• Non ci sono risultati.

Guarda Rassegna bibliografica

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Guarda Rassegna bibliografica"

Copied!
28
0
0

Testo completo

(1)

Questioni di confine

Luca G. Manenti, Massoneria e irreden-tismo. Geografia dell’associazionismo pa-triottico in Italia tra Otto e Novecento, Trieste, Istituto regionale per la storia del movimento di Liberazione nel Friuli Vene-zia Giulia, 2015, pp. 279, euro 20.

Per quanto pregevoli, gli studi più re-centi sulla massoneria in età contempo-ranea — tra cui quelli di Fulvio Conti, Marco Novarino e Anna Maria Isastia — hanno generalmente tralasciato di ri-costruire le connessioni — di classe, ge-nerazione e rete — tra la massoneria e l’irredentismo, limitandosi a inserire l’ar-gomento in discussioni di più ampio re-spiro. Altri, come Gian Biagio Furiozzi e Tullia Catalan, hanno esaminato i legami tra la libera muratoria e il movimento ir-redentista in saggi di breve o media lun-ghezza, utilissimi, ma non esaurienti in termini di ampiezza e approfondimento. Dunque, è proprio Massoneria e irreden-tismo di Luca G. Manenti che sopperisce a una lacuna storiografica cocente. Occu-pandosi del Circolo Garibaldi di Trieste, società irredentista a carattere massonico diffusasi a Trieste, nel Litorale adriatico e in molte città italiane nell’ultimo quar-to del XIX secolo, il libro affronta l’irre-dentismo massonico nelle sue dispersioni geografiche. La sua forza sta nella

capa-cità dell’autore di concatenare due risvol-ti fondamentali del movimento: la mappa-tura territoriale e il profilo biografico dei militanti. Non a caso impressiona la li-sta degli archivi consultati, da cui si evin-ce una presenza capillare del sodalizio nel territorio: dai Civici musei di storia e arte di Trieste, all’Archivio storico del Grande oriente d’Italia e all’Archivio storico della Società Dante Alighieri a Roma, agli Ar-chivi di Stato e Musei del Risorgimento di Alessandria, Bari, Parma, Pavia, Milano, Mantova, Bologna, Roma, Venezia, Trie-ste, Como, Torino, Vicenza e Udine.

Il Circolo, sorto ufficialmente a Trie-ste nel 1880, venne sciolto quasi subito dalla polizia austriaca, ma si ricostituì a Milano cinque anni dopo, per diffonder-si poi in tutta Italia con diverse tempi-stiche, sopravvivendo fino ai primi anni del XX secolo. Uno squarcio temporale aperto, dunque, dal Congresso di Berlino (1878) e conclusosi con la morte di Rai-mondo Battera, il leader della centrale mi-lanese — vero centro operativo del Circo-lo — che decretò sostanzialmente la fine dell’organizzazione, sebbene essa avreb-be continuato a operare con difficoltà an-cora per qualche tempo (sotto il coman-do di Enrico Liebmann). Come dimostra l’autore, il tornante storico che permette di rendersi conto della compattezza di questo movimento politico non è la Prima guerra mondiale, in quanto gli addetti, tranne ra-“Italia contemporanea”, aprile 2017, n. 283 ISSN 0392-1077 - ISSNe 2036-4555

(2)

rissime eccezioni, divennero convinti in-terventisti. Quella studiata da Manenti è, sotto certi aspetti, una generazione sfortu-nata: troppo giovane per il Risorgimento, troppo vecchia per la Grande guerra. Fu invece il fascismo a scompaginare defini-tivamente le carte in tavola: i sopravvissuti dell’irredentismo repubblicano ottocente-sco si divisero tra sostenitori e oppositori del regime (Giovanni Baldi, per esempio, divenne nazionalista e fascista, ripudian-do la sua passata affiliazione massonica, mentre Giuseppe Levi da irredentista e in-terventista, abbracciò l’antifascismo).

Il libro, che presenta una struttura ge-ografica, si suddivide in cinque macrose-zioni, di cui soltanto la prima, a carattere introduttivo-storiografico, si incentra sulle opere dei soci; le altre quattro riguardano le aree settentrionale, centrale e meridio-nale della penisola e i territori d’oltrecon-fine. L’autore opta per una soluzione di tipo spaziale, calando il lettore in uno spe-cifico ambiente cittadino dalle forme di militanza differenti da zona a zona. Così, mentre a Milano e Torino gli irredentisti, allacciandosi al preesistente network mas-sonico, fondarono numerose associazio-ni volte all’accoglimento dei fuorusciti da Trieste in circoli ricreativi apolitici o più politicizzati, nelle città prossime al confi-ne austro-italiano essi li mascherarono con maggiore cura, eleggendo soprattutto nelle succursali del Circolo un gruppo dirigente di facciata composto da nomi al di sopra di ogni sospetto, diverso dal vero centro direttivo che rimaneva segreto. Un accor-gimento adottato, per ragioni differenti, anche dalla sezione di Roma, alla qua-le afferivano personaggi in vista del gior-nalismo e della politica, dal trentino Etto-re Tolomei al triestino SalvatoEtto-re Barzilai.

La ricerca di Manenti conferma la ma-trice massonica del Circolo che si presenta legato a logge, organizzazioni irredentiste, società di cremazione, leghe lavorative, comitati di reduci e veterani, consociazio-ni operaie, nuclei repubblicaconsociazio-ni e sociali-sti di tendenze radicali e anticlericali. Da questo mosaico di rapporti emergono due

punti dolenti: il paradigma generaziona-le e generaziona-le relazioni tra irredentismo e sociali-smo. Il primo restò alla base di non pochi attriti tra gli uomini più in vista dell’asso-ciazione e le frange giovanili, spesso in-sofferenti verso le strategie elaborate dalle gerarchie, mentre il secondo causò un’e-morragia di membri desiderosi di allargare i propri orizzonti politici, passando dalla lotta nazionale per le terre “irredente” al-la quelal-la per il proletariato internazionale, sebbene non siano mancati coloro che riu-scirono a tenere saldo il connubio sociali-smo-irredentismo. È invece l’antislavismo ad allacciare, sotto un denominatore co-mune, il primo irredentismo repubblicano con quello successivo di matrice imperia-lista e antidemocratica.

Interessantissimo l’ambiguo rapporto intrattenuto con l’irredentismo massonico da Francesco Crispi: se la presa di posi-zione pubblica del siciliano nei confronti del movimento fu di aspra condanna, alcu-ne lettere qui riportate inducono a credere che, privatamente, egli fosse, se non favo-revole, quantomeno condiscendente verso i suoi sostenitori.

A metà degli anni Novanta, importan-ti massoni come Menotimportan-ti Garibaldi, Stefa-no Canzio e Barzilai elaboraroStefa-no progetti, mai realizzati, che prevedevano l’invasione armata nelle province italiane dell’Impero. Inoltre, non mancò l’appoggio di moltissi-mi liberi muratori ai triestini e agli istria-ni che a ridosso del conflitto giungevano nella penisola per arruolarsi e combattere contro l’Austria, tra cui Eugenio Solferi-ni, Aurelio Salmona, Guglielmo Oberdan e Rocco Tamburlini.

Il testo, pur parzialmente arroccato alla forma di una tesi di dottorato, rappresen-ta un apporto imprescindibile per lo sno-do dei rapporti tra la libera muratoria e il movimento irredentista successivo al 1878. Vincitore nella forma di tesi dottorale del Premio Spadolini e del Premio Cecovi-ni, il libro è stato riconosciuto da Massi-mo Baioni nella sua recensione “L’Indice dei Libri del Mese” (n. 2, 2016, p. 46) ed è stato già citato nell’ultimo studio di

(3)

Mar-co Novarino, La massoneria tra Mar- cosmopo-litismo pacifista e interventismo, in Mar-co Scavino (a cura di), Guerra e nazioni. Idee e movimenti nazionalistici nella Pri-ma guerra mondiale, Milano, 2015, pp. 219- 225.

Carla Konta Jože Pirjevec, Tito e i suoi compagni, Torino, Einaudi, 2015, pp. 620, euro 42.

Si tratta di una assai documentata bio-grafia. La storia del leader comunista rac-conta inevitabilmente anche l’origine e dis-soluzione della Jugoslavia socialista. Tito e i suoi compagni colma un vuoto storio-grafico sulle biografie in lingua italiana ri-guardanti la vita di Tito, avviando un con-fronto con il volume di Geoffrey Swain, Tito: a Biography (Londra 2011), recente-mente tradotto in italiano (Gorizia, 2016).

Il dialogo scientifico dell’opera di Pirje-vec con la prolifica storiografia britanni-ca in materia è inevitabile. Certamente il volume in questione è lontano dall’accon-discendenza per l’operato di Tito che ca-ratterizzava un vecchio classico della sto-riografia anglofona che tributa onori al simbolo vivente dell’epopea partigiana ju-goslava (Phyllis Auty, Tito: a biography, London, 1970), Tito e i suoi compagni; al-lo stesso tempo risulta altrettanto distante dall’opera di Stevan K. Pavlowitch (Tito, Yugoslavia’s Great Dictator: A Reasses-sment, London, 1992) sulle cui pagine è tramontata la convenzione dell’ottimismo nei confronti del titoismo.

Sotto l’aspetto delle tematiche, Pirjevec ha trovato una giusta misura tra un’anali-si sull’architettura statuale della Jugosla-via socialista — aspetto guida nell’opera di Pavlowitch — e lo studio del dibattito politico interno. L’analisi politologica del-le differenti e spesso contrastanti corren-ti interne al Parcorren-tito comunista jugoslavo rappresenta una delle chiavi di lettura, tut-tavia non viene mai concesso il prima-to alla categoria Partiprima-to come nel lavoro di Swain.

