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La chirurgia del Glioblastoma recidivo: outcome clinico ed assetto genetico

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Academic year: 2021

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Scuola di Medicina

Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia

Tesi di Laurea Magistrale

Titolo

La chirurgia del Glioblastoma recidivo:

outcome clinico ed assetto genetico

Relatore:

Chiar.mo Prof. Paolo Perrini

Correlatore:

Dott. Nicola Montemurro

Candidato:

Epifani Francesco

Anno Accademico 2019-2020

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Sommario

1. Introduzione………..3

2. Cenni di anatomia del sistema nervoso centrale………5

2.1. Anatomia delle aree corticali……….5

2.2. Anatomia dei fascicoli della sostanza bianca………8

3. Il Glioblastoma multiforme………11

3.1. Classificazione WHO (World Health Organization) dei tumori del SNC.11 3.2. Assetto genetico e profilo molecolare………..17

3.3. Presentazione clinica………28

3.4. Diagnosi strumentale………29

3.5. Trattamento chirurgico……….36

3.6. Terapia adiuvante……….42

3.7. Outcome clinico ed OS……….47

4. Studio clinico………52

4.1. Introduzione e scopo del lavoro………....52

4.2. Materiali e metodi………53

4.3. Risultati………58

4.4. Discussione………..66

5. Conclusione………..69

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1. Introduzione

Il glioblastoma multiforme (GBM) è il tumore cerebrale primitivo maligno più frequente dell’età adulta e rappresenta il sottotipo con più elevata aggressività ed incidenza di recidiva tra i gliomi cerebrali1. Nonostante i recenti progressi nelle tecniche diagnostiche di neuroimaging, chirurgiche e nelle terapie adiuvanti, la prognosi rimane infausta con un aumento della sopravvivenza globale (OS) di soli 3.3 mesi negli ultimi 25 anni2.

Nella direzione di una medicina personalizzata, terapie a bersaglio molecolare target-specifiche sono state applicate in molti campi oncologici nell’ultimo decennio, ottenendo un riscontro senza precedenti in termini di benefici sulla risposta alla terapia e sulla OS, introducendo un elevato numero di chemioterapici nella pratica clinica. Similarmente, terapie a bersaglio molecolare sono state prese in considerazione come approccio razionale nel campo della neuroncologia a fronte della presenza di specifiche alterazioni molecolari associate alla modificazione nei pathways di segnalazione intra-cellulare anche nei glioblastomi, ottenendo scarsi risultati e dimostrando, quindi, che al momento si sa ancora poco sul profilo molecolare di questo sottotipo di tumori cerebrali3.

Nell’ambito dei GBM, la quasi totalità dei tentativi condotti in questo senso è risultata fallimentare4: nessun farmaco di questa categoria si è dimostrato superiore alle attuali terapie chemioterapiche alchilanti, le quali presentano comunque un’efficacia terapeutica limitata5.

La spiegazione degli scarsi risultati ottenuti dai trials clinici può identificarsi parzialmente in due ragioni, ovvero nell’incapacità di tali farmaci di oltrepassare la barriera emato-encefalica (BEE) e nel fatto che la maggior parte di essi siano stati testati su popolazioni di pazienti non adeguatamente selezionate e stratificate in base alle specifiche alterazioni molecolari.

La possibile introduzione del concetto di terapia target nel contesto dei casi di GBM recidivo è un elemento potenziale di elevata importanza. Poiché i pazienti con GBM sviluppano nella quasi totalità dei casi almeno un episodio di recidiva, la valutazione del profilo molecolare e genetico risulta in tal senso di elevata importanza anche alla luce di un secondo intervento chirurgico. L’attuale standard terapeutico per il trattamento del GBM prevede la resezione chirurgica seguita da terapia adiuvante

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radioterapica e chemioterapica con Temozolomide (TMZ); una nuova asportazione chirurgica è indicata, quando possibile, in caso di recidiva, a cui segue un nuovo ciclo di chemioterapia ed eventualmente re-irradiazione.

