Corso di Laurea magistrale (ordinamento ex
D.M. 270/2004)
in Amministrazione, finanza e controllo
Tesi di Laurea
La disciplina relativa ai proventi
di natura illecita e l’indeducibilità
dei costi da reato
Relatore
Ch. Prof. Antonio Viotto
Laureando
Davide Borgato
838769
Anno Accademico
2015 / 2016
INDICE Indice 3 Introduzione 7 Capitolo I
QUESTIONI DI CARATTERE GENERALE
1.1 I principi costituzionali 9
1.2 Funzione impositiva e funzione sanzionatoria della Legge tributaria
16
1.3 Il reddito: nozione economica e giuridica 20
1.4 Possesso del reddito come elemento qualificante ai fini impositivi
26
1.5 Le sei categorie di reddito 29
1.5.1 I redditi fondiari 29
1.5.2 I redditi di capitale 32
1.5.3 I redditi da lavoro dipendente 33
1.5.4 I redditi da lavoro autonomo 34
1.5.5 I redditi d’impresa 36
1.5.6 I redditi diversi 38
Capitolo II
LA TASSAZIONE DEI PROVENTI DA ATTIVITÀ ILLECITA
2.1 Le prime teorie pro e contro la tassabilità dei proventi di natura illecita
41
2.1.1 Dall'intervento della Suprema Corte di Cassazione di Firenze agli orientamenti della prima metà del Novecento
44
2.1.2 La dottrina contraria 46
2.1.3 La dottrina favorevole 51
2.1.4 Gli orientamenti giurisprudenziali fino alla posizione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione
2.1.5 La posizione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione 56
2.2 Il primo intervento del legislatore: la Legge 24 dicembre 1993, n. 537
58
2.2.1 Portata dell’innovazione e analisi della norma 62
2.2.2 Obblighi formali e accertamento 67
2.3 Il secondo intervento del legislatore: l’articolo 36, comma 34 bis del D.L. n. 223/2006
70
2.4 Ulteriori pareri giurisprudenziali e interventi del legislatore 74
2.5 Confisca e sequestro 76
2.5.1 La direttiva europea 2014/42/UE 85
Capitolo III
L’INDEDUCIBILITÀ DEI COSTI DA REATO
3.1 Introduzione 91
3.2 Rilevanza dei costi illeciti nel reddito 94
3.2.1 Influssi internazionali 99
3.3 Dalla Legge 537/1993, art. 14, comma 4 all’introduzione del comma 4 bis con la Legge 289/2002, art. 2, comma 8
102
3.3.1 I rapporti tra comma 4 e 4 bis 103
3.3.2 Natura e portata della disposizione 105
3.3.3 Dubbi di costituzionalità 110
3.3.4 Applicazione ad altre imposte e altre considerazioni 116
3.4 La modifica del comma 4 bis attraverso l’intervento del legislatore con l’art. 8 del Decreto legge n. 16 del 2 marzo 2012 convertito con la Legge n. 44 del 26 aprile 2012
121
3.4.1 Ambito di applicazione e natura della norma 122
3.4.2 L’applicazione della L. n. 44/2012: i delitti non colposi 125
3.4.3 Efficacia temporale della norma e regime transitorio 131
3.4.4 Applicazione ad altre imposte e altre considerazioni 132
3.5 Fatture soggettivamente e oggettivamente inesistenti 134
3.5.1 Le così dette “frodi carosello” 134
3.5.2 Fatture oggettivamente inesistenti 140
Capitolo IV
I RAPPORTI TRA PROCEDIMENTO PENALE E PROCESSO TRIBUTARIO
4.1 I tentativi di riforma del sistema penale tributario 145
4.1.1 Excursus storico 145
4.1.2 Dalla Legge n. 516 del 7 agosto 1982 alle riforme degli anni Novanta
147
4.1.3 Il Decreto legislativo n. 74 del 10 marzo 2000 151
4.2 Autonomia del processo penale rispetto
all'accertamento/processo tributario
156
4.2.1 Il principio di specialità (art. 19 D. Lgs. 74/2000) 156
4.2.2 I rapporti tra il procedimento penale e quello tributario (artt. 20 e 21 D. Lgs. 74/2000)
162
4.3 Gli interventi del legislatore: dal Decreto Legge n. 138/2011 alla Legge di stabilità 2016 n. 208/2015
171
Conclusione 175
Bibliografia 179
INTRODUZIONE
Scopo della presente trattazione è indagare gli strumenti messi in opera dal legislatore in relazione alla possibile tassazione dei proventi da reato, alla deducibilità dei costi e, infine, ai rapporti che si vengono a instaurare tra processo penale e procedimento e processo tributario. Tali tematiche non sono affatto nuove, ma hanno occupato gli studiosi e la giurisprudenza per parecchi decenni, con soluzioni spesso in contrasto tra di loro e posizioni sovente inconciliabili, determinate anche da interventi normativi che a volte sono risultati inadeguati, poco efficaci o semplicemente mal correlati alla normativa previgente.
Lo studio qui presentato si articola pertanto in quattro capitoli che si occupano di ambiti differenti, ma che sono intimamente correlati nel tentativo di dare una disposizione organica alla materia.