La prima parte del volume è dedica-ta alla formazione del rivoluzionario di professione e al “meccanismo di rivolu-zione e potere” (p. 25). In questa fase i principi del leninismo guidarono Tito che utilizzò l’Avnoj (Assemblea antifascista di liberazione nazionale della Jugoslavia) co-me struco-mento di guerra durante il con-flitto mondiale combattuto contro le forze nazifasciste che occupavano la Jugoslavia e come arma politica contro Mosca nella competizione a distanza per la costruzio-ne dello Stato. La prova di forza tra Tito e Comintern negli anni della guerra parti-giana e la successiva rottura con Stalin nel 1948 erano il frutto di una contesa che vi-de Tito “convinto in realtà di poter rea-lizzare nei Balcani una potenza capace di svilupparsi autonomamente rispetto all’U-nione Sovietica, mettendo in forse la di-visione del Sud-Est europeo com’era stata stabilita dai tre grandi a Teheran e a Jal-ta” (p. 231).

Le vittorie sul piano internazionale fu-rono sancite nel dopoguerra dal viaggio di Chruščev a Belgrado il 25 maggio 1955. La normalizzazione dei rapporti con Mo-sca, evidenziava che gli jugoslavi erano disposti a collaborare con l’Unione so-vietica unicamente su un criterio parita-rio. Secondo l’autore, Tito era approda-to a queste posizioni di favore attraverso due fondamentali eventi che avevano raf-forzato la natura autoritaria della sua lea-dership, uno di politica interna e l’altro di politica internazionale. Nel gennaio 1954 si era concluso l’affaire Djilas, terminato con l’espulsione dal partito del comunista montenegrino. Milovan Djilas aveva pro-vocato lo strappo con la pubblicazione di un saggio dal titolo Anatomia di una mo-rale (1953). L’allora numero due del parti-to era colpevole di aver denunciaparti-to la bu-rocratizzazione del sistema. A dicembre dello stesso anno Tito tenne un discor-so al parlamento indiano in cui espose le ragioni di una politica non allineata. Al-la fine degli anni Cinquanta quelle prime intuizioni presero forma tracciando una li-nea politica netta che “definiva la logica

(4)

dei blocchi il maggior pericolo per la pa-ce, equiparando la lotta per la libertà dei popoli sottomessi alla lotta di classe” (p. 363). Dalla prima conferenza dei non alli-neati (aprile 1961) Tito cercò di varare un piano di riforme economiche che contribu-issero a ristrutturare in senso democrati-co la società jugoslava. Questa trasforma-zione includeva la revisione della struttura della Lega dei comunisti jugoslavi nelle forze armate che fu “rimodellata al fine di legarla in maniera più organica alla realtà politico sociale del Paese” (p. 451). Quel-la fase di rinnovamento sarebbe dovuta terminare nell’aprile 1971, ultimo giorno di carica per Tito come presidente della Repubblica socialista federativa jugoslava, ma Edvard Kardelj, capo della Commis-sione di coordinamento della riforma, co-municò che il sistema vigente non avrebbe retto alcun tentativo di diminuire il potere centrale, mentre la federazione “dal 1972 alla fine del decennio spese ben 40 miliar-di miliar-di dollari per miliar-diversi progetti miliar-di svilup-po, senza alcun risultato” (p. 511). È ana-lizzando quel tornante storico che Pirjevec individua le cause a lungo termine del-la dissoluzione deldel-la Jugosdel-lavia. Secondo l’autore la stessa costituzione del 1974 pur costituendo “un grave colpo per i circoli grandeserbi” (p. 508) non risolveva i pro-blemi reali del paese rappresentando “l’en-nesimo esperimento, congegnato in modo tale da sciogliere, attraverso un articolato sistema amministrativo, i sempre più com-plessi nodi politici, sociali, economici e nazionali del paese” (p. 508).

Nel contesto del riformismo manca-to nella seconda metà degli anni Settan-ta la Jugoslavia era paradossalmente sem-pre più legata all’Unione Sovietica, sino a raggiungere nel 1979 “il grado di scam-bio commerciale che c’era prima del con-flitto con Stalin” (p. 573). La ricostruzio-ne di Pirjevec sugli ultimi anni di vita di Tito fotografa il fallimento del sistema ju-goslavo che conobbe una rapida decadenza economica. La Costituzione non riuscì a trasformare lo Stato in senso confederale, spegnendo sul nascere le aspirazioni

plu-raliste, mentre il trasferimento del potere alle Repubbliche “ostacolò pesantemente il governo centrale nella formulazione di un’efficace strategia economica” (p. 576). La Jugoslavia lasciata da Tito era un Pa-ese che dalle macerie della guerra ave-va conosciuto una rapida industrializzazio-ne, ma nel quale erano altresì ricomparse le rivendicazioni nazionalistiche. Nel pa-norama internazionale la Jugoslavia titina ebbe “un’influenza e un prestigio del tut-to sproporzionati rispettut-to al suo reale peso economico e militare” (p. 582). Il miglio-ramento della qualità di vita della classe operaia — pur sottoposta a un rigido con-trollo che impediva una soluzione sinda-cale dell’autogestione — e il riconosciuto prestigio internazionale di Belgrado sono due fili rossi della narrazione argomentati con l’equilibrio necessario, tuttavia il giu-dizio di Pirjevec sull’esperienza titoista re-sta severo: “non è possibile ignorare il fal-limento del regime di Tito, incapace di conservarsi senza la sua forza di coesio-ne, e men che meno di sviluppare l’esperi-mento dell’autogestione in una democrazia moderna e pluralista” (p. 582).

Federico Goddi

Visioni sul fascismo

Emilio Gentile, In Italia ai tempi di Mussolini. Viaggio in compagnia di osser-vatori stranieri, Milano, Mondadori, 2014, pp. 352, euro 20.

In Italia ai tempi di Mussolini è, come promette il titolo, una ricostruzione della crisi dell’Italia liberale e soprattutto dell’I-talia fascista visti con gli occhi degli os-servatori stranieri. Il libro è organizzato in dodici capitoli, più un prologo e un epi-logo, e con una cornice storico-evenemen-ziale che è tenuta insieme da Gentile. Il catalogo degli autori attraverso i quali lo storico del fascismo ci conduce è ricco, e comprende osservatori inglesi, america-ni, francesi, ma anche qualche tedesco, un

(5)

portoghese, qualche spagnolo e un peru-viano. Comprende inoltre filofascisti, ma anche antifascisti, oltre che osservatori che si rappresentano come neutrali. Non tutti sono uomini, ci sono anzi diverse donne, sia sul fronte di chi sostiene il regime, sia su quello di chi lo oppone. Un’articolazio-ne piuttosto ampia, quindi, di letture che non si fermano soltanto alla figura di Mus-solini, ma che letteralmente attraversano l’Italia da palmo a palmo, andando a ve-rificare cosa succeda nelle cento città del-la penisodel-la, ma anche neldel-la provincia, nel-le campagne, al Nord come al Sud, e — in un caso almeno — perfino nelle isole del confino.

Il volume di Gentile descrive le ragio-ni che rendono il fascismo se non neces-sario, comunque auspicabile, agli occhi di molti osservatori moderati e conservato-ri stranieconservato-ri. Procede poi cronologicamente osservando il cammino attraverso la con-quista del potere fascista, e la fascinazio-ne che questo regime crea in molti, il mo-do in cui l’Italia cambia negli occhi degli osservatori, rispetto a prima della guerra o all’immediato dopoguerra, e il modo in cui ancora si trasforma nel corso degli an-ni Trenta, quando gli effetti del totalitari-smo fascista cominciano a diventare più evidenti anche per molti viaggiatori. Gran-de attenzione l’autore Gran-dedica ai suoi temi classici, quelli della costruzione di un’Ita-lia totalitaria, delle associazioni di mas-sa, del partito unico, mentre volutamente tralascia temi che pure ebbero un grande potenziale di suggestione all’estero quali l’organizzazione corporativa dello Stato e dell’economia.

Questo viaggio tende però a confermar-ci cose che già sapevamo, e innanzitutto il fatto che tutti tendono a vedere soprattut-to ciò che desiderano vedere, per cui ciò che per alcuni è repressione per altri è or-dine, ma anche una certa condiscenden-za nei confronti degli italiani e della loro incapacità di vivere in un paese ordinato senza la dittatura, specialmente da parte dei cittadini di paesi democratici; una dif-fusa simpatia di molti, anche se non di

tut-ti, per i successi del fascismo, almeno fino alla proclamazione dell’Impero. Gli stra-nieri, ci mostra Gentile, scrivono avendo in mente il mito dell’“Italia immortale”, la storia di lungo e di breve periodo del pa-ese con cui il fascismo fa i conti, e questi aspetti impigliano spesso gli sguardi degli stranieri dentro miti, pregiudizi e frasi fat-te. Il tono degli osservatori cambia decisa-mente solo con la seconda guerra mondia-le, me è ovviamente una trasformazione ampiamente scritta nelle posizioni di chi parla.

Quello però colpisce di più di questo volume è soprattutto che non ci è chia-ro per chi e perché questi autori scrives-sero d’Italia, e sapere che alcuni di questi autori erano alternativamente corrispon-denti politici di giornali stranieri, ex am-basciatori o studiosi di cose italiane non permette di capire meglio. Così non sap-piamo chi pubblicasse e leggesse questi li-bri, e perché, e non capiamo neppure per-ché, nell’Europa degli anni Venti e Trenta, viaggiare in Italia e capire il suo regime politico fosse così importante e richiedes-se spiegazioni e attenzione. In questo mo-do, il tema centrale di queste narrazio-ni rimane un po’ oscurato e non è chiaro se, come crediamo, il regime fascista fos-se un punto di riferimento per pensare il futuro di altri regimi o se scrivere e legge-re di fascismo in Italia fosse un divertisse-ment come un altro, nell’Europa tra le due guerra.