Di pari passo, nell’ambito della terapia del GBM recidivo, è stata rimarcata l’importanza della chirurgia laddove possibile in virtù dei risultati ottenuti in termini di OS6.

Vengono messi, dunque, in risalto l’ambito molecolare e quello chirurgico per lo sviluppo futuro di uno standard terapeutico più efficace nella cura del GBM.

A partire da tali premesse, uno studio retrospettivo è stato svolto al fine di evidenziare le modificazioni dell’assetto genetico e l’impatto della terapia chirurgica in una coorte di pazienti con recidiva di glioblastoma sottoposti ad almeno un secondo trattamento chirurgico negli ultimi 5 anni presso l’U.O. di Neurochirurgia dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana. Dalla consultazione dei referti istologici e di genetica molecolare dell’Anatomia Patologica I dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana, è stato possibile effettuare l’analisi di specifici patterns genetico-molecolari e l’individuazione dell’evoluzione di tali patterns in ogni singolo paziente al fine di valutare fattori che possano influenzare la OS. In aggiunta una valutazione clinica, di neuroimaging e di follow-up è stata svolta al fine di individuare e valutare quali altri fattori, oltre all’assetto genetico, influenzano la OS.

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2. Cenni di anatomia del sistema nervoso centrale

L’encefalo è suddiviso anatomicamente in strutture corticali e sottocorticali, raggruppate in lobi suddivisi funzionalmente in aree di Brodmann (BA, Brodmann areas). La sostanza bianca sottocorticale riveste la funzione di connessione tra le aree cerebrali, mediante strutture denominate fascicoli le cui fibre possono essere commissurali (interemisferiche), associative (tra aree corticali dello stesso emisfero) o di proiezione (tra aree corticali e sottocorticali).

La suddivisione anatomica dell’encefalo avviene grazie alla presenza di scissure e circonvoluzioni, mediante le quali si identificano i punti di repere per la distinzione delle aree corticali.

2.1. Anatomia delle aree corticali

2.1a. Lobo frontale

Rappresenta all’incirca un terzo dell’area emisferica cerebrale. È delimitato dorsalmente dal solco centrale (o solco di Rolando), inferiormente dalla scissura laterale (o scissura silviana), infero-medialmente è separato dal giro cingolato mediante il solco cingolato.

Nella porzione supero-laterale del lobo frontale vi è la presenza di tre importanti solchi: il solco precentrale, frontale superiore, frontale inferiore. Tra il solco centrale ed il solco precentrale vi è la circonvoluzione precentrale; i solchi frontale superiore ed inferiore suddividono la restante porzione del lobo in tre aree (circonvoluzione frontale superiore, media ed inferiore). All’interno della circonvoluzione frontale inferiore sono collocate le aree BAs 44, 45, conosciute come aree di Broca e deputate all’elaborazione e produzione del linguaggio.

Funzionalmente, il lobo frontale può essere suddiviso in due grandi aree corticali: la corteccia motoria primaria (BA 4) e la corteccia prefrontale. La prima assolve al ruolo di motilità volontaria ed ha un’organizzazione somatotopica; anteriormente ad essa vi è la corteccia premotoria (BA 6) ad azione di organizzazione del movimento. La corteccia prefrontale si trova anteriormente a queste ultime ed è suddivisa in una zona laterale (BAs 9, 10, 46, 47) ed una zona orbito-mediale (BAs 11, 12, 47): ha un ruolo sia nella motilità volontaria che negli aspetti emozionali, decisionali e di giudizio.

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2.1b. Lobo parietale

Il lobo parietale è delimitato dal solco centrale anteriormente, dal solco parieto-occipitale posteriormente ed inferiormente da una linea immaginaria orizzontale che si diparte dal solco laterale; il solco subparietale lo separa infero-medialmente dal giro cingolato. È suddiviso in 4 zone corticali.

