidabilità di un prodotto finanziario. In maniera semplicistica: più il giudizio è alto, maggiore è (o dovrebbe essere) la sicurezza di tale investimento.

Se al circolo che abbiamo descritto aggiungiamo l’intervento delle società di rating capiamo come l’uso sconsiderato dell’ingegneria finanziaria abbia portato ad una eccessiva sopravvalutazione dei prodotti. Se un titolo Junk è in grado di ottenere una valutazione “positiva” è chiaro che in un periodo in cui il mercato è in crescita anch’esso troverà presto un acquirente.

In una situazione di questo tipo, fintanto che vi è il pagamento da parte dei mutuatari il problema non si pone; si genera nuova liquidità e il ciclo può ripartire. Quando però le famiglie iniziarono a non pagare più i mutui, il sistema andò in crisi: dinanzi all’impossibilità di far fronte ai propri impegni finanziari, abbiamo il pignoramento del bene dato a garanzia (la casa) e la consequenziale messa in vendita dello stesso. Le lezioni di Economia Politica ci hanno però insegnato che se aumenta l’offerta, il prezzo scende: la massiccia messa in vendita delle case fece crollare il prezzo delle stesse, innescando una situazione per la quale pagare il debito non

5 É stato riconosciuto come vi fosse un’estrema superficialità nella valutazione della creditworthiness dei clienti. È diventato famoso il caso della coppia messicana, raccoglitori di fragole in California che, con un reddito annuo di 12.000 dollari, ottennero un finanziamento per l’acquisto di una casa da 720.000 dollari: la spiegazione è da attribuire ad una errata indicazione del reddito. Dalle carte infatti si evince che invece di indicare i 12.000 dollari come base annua, era stata indicata una retribuzione mensile di pari ammontare. Herald Tribute, 27 Novembre 2008.

6 SENIOR SUPERVISOR GROUP, Risk Management lessons from the Global Banking Crisis of 2008. October 2009, p. 2.

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era più conveniente, stante le ampie svalutazioni che le case subivano, il rimborso divenne eccessivamente costoso, raggiungendo livelli record nel dicembre del 2006.

Ecco allora che la crisi del settore immobiliare si riversò sul mercato dei titoli: storico fu il consistente downgrading di migliaia di prodotti finanziari operato dalle società di rating. L’abbassamento fino a livello “D”, ossia spazzatura fu la conseguenza di un brusco risveglio: i valori finanziari, sicuramente troppo ottimistici, non corrispondevano a quelli reali. Queste le parole al summit del 2009: <<We believe that absolute rankings were too positive and that substantial work is still needed to achieve full alignment with the existing recommendations and observations7>>.

Dal settore immobiliare la crisi si tramutò presto in una crisi di liquidità. L’impossibilità dei mutuatari di far fronte alle proprie obbligazioni inceppò il meccanismo di cui sopra; le società veicolo dovevano comunque provvedere al pagamento degli interessi sulle obbligazioni emesse ma non vi erano più le entrate –da parte dei mutuatari, per mezzo delle banche- per farvi fronte. I titoli persero immediatamente valore divenendo sostanzialmente carta straccia, minacciati da un loro possibile fallimento. La generale sfiducia nei confronti del mercato paralizzò ulteriori prestiti, compresi quelli interbancari. Le società veicolo si videro negare concessioni di credito da parte degli istituti bancari. Tutto ciò condusse diversi istituti verso il fallimento, il caso emblematico fu quello di Lehman Brothers, il quale non ottenendo aiuti statali fu costretto a dichiarare il fallimento il 15 Settembre 2008.

Lasciar fallire una banca d’affari con oltre 150 di storia affossò ulteriormente la fiducia nei mercati, generando ulteriori instabilità che si concretizzarono in una riduzione della liquidità del credito interbancario, nonostante la Fed avesse già intrapreso iniezioni di liquidità.

<<Le operazioni di cartolarizzazione generavano prodotti strutturati molto complessi, poco standardizzati e poco liquidi. I prodotti strutturati, inoltre, venivano scambiati prevalentemente

over the counter (OTC), ossia al di fuori dei mercati regolamentati, e in assenza di prezzi

significativi, ossia di prezzi utilizzabili per una loro valutazione condivisa dagli operatori di mercato8>>. In tale contesto, il giudizio delle agenzie di rating (tra le quali spiccavano Standard & Poor e Moody’s) che si occupavano di valutare l’affidabilità dei prodotti finanziari, ha giocato un ruolo di primo piano.

7 SENIOR SUPERVISOR GROUP, Risk Management lessons from the Global Banking Crisis of

2008, nota (6), p. 4. Il passo procede poi interrogandosi circa le ragioni che hanno condotto a tali errate valutazioni, identificando due ragioni principali: <<First, many firms’ information technology (IT) infrastructure is inadequate to monitor risk exposures accurately, a problem long in the making that will also take time to remedy. Second, firms need to reexamine the priority they have traditionally given to revenue-generating businesses over reporting and control functions […]. An overarching observation

that relates to many of the areas singled out for improvement is that weaknesses in governance, incentives, and infrastructure undermined the effectiveness of risk controls and contributed to last year’s systemic vulnerability>>. Il tema sarà ripreso più avanti.

8 N. LINCIANO, La crisi dei mutui subprime. Problemi di trasparenza e opzioni di intervento per le

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A seguito dell’esposizione diretta o indiretta delle banche di diversi Paesi europei la crisi arrivò anche in Europa, la quale si sommò ad un restringimento al credito da parte di famiglie e impresi, con ripercussioni su consumi, investimenti ed infine anche occupazione.

I diversi Paesi reagirono in modi differenti ma ponendo in essere azioni che sono sicuramente inquadrabili quali aiuti di Stato: dalla nazionalizzazione della Southern Rock in UK (per un ammontare di 110 miliardi di sterline), a ricapitalizzazioni e acquisti obbligazionari forzati. Diversi piani di salvataggio riguardarono le banche di Germania, Svezia, Francia, Belgio, Lussemburgo, Paesi Bassi, Grecia, Portogallo.

Le politiche di sostegno alle banche poste in essere dai Governi per tentare di arginare gli effetti a catena scaturiti dallo shock del 2007-2008 vengono affiancate da un ripensamento delle normative, qui si colloca Basilea III, chiave di svolta di un sistema ormai al collasso, il quale punta a migliorare l’impianto delle precedenti versioni di Basilea I e II, promuovendo un sistema bancario più robusto.

Ciò che è emerso dagli studi effettuati ex post9 è che le lacune maggiori del sistema bancario sono state riscontrate nella politica di assunzione e gestione del rischio, unita ad una scarsa preparazione del management di fronte all’aggravarsi del quadro economico generale.