Il primo capitolo dà alcune coordinate generali che consentono di situare la riflessione nell’alveo della Costituzione e di rendere conto della discussione su temi generali, quali il concetto e le diverse categorie di reddito, operata da dottrina e giurisprudenza. Alla luce di queste riflessioni generali si vedrà che una particolare rilevanza assume il principio di capacità contributiva sancito dall’articolo 53 della Carta costituzionale in quanto principio che da un lato consente di stabilire una correlazione tra imposizione fiscale e ricchezza prodotta, ma soprattutto rappresenta un principio fortemente intriso di democraticità, consentendo al cittadino di comprendere il meccanismo e il fine dell’imposizione fiscale. Nel primo capitolo si tenta di dare poi una definizione per i concetti di tributo, di sanzione e di reddito, dando conto delle differenti posizioni e delle diverse sfumature che tali concetti hanno assunto anche in relazione alla mancanza di una posizione autorevole e di una indicazione unidirezionale da parte del legislatore. Nel secondo capitolo, partendo proprio da questo atteggiamento antidefinitorio del legislatore, che riguarda anche le nozioni di provento e illecito, oltre a quella di reddito, si compie un excursus sia in campo dottrinale che giurisprudenziale sulla tassabilità dei proventi da illecito che, proprio in virtù della mancanza di una stabilità tassonomica dei principi e concetti coinvolti, interessa posizioni molto articolate e difformi. In tale indeterminatezza hanno potuto trovare credito anche posizioni che hanno assunto, nelle questioni della tassabilità dei proventi da illecito, fattori extra fiscali o derivati da visioni
etiche o morali dello Stato. In questo panorama ha tentato di fornire una direzione più chiara l’intervento del legislatore del 1993 con il quale si determina l’imponibilità dei redditi derivati da un’attività illecita. A tale intervento, anche in ragione dell’allarme sociale determinato da tali reati e al loro proliferare anche in campo internazionale, hanno fatto seguito altre iniziative volte al contrasto dei reati suddetti, che hanno tentato e cercano, in verità con alterne fortune, di costituire un sistema il più possibile coerente e organico.
Il terzo capitolo è dedicato ai costi da reato; in modo particolare si dà conto dei tentativi compiuti per contrastare i comportamenti fraudolenti e di quelli correlati all’esigenza di armonizzare la questione ai principi costituzionali e alle norme disciplinanti ambiti di interesse comune. In relazione ai molti dubbi, anche di incostituzionalità, delle norme precedenti appare significativo l’intervento del 2012 che, attraverso una circoscrizione più puntuale dei reati interessati dall’azione della norma e la determinazione di una relazione più stringente tra costo e commissione di un reato, ha costituito un’importante e decisiva novità. Quest’ultima e il forte impatto della norma tuttavia non rappresentano l’unico portato dell’intervento legislativo, aprendo alla questione del rapporto tra processo penale e procedimento/processo tributario che è oggetto del quarto capitolo. In tale parte si riportano innanzi tutto le determinazioni e le conseguenze dell’introduzione della pregiudiziale tributaria, secondo la quale il processo penale deve essere sospeso fino alla conclusione di quello tributario. All’abrogazione della pregiudiziale tributaria è seguito il periodo di applicazione del così detto principio del “doppio binario”, la cui applicazione, tuttavia, non è stata scevra di problemi e complicazioni, stante anche la difficoltà di armonizzare gli esiti dei due processi che, indipendenti in sé, qualora riguardassero il medesimo fatto, dovrebbero avere esiti che quantomeno non siano in contrasto tra di loro. Il rischio del contrasto tra i giudicati, anche al momento attuale, con un’applicazione per così dire moderata del principio del doppio binario, appare ancora ben presente, anche in ragione della diversità del regime probatorio tra i due processi. Per tali ragioni appare quanto mai necessario un intervento del legislatore direzionato a determinare e dettagliare gli esiti per ciascuna fattispecie di reato al fine di valutare tutti i rapporti che si possono instaurare tra i processi penale e tributario.
Capitolo I
QUESTIONI DI CARATTERE GENERALE
1.1 I principi costituzionali
La “funzione fiscale”1 rappresenta una delle nervature fondamentali della Costituzione
repubblicana; esplica il carattere comunitario della società e consente una lettura, per certi versi, innovativa della Carta stessa. In questo senso si può affermare che il fondamento delle norme tributarie sia da ricercarsi nei principi costituzionali e quindi che tutte le norme tributarie promanino dai principi fondamentali della Costituzione. La Carta costituzionale, se accogliamo questo punto di vista, non deve essere letta nella successione dei suoi articoli, né tantomeno questi possono essere estrapolati e valutati separatamente, ma devono essere interpretati congiuntamente alla luce dei fitti rimandi che si instaurano tra le diverse parti e i diversi articoli.
La “funzione fiscale”, secondo questa lettura, si pone come punto di sintesi tra le diverse argomentazioni cui la Carta dà spazio fin dai suoi principi fondamentali: il principio democratico, che trova la sua più alta formulazione nell’articolo 1, quello liberale enunciato all’articolo 2 e quello sociale, che è sotteso ai primi quattro articoli.