La questione non è senz’altro sfuggi-ta a Gentile, che però volusfuggi-tamente sceglie di non affrontarla. E così, malgrado i ri-ferimenti che aleggiano qui e lì per esem-pio negli anni Venti quando Homem Cri-sto Filho propone una federazione latina, o quando diversi osservatori fanno il con-fronto tra l’Italia fascista e la Russia bol-scevica, questa questione rimane sospesa. La rilevanza di questo interrogativo diven-ta ancora più evidente per gli anni Tren-ta, quando il rapporto tra Italia fascista e Germania nazista è restituito quasi so-lo nelso-lo sguardo di chi si oppone al nazi-smo, senza spiegare invece una

(6)

fascinazio-ne che ci fu, per entrambi i regimi, e una lettura che permetteva di vederne, oltre che le innegabili differenze, anche le pro-fonde somiglianze.

Se il tema qui toccato da Gentile è di grande rilevanza, la scelta di farne un vo-lume per il grande pubblico piuttosto che l’oggetto di una ricerca approfondita la-scia una qualche insoddisfazione in chi lo legge alla ricerca di capire di più del ruolo dell’Italia fascista in un’Europa uscita di-laniata dalla Prima guerra mondiale e che nel giro di vent’anni si rituffa in un altro conflitto mondiale.

Giulia Albanese Luigi Lacchè (a cura di), Il diritto del Duce. Giustizia e repressione nell’Italia fascista, Roma, Donzelli, 2015, pp. 313, euro 30.

La via nuova e originale via fascista verso il totalitarismo era fatta da più sog-getti e tra questi, in posizione di assoluta rilevanza, certo più degli uomini del parti-to e della corporazioni, vi erano i giuristi. Solo se si legge in questa chiave è possi-bile apprezzare in pieno lo sforzo prodot-to da Luigi Lacchè nel coordinare le va-rie ricerche che sono presenti all’interno del volume Il diritto del Duce. Giustizia e repressione nell’Italia fascista. “La Ri-voluzione spirituale — scrive Lacchè nel-la lunga introduzione, quasi un saggio a sé — si riflette sulla giustizia per plasma-re la ‘nuova’ morale degli italiani”. I di-scorsi sulla giustizia e sulla sua “forma giudiziaria”, ebbero, scrive ancora Lacchè, “una loro autonomia e un peso specifico, una chiara rilevanza politica, costituziona-le, sociacostituziona-le, antropologica. Lo Stato fascista vuole essere, per seguire le parole pronun-ciate da Mussolini in occasione dell’amni-stia decennale, Stato di forza ma soprattut-to Stasoprattut-to di giustizia. È violensoprattut-to strumensoprattut-to di repressione del dissenso politico, ma anche ‘regime di giustizia’ teso a costru-ire consenso nella nuova dimensione del-lo Stato etico”. Lungo questo sentiero di

ricerca si muovono i tredici contributi del libro, con taglio e prospettive diversi, al-cuni di riflessione sui materiali già acqui-siti dalla storiografia, altri dei veri e propri cantieri di ricerca, dove vengono presen-tati i primi frutti di lavori ben più lunghi e prosperi di futuri risultati. Il libro, in-fatti, vuole innanzitutto aprire un dialogo tra storici e giuristi dell’età contempora-nea. Due discipline che spesso non hanno parlato tra di loro, ingabbiate in tecnici-smi e metodi, ognuna gelosa della propria prospettiva e delle proprie regole di inda-gine. Così gli storici del diritto contem-poraneo — oltre alla straordinaria capa-cità di esplorare i meandri e le genealogie delle categorie giuridiche disperse in inte-re biblioteche di riviste e libri — sono co-stretti ad affacciarsi sulle pratiche del di-ritto; mentre gli storici, con un processo inverso, hanno cercato di legare l’esperien-za reale dell’applicazione delle leggi subi-ta dal singolo individuo all’universo di va-lori culturali che muovevano i signori del diritto, dai giudici ai giuristi universitari e istituzionali. Una contaminazione che per-mette di allargare il fascio di luce dei pro-blemi e degli oggetti storiografici. Nel cor-so della lettura del libro emerge con forza, che non si tratta semplicemente di capi-re le ragioni e gli uomini della capi-repcapi-ressio- repressio-ne, della faccia più violenta e crudele di un regime violento e crudele per sua stes-sa natura, ma di entrare nelle menti, nelle aspettative, nell’immaginario, di quei sog-getti impegnati a costruire un regime to-talitario. Da qui l’attenzione verso gli uo-mini e le procedure del Tribunale speciale per la difesa dello Stato (i saggi di Flo-riana Colao, di Alessandra Bassani e An-drea Cantoni e quello di Matteo Patracci e quello più generale di Leonardo Pompeo D’Alessandro), o per la difesa della razza (di Giuseppe Speciale) e ancora quei tri-bunali speciali della Rsi (di Toni Rovat-ti); e ancora l’attenzione verso il personale e le struttura del ministero della Giusti-zia fascista (il saggio di Antonella Meni-coni) e quella verso la giurisprudenza re-pressiva dello sciopero (di Claudia Storti)

(7)

o l’uso politico dell’istituto della grazia (di Monica Stronati). In chiave comparatistica con la coeva produzione legislativa del re-gime nazista si muovono, per dimostrarne la circolarità di idee e uomini, le riflessio-ni sul confino di polizia (il saggio di Ca-milla Poesio), sul diritto penale del nemi-co (di Barbara Bushart) e sul tribunale del popolo hitleriano (di Thomas Vormbaum). Il signori del diritto, che alla fine dell’e-sperienza fascista cercarono di presentar-si come imparziali profespresentar-sionisti che ave-vano salvato la grande tradizione giuridica italiana dalla barbarie e ignoranza del fa-scismo, preservando i suoi istituti e princi-pi nella torre del dogmatismo e del tecni-cistico, mostrano invece, nella pagine del libro, la loro radicale e fondamentale ide-azione e partecipide-azione alla costruzione della via italiana al totalitarismo. I giuristi italiani, come ha scritto tempo fa Mario Sbriccoli, tenevano sì “gli occhi al cielo” della dottrina ma “le mani in pasta” nel fascismo totalitario. Certo in questo libro si parla e si racconta con grande capacità di sintesi dei penalisti, che meritano un’at-tenzione eccezionale perché impugnano la spada politica del diritto, e, in fondo, che cosa c’è di più politico del diritto pena-le? Ma un attenzione meriterebbero, con lo stesso stile di indagine e sguardo, an-che gli altri signori del diritto. Come non ricordare che durante il fascismo si ricom-patta il binomio civilista-romanista, sul-le cui basi si sarebbe eretto il nuovo codi-ce civile del 1942 che non a caso ingloberà tutta la legislazione razziale nell’articolo I del libro I, definendo i limiti della capacità giuridica della persona sulla base “dell’ap-partenenza a determinate razze”. In base a tale principio, l’anno successivo, l’articolo 7 della Carta di Verona della Rsi, revocava agli italiani ebrei la cittadinanza, confisca-va i loro beni e passaconfisca-va così dalla persecu-zione dei diritti alla persecuzione delle vi-te. Insomma i giuristi fecero delle scelte politiche e culturali ben precise, non certo dogmatiche o metodologiche; auspicarono, parteciparono, lodarono e furono fedeli servitori di un disegno politico che

eviden-temente condividevano. Si posero al servi-zio, gestirono scientificamente e professio-nalmente la volontà del duce che si faceva legge e giustizia, disperdendo e disarman-do il senso della difesa e delle garanzie che qualsiasi cittadino si aspetta dalla leg-ge penale. L’eredità della penalistica fasci-sta, s’intuisce alla fine della lettura del li-bro di Lacchè, è stata lunga e forse arriva sin ai giorni nostri, quando si conserva an-cora il codice fascista del 1930. Un’eredità che ha lasciato circolare nella società uno spirito di dominio spesso non separabi-le dalla pratica dell’arbitrio e del sopruso.

Antonino Blando Manuelle Peloille, Positionnement po-litique en temps de crise. Sur la réception du fascisme italien en Espagne, Uzès, In-clinaison, 2015, pp. 451, euro 59.

Fino a tempi recenti l’impatto del fasci-smo italiano sull’Europa degli anni Venti è stato misconosciuto, ma alcune ricerche degli ultimi anni cominciano a mettere in discussione questo dato. Tra queste, lo stu-dio di Manuelle Peloille che qui recensia-mo, frutto di una tesi di dottorato soste-nuta all’Université de Bordeaux III alcuni anni fa, e che ora è stata pubblicata in volume. L’autrice, per altro, non è nuova a questo tema perché già nel 2005 aveva pubblicato una preziosa antologia di testi dedicati al fascismo italiano dalla stam-pa sstam-pagnola, Fascismo en ciernes. Esstam-paña 1922-1930 (Presses Universitaires du Mi-rail, 2005).

L’ampia ricerca, probabilmente resa possibile anche dall’imponente lavoro di digitalizzazione di giornali spagnoli no-vecenteschi di questi ultimi anni (che po-trebbe far invidia a qualsiasi studioso del primo Novecento italiano), è articolata in tre parti, dedicate rispettivamente al rap-porto tra fascismo e tradizione liberale, al ruolo del giornale “El debate” e dell’inter-pretazione liberale e conservatrice dell’e-sperienza fascista in relazione a quella bolscevica.