Di fatti la crisi ha mostrato come i requisiti di Basilea II non fossero sufficienti ad arginare le perdite: il patrimonio di vigilanza10 fissato ad un tetto minimo pari all’8% del Risk Weighted

Assets (RWA) non è comunque stato in grado di assorbire lo shock della crisi. La

capitalizzazione di un ente allora di per sé, laddove presente, non è comunque stata sufficiente a far fronte alle ingenti perdite che si sono registrate in quegli anni, da qui infatti si spiega non

9 Dal 2009 l’OCSE (Corporate Governance and the Financial Crisis), il Senior Supervisors Group (Risk Management lessons from the Global Banking Crisis of 2008, 2009; Observations on Developments in Risk Appetite Frameworks and IT Infrastructure, 2010), il G30 (Toward Effective Governance of Financial Institutions, 2012) e la stessa Commissione Europea hanno denunciato le strette interdipendenze tra le gravi carenze dei sistemi organizzativi e di controllo delle banche e l’inadeguatezza, altrettanto grave, della governance. Tutti hanno rimarcato come il fallimento dei board delle banche nell’identificare, comprendere e in ultima analisi controllare i rischi, e la mancanza di check

and balance rispetto al business siano stati all’origine della crisi. Carenze organizzative e di governance

si sono saldate, moltiplicando gli effetti. Da: www.consob.it/lecrisifinanziarie.

10 Basilea II prevedeva che il patrimonio di vigilanza fosse composto da due sottocategorie: 1) il patrimonio di base (Tier 1), il quale comprendeva capitale versato, riserve e utili dalla cui sommatoria venivano dedotte azioni proprie, avviamento, immobilizzazioni immateriali, nonché le rettifiche sui crediti; 2) patrimonio supplementare (Tier 2), il quale comprende riserve da valutazione, passività subordinate e plusvalenze su partecipazioni. Basilea II prevedeva anche una terza categoria, Tier 3, la quale avrebbe dovuto fronteggiare il rischio mercato, ma questa è stata eliminata con Basilea III. Mentre il Tier 1 potrà essere maggiore o almeno pari alle RWA, il Tier 2 sarà una percentuale della prima grandezza, a condizione che la somma di entrambi sia pari ad almenol’8% delle RWA.

Basilea III ha aumentato i valori di cui sopra, specificando quanto segue, il patrimonio di vigilanza è dato da: 1) patrimonio di base o Tier 1, destinato ad assorbire le perdite in situazione di continuità aziendale, viene a sua volta distinto in: a) patrimonio di qualità primaria (Common Equity Tier 1; b) Tier 1 aggiuntivo; 2) patrimonio supplementare o Tier 2, da utilizzare in caso di crisi. Mentre il Tier 1 deve essere almeno pari al 4,5% delle RWA, al quale si aggiunge un buffer a protezione del capitale pari al 2,5%, il patrimonio di base deve essere almeno il 6% e il patrimonio di vigilanza almeno all’8% delle RWA. Tutti questi “indici” serviranno poi per il calcolo delle nuove regole di liquidità e di leverage.

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solo l’intervento delle autorità, volto a rafforzare i limiti minimi di capitale, ma anche l’introduzione di parametri ulteriori in tema di leva e di liquidità.

Oltre alle criticità sovraesposte si deve sommare una visione di short termism11 da parte degli operatori, la quale ha portato ad una sottostima del rischio o comunque ad una generale e frettolosa valutazione dello stesso. L’aspetto non è di poco conto. Vedremo nel Capitolo I come le imprese, indipendentemente dall’attività svolta, non sempre hanno interesse a divulgare informazioni circa l’andamento economico-finanziario, ivi compresi i dati in tema di rischio; vedremo inoltre che talvolta le informazioni che pubblicano non arrivano direttamente al mercato, ma vi giungono in maniera mediata, attraverso l’operato delle agenzie di rating, le quali come sopra abbiamo visto, non brillano certo di virtù. Ma allora l’assenza di uno standard

setter generale inficia chiaramente il livello qualitativo e quantitativo di disclosure disponibile

sul mercato. L’ulteriore elemento su cui occorre soffermarci è come questa informativa venga elaborata dagli attori: molte banche non sono state in grado di interpretare correttamente le informazioni a loro disposizione, sia in termini di aggregazione dei dati in tema di rischio che la consequenziale attività reportistica.

Il secondo pilastro12 di Basilea II viene nuovamente fatto oggetto di riforma con l’elaborazione di una pluralità di Principi in tema di aggregazione e reportistica del rischio (Gennaio 2013). Questa nuova visione va oltre le precedenti modifiche in tema di “Appetito e Tolleranza”, le quali avevano come obiettivo l’identificazione di quale fosse il rischio massimo tollerabile dall’impresa, indicando di conseguenza il limite oltre il quale lo stress finanziario avrebbe causato perdite.

L’approccio, questa volta, è all’informativa, al dato, al fine di intraprendere una sana politica di gestione dei rischi, anche a livello di gruppo, per evitare ripercussioni a catena sulle consociate. È chiaro che l’occhio attento del legislatore si sia posato questa volta sulle cd. G-SIB, ossia quelle società bancarie che, stante l’indotto che generano, hanno come bacino d’utenza non solo il mercato interno ma anche estero; ciò non toglie che gli standard possano essere utilizzati anche da realtà minori, l’auspicio è che siano un riferimento per tutti gli intermediari, tenuto conto delle dimensioni e della complessità dei dati a disposizione del management nella

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Linciano rileva come l’orientamento al breve periodo lo si evinca da diversi elementi: 1) i mutui più complessi siano stati elaborati per attrarre famiglie a più basso reddito che non hanno valutato attentamente la sostenibilità dello stesso nel medio-lungo periodo, 2) le banche hanno abbassato gli standard qualitativi di valutazione del cliente, interessate solo dall’aumento della quantità di mutui erogati, 3) agenzie di rating che non hanno ponderato attentamente il rischio dei prodotti. Per un approfondimento si veda N. LINCIANO, La crisi dei mutui subprime. Problemi di trasparenza e opzioni

di intervento per le autorità di vigilanza, nota (4), p. 2.

12 L’accordo di Basilea II, ratificato nel 2004 ed entrato in vigore nel Gennaio del 2007 era strutturato in tre pilastri: requisiti patrimoniali, controllo delle Autorità di Vigilanza, disciplina del mercato e trasparenza.

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gestione del rischio13. Sorgerà quindi l’esigenza di rafforzamento dei sistemi IT funzionali a migliorare i processi di pianificazione strategica e l’assunzione di decisioni tattiche pienamente informate, verranno pertanto richiamate, a titolo esemplificativo, le tecnologie messe a disposizione da Deloitte e IBM in tema di data aggregation.

Il documento elaborato dal Comitato di Basilea per la Vigilanza Bancaria prevede standard che dovrebbero assicurare che i gruppi bancari a rilevanza sistemica abbiano una piena capacità informatica di aggregare i dati riferiti ai rischi della gestione in modo accurato, completo e tempestivo.