Il punto di partenza, nella particolare disamina della Costituzione che ci si pone di compiere, è rappresentato dall’articolo 2 che nella sua parte terminale pone in capo ai cittadini l’onere di “adempiere ai doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. La solidarietà tra i membri della società civile viene perciò a costituirsi come un “patto” tra i cittadini che è condicio sine qua non per la costituzione di uno Stato. 2 Al
1 Tale espressione, che rende conto della stretta correlazione esistente tra i membri della società civile e dei legami di responsabilità che tra essi si instaurano vicendevolmente, è coniata e utilizzata da A. FEDELE,
La funzione fiscale e la “capacità contributiva” nella Costituzione italiana, in C. BERLIRI, L. PERRONE (curr.),
Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2006; A. FEDELE, Dovere
tributario e garanzie dell’iniziativa economica e della proprietà nella Costituzione italiana, in B. PEZZINI, C.
SACCHETTO (curr.), Dalle costituzioni nazionali alla costituzione europea. Potestà, diritti, doveri e
giurisprudenza costituzionale in materia tributaria, Milano, Giuffrè, 2001.
2 Questo principio è frutto della mediazione tra i principi solidaristici del cattolicesimo liberale e l’idea, in particolar modo espressa dal Partito d’Azione, di intima correlazione e compenetrazione tra diritti e
principio liberale o solidaristico, espresso nel secondo articolo, fa da contro altare il principio di uguaglianza enunciato nell’art. 3 che stabilisce l’uguaglianza di fronte alla legge di tutti i cittadini e, in modo ancora più perentorio, esclude la possibilità che i diversi trattamenti che lo Stato può e deve riservare ai suoi cittadini possano discendere da arbitrio o da discriminazione. Ancora più fondante, e non per nulla inserito quasi come exergo e posto a dettarne il leit motive della Costituzione, è il principio democratico, sancito nell’articolo 1, che riconosce al popolo la sovranità vincolandola al solo rispetto della Costituzione.
Tra i doveri che la Costituzione attribuisce ai cittadini, quello di concorrere alle spese pubbliche costituisce uno degli elementi cardine dell’ordinamento, come ribadito e affermato, al di là di ogni possibile dubbio, anche nella dottrina giuridica e nella giurisprudenza della Corte Costituzionale.3 Tale è il principio della capacità contributiva
che si desume dall’articolo 53 della Costituzione e che costituisce, da un lato il fondamento sostanziale del dovere tributario, dall’altro si configura come un elemento imprescindibile correlato a un primario criterio di giustizia sociale e vincolante per il legislatore nella determinazione dei criteri di creazione e ripartizione del reddito. 4
Il primo comma dell’articolo: “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva” risponde al dovere imposto a ciascun cittadino di contribuire al benessere della collettività, attraverso l’obbligatorietà del prelievo fiscale. Questo, come si è detto, è uno dei doveri fondamentali di solidarietà desunti dall’articolo 2 della Costituzione; pertanto qui si configura il dovere a cui ogni cittadino è assoggettato per il fatto di appartenere a una collettività organizzata chiamata Stato, all’interno della quale l’obbligo di contribuzione costituisce una ragione fondante.
doveri. Sull’argomento si può vedere C. FRANCESCHINI, S. GUERRIERI, G. MONINA (a cura di), Le idee
costituzionali della Resistenza: atti del Convegno di Studi 19, 20 e 21 ottobre 1995, Roma, Presidenza del
Consiglio dei Ministri, Dipartimento per l’informazione, l’editoria e la stampa, 1997.
3 Per una ricostruzione delle diverse culture giuridiche e dei contributi che hanno consentito lo sviluppo dell’attuale ordinamento tributario vedasi almeno E. DE MITA, Il diritto tributario tra diritto comune e
principi costituzionali, in ID., Interesse fiscale e tutela del contribuente, Milano, Giuffrè, 2006.
4 A tale proposito si veda l’utile disamina condotta in F. MOSCHETTI, G. LORENZON, R. SCHIAVOLIN, L. TOSI, La
capacità contributiva, Padova, CEDAM, 1993. Per quanto concerne i limiti formali e sostanziali al potere di
imposizione si veda anche E. DE MITA, Il principio di capacità contributiva, in ID., Interesse fiscale e tutela del
Il secondo comma introduce un criterio maggiormente circostanziato, laddove recita che: “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. 5
La progressività tributaria (l’imposizione di aliquote via via crescenti all’aumentare della base imponibile) costituisce un presupposto di giustizia sociale molto importante in quanto lega il sacrificio richiesto al soggetto in base alla sua possibilità di farvi fronte.6
Infatti all’aumentare della base imponibile aumenta l’imposta dovuta in modo più che proporzionale.
Appare perciò evidente come in tale articolo la prestazione tributaria venga trattata dal punto di vista del contribuente e non dell’ente impositore; rappresenta cioè un dovere generale di concorrere all’interesse comune in ragione del fatto di avere capacità contributiva e in misura proporzionata a tale capacità.