La circonvoluzione post-centrale tra il solco centrale e post-centrale (BAs 3, 1, 2) rappresenta la corteccia somatosensoriale primaria e ripropone un’organizzazione somatotopica; il lobulo parietale superiore (BAs 5, 7) è coinvolto nelle funzioni cognitive superiori di riconoscimento; il lobulo parietale inferiore è coinvolto nelle funzioni prassiche ideo-motorie; l’opercolo parietale è situato in profondità nel lobo parietale e contiene aree somatosensoriali e di connessione con il lobo insulare.

2.1c. Lobo temporale

Il lobo temporale è localizzato al di sotto della scissura laterale e della linea immaginaria che vi si diparte orizzontalmente; è delimitato posteriormente dal solco preoccipitale. La sua superficie laterale può essere suddivisa in tre parti, la circonvoluzione temporale superiore, media ed inferiore, separati rispettivamente dal solco temporale superiore ed inferiore. La superficie inferiore è in rapporto con la circonvoluzione fusiforme ed il giro ippocampale, dai quali è separato dal solco temporo-occipitale.

La porzione posteriore della circonvoluzione temporale superiore corrisponde all’area 22 di Brodmann, storicamente identificata come area di Wernicke responsabile della comprensione del linguaggio. Sulla superficie superiore del lobo temporale, medialmente alla circonvoluzione temporale superiore sono situate le aree BAs 41, 42 di Heschl corrispondenti alla corteccia uditiva primaria.

2.1d. Lobo occipitale

Il lobo occipitale è delimitato medialmente dal solco parieto-occipitale, è in rapporto con il lobo temporale mediante l’incisura preoccipitale; antero-medialmente è in rapporto con il giro angolare e presenta medialmente la scissura calcarina. Presenta 3 aree principali: BA 17 (corteccia visiva primaria), BAs 18 e 19 che rappresentano la corteccia visiva associativa. La porzione basale è deputata alle funzioni di

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delimitazione della forma degli oggetti. Sono descritte due importanti aree associative: “dorsal stream” nella regione occipito-parietale che assolve ai compiti di percezione spaziale e localizzazione degli oggetti (area del “Dove?”), “ventral stream” occipito-temporale con funzione identificativa (area del “Cosa?”).

2.1e. Lobo insulare

È collocato profondamente al solco laterale ed è coperto dagli opercoli frontale, parietale e temporale da cui è separato mediante i solchi peri-insulari. L’insula è suddivisa in tre circonvoluzioni anteriori e due posteriori. Presenta numerose connessioni con le restanti aree cerebrali ed ha un ruolo nelle funzioni olfattive, gustative, sensitive viscerali, somatosensoriali e vestibolari.

2.1f. Lobo limbico

Situato nella porzione mediale dell’emisfero cerebrale, presenta un’architettura funzionale che è in stretta correlazione con il corpo calloso. È suddiviso in tre porzioni: il giro cingolato, la circonvoluzione para-ippocampale e l’ippocampo. Assolve alle funzioni di memoria ed olfattive, grazie alla corteccia entorinale.

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2.2. Anatomia dei fascicoli della sostanza bianca

2.2.1. Fibre associative

Sono distinte in due tipologie: fibre arcuate corte (tra circonvoluzioni adiacenti) e fibre arcuate lunghe (tra circonvoluzioni non adiacenti, collocate più profondamente), tra cui si ritrova il fascicolo occipito-frontale inferiore, i fascicoli longitudinali superiore ed inferiore, il fascicolo uncinato ed il giro cingolato.

2.2.1a. Fascicolo occipito-frontale inferiore (IFOF)

È costituito da fibre che connettono la regione prefrontale a quella temporo-occipitale. La porzione frontale ha origine nelle regioni profonde della circonvoluzione frontale media ed inferiore, entrando in stretto rapporto con la porzione ventrale del corpo calloso. Decorre nella regione temporale tra la capsula esterna e la capsula estrema, entrando in contatto con il fascicolo uncinato che vi decorre più inferiormente e superficialmente. Termina, dopo aver attraversato il limite inferiore del solco insulare, nelle circonvoluzioni occipitali superiori, medie ed inferiori. Rappresenta la connessione ventrale diretta tra le aree deputate al linguaggio nell’emisfero dominante.