La trattazione si svilupperà nel seguente modo: il Capitolo I avrà ad oggetto le comunicazioni economico-finanziarie siano esse obbligatorie o volontarie, mettendo in luce costi e benefici delle stesse; alla tematica del rischio verrà riservato il Capitolo II con particolare riguardo per le diverse tipologie dello stesso gravanti sulle imprese nonché i temi più generali di Appetito e Tolleranza previsti per le banche.

Il Capitolo III si focalizzerà invece sul documento di Basilea III in tema di aggregazione del rischio: verranno indicati quelli che sono i principi e verranno messe in luce le potenzialità dei

big data, con particolare riguardo alle implicazioni degli stessi sulla governance aziendale. In

fine, poiché il documento è divenuto pienamente effettivo a partire da Gennaio 2016 vedremo come si sono mosse le imprese nel biennio 2014-2015 in tema di reportistica sul rischio (voluntary disclosure).

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Con tale sigla si suole indicare le cd. Global Systemically Important Bank, ossia banche che hanno un impatto sul sistema finanziario globale. Il Comitato di Basilea nel novembre 2011 ha stabilito che tale rilevanza vada misurata in base all’impatto che il fallimento della banca stessa potrebbe avere sul sistema finanziario internazionale e sull’economia più in generale, piuttosto che in base al rischio che tale fallimento si verifichi.

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CAPITOLO I

COMUNICAZIONE ECONOMICO-FINANZIARIA: VOLUNTARY

DISCLOSURE E REPORTISTICA DEL RISCHIO

1. Introduzione.

La tematica della comunicazione aziendale, che verrà trattata nel prosieguo, è connaturata all’attività di impresa. Essa riguarda sia società che svolgono attività manifatturiera che attività finanziaria14.

In un contesto delicato come quello degli ultimi dieci anni, questo tema torna sotto la lente degli Organismi Internazionali per essere rivisitato e migliorato passo dopo passo, norma dopo norma.

Gli interventi a più riprese che vanno ad arricchire quello che era lo schema ideato con Basilea II inerente a: 1) requisiti patrimoniali minimi, 2) controllo prudenziale dell’adeguatezza patrimoniale, 3) trasparenza delle informazioni, indicano chiaramente quanta ancora sia la strada da percorrere per avere una efficace gestione del rischio aziendale.

Consci di alcuni limiti15, i leader che hanno seduto al G20 di Seul hanno approvato le proposte del comitato di Basilea intitolato “Nuovo accordo sull’Adeguatezza Patrimoniale delle Banche”, meglio conosciuto come Basilea III, che assumerà piena efficacia entro il 2019 e che ha lo scopo di superare i limiti di Basilea II, prevenire l’eccessiva assunzione dei rischi16

da parte delle banche, e rendere più solido il sistema finanziario17.

Di fronte al rischio bisogna capire quindi quale posizione assumere: se abusiamo delle nozioni apprese dalla Microeconomia e definiamo il rischio quale un bene, dobbiamo identificare il lato

14 Per attività finanziaria si deve intender l’attività diretta a porre in essere in serie operazioni che tra le parti inizino e terminino con il danaro, indipendentemente dalla specifica natura giuridica, e connessione dei singoli atti o negozi che possano giuridicamente puntualizzare tali operazioni. La nozione in esame si presta quindi a raggruppare un insieme molto vasto di operazioni. Come abbiamo già accennato, ci concentreremo sull’attività delle banche, le quali oltre all’attività bancaria (raccolta del risparmio presso il pubblico e concessione del credito, ex articolo 10 T.U.B.) possono esercitare ogni altra attività finanziaria, fatte salve le riserve di attività previste dalla legge.

15 <<[…] the disclosure requirements in the CRD (Capital Requirements Directive) are very general in nature and do not impose a clear-cut framework for disclosure on operational risk exposure and management. Thus bank managers in the EU still have great deal of discretion regarding the ORD quality to be provided in their annual reports and risk reports>>. A. BARAKAT, K. HUSSAINEY, Bank

governance, regulation, supervision, and risk reporting: evidence from operational risk disclosures in European banks, International Review of Financial Analysis, July 2013, p. 255.

16 Basilea II sottolineava tre tipologie di rischio cui le banche devono far fronte: credit risk, market risk e

operational risk. Si definisce operational risk: << The risk of loss resulting from inadequate or failed

internal processes, people and systems or from external events. This definition includes legal risk, but excludes strategic and reputational risk>> Basel Committee on Banking Supervision, 2006.

17 Si fa, tra l’altro, riferimento a dei limiti massimi per la Leva Finanziaria, all’accumulo di capitali aggiuntivo volti a fronteggiare periodi di crisi.

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della domanda e il lato dell’offerta di informazioni, queste verranno analizzate, rispettivamente, nei paragrafi 3.1 e 3.2.

Si tenga conto che l’informativa economico-finanziaria in tema di rischio trova la sua espressione nell’attività reportistica della specifica realtà aziendale. Questa verrà riletta alla luce delle nuove disposizioni per le banche indicate dal Comitato di Basilea. È infatti oggetto di interesse sia da parte degli studiosi che dei professionisti l’informativa in tema operational risk, in quanto questo rischio si configura per essere maggiormente soggetto alla discrezionalità degli amministratori (risulta infatti difficile se non impossibile per le società di rating poter valutare tale informativa)18.

Si è deciso di avere come oggetto del nostro studio le banche, non già perché la recente storia ci mostra come anche queste possano fallire, ma poiché, proprio perché <<too big>>, da un lato esse hanno a disposizione una molteplicità di dati i quali inesorabilmente aprono la strada per due ulteriori problemi: aggregazione dei data e disclosure informativa, mentre dall’altro la loro attività è interconnessa all’economia reale e quindi si configurano quali elementi cruciali per la tenuta dell’intero sistema. Stante la maggior rigidità nel rispetto di parametri di Basilea, divenuti sempre più stringenti, è intuibile l’impatto sull’economia reale: un maggior rigore, da parte delle banche, nella selezione dei clienti (le imprese, piuttosto che le famiglie) cui concedere credito. Il rischio di default di questi ultimi che può spingere le banche a chiedere tassi più alti, ulteriori garanzie nonché anche ritirare/negare la concessione del credito, diventa la variabile cruciale per la scelta. È implicito come allora il rischio di natura finanziaria giochi un ruolo di primo piano non solo per le banche ma anche per le imprese stesse. Una “sana” attività di reportistica, volta a rendere tutti gli stakeholder consci degli aspetti finanziari positivi e negativi delle imprese (manifatturiere e finanziarie) può divenire un valido strumento per rafforzare il sistema economico.

Analizziamo prioritariamente il tema delle comunicazioni aziendali. 2. Comunicazione economico-finanziaria: definizioni.