La prestazione tributaria perciò non si configura né come una mera enunciazione di principio, né ha come proprio fondamento un generale potere impositivo, né infine si statuisce come uno scambio di utilità tra ente pubblico e contribuente, bensì rappresenta la capacità contributiva, che si può ridefinire come l’attitudine a concorrere alle spese pubbliche, manifestata in via preliminare dalla forza economica del soggetto. La presenza di uno specifico articolo che enuclea il principio relativo alla capacità contributiva nel testo costituzionale risponde a una specifica volontà anche di maggiore
5 Su questi aspetti si vedano A. FANTOZZI, Diritto tributario, Torino, UTET, 1991 e R. CORDEIRO GUERRA,
Problemi in tema di traslazione convenzionale dell’imposta, in Rassegna tributaria, I, 1988, e più
specificatamente sulla progressività della tassazione G. MARONGIU, I fondamenti costituzionali
dell’imposizione tributaria. Profili storici e giuridici, Torino, UTET, 1991.
6 Come è noto la progressività può essere continua o a scaglioni: nel primo caso a ogni minima variazione dalla base imponibile corrisponde una variazione dell’aliquota; nel secondo caso invece l’aliquota cresce in modo continuo, ma solo quando il reddito è aumentato di un certo quantum detto appunto scaglione. Lo scopo della progressività a scaglione è quello di una maggiore semplificazione nell’applicazione dell’aliquota e, soprattutto, di alleggerire il carico fiscale che rimane proporzionale dentro lo scaglione. Il primo metodo è stato usato in Italia prima della riforma, quando la progressività veniva calcolata mediante un rapporto matematico definito e codificato (cfr. art. 139 T.U. 1958). Va ricordato che, dal momento che sia il numero che l’entità dei singoli scaglioni sono determinati secondo criteri stabiliti dall’ente impositore, la progressività di questo tipo diventa uno strumento che sfugge a criteri oggettivi e consente delle modulazioni differenti a seconda dello scaglione, la cui ampiezza dipende dal numero dei contribuenti che vi si intende comprendervi.
determinazione e circoscrizione del campo di interesse e applicabilità della capacità contributiva.7
Secondo tale previsione quindi tutti devono concorrere all’interesse comune, in quanto idonei a realizzarlo e questo in misura della disponibilità e senza per questo motivo poter vantare diritti sullo Stato, proprio in virtù dell’assenza di specifici rapporti commutativi.
Appare perciò evidente che il principio di solidarietà e quello di capacità contributiva sono interconnessi in modo assai profondo così che nell’ambito dei rapporti di solidarietà, il criterio di giustizia che ne scaturisce risponde alla formula “da ciascuno secondo le capacità, a ciascuno secondo i bisogni”.8 Ne deriva, perciò, che lo Stato non
può operare in senso assoluto, ma la sua possibilità impositiva è correlata a indici oggettivi che rispondono alla capacità dei cittadini di sopportare il prelievo richiesto.9
Perciò ne discendono per lo Stato i seguenti comportamenti: l’impossibilità di imporre il pagamento del tributo a un soggetto privo di capacità contributiva e l’impossibilità di chiedere a un soggetto di contribuire più di quanto potrebbe alle spese pubbliche.10
L’articolo 53 trova spazio all’interno delle sezione della Costituzione riservata agli obblighi politici; questo rappresenta la volontà di sostituire l’idea del tributo come mera
7 G. FALSITTA, Storia veridica, in base ai lavori preparatori, della inclusione del principio di capacità
contributiva nella Costituzione, in Rivista di diritto tributario, II, 2009.
8 F. FORTE, Principi di economia finanziaria, in Trattato di economia pubblica, I, 2, Torino, UTET, 1980, pp. 608 – 635.
9 La prima dimostrazione completa di tale assunto è in E. GIARDINA, Le basi teoriche del principio di capacità
contributiva, Milano, Giuffrè, 1961. Successivamente si veda L. TOSI, Su un’ipotesi di tassazione del reddito
normale: problematiche applicative e costituzionali, in Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze, I,
1990.
10 Sulla definizione di capacità contributiva molto è stato scritto e la dottrina si è molto confrontata sia in passato che in tempi più recenti; vedi almeno G. MARONGIU, I fondamenti costituzionali dell’imposizione
tributaria. Profili storici e giuridici, Torino, UTET, 1991; E. DE MITA, La legalità tributaria: contributo alla
semplificazione legislativa, Milano, Giuffrè, 1993. Appare molto chiara e condivisibile la posizione espressa
dalla Scuola Veneta di Diritto Tributario che sostiene che la capacità contributiva sia rappresentata da una grandezza economicamente valutabile e spendibile. Ciò significa che se il cittadino è chiamato a concorrere alle spese pubbliche in ragione della capacità contributiva questa deve essere qualcosa che gli consente di concorrere e quindi qualcosa che sia monetizzabile e spendibile. Perciò l’imposta deve fondarsi su una quantificabile e manifesta ricchezza correlata anche temporalmente alla capacità contributiva, che per sua natura può variare nel tempo.