(8)

Nella prima parte l’autrice analizza le ambiguità della stampa liberale di fron-te al fascismo, considerando con particola-re attenzione il ruolo di “El Sol”, ma sen-za tralasciare altri quotidiani importanti come lo “Heraldo de Madrid” e “La liber-tad”. In questo modo si evidenzia l’inte-resse del liberalismo spagnolo di fronte a lezioni autoritarie provenienti da altri pae-si e pae-si mostra come il fascismo diventi un luogo fondamentale per la discussione di temi all’ordine del giorno quali la demo-crazia, il parlamentarismo e il ruolo del-lo Stato. Le cose cominciano a cambiare dopo il 3 gennaio 1925, anche se già l’o-micidio Matteotti costituisce un momen-to di rivelazione. Nonostante l’importanza di questi snodi, l’autrice riscontra però an-che come ben oltre quella data si possano riscontrare articoli di taglio positivo nei confronti del regime fascista nella stam-pa liberale. In questa prima stam-parte Peloille affronta anche in maniera efficace il tema della ricerca del consenso da parte del re-gime nei confronti della stampa estera, ri-levando come, fin dal 1922, ci sia un’atten-zione e “una politica di inquadramento” della stampa straniera, in particolare nei momenti di visite ufficiali, ma non solo.

Nella seconda parte, Peloille analizza l’impatto del fascismo nella stampa della destra, a partire dalla tesi che il fascismo non “prenda” nella Spagna degli anni Ven-ti, sottolineando le riserve cattoliche al fa-scismo, ma soprattutto l’attenzione della destra alla politica di potenza italiana che è, chiaramente, in conflitto di interessi con quella perseguita dai nazionalisti spagnoli. Tuttavia, l’autrice sottolinea anche l’impor-tanza della figura di Mussolini come in-carnazione del mito del “chirurgo di fer-ro”, che circola ampiamente negli ambienti reazionari già prima degli anni Venti. No-nostante la tesi iniziale, tuttavia, l’autrice non può che riconoscere l’estrema atten-zione (e anche la volontà di adattamento alla realtà spagnola) dell’esperienza fasci-sta, anche se ne limita l’impatto, per esem-pio nel giornale cattolico “El Debate”, ad alcune misure particolari, di tipo istituzio-nale o concernente il ruolo del

presiden-te del consiglio. Come sottolinea l’autrice, per “El Debate” di grande importanza è comunque anche il travaglio che accompa-gna la crisi del Ppi e l’evoluzione dei rap-porti tra cattolici e fascisti nel corso degli anni Venti. Parimenti, Peloille cataloga co-me effico-mere alcune esperienze più stretta-mente di lezione fascista, quale l’emerge-re del movimento “La Traza” o la nascita di pubblicazione di corta durata quali “La Camisa negra” o “La Palabra”, che comun-que hanno una grande rilevanza nei me-si precedenti ed immediatamente succesme-si- successi-vi alla salita al potere di Primo de Rivera. L’ultima parte è invece dedicata al rap-porto tra fascismo e socialismo nella stam-pa liberale e cattolica, nella quale si rileva come ogni volta che si prenda in conside-razione il fascismo, assai frequente sia l’i-stituzione di un confronto tra fascismo e bolscevismo. In particolare, queste analo-gie vengono riscontrate nel lessico e nel-le finalità di un processo che si vuonel-le, co-munque, “rivoluzionario”, ma anche nella risposta che queste proposte politiche of-frono rispetto all’esperienza liberale. Tut-tavia, l’autrice non si spinge fino all’anali-si della stampa socialista e anarchica che avrebbe offerto ulteriori chiavi di lettura e nuovi squarci sulla questione, e anche una prospettiva diversa sulla questione dell’i-mitazione e dell’adattamento dell’esperien-za fascista in Spagna e, più in generale, sul rapporto tra le strutture conservatrici e reazionarie spagnole e italiane.

Sostanzialmente, l’autrice sostiene che lo scarso successo dell’esperienza fascista nel creare evidenti imitazioni in Spagna negli anni Venti sia costituito dalle inne-gabili e autonome capacità di repressione e di organizzazione delle classi borghesi, in particolar modo cittadine, della Spa-gna, che rendono di fatto inutile il ricorso a risorse organizzate come quelle fasciste. Del resto, se si ripensa alle parole di An-tonio Gramsci del 1921, che in un articolo di “Ordine nuovo” del marzo 1921 eviden-zia come la Spagna sia un paese esempla-re per il esempla-resto di Europa, per la scelta delle classi medie di risolvere con la violenza la

(9)

crisi economica e la autonomia delle classi popolari, appare evidente come il rappor-to tra le spinte repressive e antidemocra-tiche spagnole e italiane non possa esse-re letto esclusivamente in una diesse-rezione. Inoltre, questo articolo mostra come le in-terconnessioni e le possibilità di compara-zione tra queste due esperienze nazionali siano complesse.

In questo contesto non sembra piena-mente comprensibile la ragione per cui — a fronte di un’attenzione costante e ampia dell’opinione pubblica e della stampa spa-gnola, qui ampiamente documentata, e al-la costruzione di movimenti autonomi che si richiamano all’esperienza fascista — la “presa” del fascismo sulla Spagna sia con-testata da Peloille per i primi anni Ven-ti. Se, infatti, è evidente che con il prose-guire dell’esperienza di Primo de Rivera le cose si fanno più complicate, e la necessi-tà di una imitazione da parte della Spagna dell’esperienza italiana si riducono, l’ebol-lizione politica precedente alla presa del potere di de Rivera sembra proprio porta-re a pensaporta-re, sulla base di quello che ci di-ce l’autridi-ce, che il fascismo costituisca un elemento di rinnovamento del mondo con-servatore e reazionario. La questione non è tanto, in questo senso, quanto del fasci-smo sia recepito dall’esperienza spagnola, e quanto a lungo duri questo innesto, ma quanto quest’esperienza sia necessaria per affrontare la crisi della democrazia libe-rale spagnola e per fare maturare opzioni pienamente autoritarie, reazionarie e in al-cuni casi anche fasciste, nel paese.

Giulia Albanese

Musei e fotografie

Francesca Gandolfo, Il Museo colonia-le di Roma (1904-1971). Fra colonia-le zebre nel Paese dell’olio di ricino, prefazione di An-gelo Del Boca, Roma, Gangemi, 2014, pp. 576, ill., euro 44.

L’attenzione alla storia delle collezioni museali in Italia non è molto grande: forse

disponiamo di troppe istituzioni del gene-re o forse le loro vicende riflettono quasi sempre con spietata freddezza la difficile situazione in cui versano.

Se si dovesse compilare un elenco, in ragione decrescente, dell’oblio degli istitu-ti di conservazione museale, quelli di ca-rattere coloniale occuperebbero senza dif-ficoltà i primi posti.

“Ci sono musei — ha scritto Francesca Gandolfo — che diventano vittime del-la storia, deldel-la sfortuna e di un infame de-stino che, per ironia della sorte e in virtù delle contingenze storiche, vengono can-cellati dalla memoria collettiva con tutto il loro bagaglio di personaggi e di cime-li. Uno di questi musei è il Museo colonia-le di Roma. Esso non esiste più fisicamen-te, non ha più sale nelle quali esporre gli oggetti e accogliere i visitatori, non ha più custodi e funzionari che si prendono cu-ra delle sue collezioni, non ha più un di-rettore”.

L’oblio in cui sono cadute quasi tut-te questut-te collezioni dipende non tanto dal-la loro storia, quanto dal desiderio di non doversi confrontare con un passato per il quale ora si prova imbarazzo: appare dun-que più semplice ignorare piuttosto che giungere a un confronto con esso.

Ancora al termine della Seconda guer-ra mondiale, molte fguer-ra queste collezioni, spesso le più piccole e periferiche, ave-vano assunto la denominazione di Museo dell’Impero.

Allora però, tra le macerie della guer-ra che aveva costretto gli italiani a guar-dare con occhi disincantati le miserie del passato imperialista nazionale, si scopriva che il colonialismo si andava radicalmen-te trasformando anche per i Paesi che ave-vano vinto.

Inoltre, differentemente da questi ulti-mi, le collezioni coloniali italiane esibi-vano oggetti e documenti che ora veniva-no rivendicati dai governi dei Paesi a cui erano stati sottratti nella qualità di “pre-da di guerra”.

Inizia così una grottesca guerra buro-cratica fatta di centinaia di documenti il

(10)

più delle volte contrassegnati da indicazio-ni imprecise o volutamente errate, scrit-ti nell’apparente intento di “salvaguardare” la memoria del passato. In realtà queste pratiche finiranno per trasformare in una immensa palude l’occasione per riflettere senza remore sul passato, non solo recen-te, della nazione, da parte delle istituzio-ni della Repubblica italiana da poco nata.

La vicenda del Museo coloniale di Ro-ma è esemplare per la comprensione di tutte queste dinamiche.

La sua storia ha inizio nel 1904, presso l’Istituto e Orto botanico dell’Università di Roma che da tempo funziona già come uf-ficio di informazioni per le piante e i pro-dotti coloniali. Il 3 ottobre con un decreto legge è istituito l’Erbario e Museo colo-niale che manterrà una sua configurazione mista, naturalistica e storica, fino al 1914, quando è deciso il trasferimento delle col-lezioni dell’Erbario a Firenze. Nell’ottobre nasce il secondo Museo coloniale come struttura organica alle dipendenze dell’Uf-ficio studi e propaganda del ministero del-le Colonie. La nuova sede è collocata nel Palazzo delle esposizioni, e qui saranno accolti, come primo nucleo documentale della nuova vita dell’istituzione, i materiali provenienti dalla Mostra coloniale di Ge-nova, aperta nel maggio precedente.