Il tema della comunicazione aziendale è da lungo tempo oggetto di attenzione da parte di molti studiosi e si presta ad essere trattato da diverse prospettive. Se decidiamo di seguire un approccio prettamente manualistico siamo in grado di dare una generale schematizzazione della “comunicazione aziendale”. Identifichiamo di conseguenza una comunicazione interna ed una comunicazione esterna, una volontaria ed una obbligatoria, una pubblica ed una privata ed infine, una comunicazione periodica ed una straordinaria19. Soffermiamoci sui binomi

18 A. BARAKAT, K. HUSSAINEY, Bank governance, regulation, supervision, and risk reporting:

evidence from operational risk disclosures in European banks, nota (15), p. 255.

19 M. ALLEGRINI, L’informativa di periodo nella comunicazione economico-finanziaria. Principi e

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comunicazione interna/esterna e obbligatoria/volontaria. Per quanto attiene alla prima categoria, il cui nome fa riferimento alla posizione dei destinatari della comunicazione rispetto al soggetto produttore di tale informativa, specifichiamo quanto segue: sappiamo che la comunicazione interna può essere identificata quale comunicazione gestionale20; la comunicazione esterna21 ha invece ad oggetto tre sub-tipi, di cui solo l’ultimo è oggetto per noi di interesse. La comunicazione esterna assume quindi tali aspetti:

 Commerciale;

 Socio-ambientale;

 Economico-finanziaria.

La comunicazione economico-finanziaria può essere definita come <<[…] Il complesso delle comunicazioni effettuate attraverso qualsiasi canale di diffusione dalla direzione aziendale alle varie classi di interesse in essa convergenti sull’evoluzione dell’assetto reddituale, finanziario e patrimoniale dell’impresa22

>>. A ragion del vero, sarebbe opportuno tener distinti i termini economico e finanziario, tra i quali sussiste una certa differenza anche se molto spesso sia la dottrina che l’esperienza empirica tendono ad accomunarli. Con l’aggettivo “economico” infatti si mira a sottolineare la fiducia e il consenso nei confronti della strategia che la specifica impresa cerca di guadagnarsi presso gli attori del mercato. L’informazione in questo caso ha ad oggetto la situazione patrimoniale, reddituale e finanziaria dell’impresa concorrendo alla realizzazione di una immagine positiva dell’azienda.

Con comunicazione finanziaria invece è definibile ogni output informativo, il quale è di per se’ idoneo ad influenzare il valore delle azioni, mettendo a disposizione del mercato conoscenze aggiornate circa le caratteristiche attuali e prospettiche dei titoli emessi dalle società. Prospetti quali bilancio e rendiconto finanziario sono l’espressione più tipica di informazione di carattere economico-finanziario.

Se infatti pensiamo allo scopo dell’Annual Report, ci accorgiamo come questo sia riconducibile al processo di comunicazione sia economico che finanziario ovvero la diffusione presso gli interlocutori aziendali di informazioni idonee, almeno in via potenziale, a soddisfare il loro

20 È opportuno specificare quanto segue: I contenuti della comunicazione interna non hanno più una mera valenza interna all’impresa. Essi divengono importanti anche per tutti gli attori sociali esterni alla stessa, ricoprendo incarichi di carattere gestionale, che in quanto tali hanno diversi tratti in comune con la comunicazione interna. Proprio per la posizione intermedia di questi soggetti, che sono esterni, ma anche per certi versi interni, ha portato allo sviluppo di una comunicazione gestionale che coinvolge tutti i soggetti che operano in modo integrato o che comunque risultano avere una valenza strategica per lo sviluppo delle performance gestionali dell’impresa. www.ilsole24ore.com.

21 La seguente schematizzazione può subire variazioni a seconda della dottrina che si decide di seguire. 22

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fabbisogno conoscitivo, per favorire l’acquisizione di risorse e consensi dagli stessi, alimentando così il processo di creazione e diffusione del valore23.

È chiaro dunque come la comunicazione finanziaria, sia essa a contenuto economico o meno, è uno strumento di dialogo con il mercato finanziario, il quale interpretando i dati economico-finanziari è in grado di apprezzare il valore economico del capitale e i relativi rischi esprimendo il proprio consenso alle politiche di gestione e di governo dell’impresa.

Per concludere con le definizioni, laddove l’output informativo ha ad oggetto informazioni a carattere reddituale, finanziario e patrimoniale dell’impresa provenienti dalla direzione aziendale a tutti gli interlocutori sociali quello è inquadrabile come comunicazione economico-finanziario.

Qual è lo scopo di una comunicazione economico-finanziaria? Implementare l’efficienza del mercato attraverso vari canali. Scrivono Barakat e Hussaney sull’ ”International Review of Financial Analysis”: <<It serves […] for monitoring the behavior of senior management. […] it lowers investors’ uncertainty about firms’ expected future cash flow and enables public firms to access external finance at a reasonable cost of capital. […] maintaining the trust of various stakeholders24>>.

Per quanto attiene invece alla comunicazione economico-finanziaria posta in essere dalle banche -registrano i dati- vi è un adeguamento agli obblighi imposti da Basilea II: il tema del rischio è infatti elemento essenziale per le società che svolgono attività bancaria, soprattutto dopoché a seguito delle crisi finanziarie abbiamo avuto la prova che, anche per una banca, il rischio default è concreto e non così impossibile.

3. Evoluzione dell’informativa economico-finanziaria.

Il tema sopraesposto ha assunto nel corso degli anni un crescente rilievo, strutturandosi in maniera sempre più complessa.

Rifacendoci agli studi aziendalistici possiamo affermare che nel corso della storia vi è stato un rapporto continuativo tra azienda e ambiente circostante che ha portato a tale maggior strutturazione a seguito del maggior sviluppo tecnologico delle stesse, nonché allo sviluppo di interessi collettivamente organizzati. Se ad una prima configurazione si poteva parlare di una impresa come una “mera appendice della famiglia borghese ottocentesca”, tale definizione deve essere presto abbandonata per lasciar spazio ad una visione di azienda che ricopre una veste istituzionale, integrata nel panorama economico e sociale del Paese. Non a caso scriveva Zappa:<<[…] ogni organismo d’impresa, […], per il suo stesso carattere funzionale e per le

23 M. ALLEGRINI, L’informativa di periodo nella comunicazione economico-finanziaria. Principi e

contenuti, nota (19), p.42.

24 A. BARAKAT, K. HUSSAINEY, Bank governance, regulation, supervision, and risk reporting:

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molte relazioni che stringono la vita dell’impresa per molteplici rapporti ad altre aziende e ad altri enti sociali, non potrebbe nemmeno concepirsi, nel suo continuo trasmutarsi, se non si avvertissero gli stretti e mutevoli vincoli che lo inseriscono nel mezzo ambiente […]25

>>. Si andava dunque delineando una visione del bilancio quale anello di congiunzione tra l’azienda e l’ambiente circostante; è infatti attraverso l’evoluzione del bilancio stesso che siamo in grado di vedere come la comunicazione economico-finanziaria si sia modificata nel corso degli anni. Da una prima visione del bilancio quale espressione della proprietà che non vedeva in tali schemi altro scopo che quello di rendicontazione ai partecipanti dell’impresa circa l’andamento della gestione, si arrivò presto all’affermazione del principio secondo il quale “il fine... in vista del quale un bilancio viene redatto, è quello che unicamente ed intieramente attribuisce un significato alle valutazioni che ne costituiscono l'attivo e il passivo”.