imposizione con quella del tributo come elemento che, attraverso la ridistribuzione del reddito, consente il concorso proporzionale alla spesa pubblica da parte dei cittadini. La capacità contributiva è, per quanto detto, quanto il cittadino è in grado di cedere alla collettività per il soddisfacimento dei bisogni di quest’ultima; tutto ciò che eccede il minimo vitale, cioè quel livello di ricchezza minima che consente una vita dignitosa, al di sotto del quale vi è la soglia di povertà, è capacità contributiva. Nella valutazione del minimo vitale è necessario non solo fare riferimento alla situazione dell’individuo, ma anche a quella della sua famiglia; questo infatti risponde a un altro dei principi tutelato dalla Costituzione (art. 31). 11 La dottrina e la giurisprudenza quindi hanno ormai
pacificamente concordato circa la necessità che dall’imposizione debba essere escluso un quantum finalizzato alla sopravvivenza dell’individuo. La regola, applicata al soggetto individuale, risponde alla tutela della persona, cui deve essere garantita una sussistenza libera e dignitosa e costituisce il limite minimo all’assoggettabilità ai tributi da parte del cittadino.12 La capacità contributiva, a giudizio della maggior parte della dottrina e della
giurisprudenza, si origina al presentarsi di due elementi in contemporanea: la presenza di una forza economica e il collegamento di questa con l’individuo assoggettato al tributo.
A questo punto appare evidente che sussiste una discrezionalità nella determinazione della misura del prelievo fiscale, discrezionalità che, se resta nei limiti della ragionevolezza e non introduce discriminazioni arbitrarie, viene comunque limitata dal principio di legalità. Tale principio di legalità, meglio detto principio della riserva di legge, è espresso nell’art. 23 della Costituzione, il quale, nel disporre che “nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”, introduce anche per i tributi il principio che questi debbano essere previsti dalla legge nei loro elementi fondamentali, potendo gli altri elementi essere rimessi a una norma di
11 La posizione di I. MANZONI, Il principio di capacità contributiva nell’ordinamento costituzionale italiano, Torino, Giappichelli, 1965, p. 81: per cui “dovrebbe logicamente imporsi – di là dal ristretto significato letterale dell’espressione – un allargamento del concetto di minimo vitale tale da garantire all’individuo la disponibilità dei mezzi necessari non soltanto alla vita fisica, ma altresì alla sua condizione di individuo sociale: assicurandogli quel minimo di decoro e di dignità che gli competono nella società in cui è inserito” appare oggi condivisa anche dalla giurisprudenza.
12 Si veda almeno A. FEDELE, Ancora sulla nozione di capacità contributiva nella Costituzione italiana e sui
rango secondario.13 Tale previsione stabilisce un principio molto forte in quanto dà ai
soggetti che subiscono l’imposizione la possibilità di esprimere il consenso sull’imposizione stessa: infatti nei sistema democratici, come il nostro, le prestazioni possono essere imposte ai cittadini solo sulla base della legge che è espressione della volontà degli stessi, che si realizza attraverso gli eletti che li rappresentano.
In definitiva queste prestazioni, sia che siano patrimoniali o personali, devono essere previste da una legge dello Stato. Il principio, quindi, introduce una riserva relativa di legge in materia tributaria, ovvero stabilisce che la materia tributaria debba essere disciplinata dalle fonti di rango primario, mentre, se ci devono essere degli interventi, questi possono avvenire anche mediante fonti di rango secondario. Gli elementi fondamentali del tributo, che devono essere regolamentati da fonti di rango primario, sono: il presupposto del tributo, che si configura come l’evento al cui verificarsi sorge l’obbligazione tributaria; la determinazione dei soggetti passivi, che sono coloro che sono chiamati a pagare l’obbligazione tributaria, la base imponibile e l’aliquota massima. Mentre altri aspetti applicativi del tributo, come le modalità di accertamento e di riscossione, possono essere normati da fonti di grado inferiore alla legge.
Il principio dell’articolo 23 prende in considerazione tutte le prestazioni patrimoniali imposte e non solo il concetto di tributo: questo ultimo, infatti, è una parte delle prestazioni imposte che comprendono tutte le prestazioni coattive che possono essere richieste; in questo modo l’art. 23 acquista anche la funzione di tutelare la libertà e la
proprietà individuale.
Quindi dalla lettura combinata degli articoli 2, 3 e 53 della Costituzione si può inferire che lo Stato opera la rimozione degli “ostacoli di ordine economico e sociale” anche attraverso il sistema tributario, che oltre a servire alla raccolta delle risorse economiche, compie una funzione redistributiva della ricchezza: in tale senso il principio di uguaglianza, lungi dall’esprimere lo sterile appiattimento di un’imposizione omogenea, deve essere declinato secondo i due principi dell’equità orizzontale e verticale: il livello
13 Per l’interpretazione dell’art. 23 si veda A. FEDELE, La riserva di legge, in Trattato di diritto tributario, I, I, Padova, 1994.
di prelievo imposto ai cittadini da parte dello Stato può essere differente a patto di rispondere al principio di solidarietà e di essere giustificato. 14
14 Il principio dell’equità orizzontale è quello per cui gli individui con medesima capacità contributiva dovrebbero ricevere lo stesso trattamento tributario, quello dell’equità verticale è quello per cui, trovandosi in condizioni differenti, gli individui dovrebbero ricevere un trattamento fiscale differente.