Gandolfo sottolinea il ruolo che da que-sto momento accompagnerà per lunghi an-ni la vitalità del Museo e la parallela at-tività espositiva e fieristica in Italia e nel mondo promossa dal ministero delle Co-lonie.

Nel 1929 il museo è trasferito nel Pa-lazzo della consulta sino al 1935, quando viene spostato nella sede definitiva inau-gurata da Mussolini pochi giorni dopo l’i-nizio dell’aggressione all’Etiopia. Nell’e-state del 1937 il museo però verrà chiuso “per riordino dei materiali” e tale rimar-rà per dieci anni, fino al 15 giugno 1947: “dopo dieci lunghissimi anni — scrive Gandolfo — durante i quali accadde di tutto”.

Nel 1940 il suo nome cambia, divenen-do Museo dell’Africa italiana, e nel 1941

ci sarà chi premerà per l’ennesimo cam-biamento: Museo dell’impero d’Italia. Le collezioni rimangono nelle casse, anzi si arricchiscono prima delle corone negussite di rame dorato che Graziani fa portare in Italia da Addis Abeba, poi, nel dicembre 1942, del cosiddetto Tesoro archeologico della Libia, composto da oltre settemila oggetti preziosi in oro argento e bronzo, che viene “rimpatriato” dopo lo sbarco an-gloamericano in Marocco e Algeria. Nel 1944 una parte di questi oggetti, tra cui le “prede di guerra” di Graziani, seguono nel trasferimento al Nord il governo della Re-pubblica sociale e finiranno tra i reperti preziosi (il cosiddetto “oro di Dongo”) rin-venutiti dai partigiani alla Liberazione.

La riapertura del Museo avviene nel giugno 1947, a conflitto mondiale concluso e in un’epoca che vede andare in frantu-mi ogni progetto coloniale, ma non le am-bizioni di chi, in ambito politico, non in-tende rinunciare a “tenere comunque desto lo spirito dell’idea coloniale, e mostrare ad amici e a […] non amici, l’irrefragabi-le documentazione della nostra opera nell’irrefragabi-le terre d’Africa”. Siamo già un passo oltre la più modesta, ma alla fine vincente, opera-zione volta a costruire il mito degli “italia-ni, brava gente”.

Il 28 ottobre (anche le date hanno un preciso valore simbolico) 1946 il Museo ha avuto un nuovo direttore che si fa da subito animatore del progetto di riapertu-ra al pubblico delle collezioni. Non man-cheranno significativi consensi all’idea e le collezioni diverranno anche destinata-rie di donazioni storicamente importan-ti ma, al tempo stesso, inquietanimportan-ti e non facili a conciliarsi con il disegno genera-le del Museo (si pensi agli oggetti perso-nali di Omar al Mukhtàr donati nel 1951). In ragione dell’art. 37 del trattato di pace, inizia anche la fase della rivendicazione da parte di Etiopia e Libia di varie “prede di guerra”, tra le quali l’obelisco di Axum e il leone di Giuda, strappato dal monu-mento a Menelik ad Addis Abeba, non-ché numerosi oggetti delle collezioni del

(11)

Museo coloniale, in primo luogo il Teso-ro di Libia.

Inizia un contenzioso che assume i toni del ridicolo: oggetti che si sostiene essere stati dispersi e che solo dopo lunghi anni vengono restituiti, la cui consegna è qua-si sempre circondata da cortine di qua-silenzio per proteggere l’oblio di Stato. L’unica ec-cezione a questa pratica si è avuta in oc-casione della restituzione dell’obelisco di Axum nel giugno 2008.

Molto più rumoroso è invece l’eco del-le vicende di quei materiali dopo la lo-ro restituzione. È il caso del Tesolo-ro di Li-bia (di cui la stessa puntuale ricerca della Gandolfo non è riuscita a stabilire l’esat-ta dal’esat-ta di ritorno a Bengasi) la cui sorte è divenuta una sorta di giallo internazionale nel maggio 2011, nei giorni della caduta di Gheddafi, quando gli oggetti sono spariti dal caveau della Banca nazionale commer-ciale di Bengasi, che li custodiva.

Entrambi gli episodi avvengono dopo che il Museo coloniale di Roma è stato de-finitivamente chiuso nel 1971 con la di-smissione di una parte del suo patrimonio e il trasferimento ad alcuni musei d’Ar-ma (il Museo della fanteria, del genio, del-la cavalleria) e al Museo civico di zoo-logia. Sono rimasti circa 11.000 oggetti, sopravvissuti a loro volta alla distruzione dei campioni merceologici e delle mate-rie prime ritenuti, non si bene da chi, “pri-vi di valore storico, artistico o scientifico”. Quale il loro destino? Il saggio di France-sca Gandolfo si chiude su questo interro-gativo.

Adolfo Mignemi Angelo Pietro Desole, Fotografia indu-striale in Italia 1933-1965, San Severino Marche, Quinlan, 2015, pp. 219, euro 20.

L’interesse per la fotografia industriale in Italia è nato qualche decennio fa nell’al-veo degli studi, allora in piena fioritura, sulla storia del movimento operaio e sin-dacale. Restano emblematici di quella sta-gione lontana La fatica dell’uomo, a cura

di Cesare Colombo e Michele Falzone del Barbarò (1979) e la Storia fotografica del lavoro in Italia 1900-1980 (1980), curato da Aris Accornero, Uliano Lucas e Giulio Sapelli e introdotto da Arturo Carlo Quin-tavalle. In entrambi l’accento cadeva sul lavoro, inestricabilmente legato ai luoghi in cui veniva esercitato e dunque alla fab-brica, in tutte le sue componenti: gli edi-fici, lo spazio, le macchine, i volti e i ge-sti dei lavoratori, i momenti di socialità dentro e fuori gli stabilimenti. Oggi, gra-zie alla progressiva apertura degli archivi aziendali, Angelo Pietro Desole, assegni-sta di ricerca presso il dipartimento di be-ni culturali dell’Ube-niversità di Padova, ha potuto tracciare un quadro della Fotogra-fia industriale in Italia capace di tenere conto dei molti elementi ideologici, esteti-ci, commerciali che l’attraversano e anche delle maggiori individualità che negli ni ne hanno disegnato il profilo tra gli an-ni Trenta e gli anan-ni Sessanta.

Tranne le imprese dotate di laborato-ri fotografici interni (Ansaldo, Fiat, Bre-da, Ercole Marelli e poche altre), in genere le aziende facevano ricorso a professioni-sti esterni, con i quali finivano per iprofessioni-stituire un rapporto privilegiato. Sono noti i casi degli studi di Guglielmo Chiolini per l’a-rea pavese e di Giovanni Negri per quella bresciana, la collaborazione di Sandro Da Re con la Dalmine o quella di Giulio Pa-risio con l’Italsider di Bagnoli e l’Olivet-ti di Pozzuoli. Con riferimento a Olivetl’Olivet-ti non si possono non menzionare i nomi di Henri Cartier-Bresson, Ugo Mulas, Gian-ni Berengo Gardin, Gabriele Basilico, che anche sul piano della fotografia industriale hanno reso quella di Ivrea una storia a sé.

I fotografi da citare sarebbero natural-mente molti di più, a partire da quello di inizio Novecento di Luca Comerio, auto-re di una straordinaria fotografia dei la-voratori Pirelli che nella loro numerosità erano la raffigurazione visiva di una real-tà che aveva pochi paragoni nella Milano di allora. Tuttavia questo elenco, scarno e consapevolmente incompleto — al qua-le bisogna aggiungere almeno i nomi

(12)

Vin-cenzo Aragozzini, che aveva fatto il suo apprendistato da Comerio, e Roberto Zab-ban, che dopo essersi fatto le ossa pres-so lo studio Giancolombo, avrebbe scel-to la foscel-tografia industriale come proprio ambito di lavoro — è sufficiente a mo-strare come accanto a solidi professionisti abbiano intrattenuto un proficuo rapporto con l’industria autentici maestri della fo-tografia.

Un altro caso, memorabile per intensità di risultati, è quello di Bruno Stefani, che campeggia nella ricostruzione di Desole, anche se la sua figura e quella degli altri protagonisti sono inserite opportunamente all’interno di una narrazione corale scan-dita sulle grandi cesure del Novecento: gli anni Trenta, la guerra e infine la ripresa e gli anni del miracolo economico.

Come la fotografia industriale anche il suo studio si muove al confine tra diversi ambiti. Desole non può evitare di riferir-si al contesto economico e qui la sua rico-struzione non sempre appare convincente. Ma si tratta di peccato veniale. Una ulte-riore riflessione merita piuttosto la rappre-sentazione che l’autore dà del periodo tra le due guerre come un momento di parti-colare rigoglio per la cultura artistico-visi-va italiana. Certo, oggi sappiamo che ave-va torto Norberto Bobbio a dire che non era esistita una cultura fascista, né possia-mo dipingere l’intero ventennio come un periodo di chiusura che avrebbe isolato il paese dalla modernità. Se così fosse non si comprenderebbero figure come Bruno Stefani e le stesse tensioni che animava-no i fautori del rinanimava-novamento della grafica, e che avevano in Guido Modiano, Attilio Rossi i propri alfieri e in Edoardo Persico un sicuro punto di riferimento. Tutti per-fettamente informati di quanto agitava la scena europea e in particolare, per l’ambi-to della fol’ambi-tografia e della grafica, della le-zione del Bauhaus, i cui echi avrebbero trovato un sensibile interprete in Alexan-der “Xanti” Schawinsky dal 1933 al 1936 collaboratore in quel crocevia di intelli-genze creative che fu lo studio Boggeri. Tuttavia non bisogna enfatizzare

eccessi-vamente, come talvolta l’autore fa, la viva-cità culturale di quel momento. Si corre il rischio di dimenticare quali fossero le re-ali condizioni del paese negli anni tra le due guerre.