Tale affermazione fu lo spunto per la diffusione dell’idea secondo la quale il bilancio dovesse essere espressione di valori di liquidazione, di funzionamento, o di cessione a seconda della specifica esigenza informativa. Gli aziendalisti accolsero l’idea andando oltre: il bilancio avrebbe dovuto mostrare valori diversi a seconda degli scopi perseguiti assumendo il ruolo di tutela delle singole categorie di interessi perseguiti. Ciò era perfettamente conforme con l’indirizzo giurisprudenziale dell’epoca che sulla base dell’assunto secondo il quale l’assemblea era sovrana, non erano consentite impugnazioni delle delibere di approvazione del bilancio (salvo il caso di frodi), neppure in presenza di sopravvalutazioni o sottovalutazioni di alcune poste, legittimando così sostanzialmente la possibilità che fossero le stesse compagini sociali a decidere quale fosse l’interesse collettivamente organizzato cui rendere conto26

.

A questa prassi tendenzialmente “liberale” si reagì a seguito dell’articolo 2 della Legge n. 660/1931 che prevedeva il reato di fraudolenta esposizione di fatti non veri in bilancio e nelle altre comunicazioni sociali: la Cassazione sancì la possibilità di impugnare le delibere assembleari. Ciò fu lo spunto per una lettura ulteriore del dettato normativo: l’impugnazione di una delibera assembleare laddove vi fosse stata una lesione dei diritti del socio di natura patrimoniale, si pensi al caso di liquidazione della quota del socio uscente. Ciò allora implicava riportare al centro della discussione la natura oggettiva o meno del bilancio.

Negli anni successivi si è infatti pervenuti alla concezione per la quale il bilancio dovesse rappresentare un sistema informativo imparziale per tutti coloro che erano interessati alla situazione economico, finanziaria nonché patrimoniale della società.

25 G. ZAPPA, Le produzioni nell’economia delle imprese, Giuffrè, 1956, p. 72.

Dello stesso avviso altri autori: “[…] sistema di forze economiche che sviluppa, nell’ambiente di cui è parte complementare, un processo di produzione, o di consumo, o di produzione e di consumo insieme, a favore del soggetto economico, e altresì degli individui che vi cooperano”. A. AMADUZZI, L’azienda,

nel suo sistema e nell’ordine delle sue rilevazioni, Utet, Torino, 1986, p. 18 e ss.

26

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Ma allora ciò significava dare rilievo alle diverse personalità che ruotavano intorno all’azienda, significava tener conto dei molteplici interessi degli stakeholder, significava riconoscere una funzione del bilancio che andasse oltre la mera rendicontazione ai soci dei fatti di gestione. Il bilancio stava assumendo una natura pubblicistica: gli interessi di una pluralità di categorie, destinatari degli esiti del bilancio hanno portato ad una imperatività delle norme in tema di bilancio; si pensi al comma 2 dell’articolo 2423 che afferma:<<Il bilancio deve essere redatto con chiarezza e deve rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società e il risultato economico dell’esercizio>>. È chiaro quindi come il servirsi del bilancio per scopi gestionali sia ora espressamente condannato dal legislatore, lasciando così spazio ad una visione del bilancio quale oggettiva informazione. A riprova infatti se leggiamo il dettato normativo dell’articolo 2430 C.C. in tema di accantonamento del 5% degli utili ad una Riserva Legale iscritta nel Patrimonio Netto della società, ci accorgiamo come non vi possa necessariamente essere più spazio per manipolazioni dello stesso volte ad alterare i valori in bilancio per scopi privatistici27.

La tendenza allora è quella per la quale il bilancio debba essere utilizzato quale strumento per raggiugere finalità di interesse pubblico, ossia una comunicazione economico-finanziaria non redatta ad hoc per il singolo destinatario, ma una comunicazione generale, particolarmente “arricchita”, idonea a soddisfare le esigenze informative della collettività. In questo spazio possiamo cogliere la distinzione tra informativa di natura legale o obbligatoria e una comunicazione volontaria.

3.1. Domanda di informazione.

Abbiamo visto come da un bilancio appannaggio della compagine sociale si sia giunti ad uno utilizzabile quale strumento per il perseguimento di una finalità pubblicistica; è quindi intuibile come abbia assunto una struttura assai diversa da quella che era all’origine: prima, il rischio di una violazione del segreto aziendale aveva come naturale riflesso una limitazione nella divulgazione di informazioni di carattere aziendale che nella sostanza equivaleva a un adempimento degli obblighi legali (bilancio di esercizio, tenuto conto degli ampi margini di discrezionalità da parte dei redattori visti sopra). Solo a partire dagli anni ’80 la domanda di informazioni si fece maggiormente strutturata, andando al di là del mero dato contabile.

È intuibile infatti come fenomeni quali globalizzazione, mercato unico, innovazioni tecnologiche, competitività abbiano fatto dell’interazione con l’esterno una fonte essenziale per la sopravvivenza dell’impresa stessa.

27 L’imperatività di una norma in tema di bilancio implica sul piano pratico la possibilità di avere una sentenza che dichiari nulla una eventuale delibera in ordine all’approvazione del bilancio che sia contra

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Se infatti pensiamo ai vari disastri finanziari che si sono succeduti nell’ultimo ventennio, dalla crisi del 2000 agli scandali Parmalat e Cirio, nonché i mutui subprime, ciò che emerge è sicuramente un contesto informativo poco trasparente. È auspicabile allora che l’informativa economico-finanziaria sia in grado di assicurare un efficiente funzionamento del mercato. Se infatti leggiamo il “Risk Management Lesson from The Global Banking Crisis of 2008” esso sottolinea subito come le imprese che meglio hanno resistito alla crisi del 2008 che ha coinvolto i mercati globali sono proprio quelle che presentavano i seguenti elementi:

 effective firm-wide risk identification and analysis;

 consistent application of independent and rigorous valuation practices across the firm;

 effective management of funding liquidity, capital and the balance sheet;

 informative and responsive risk measurement and management reporting.

Questo dimostra a contrario come vi sia ancora molto da fare sul sistema di comunicazione interna e l’implementazione dei sistemi interni in tema di controllo rischi.

Mentre prima ci eravamo soffermati sulla posizione dell’interlocutore sociale rispetto all’azienda, adesso vediamo chi sono questi soggetti e in quale misura hanno bisogno di informazioni.