1.2 Funzione impositiva e funzione sanzionatoria della Legge tributaria
Si è già visto come l’articolo 53 della Costituzione abbia lo scopo di assicurare che tutti i soggetti facenti parte della collettività contribuiscano, secondo le loro capacità, al mantenimento dello Stato attraverso il loro sostenimento alla spesa pubblica. Quando questo non si verifica interviene la sanzione che, da un lato ha la funzione di salvaguardare gli interessi che l’ordinamento considera costitutivi, dall’altro ha lo scopo di punire l’autore della violazione degli interessi summenzionati. Ciò implica che i piani tributario e sanzionatorio sono indipendenti, autonomi e distinti in quanto: “ciò che è tributo (contributo prelevato sulla ricchezza in base al principio di solidarietà) non è sanzione (reintegrazione […] dell’ordine giuridico violato), e ciò che è sanzione non è tributo”. 15
Occorre a questo punto delineare in modo univoco il perimetro semantico del termine “sanzione”. Per “sanzione” si indica solitamente la conseguenza sfavorevole attribuita a un individuo da chi ha la potestà di comminarla, a seguito di verifica di un illecito, ovvero della violazione di una norma. Pertanto possono essere attribuiti alla sanzione i seguenti attributi: la sanzione è afflittiva ed è conseguenza di un comportamento contra
legem. 16
In campo tributario i due concetti di sanzione e tributo sono autonomi e in sé indipendenti, come si è detto, sebbene entrambi si configurino come entrate pubbliche coattive. Discende da questo assunto che l’imposta non può avere un carattere sanzionatorio in quanto ciò contrasterebbe con la sua primaria funzione redistributiva della ricchezza. 17
15 A. MARCHESELLI, Le attività illecite fra fisco e sanzione, Padova, CEDAM, 2001, p. 20.
16 Appare opportuno segnalare che la dottrina non ha un atteggiamento uniforme nei confronti della sanzione: alcuni autori non utilizzano il termine per designare anche le misure preventive e cautelari, la rimozione degli effetti causati dall’illecito, o connessi al ripristino della situazione precedente il verificarsi dell’illecito; altri utilizzano anche per queste situazioni il termine, magari declinandolo in diversi modi. 17 Appare evidente che tale principio assolutamente chiaro sul piano teorico, spesso nella realtà non consente un discrimine netto. In molti casi, infatti, la classificazione di un prelievo all’interno della categoria delle sanzioni piuttosto che in quella delle imposte appare incerta e il confine tra i due concetti piuttosto labile.
Il diritto tributario prevede diverse sanzioni sia penali che amministrative che hanno lo scopo di censurare e punire comportamenti illeciti. Accanto a queste sanzioni vere e proprie esistono anche le sanzioni improprie che si possono distinguere in due gruppi a seconda dell’effetto che producono: il primo gruppo è costituito da quelle sanzioni che di fatto privano i contribuenti di alcuni strumenti di tutela o potenziano i poteri di accertamento da parte dell’amministrazione; il secondo è composto da quelle che aumentano l’imposta attraverso l’esclusione del contribuente dal diritto di deduzioni, di detrazioni o attraverso l’aumento della base imponibile.
Si può affermare quindi che, se la funzione primaria del tributo è la ripartizione delle spese pubbliche fra i cittadini dello Stato e se tale ripartizione deve fondarsi sul principio della capacità contributiva e rispettare il criterio di progressività, è altresì vero che spesso il sistema tributario viene utilizzato anche nel perseguimento di altri scopi. Un ulteriore punto da mettere in luce e che promana sempre dai principi tributari contenuti nella Costituzione è legato alla ripartizione della spesa che deve avvenire secondo gli indici di ricchezza stabiliti dalla norma e non in base a controprestazioni o benefici avutine in cambio. La necessità di questa precisazione, che potrebbe risultare ovvia e banale, occupa, per le finalità del presente lavoro, un ruolo assolutamente primario nel tema della tassazione dei redditi da fonte illecita.
È noto che esiste un altro articolo della Costituzione particolarmente importante per la questione che si sta affrontando: si tratta dell’articolo 41 della Costituzione, 18 che recita:
“L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà o alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata ai fini sociali”. 19 Da tale principio si è
18 Si veda quanto affermato da G. GAMBAROTA, La frode fiscale nel falso dell’imprenditore (Prima parte), in il Fisco, 1988, p. 2037: “La lettura dell’art. 53 Cost. va fatta con riguardo ad altri parametri costituzionali ed in particolare quello per cui l’attività economica deve indirizzarsi in modo socialmente utile, senza recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana (art. 41). Se anche il rapporto di imposta deve uniformarsi ai principi costituzionali, è del tutto ovvio che non vi è spazio per ritenerlo ammissibile nel caso dell’imprenditore i cui redditi derivino dall’esercizio di attività illecite”.