Lo sviluppo della fotografia industria-le tra industria-le due guerre ha diverse motivazioni estetiche e ideologiche, ma riflette anzitut-to l’ampliarsi del mercaanzitut-to. Diverse grandi imprese celebrano in pubblicazioni giubi-lari la loro storia e affidano all’immagi-ne fotografica il compito di illustrare i tra-guardi raggiunti. La fotografia si fa allora racconto, superando l’impostazione stati-ca delle fotografie ottocentesche con gli operai immobili in posa davanti alle mac-chine e le linee produttive rigidamente al-lineate. Si definiscono nuovi codici visi-vi. In quegli anni si afferma anche “un nuovo modo di raccontare il lavoro, un senso epico della fatica con l’operaio al centro, che diventava simbolo del corag-gio e del dominio dell’uomo sugli elementi più virulenti” (p. 52). Questo è vero tanto per i reportage di Bruno Stefani sul lavo-ro in miniera realizzati per la Montecatini, quanto per le immagini di Vincenzo Ara-gozzini della costruzione del grande inse-diamento della Snia a Torviscosa nel 1938. Inoltrandosi nella seconda metà degli anni Trenta e cominciandosi a risentire le spin-te al riarmo gli spazi della fotografia indu-striale vennero restringendosi quando non del tutto piegati a fini propagandistici.

Negli anni Cinquanta la modernità in-travista negli anni Trenta in isole ristrette del Paese si generalizza trovando nell’in-dustria e nella ripresa dei consumi la spin-ta che le era mancaspin-ta in precedenza. An-che per la fotografia industriale si apre una nuova stagione che vedrà a fianco a fianco la vecchia generazione di fotografi e nuo-vi professionisti per i quali l’industria non è l’ambito esclusivo di impegno. In parte ciò è accaduto. Protagoniste di questa fa-se diventano le riviste aziendali, che alla funzione tradizionale di bollettino tecnico e di volano dell’identità aziendale aggiun-gono ora la consapevolezza

(13)

dell’impor-tanza degli aspetti grafico-visivi, almeno nei casi migliori, e l’ambizione a dialogare con la società. Sarà per molti fotografi del-la nuova generazione l’occasione per spe-rimentare nuovi linguaggi come convin-centemente mostra Desole, evidenziando l’asimmetria visiva tra due servizi di Fede-rico Patellani e Ugo Mulas usciti sulla ri-vista “Pirelli” a dieci anni di distanza, de-dicati ai lavori del traforo del Bianco.

Resta sul fondo una domanda cui non si può sfuggire: quanto ha pesato nelle scel-te dei fotografi la commitscel-tenza? Una que-stione a cui Desole risponde convincente-mente così: “La fotografia industriale non è tanto un soggetto, una tecnica, uno stile, quanto piuttosto un rapporto, la sottile me-diazione tra esigenze propagandistiche, di-vulgative e comunicative di un’azienda e il gusto, la cultura visiva, lo stile di un foto-grafo” (p. 22).

Una frontiera mobile divide dunque il fotografo dal suo oggetto. Resta fermo un punto: non esiste fotografia industriale in-dipendente dalla committenza. Fino agli anni Sessanta quello delle fabbriche era un mondo a parte, precluso a sguardi esterni.

Il libro di Desole si chiude qui, do-po aver ricordato che quei muri sarebbe-ro stati travolti nel corso degli anni Ses-santa dalla forza dirompente del conflitto sociale. Anche la fotografia industriale è costretta a cambiare. L’obiettivo si sposta dalle industrie ai suoi attori e trova in una nuova generazione di fotografi i suoi par-tecipi interpreti. Gli operai sono di nuo-vo al centro della scena. Non più come un tempo semplici appendici delle macchi-ne. Ora in primo piano è una nuova clas-se operaia, giovane, spinta in fabbrica dal disperato desiderio di riscatto sociale, lo stesso che l’aveva indotta ad abbandona-re le campagne del Mezzogiorno da cui in gran parte proviene. Uliano Lucas e Tano D’Amico furono probabilmente i migliori interpreti di quella stagione vibrante di il-lusioni. Ma ormai il diaframma tra la fab-brica e la società era rotto e così le foto di fabbrica dall’interno si moltiplicano in

mi-sura esponenziale. La fotografia industria-le aveva concluso il suo compito e da que-sto momento sarebbe entrata a far parte di apparati comunicativi sempre più sofisti-cati, chiamati a dare forma simbolica all’i-dentità aziendale e al sogno di una società pacificata in cui il conflitto sia un lonta-no ricordo.

Giorgio Bigatti

Storie e cinema

Jaqueline Reich, Catherine O’Rawe, Divi. La mascolinità nel cinema italiano, Roma, Donzelli, 2015, pp. 152, euro 21.

Jaqueline Reich e Catherine O’Rawe si sono già occupate di modelli cultura-li presenti nel cinema adoperando l’ap-proccio interpretativo del gender. La pri-ma, infatti, docente presso il Department of Communication and Media Studies al-la Fordham University di New York, è au-trice di un precedente volume su Marcel-lo Mastroianni (Beyond the Latin Lover: Marcello Mastroianni, Masculinity, and Italian Cinema, 2004). Catherine O’Rawe — attualmente Reader presso il Diparti-mento di Italianistica dell’Università di Bristol — ha invece dato alle stampe Stars and Masculinities in Contemporary Ita-lian Cinema nel 2014.

La scarsa attenzione dimostrata nei confronti degli attori italiani dalle ricerche incentrate sul divismo nazionale è il pun-to da cui muovono le due autrici per rac-contare oltre un secolo di personaggi ci-nematografici ponendo sotto osservazione la maschilità e il modo in cui quest’ulti-ma si trasforquest’ulti-ma nel tempo (p. 8). Il divi-smo italiano è sempre stato legato a dop-pio filo a nomi di attrici che, a partire dal cinema muto in poi, sono state considerate le icone di riferimento per studiare il feno-meno divistico e il legame di quest’ultimo con la società.

Divismo e industria cinematografica nazionale crescono di pari passo nel corso dei decenni, mostrando una netta

(14)

differen-za con i prodotti d’oltreoceano e in par-ticolare nella gestione e la valorizzazio-ne degli interpreti delle pellicole, sempre più personaggi pubblici capaci di eserci-tare fascino sulle masse e attirarne l’atten-zione non solo per la recital’atten-zione, ma so-prattutto per le loro vite private.

In Italia, patria del divismo di inizio Novecento, le dive si riprendono la sce-na in seguito alla crisi del neorealismo, ri-tagliandosi uno spazio ben preciso nella nuova società investita dal boom econo-mico e da rapidi fattori di cambiamento. Dagli anni Cinquanta in poi, le luci del-la ribalta che hanno dato lustro ad attri-ci come Lyda Borrelli o Francesca Berti-ni, illuminano le forme abbondanti delle “maggiorate” — la Loren, la Lollobrigida — le quali, a differenza delle colleghe del cinema muto, condividono la scena con i propri colleghi maschi, veri e propri divi che incarnano le diverse sfaccettature del-la maschilità italiana.

Il volume si divide in due parti: la pri-ma presenta l’approccio teorico utilizza-to per lo studio delle celebrità maschili nei contesti storici di riferimento soffer-mandosi sul rapporto fra audience e di-vi nel corso del tempo e la nascita degli star studies come disciplina volta allo stu-dio del fenomeno divistico su scala mon-diale. Muovendo dal concetto di “autorità carismatica” introdotto da Weber, il divi-smo italiano può essere analizzato dalle sue prime forme in cui i corpi delle attrici rappresentano l’industria cinematografica stessa, in seconda battuta dai vari modi di interpretazione che caratterizzano le cele-brità nel corso degli anni e infine dai me-todi di interazione fra gli stessi divi e l’au-dience di riferimento (dai rotocalchi agli attuali social network) (p. 56).

Partendo dalla maschilità mediterranea e dal concetto di “fare bella figura”, com-portamento che prevede la salvaguardia dell’onore familiare agli occhi dell’opinio-ne pubblica, le autrici evidenziano come la scena pubblica sia il principale campo di manifestazione dell’essere maschio.

Gli attori maschili, a prescindere dai ruoli interpretati, sono ancorati alle dina-miche reali della società mentre le dive vengono sempre più relegate in una mensione ultraterrena o, per l’appunto, di-vina (p. 16). Ciò è tra le cause della scarsa celebrità scaturita dai divi in rapporto alla fama delle attrici, la cui femminilità, vis-suta solitamente negli spazi della vita pri-vata domestica, diventa la protagonista del rito collettivo della visione del film susci-tando la curiosità del pubblico e ponendo in primo piano la bellezza del corpo. Gli attori del cinema muto fungono da spalla alle vicende, spesso tormentate, delle pro-tagoniste dei primi lungometraggi.

In questo contesto la celebrità delle di-ve non si fonda sulla comunanza di espe-rienze vissute dal pubblico e riviste sullo schermo bensì sulla rottura della quoti-dianità e l’aspirazione alla mobilità socia-le presente, soprattutto, nei desideri della classe media.