Andando con ordine annoveriamo subito i soci o azionisti. Essi possono essere distinti in diversi gruppi a seconda che abbiano da soli o di concerto con altri azionisti un ruolo determinante nella vita aziendale. Teniamo conto però che anche i soci cd. di minoranza qualora raggiungano certe percentuali predeterminate dal legislatore sono comunque in grado di attivare le prerogative loro assegnate. A seconda quindi del peso, dello scopo del socio stesso di fronte all’investimento effettuato in società, alla visione di lungo termine piuttosto che di breve termine che assume di fronte alle strategie poste in essere dal management, l‘informazione assume carattere diverso.

Tra gli altri soggetti interni trovano collocazione i dirigenti e i lavoratori: i primi sono diventati depositari di un potere parzialmente autonomo dei confronti dei soci, considerabili da qualcuno alla stregua di un bene aziendale, rappresentano parte del valore di una impresa così da farli divenire i soggetti fisiologicamente predisposti alla produzione e divulgazioni delle informazioni stesse. I secondi invece possono aver interesse a conoscere quello che è l’andamento economico-finanziario della società presso cui prestano la loro opera. Leggiamo questo dato a livello macro aggregato, intendendo con questa espressione la collettività dei lavoratori e quindi i sindacati. La posizione di questi nell’esprimere una domanda di informazioni può essere ricondotta a titolo esemplificativo a numerosi contratti collettivi nazionali del lavoro, i quali obbligano le imprese a fornire alle organizzazioni sindacali notizie sugli orientamenti imprenditoriali, sugli investimenti etc.

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Tra i creditori spiccano sicuramente quelli finanziari poiché non tutti i creditori possono permettersi di chiedere informazioni ulteriori ma si devono limitare a quelle messe spontaneamente a disposizione dall’azienda. Creditori quali banche e istituti finanziari saranno interessati a informazioni che consentano loro di capire il livello di probabilità nella restituzione degli interessi e del capitale prestato.

In ultima analisi vanno ricordati i concorrenti e i consumatori, i quali possono giocare un ruolo non indifferente in termini di domanda di informazione. Essi sono soggetti esterni che concorrono alla formazione dell’immagine dell’azienda stessa. Abbiamo detto precedentemente che la comunicazione diventa essenziale ai fini della strategia dell’impresa nonché ai fini della sopravvivenza stessa.

Soffermiamoci sulle classi di interesse e vediamo quali sono le loro esigenze informative: i consumatori avranno interesse alla congruità tra prezzo e costi di produzione, agli aspetti della politica di produzione nonché dalla capacità dell’azienda di onorare le obbligazioni derivanti dalla vendita.

Tutti questi soggetti elencati sommariamente allora da un lato sono produttori di informazioni a loro volta, dall’altro hanno comunque bisogno di informazioni ulteriori per poter compiere le loro scelte. Le loro posizioni però non possono essere collocate al solito livello: se a titolo esemplificativo guardiamo le posizioni dei soci di comando e dell’alta direzione, esse si caratterizzano per essere “privilegiate” in quanto in maniera diretta determinano l’andamento aziendale; a contrario gli altri soggetti si caratterizzano per un ruolo prettamente passivo, in quanto subiscono l’attività dei primi.

In un contesto così variegato allora l’impresa dovrà sforzarsi di generare flussi informativi che per quantità e qualità si adattino alle molteplici esigenze degli attori sociali.

3.2. Offerta di informazione.

Se da un lato abbiamo la domanda di informazione da parte degli attori sociali che cercano di ridurre l’asimmetria informativa che fisiologicamente sorge tra parti opposte del mercato, dall’altro abbiamo l’offerta di informazioni messa a disposizione dell’impresa stessa.

La comunicazione (economico-finanziaria) può rispondere a due esigenze: una prima riconducibile agli adempimenti normativi richiesti dal legislatore, il quale si assicura in tal modo che un quantum qualitativo e quantitativo di informazioni sia comunque reperibile sul mercato, cosicché possano essere intraprese scelte che abbiano alla base un giudizio di convenienza da parte di tutti gli stakeholder. La seconda, quella di natura volontaria, risponde ad una scelta dell’impresa, la quale decide di rendere pubblica una pluralità di informazioni che potrebbero tranquillamente essere tenute nascoste. Si parla in tal caso di voluntary disclosure.

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Sorge quindi in automatico il chiedersi per quale motivo una società dovrebbe divulgare informazioni (più o meno sensibili) ulteriori rispetto a quelle obbligatorie.

La risposta può assumere diverse forme. C’è chi predilige un capitale manageriale sempre nuovo, per cui la divulgazione di informazioni di natura volontaria consente la possibilità di attirare migliori manager. Per rispondere possiamo anche servirci delle nozioni di Economia dell’Informazione le quali ci dicono che certe scelte sono poste in essere solo a condizione che si abbiano determinate informazioni.

Ciò che è certo in ogni caso, è che spesso le imprese sottostimano oppure sovrastimano alcune informazioni e allora il legislatore pone un livello minimo che è in grado di soddisfare le esigenze di tutti gli interlocutori sociali (quanto meno in via primaria).

È opportuno precisare quanto segue: quando il legislatore richiede la pubblicazione di certe informazioni ciò non sempre implica la loro comunicazione al mercato. Talvolta può significare che tale informazione benché ormai non più solo di conoscenza dell’azienda stessa che l’ha generata viene destinata a degli organi pubblici o comunque a delle istituzioni di pubblico controllo. Di tali informazioni allora il mercato non se ne potrà ovviamente servire. Una siffatta comunicazione sortirà tuttavia un effetto indiretto sul mercato, ossia influenzerà la fiducia nel mercato stesso.

3.2.1. Informativa obbligatoria.

La ratio sottesa ad una informativa di natura obbligatoria è identificabile quale volontarietà da parte del legislatore di ridurre l’asimmetria informativa: impresa e stakeholder si pongono su due piani opposti. Per poter interagire, come sopra si accennava, deve poter esservi un rapporto di fiducia. Essa viene alimentata dalle informazioni: più sono le informazioni, maggiormente consapevole potrà essere la scelta di uno stakeholder nel porre in essere un determinato comportamento. Cerchiamo di capire meglio questo aspetto. Per fare ciò serviamoci della teoria economica. Il problema dell’asimmetria informativa non è l’unico dilemma che attanaglia il risparmiatore nel momento in cui si appresta a compiere un certo tipo di investimento. Per mezzo di un esempio le cose saranno più chiare: prendiamo due soggetti, imprenditore e risparmiatore, il primo è interessato alla raccolta di fondi da poter impiegare nella propria attività, il secondo mira invece ad un impiego del proprio denaro che definiamo “sicuro e abbastanza remunerativo”. Investire il denaro nell’impresa potrebbe dunque essere una buona idea, ma la scelta deve tener conto di alcuni elementi: 1) l’imprenditore ha informazioni maggiori circa le opportunità del business, la sua rischiosità etc., sorge quindi il problema della diversa distribuzione dell’informazione; 2) una volta che il denaro del risparmiatore è stato destinato all’imprenditore si crea un problema di agenzia, ossia uno “scollamento” tra la proprietà del capitale e chi lo gestisce (il management), tale situazione può dar luogo a