19 Al fine di compiere la disamina delle implicazioni dell’articolo può essere utile vedere: F. GALGANO, S. RODOTÀ, Rapporti economici, in G. BRANCA (a cura di), Commentario della costituzione, tomo II (artt. 41 –
44), Bologna – Roma, Zanichelli, 1982 e più recentemente G. GIACOBBE, L’attività imprenditoriale tra diritto
desunto che il legislatore non censura e anzi promuove l’iniziativa privata, purché essa non sia contraria all’ordinamento normativo. Da ciò deriva la considerazione per la quale in passato si era ritenuto che i provenienti di natura illecita non dovessero essere tassati, in quanto ciò avrebbe costituito una legittimazione degli stessi, derivando da un’attività non coerente e anzi contrastata dall’ordinamento statale,20 ciò costituiva un
autentico paradosso giuridico. La visione, per la quale lo svolgimento di una determinata attività deve avere una sorta di giustificazione e quasi legittimazione da parte dello Stato,21 risulta ormai superata a favore di un sistema nel quale i principi di libera
iniziativa economica e di capacità contributiva si fondono in uno nel quale il pagamento delle imposte deriva da un dovere costituzionale. 22 La questione infatti risulta mal
posta: la Costituzione fornisce al più l’indicazione che le attività socialmente dannose non debbano essere sostenute e incoraggiate e anzi debbano essere ostacolate; mentre nulla dice in merito alla loro esclusione dalla tassazione. Tassare un provento illecito, come si avrà modo di dimostrare più avanti, se pure dà l’impressione di riconoscerlo come fonte di reddito stabile, non implica in nessun modo riconoscerlo valido in quanto assoggettato a tassazione. Dal momento che il legislatore può essere mosso, nell’operazione di stabilire la base imponibile, anche da criteri extrafiscali, può decidere autonomamente i parametri dell’assoggettamento, quali ad esempio l’agevolazione per attività socialmente meritevoli e la disincentivazione per quelle dannose.
Appare quindi giustificato, purché all’interno degli interessi che la Costituzione tutela, che l’utilizzo del sistema tributario sia consentito anche per ragioni extrafiscali, purché tale operazione non abbia come conseguenza il rischio che il prelievo sui contribuenti
20 Scrive A. MARCHESELLI, Le attività illecite tra fisco e sanzione, Padova, CEDAM, 2001, p. 40: “ […] in base alla norma costituzionale in esame il legislatore potrebbe assumere le attività illecite a base di soli effetti sanzionatori e, comunque, che lo stabilire un tributo sul provento illecito implicherebbe un riconoscimento della legittimità del medesimo e dell’attività sottostante, e se ne è voluto dedurre che una ipotetica soluzione legislativa nel senso della tassabilità di tali proventi sarebbe incostituzionale”.
21 Così nella sentenza della Corte di Cassazione del 7 marzo 1994, n. 2798, in Rivista di diritto tributario, 1995, II, p. 561: “l’ordinamento giuridico non può prevedere l’assoggettamento a prelievo fiscale , il quale è effetto, anzitutto del riconoscimento che l’iniziativa economica, l’attività, fonte di ricchezza, può svolgersi, ha diritto di svolgersi”.
22 Si veda la posizione di F. FORTE, Sul trattamento fiscale delle attività illecite, in Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze, II, 1952, p. 119 parla del pagamento delle imposte come di un: “dovere sociale di solidarietà cui i membri della collettività sono tenuti per il fatto di appartenervi economicamente, socialmente e politicamente”.
interessati dall’aggiunta di una contribuzione di matrice extrafiscale, non si tramuti in un prelievo espropriativo. Tra le ragioni dei prelievi di origine extrafiscale vanno cercate anche le cause delle disposizioni emanate per incentivare o disincentivare il contribuente nei confronti della decisione di assumere o meno un determinato atteggiamento. Tali agevolazioni spesso non costituiscono un insieme coerente e coeso di interventi, rispondendo piuttosto a situazioni congiunturali e a interventi estemporanei che rispondono a esigenze di singoli o di comparti piuttosto che a una visione di insieme dello Stato. 23
23 Sulla questione si sofferma P. BORIA, Il sistema tributario, Torino, UTET, 2008, che tenta una classificazione per l’appunto sulla base delle finalità dell’intervento a favore, che comprende agevolazioni per i diversi settori della produzione (agricoltura, industria, terzo settore), agevolazioni per zone disagiate (sono all’ordine del giorno quelle per il Mezzogiorno) o per determinate finalità: a sostegno del turismo, dell’occupazione, etc.