2.2.1b. Fascicolo longitudinale superiore (SLF) e fascicolo arcuato (AF)

Il fascicolo longitudinale superiore è un largo fascicolo che connette il lobo frontale alla circonvoluzione post-centrale ed alle aree dei lobi parietale e temporale. Origina dalla circonvoluzione pre-centrale. Decorre con andamento antero-posteriore lateralmente alla corona radiata. Buona parte delle fibre continuano nel lobulo parietale inferiore, dove compiono una curvatura per orientarsi in direzione verticale e raggiungere la porzione posteriore delle circonvoluzioni temporali superiore e media. Profondamente ad esso si trova il fascicolo arcuato che connette in modo diretto le regioni frontali e temporali: una lesione a questo livello provoca afasia di conduzione.

2.2.1c. Fascicolo longitudinale inferiore (ILF)

Mette in comunicazione i lobi temporale ed occipitale. Le sue fibre originano dalla regione antero-basale del lobo temporale. Decorrono medialmente alle fibre del fascicolo longitudinale superiore, in stretto contatto con le fibre della radiazione ottica.

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Il fascicolo longitudinale inferiore sembra essere coinvolto nel compito di identificazione degli oggetti.

2.2.1d. Fascicolo uncinato (UF)

Il fascicolo uncinato connette i lobi frontale e temporale, è localizzato in profondità nella porzione antero-inferiore dell’insula. È costituito da tre segmenti: frontale (circonvoluzione frontale inferiore), intermedio (lobo insulare con curvatura a “U”) e temporale (circonvoluzione temporale mediale).

Rappresentano dal punto di vista funzionale, assieme al fascicolo longitudinale inferiore, la connessione ventrale indiretta delle aree deputate al linguaggio.

2.2.1e. Cingolo

È un fascicolo formato da fibre associative lunghe e corte. È localizzato nella parte mediale del giro cingolato e ne ripercorre la curvatura. Le sue fibre sono dirette longitudinalmente o verticalmente. Presenta strette connessioni con le aree di Broca. Decorre in rapporto con la radiazione ottica per terminare nella circonvoluzione ippocampale. Dal punto di vista funzionale, è coinvolto nel circuito di Papez deputato alle funzioni di memoria.

2.2.2. Fibre commissurali 2.2.2a. Commessura anteriore

È costituita da un tratto di sostanza bianca profonda molto densa, orientata antero-posteriormente.

Connette le aree fronto-basali alle porzioni più anteriori di entrambi i lobi temporali. È suddivisa in una parte anteriore ed una posteriore. Il corpo della commessura anteriore è collocato anteriormente al terzo ventricolo. Funzionalmente, riveste un ruolo nei processi olfattivi e nei processi visivi complementari.

2.2.2b. Corpo calloso

È la formazione commissurale più voluminosa. Vista superiormente, appare ricca di espansioni laterali che mettono in comunicazione le fibre della corona radiata. In proiezione sagittale, assume una forma irregolare “ad onda” e risulta diviso in 6

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porzioni: rostro, ginocchio, corpo, istmo, splenio, tapetum. Dal punto di vista funzionale, è coinvolto nel trasferimento di informazioni specializzate tra i due emisferi di tipo sensitivo e motorio.

2.2.2c. Fornice

È una struttura contenente fibre commissurali e di proiezione. Presenta una forma a “C” e mette in comunicazione la formazione ippocampale con i corpi mammillari. Le principali strutture che compongono il fornice sono la fimbria, il corpo e le colonne. Dal punto di vista funzionale, prende parte al sistema limbico e può portare a gravi deficit di memoria in caso di lesione.