Il copione rimane invariato in epoca fascista dove alla leggerezza dei “telefo-ni bianchi”, in cui gli attori si rifanno al-le interpretazioni delal-le star d’oltreoceano, si contrappone la virilità maschile dei film bellici la cui massima espressione è l’onni-presente figura del duce.

Bisogna attendere l’arrivo degli anni Cinquanta per notare la contrapposizio-ne di diverse maschilità: a quella classi-ca di Nazzari, attore impegnato soprattut-to nel melodramma, si affiancano i corpi di Salvatori e Arena, giovani che guarda-no al futuro e oltrepassaguarda-no i drammi bel-lici (p. 23).

La bellezza, fino allora prerogativa del-le dive e categoria di identificazione con l’intero Paese, inizia ad avere anche una declinazione maschile.

Con la fine del neorealismo e la nasci-ta della commedia all’inasci-taliana, viene alla ribalta la figura dell’“inetto” e la cruciale codificazione di vizi e virtù del cosiddet-to “italiano medio”. La comicità non se-gue più i binari prestabiliti e percorsi da attori celebri come Totò, ma è una delle chiavi narrative tramite la quale sono

(15)

im-mortalati i cambiamenti che i tradiziona-li ruotradiziona-li di genere vivono in modo freneti-co e spesso traumatifreneti-co nell’Italia del boom economico.

L’approccio teorico si sposta dunque sull’analisi della celebrità in una prospet-tiva storica.

Il divismo italiano segue una logica di bottom up, a differenza delle strategie di comunicazione degli studios americani volte a creare il personaggio mediatico. In particolare, il terreno su cui prende forma la celebrità in Italia si riferisce alla tradi-zione lirica e al richiamo del pubblico in base al nome dell’interprete. L’industria ci-nematografica nazionale inizia a puntare sul cast, dunque, per pubblicizzare i nuo-vi prodotti (p. 14). I dinuo-vi iniziano a esse-re veri e propri porta bandieesse-re in un conte-sto cinematografico mondiale che unisce il locale al globale passando spesso per ste-reotipi che caratterizzano la nazione dal-la quale provengono, è questo il caso del-la figura del del-latin lover (Valentino, Brazzi, Mastroianni) (p. 35).

La seconda parte del libro prende in rassegna singoli protagonisti delle diverse epoche del cinema come testimoni di un divismo maschile italiano in continua tra-sformazione.

Da Pagano e Ghione (p. 61), divi del muto, si passa a De Sica, Nazzari e Vello-ne, simboli di una maschilità classica, per arrivare a Gassman, Sordi e Mastroianni (p. 109) la cui maschilità è alle prese con i cambiamenti di costume mentre l’impegno civile e politico è rappresentato da Volontè (p. 117). Infine è la volta del regionalismo incarnato da Verdone e Benigni (p. 125) e dalle interpretazioni di richiamo teatrale di Servillo (p. 133).

Gli ultimi decenni del XX secolo sono influenzati dal netto successo del mercato hollywoodiano e delle relative star. In Ita-lia la fama dei singoli attori è legata a un duraturo rapporto collaborativo con i regi-sti (Giannini-Wertmüller, Servillo-Sorren-tino) e la nascita di artisti provenienti dal mondo del varietà e di grande richiamo

popolare (Troisi, Verdone, Benigni, Mo-retti).

La novità del cinema italiano del nuo-vo millennio è sostanzialmente legata alla nascita di attori la cui celebrità passa dalla bellezza e capaci di scavalcare il carisma delle colleghe donne (si pensi a Scamar-cio, Stuart, Bova) mentre la comicità è una caratteristica che continua a formare divi contemporanei (Siani, Zalone), il cui suc-cesso si basa ancora oggi sul “topos” mai tramontato e mai definitivamente raccon-tato dell’“italiano medio” (p. 27).

Alfredo Barillari Christian Uva, L’immagine politica. Forme del contropotere tra cinema, video e fotografia nell’Italia degli anni Settanta, Milano, Mimesis, 2015, pp. 279, euro 24.

Nel decennio di mobilitazioni e con-flitti che prese avvio nel 1968 fu rilevante, da parte dei movimenti, gruppi e partitini che animarono quella stagione, la produ-zione di proprie immagini, sotto forma di film, video e fotografie. “Immagini politi-che” le definisce Christian Uva: immagini che ebbero “a che fare con la politica nel-la sua natura di orizzonte concernente nel-la configurazione dei rapporti di potere nel-la sfera pubblica” (p. 9). L’“arma delle im-magini” serviva sia per denunciare (i gua-sti del sistema e gli errori dell’avversario) sia per enunciare (programmi, idee e va-lori). Al di là della valutazione dei risulta-ti e del reale impatto, non si può non con-venire che venne così a formarsi “uno dei bacini più ricchi di motivi iconici capa-ci, nel bene e nel male, di iscriversi in ma-niera indelebile nel cosiddetto ‘immagina-rio collettivo’” (p. 9). Si sbaglierebbe però a relegare questo libro nell’ambito dei me-dia studies. Non solo, infatti, affronta con indubbia intelligenza questioni di grande interesse per gli studiosi della stagione dei movimenti, ma prende anche in esame da un’inedita prospettiva un tema — quel-lo del ruoquel-lo dei media, dell’immaginario e della cultura visuale nell’Italia degli

(16)

an-ni Settanta — ricco di implicazioan-ni e pro-spettive.

Il libro analizza le immagini prodotte da tre media — cinema, video e fotogra-fia — a ciascuno dei quali è dedicato, in quest’ordine, un capitolo. Il succedersi del-le tre parti rispecchia anche il passaggio dalla centralità dell’uno a quella dell’altro e il venire in evidenza, di volta in volta, di nuovi temi e nuovi sguardi. Il periodo di maggiore vivacità del cinema militante e politico corrisponde agli anni immedia-tamente successivi al 1968. La ricerca di un approccio partecipato, collettivamen-te discusso e condiviso connotò quella sta-gione. Benché si trattasse di film destinati per lo più a circuiti distributivi alternati-vi, parteciparono alla loro ideazione e re-alizzazione anche figure non irrilevanti del sistema cinematografico “ufficiale”. L’o-biettivo della denuncia e della controin-formazione — prevalente dopo la strage di piazza Fontana — fu il maggiore collan-te, a discapito della funzione di enuncia-zione di una prospettiva alternativa. Intor-no alla metà degli anni Settanta si affermò l’uso militante del videotape, un suppor-to più agile, economico e facile da usare rispetto alla pellicola cinematografica. Fu una novità che s’intrecciò con l’emergere, nei movimenti, di istanze vitalistiche, che ponevano al centro la riscoperta della sog-gettività individuale e il carattere politico della sfera privata. Le tematiche antiauto-ritarie si saldarono a una dimensione an-tropologica nuova, evidente soprattutto nel femminismo e nel movimento del 1977: l’ambizione non era più rovesciare frontal-mente il sistema, ma liberare il desiderio come forza emancipatrice. Queste richie-ste furono centrali nel formarsi, in quegli anni, delle prime esperienze di “videomi-litanza”, tra le quali emersero il collettivo milanese Videobase e il percorso, più iso-lato ma straordinariamente rappresentati-vo, di Alberto Grifi. Il medium fotografico fu invece quello più accessibile. Una quan-tità infinita di fotografie fu prodotta, infat-ti, da attivisti del movimento, alcuni dei quali nel doppio ruolo di militanti e

pro-fessionisti, come Tano D’Amico, su cui il libro si sofferma ampiamente. Le imma-gini che ebbero maggiore risalto e circola-zione furono quelle legate a episodi di vio-lenza e di maggiore radicalità di conflitto — dalle fotografie che raffiguravano l’u-so delle armi nei cortei a quelle prodot-te dalle Brigaprodot-te rosse —, anche perché più in sintonia con il discorso diffuso da gior-nali e televisioni e con le logiche spettaco-larizzanti che vi erano sottese. È su que-ste immagini che insique-ste Uva, lasciando ai margini invece quelle, non meno rilevan-ti, raffiguranti momenti più intimi e priva-ti, legati alla formazione di nuove forme di socialità.

Rimangono invece completamente all’esterno della lente di osservazione altri media e ambiti di espressione, come la pit-tura e l’arte contemporanea (certo appar-tenenti a un contesto produttivo e critico a sé stante, ma non irrilevanti, come nel ca-so dei lavori di Mimmo Rotella), i mani-festi, le arti grafiche, i murales, i graffiti, i fumetti e le vignette. Di là dalle legitti-me predilezioni e dalle specifiche compe-tenze dell’autore, la scelta di concentrar-si su cinema, video e fotografia sembra trarre ragione anche dal fatto che fu intor-no a quei tre media che si sviluppò il più ricco e intenso lavoro di discussione e ri-flessione teorica nell’ambito dei movimen-ti. L’immagine politica prodotta in quei tre ambiti fu accompagnata e percorsa da un’infinità di parole, finalizzate sia a illu-strare intenti e finalità (manifesti, manua-li) sia a commentare e discutere i risultati raggiunti (recensioni, riviste specializzate, convegni). E le parole a volte conferirono alle immagini un nuovo significato: si pen-si, per citare un caso ampiamente discusso nel libro, al grande impatto del commen-to di Umbercommen-to Eco alla notissima focommen-to che raffigura un ragazzo che spara durante una manifestazione del 1977 a Milano.