1.3 Il reddito: nozione economica e giuridica
Un punto nodale di discussione e una necessità imprescindibile per il prosieguo del presente lavoro, è quello relativo alla necessità di una definizione di reddito. Tale problema ha appassionato per anni gli studiosi di scienza delle finanze, ma anche i giuristi e gli economisti, e interessa il presente studio perché dalla definizione data al reddito da alcune teorie si può derivare la sostenibilità o l’insensatezza della tassabilità dei proventi da fonte illecita. Tali teorie contrapposte possono essere riassunte nelle due posizioni sotto riportate: per Giannini “il reddito non è […] un dato giuridico, ma meramente economico e qualunque considerazione che attenga al carattere lecito o illecito dell’attività produttiva del reddito o, in genere, alla validità o invalidità dei rapporti giuridici sulla base dei quali si è nel fatto conseguito un vantaggio economico, riesce estranea al diritto tributario”;24 mentre per Falsitta: “la nozione di reddito, fatta
propria dal nostro legislatore fin dal T.U. del 1877, è palesemente frutto di un compromesso. Trattasi in definitiva, di un concetto ibrido che non ha né la nitidezza di contorni né la coerenza di concetti di reddito definito dagli economisti. Le gravi e quasi insolubili discussioni sul concetto di reddito, le deviazioni e gli errori si ridurrebbero enormemente, se si prendesse atto di questa verità elementare e si rinunciasse alla pretesa di leggere e ricostruire il senso delle norme giuridiche con gli occhiali deformanti dei concetti economici”. 25
All’interno del diritto tributario il legislatore non ha voluto fornire un’indicazione puntuale e una definizione chiara e univoca di reddito; da qui la nascita di due scuole contrapposte: quella che fa originare dal concetto economico di reddito la nozione che di esso è utilizzata dal legislatore tributario e quello che tende a esasperare la separatezza tra i due concetti: reddito fiscale e reddito economico.
Come è noto poi il concetto di reddito è stato fatto oggetto di teorizzazioni diverse al punto che sono state elaborate tre diverse proposte: il reddito-‐prodotto, il reddito-‐ entrata e il reddito-‐consumo.26 Le tre nozioni si sono succedute nel tempo: da
24 Cfr. A.D. GIANNINI, Istituzioni di diritto tributario, Milano, Giuffré, 1960. 25 Cfr. G. FALSITTA, Manuale di diritto tributario, Padova, CEDAM, 2008.
26 Una disamina di queste nozioni è in H. S. ROSEN, Scienza delle finanze, II ed., Milano, McGraw-‐Hill, 2007, p. 271 e ss.
un’accezione vicina al reddito-‐prodotto si è passati a teorizzazioni del reddito-‐entrata per giungere al reddito-‐consumo.
La prima nozione in ordine cronologico, quindi, è stata quella di reddito-‐prodotto che riconosce che sia possibile l’incremento patrimoniale solo come derivato da una fonte produttiva; per poi passare a linee di pensiero vicine al concetto di reddito-‐entrata; per finire con le ultime teorizzazioni che inglobano taluni elementi caratteristici del reddito-‐ entrata, svincolando però l’incremento patrimoniale dalle sue cause. Quanto alla nozione di reddito è necessario ricordare che il legislatore ha avuto un atteggiamento ondivago: nel D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, art. 1, disponeva che il presupposto dell’imposta sul reddito delle persone fisiche fosse da ricercare nel “[… ] possesso di redditi, in denaro o in natura, continuativi od occasionali, provenienti da qualsiasi fonte”;27 mentre
nel D.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917 abbandona qualunque intento tassonomico escludendo una definizione onnicomprensiva.28
Una conseguenza molto importante di questo fatto è che si attua un cambiamento di prospettiva attraverso il quale l’interprete della legge tributaria sposta la sua attenzione
27 La nozione di reddito del D.P.R. 597/1973 è di fatto piuttosto ampia, anche in considerazione del fatto che il riferimento ai “redditi da qualsiasi fonte” deve leggersi in combinato disposto con l’art. 80 dello stesso provvedimento, laddove si disciplina che: “alla formazione del reddito complessivo concorre ogni altro reddito diverso da quelli espressamente considerati nelle disposizioni del presente decreto”.
28 Si accenna solo al fatto che ad esempio nel T.U.I.R. del 1986 il legislatore, da un lato abbandona la volontà di ricomprendere in un’unica definizione tutto ciò che si ritiene essere “reddito”, dall’altro evita anche conclusioni generali, e indica agli artt. 1 e 6 che il presupposto per l’imposta sul reddito è da ricercarsi nel: “possesso di redditi in denaro o in natura rientranti nelle categorie […]dei redditi fondiari, redditi di capitale, redditi di lavoro dipendente, redditi di lavoro autonomo, redditi d’impresa e redditi diversi”. Appare abbastanza evidente che le due categorie di redditi sulle quali si appunta maggiormente l’attenzione per via dell’esistenza di un ampio settore che rischia di sfuggire ai controlli è rappresentato dai redditi d’impresa e di lavoro autonomo. Sulla questione della definizione di reddito si veda L. TOSI, La
nozione di reddito, in F. TESAURO, (a cura di) Imposta sul reddito delle persone fisiche. Giurisprudenza
sistematica di diritto tributario, Torino, UTET, 1994; su un aspetto più specifico si veda S. CAPOLUPO,
Indeducibilità dei costi da attività illecita, in Corriere tributario, 22, 2006, pp. 1728 -‐ 1736. Si segnala
inoltre che l’art. 6 del TUIR al secondo comma dà anche indicazione di come dovrebbero essere tassati i proventi che vengono percepiti in sostituzione di altri redditi; al comma 2 infatti l’articolo recita: “i proventi conseguiti in sostituzione di redditi, anche per effetto della cessione dei relativi crediti, e le indennità conseguite, anche in forma assicurativa, a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita dei redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti”.