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comportamenti di natura opportunistica della parte chiamata ad amministrare tali sostanze. Per quanto attiene al primo problema esso è già stato affrontato ampiamente in dottrina, Akerlof, lo ha reso noto con l’espressione gergale “Lemon Problem”: in un mercato dove vi è asimmetria informativa i beni migliori verranno espulsi dal mercato abbassando il livello qualitativo medio dei beni che invece vi permangono. Tenuto conto dell’esempio fornito dall’autore, il nostro investitore non sarà in grado di discernere tra un investimento profittevole ed uno economicamente svantaggioso. Ovviamente il problema sopraesposto ha diverse soluzioni, da un lato possiamo avere un’azione propositiva da parte dell’impresa, che mette a disposizione delle informazioni per ridurre l’asimmetria informativa, dall’altro abbiamo un soggetto che, grazie al suo rilievo, si frappone tra i due soggetti: banche, intermediari finanziari, assicurazioni etc., le quali assumono su di sé il rischio di un eventuale default del nostro imprenditore. Per quanto attiene al secondo problema, anche su di esso sono stati versati fiumi di inchiostro, ci limitiamo a ricordare solo alcuni tratti. Ribattezzato con il nome di “Agency Theory” o “Principle-Agent”, consiste in un comportamento dell’Agent non prevedibile e osservabile dal

Principle. Un sistema di controllo del management o la stipula di un contratto avente ad oggetto

scambio di informazioni possono essere la soluzione per mitigare il problema28.

Ecco allora che il legislatore per consentire questo contatto tra parti consapevoli del mercato, l’incontro tra domanda e offerta per usare il linguaggio caro agli economisti, richiede una pluralità di informazioni le quali devono obbligatoriamente essere messe a disposizioni della collettività. Si tenga inoltre conto che la standardizzazione dell’informativa richiesta permette di poter ad esempio comparare le scelte che sono possibili operare in realtà aziendali diverse. Notiamo quindi come anche dal punto di vista economico il problema dell’informazione sia assolutamente di primo piano nella scelta del consumatore-investitore. Il problema come abbiamo tratteggiato in precedenza non è squisitamente teorico ma concreto, e tipico dei mercati finanziari. Il legislatore infatti ha cercato di mitigarlo stabilendo una pluralità di informative che devono necessariamente essere disponibili sul mercato (comunicazioni obbligatorie). <<By creating minimum disclosure requirements, regulators reduce the information gap between informed and uninformed. This explanation for disclosure implies that the objective of disclosure regulation is to redistribute wealth, rather than improve economic efficiency>>. Ma di fatti il problema sarebbe quindi adesso quello di capire quanto lasciare a discrezione del management e quanto prevedere obbligatoriamente, si chiedono infatti gli autori del paper: <<If regulation is effective in increasing economic efficiency, what types of disclosure should be required by regulation and what should be left to the discretion of management?29>>.

28

Per una trattazione più approfondita si rimanda a: P.M. HAULEY, K.G. PALEPU, Information

asymmetry, corporate disclosure, and the capital markets: A review of the empirical disclosure literature,

Journal of Accounting and Economics, 2001, p.405-440.

29 P.M. HAULEY, K.G. PALEPU, Information asymmetry, corporate disclosure, and the capital

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L’incombenza di rendere pubbliche certe informazioni ricade sull’impresa stessa che le produce. Il legislatore attribuisce per tanto il costo dell’informazione alla parte del mercato per la quale è meno onerosa la pubblicazione. Sarebbe infatti del tutto irragionevole che a dover produrre l’informativa fosse un soggetto esterno all’impresa, il quale, tra l’altro, avrebbe difficoltà ad accedere a tutti i dati di natura contabile e soprattutto extra-contabile.

La divulgazione di tali informazioni allora consente alla collettività, e più in generale al mercato di ottenere benefici in termini di efficienza. La teoria microeconomica parla di efficienza del mercato al ricorrere di alcune ipotesi, la cui assenza non consente il raggiungimento del punto di ottimo. È chiaro allora che il legislatore mira ad una tendenziale efficienza del mercato, volta ad ovviare le naturali imperfezioni dello stesso. Inoltre la violazione di un obbligo normativo implica una sanzione laddove vi sia violazione dell’obbligo stesso, concorrendo a rendere l’informativa controllata e quindi attendibile.

Ciò che impone il legislatore allora è un livello di comunicazione quantitativo e qualitativo “mediano” che assecondi le esigenze degli stakeholder ma che, allo stesso tempo, non ponga l’impresa in una situazione di svantaggio. L’informativa infatti non sempre ha effetti positivi per il mercato, alcuni autori si servono della seguente classificazione: costi diretti dell’informazione (i quali derivano direttamente dall’attività di ottenimento, verifica e divulgazione), e costi indiretti (costi in termini di perdita di vantaggio competitivo)30 per esprimere i potenziali effetti negativi derivanti dalla divulgazione (eccessiva) di informazioni. L’analisi costi-benefici in questo campo risulta essere un valido strumento per ponderare l’utilità o meno della divulgazione di informazioni in termini di efficienza del mercato.

Andiamo a vedere ora quali possono essere le informazioni economico-finanziarie che sono previste quali obblighi normativi, concentrandoci sulle società quotate. Gli obblighi informativi di natura contabile sono riconducibili a bilanci consolidati di gruppo, relazioni semestrali ex articolo 81 del Regolamento degli Emittenti, relazioni trimestrali ex articolo 82 del Regolamento di cui sopra. Tra le informazioni circa le operazioni di finanza straordinaria rientrano le relazioni illustrative ante assemblea e documenti informativi relativi a operazioni di acquisizioni, cessioni, aumento di capitale, fusioni, scissioni, conversioni di azioni, OPA, operazioni con parti correlate, etc.31 Per quanto attiene all’informativa sulla Corporate

Governance ricordiamo le relazioni sullo stato di adeguamento delle società quotate al codice di

autodisciplina; informazioni sull’Internal Dealing ossia le comunicazioni sull’operatività delle “persone rilevanti”; ed infine comunicazione degli statuti aggiornati32

. Il legislatore ha previsto

30

G. DI STEFANO, Il sistema delle comunicazioni economico-finanziarie nella realtà aziendale

moderna, Milano, Giuffrè, 1990, p. 105 e seg.

31 Il riferimento è agli articoli: 71,72 e 73 del Regolamento degli Emittenti, nonché agli articoli 2441 e 2446 del Codice Civile.

32

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20

poi una clausola generale per ovviare eventuali carenze informative: “informazioni dovute che riguardano i fatti rilevanti”, ex articolo 114 del TUF33

.