La scelta di cinema, video e fotogra-fia non è però priva di effetti. I nume-rosi materiali analizzati da Uva restitui-scono, nell’insieme, una rappresentazione dei movimenti in cui risaltano la

(17)

radicali-tà del conflitto, la violenza, la forte ideolo-gizzazione e un vitalismo innervato di au-todistruttività. Quelle immagini pongono in primo piano la dimensione spettacola-rizzata della protesta politica, che più fa-cilmente si identifica nel gesto isolato ed eclatante, di cui l’azione dei gruppi armati rappresenta l’espressione più estrema e al tempo stesso distorta. Restano ai margini, o fuori fuoco, aspetti non meno importan-ti come la valorizzazione della dimensio-ne ludica, l’ironia e la dissacraziodimensio-ne, che furono centrali nelle vignette, nei mura-les e nelle sperimentazioni grafiche di al-cuni giornali.

Rimane aperta un’ultima questione, qui sfiorata solo tangenzialmente: il rappor-to con il circuirappor-to ufficiale di produzione di immagini. L’indagine di Uva sembra sug-gerire che tra la rappresentazione preva-lente, mainstream, pervasa da una visio-ne plumbea e pessimistica (Italia: ultimo atto? era l’inequivocabile titolo di un po-liziesco uscito nel 1977), e quella offer-ta dalle produzioni alternative e milioffer-tan- militan-ti ci fosse non solo opposizione, ma anche osmosi e circolazione di temi, immagi-ni e stati emotivi: una condivisa “cupezza” (p. 88) che alimentò, pur con opposti in-tenti, l’idea degli anni Settanta come “an-ni di piombo” e dell’Italia di allora come un Paese nel baratro. Se ne avvantaggia-rono i gruppi che privilegiaavvantaggia-rono le forme più radicali e violente di conflitto e, alla fine, le formazioni armate. Sembra insom-ma trovare conferinsom-ma l’idea dell’“alleanza inconsapevole tra terroristi e media” di cui parlò in quegli anni un osservatore lucido come Elvio Fachinelli (Il gesto del terro-rista, 1980, ora in Id., Al cuore delle cose. Scritti politici (1967-1989), Roma, 2016, p. 186). Solo in pochi casi, invece, si riuscì, con piena efficacia, realmente a cambia-re di segno, a “interpcambia-retacambia-re il lato ‘in luce’ dei movimenti degli anni Settanta, quel-lo attraversato dalle istanze più autentica-mente vitalistiche da essi rivendicate” (p. 144), dalla creatività diffusa e dalla forza dissacratoria, e a offrire una raffigurazio-ne diversa dell’intero decennio. Ma è una

questione qui solo accennata, meritevole di ulteriori approfondimenti.

Alessio Gagliardi

Cose di Chiesa

Matteo Brera, Novecento all’Indice. Gabriele D’Annunzio, i libri proibiti e i rapporti Stato-Chiesa all’ombra del Con-cordato, Roma, Edizioni di Storia e Lette-ratura, 2016, pp. 356, euro 38.

Ricostruendo le tappe che scandirono la messa all’Indice della produzione ar-tistica di Gabriele D’Annunzio e di testi variamente legati alla sua opera, il volu-me fornisce un interessante spaccato del-le percezioni che la Chiesa cattolica, nei suoi vertici, ebbe dei cambiamenti in atto nei primi tre decenni del Novecento e del-le armi messe in campo per contrastarli.

Non è questa la sede per soffermarsi sulla storia della Suprema e della Con-gregazione dell’indice nei secoli preceden-ti, oggetto del primo capitolo del libro: si tratta di temi al centro ormai di molti stu-di, tra i quali mi limito a richiamare il no-to lavoro di Hubert Wolf, Index. Der Vati-kan und die verbotenen Bücher (München, 2006) e il Dizionario storico dell’Inqui-sizione, diretto da Adriano Prosperi con la collaborazione di Vincenzo Lavenia e John Tedeschi (Pisa, 2010). Mi interessa piuttosto sottolineare la necessità di osser-vare con uno sguardo nuovo il significato complessivo dell’azione censoria e di di-sciplinamento attraverso cui, tra Ottocento e Novecento, la Chiesa cattolica si concen-trò sulle dimensioni della sessualità con l’intento di tracciare i margini del moral-mente lecito e, al di fuori di tali confini, i tratti specifici delle perversioni. Il quadro delineato da Brera offre, infatti, una forte sollecitazione a superare una lettura anco-ra diffusa in ambito storico-religioso, che, trascurando la lezione di Mosse, ha spes-so colto nella repressione sessuale promos-sa dal cattolicesimo otto-novecentesco

(18)

so-lo il retaggio di spinte tradizionalistiche di natura intra-ecclesiastica. Benché l’au-tore non si ponga su un piano interpreta-tivo complessivo di questo tipo, le vicende ricostruite nel volume offrono un esempio interessante del processo di condiziona-mento dei costumi sessuali che, a partire dalla percezione di una degenerazione at-tribuita alla società urbano-industriale, eb-be tra i suoi paladini i chierici, ma anche, nella secolarizzazione dei saperi, medici, pedagogisti, fisiologi.

Brera ricostruisce l’iter delle due con-danne comminate dal Sant’Uffizio a D’Annunzio. Il primo conclusosi nel cor-so del 1911 è opportunamente collocato nel quadro della repressione contro il mo-dernismo: sono gli anni dei consigli dioce-sani di vigilanza, dell’imposizione al clero cattolico del giuramento antimodernista, dei controlli severi imposti nei seminari. La condanna del poeta è accostata dall’au-tore a quella imposta ad Antonio Fogazza-ro: nell’opera dannunziana si colse infat-ti — come mostra Brera — una mutazione del gene modernista, ritenuto portatore, tra i molti mali, di forme di sensualismo mi-stico. Il senso di minaccia e la conseguen-te necessità censoria risultarono amplifi-cati, nel caso qui ricostruito, dall’ampia circolazione dei testi di D’Annunzio sot-to forma di libri, rappresentazioni teatra-li, ma soprattutto dall’impatto che essi eb-bero nella cultura di massa attraverso il teatro e la letteratura di consumo. L’at-tenzione del qualificatore designato dal-la Congregazione dell’indice, il cappucci-no Giuseppe Maria Checchi, si appuntò in primo luogo sulle onde di sensualità volut-tuosa, le oscenità, gli adulteri, l’assenza di qualità morali dei protagonisti delle ope-re dannunziane, nessuno dei quali appa-riva dotato di virtù. In aggiunta risultava preoccupante e osceno il sensualismo re-ligioso di alcuni personaggi delle novelle: fervori mistici descritti con terminologie che afferivano alla sfera sessuale (tremolii, allucinazioni, tentazioni carnali); aspetti della religiosità popolare, descritti come

superstizioni quasi animalesche, sovrappo-sizioni, ritenute paganeggianti, tra natura e divinità. In questo quadro Brera dedica un’attenzione specifica al francescanesi-mo di D’Annunzio, già oggetto, nel 1963, di un eccellente studio di Arnaldo Forti-ni. Un francescanesimo che portò il poe-ta a vestire il saio al Vittoriale e a identi-ficarsi col santo di Assisi in quanto “orbo veggente” (p. 57), ma che risulta puramen-te letpuramen-terario e di maniera.

Il misticismo “francescano” non bastò a meritargli il favore del Vaticano. Così dinanzi al crescente successo della produ-zione dannunziana in Italia e all’estero, il Sant’Uffizio emanò, il 9 maggio 1911, un decreto di condanna delle prose di caratte-re amoroso e di tutti gli scritti teatrali del poeta, attivando un vero e proprio corto circuito: si censurava una produzione ar-tistica anche per il suo straordinario suc-cesso di pubblico, ma si generava, proprio con la messa all’Indice, un effetto pubbli-citario senza precedenti. L’inclusione di al-cune opere del poeta nell’Index librorum prohibitorum si trasformò, infatti, in una réclame a livello mondiale, tale che, per esempio, Le Martyre de Saint Sébastien, messo in scena a Parigi pochi giorni dopo la pubblicazione del decreto di condanna, finì sulle pagine del “New York Times”. Lo stesso effetto pubblicitario, del resto, la messa all’Indice aveva avuto sulle opere di Balzac, di Dumas, sul Santo di Fogazzaro, mentre in anni successivi una sorte analo-ga sarebbe toccata a Sartre.

Negli anni del fascismo, l’azione del Sant’Uffizio ricostruita da Brera rivela in modo esemplare alcune dinamiche dei rapporti tra Chiesa e regime: da un la-to come il percorso verso la Conciliazio-ne fu contrassegnato, su entrambi i fron-ti, da spinte competitive per l’esercizio di un ruolo egemonico sull’ethos pubblico; dall’altro lato come tali spinte si consu-massero essenzialmente al di fuori dal-la sfera del discorso pubblico. Le tensio-ni che caratterizzarono la strada verso il Concordato non si appuntarono sul ricorso

Riferimenti

Documenti correlati

We prove that a general condition introduced by Colombo and Gobbino to study limits of curves of maximal slope allows also to characterize minimizing movements along a sequence

This study presents, to our knowledge for the first time, observations on soil N2O emissions over two successive years from faba beans cultivated in a Mediterranean

This paper discusses a case of destabilizing contribution of damping, observed for a flat-plate model vibrating in the cross-flow direction (heaving) and in the rotational degree

Women who underwent ovarian cystectomy have b-FSH levels, as long as they are still <10.1 mU/ml, signifi- cantly higher than in those patients who had no surgery for

 

Methods: To gain a more comprehensive picture on how these markers can modulate BC risk, alone or in conjunction, we performed simultaneous measurements of LTL and mtDNA copy number

Vi sono dati a favore dell’ipotesi che, nelle zone di riassorbimento della matrice ossea da parte degli osteoclasti, gli osteociti non muoiano affatto ma vadano ad

41: Impianti Zigomatici nelle riabilitazioni del mascellare superiore senza ricorso al più classico Rialzo del seno mascellare (Acocella A, Bertolai R. Università