Il coordinato disposto degli articoli di cui sopra volutamente indeterminato, lascia margine al legislatore di ricondurre alla fattispecie dell’articolo 114 una pluralità di casistiche. La possibilità di sussumere quindi la fattispecie specifica in quella generale e astratta lascia quindi ampi margini di manovra. Sono previste dal punto tre condizioni, al ricorrere delle quali possiamo dirci di trovarci nella fattispecie di cui sopra: mancanza di pubblico dominio del fatto, il fatto appartiene all’operatività aziendale (nonché fatti riguardanti gli strumenti finanziari), riflesso sui valori di mercato.

3.2.2. Informativa volontaria.

Oltrepassato l’obbligo della comunicazione di cui sopra, si apre il campo della comunicazione volontaria. Vengono quindi messe a disposizione da parte dell’impresa tutta una pluralità di informazioni di natura diversa senza che questa sia tenuta a farlo. Perché?

Partiamo dall’analisi condotta da un team di esperti appartenenti a PWC, aiaf, AIR34

. La domanda che ha dato origine a questo tavolo di discussione è la seguente: “L’informazione obbligatoria è sufficiente a soddisfare le attese degli utilizzatori del bilancio?” Consci delle sue potenzialità informative ma anche dei suoi limiti intrinseci35, questa squadra di professionisti mette in luce quello che è il bisogno informativo da parte degli utilizzatori del bilancio. In una realtà sempre più interconnessa in cui i valori finanziari sono assai superiori rispetto a quelli reali, il bisogno di comunicazioni economico-finanziarie si fa impellente. Ciò che viene sottolineato è come l’informazione di natura contabile, soggetta a stime e congetture, possa non essere sufficiente per gli stakeholder per poter esprimere la convenienza o meno di fronte ad un investimento in una specifica realtà aziendale36.

33 Dispone il testo legislativo: <<Fermi gli obblighi di pubblicità previsti da specifiche disposizioni di legge, gli emittenti quotati e i soggetti che li controllano comunicano al pubblico, senza indugio, le

informazioni privilegiate di cui all’articolo 181 che riguardano direttamente detti emittenti e le società

controllate. La Consob stabilisce con regolamento le modalità e i termini di comunicazione delle informazioni, ferma restando la necessità di pubblicazione tramite mezzi di informazione su giornali quotidiani nazionali, detta disposizioni per coordinare le funzioni attribuite alla società di gestione dal mercato con le proprie e può individuare compiti da affidarle per il corretto svolgimento delle funzioni previste dall’articolo 64, comma 1, lettera b)>> (corsivo nostro).

34 Comunicazione finanziaria: il ruolo del bilancio tra compliance e informazione, tavolo di discussione PWC; aiaf e AIR, 2014.

35 Per ulteriori approfondimenti sui limiti informativi del bilancio si veda: M. ALLEGRINI, L’informativa

di periodo nella comunicazione economico-finanziaria. Principi e contenuti, nota (19); C.

CARAMIELLO, F. DI LAZZARO, G. FIORI, Indici di bilancio: strumenti per l’analisi della gestione aziendale, Milano, Giuffrè 2003.

36

Si tenga conto di quanto segue: nella divulgazione volontaria di informazione gioco forza lo ha la presenza di una cosiddetta ownership management: diversi autori hanno messo in luce come la presenza di soci-amministratori all’interno di una società sia correlata ad una limitazione della divulgazione di informazioni; <<Managers with substantial share ownership are more risk averse for their personal wealth and may initiate decisions inconsistent with a growth-oriented, risk-taking objective of enhancing

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21

L’avvicinamento delle normative dei diversi Paesi UE può essere sicuramente un primo valido aiuto, si pensi agli IFRS e alla possibilità conseguente di comparare i bilanci redatti secondo i principi contabili internazionali37. Ma ciò non è abbastanza per la creazione di un mercato efficiente: ciò che si cerca di raggiugere è un punto di equilibrio tra informazione obbligatoria e informazione volontaria, la quale, però, deve essere utile al mercato.

Facciamo un passo indietro: scopo della divulgazione di informazioni non obbligatorie è il vantaggio che ne può derivare. In maniera semplicistica, se il costo della divulgazione è minore dell’utilità che da tale divulgazione ne scaturirebbe, allora, la società ha convenienza a rendere l’informazione disponibile al pubblico38

. Supponendo quindi che tale disuguaglianza sia verificata, allora dovrebbe aversi come naturale conseguenza la diffusione di un valore. Gli operatori di mercato dovrebbero quindi essere in grado di percepire un maggior valore intrinseco in quella specifica realtà aziendale. Lo scopo di un investitore è quello di capire l’effettività dei valori, ossia a quanto ammonta il gap esistente tra valore di mercato e valore reale (quello che in concreto vale), così da ponderare al meglio il proprio investimento. Per tanto, se l’impresa è in grado di trasmettere tale valore, allora la comunicazione economico-finanziaria sta sortendo effetti positivi. Essa infatti è volta a soddisfare dei bisogni espressi dagli

stakeholder. Tuttavia essa non solo deve essere resa nota, ma anche compresa dagli utenti:

<<Non tutti i partecipanti della catena dell’informazione trovano il bilancio quale mezzo unicamente sufficiente e idoneo ad una informazione fruibile39>>. Questo ha quindi spinto la dottrina a domandarsi se effettivamente il bilancio non sia diventato uno strumento obsoleto40, ma l’auspicio è sicuramente quello per il quale le eventuali carenze di un bilancio siano sanate da una comunicazione economico-finanziaria suppletiva, la quale analizza il dato di natura extra-contabile. L’esigenza colta dal framework di cui sopra, si colloca in questa stessa prospettiva: passare da “rendiconto contabile” a “pacchetto informativo prospettico”. Si coglie in questa espressione la volontarietà di avere informazioni plurime, di cui sicuramente anche il bilancio fa parte, ma restando per l’appunto solo una parte e non esaurendosi in essa.

shareholder value. Based on the above, managers are likely to disclose less when management ownership is high because of their intention to evade outside shareholders’ monitoring and/or appropriate the wealth of minority shareholders>>. S. LUO, S.M. COURTENAY, M. HOSSAIN, The effect of voluntary

disclosure, ownership structure and proprietary cost on the return-future earnings-relation, Pacific-Basin

Finance Journal, 2006, p. 505.

37 Uno standard setter generalmente riconosciuto ha anche il vantaggio di ridurre i costi di produzione dell’informazione stessa: << This type of regulation potentially reduces processing costs for financial statement users by providing a commonly accepted language that managers can use to communicate with investors>> P.M. HAULEY, K.G. PALEPU, Information asymmetry, corporate disclosure, and the

capital markets: A review of the empirical disclosure literature, nota (28), p. 412.

38 Una rapida disamina dei costi-benefici verrà svolta nel paragrafo successivo.

39 Comunicazione finanziaria: il ruolo del bilancio tra compliance e informazione, nota (34), p.4. 40

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