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3. Il Glioblastoma multiforme

3.1. Classificazione WHO (World Health Organization) dei tumori del

sistema nervoso centrale

Il GBM è un tumore che origina dalle cellule del tessuto neuroepiteliale del sistema nervoso centrale (SNC). La classificazione dei tumori del SNC fino alla prima decade del ventunesimo secolo era basata principalmente su criteri istologici che li suddividevano in base alla cellula da cui la neoplasia originava ed al suo grado di differenziazione. Nella classificazione redatta dalla WHO nel 200710 vengono individuate alcune alterazioni molecolari riscontrabili nel contesto della neoplasia, tuttavia non vengono prese in considerazione ai fini della classificazione. Era possibile pertanto individuare all’interno di tale classificazione:

 Tumori astrocitari

 Astrocitoma pilocitico

 Astrocitoma subependimale a cellule giganti  Xantoastrocitoma pleomorfico  Astrocitoma diffuso  Astrocitoma anaplastico  Glioblastoma  Gliosarcoma  Tumori oligodendrogliali  Tumori oligoastrocitari  Tumori ependimali

 Tumori del plesso corioideo  Tumori neuronali e neuro-gliali  Tumori della regione pineale  Tumori embrionali

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Nella classificazione WHO del 200710 si veniva inoltre ad individuare il grading delle suddette neoplasie al fine di predire il comportamento biologico del tumore e scegliere di conseguenza specifici protocolli terapeutici, in particolare l’utilizzo di radioterapia e/o chemioterapia adiuvanti oltre al trattamento chirurgico.

 Grado I: neoplasia a basso potenziale proliferativo con possibilità di cura attraverso la resezione chirurgica esclusiva;

 Grado II: neoplasia di natura infiltrativa con basso potenziale proliferativo, ma con possibilità di recidivare e tendenza alla progressione verso lesioni di grado maggiore;

 Grado III: neoplasia con evidenza istologica di malignità (atipie nucleari e spiccata attività mitotica) che richiede generalmente l’utilizzo di radioterapia e/o chemioterapia adiuvanti;

 Grado IV: neoplasia con evidenti caratteristiche citologiche di malignità, rapidamente proliferanti, tendenza alla necrosi e alla proliferazione microvascolare, recidiva e prognosi infausta.

Si configurava, nell’ambito dei tumori astrocitari, la seguente classificazione:

 Grado I: Astrocitoma pilocitico, Astrocitoma subependimale a cellule giganti

 Grado II: Astrocitoma diffuso, Xantoastrocitoma pleomorfico  Grado III: Astrocitoma anaplastico

 Grado IV: Glioblastoma, Gliosarcoma

I punti chiave per il passaggio da un grado inferiore a quello superiore risultano:  la natura infiltrativa (malignità istologica) che distingue il grado II dal grado I;  l’indice proliferativo (MIB-1) che distingue il grado II e il grado III;

 la presenza di evidenze microscopiche di necrosi e proliferazione microvascolare tipico del grado IV.

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Unitamente alle caratteristiche cliniche (età del paziente, localizzazione tumorale, performance status neurologico), radiologiche ed estensione della resezione chirurgica, il grading della neoplasia secondo la WHO 2007 viene considerato importante ai fini della OS.

Il paziente con astrocitoma diffuso (WHO grado II) generalmente ha una sopravvivenza media maggiore di 5 anni; sopravvivenza che si riduce a circa 2-3 anni per i pazienti con astrocitoma anaplastico (WHO grado III) e ad 1 anno per i pazienti con GBM (WHO grado IV)7.

La nuova classificazione redatta nel 2016 dalla WHO11 dei tumori del CNS si presenta come un avanzamento concettuale della precedente sulla base delle nuove scoperte ed individuazioni di pattern molecolari, aggiungendo alla componente istologica, anche una componente genetica che amplia la classificazione di tali tumori e la diversifica ulteriormente. Da qui la classificazione dei tumori diffusi astrocitari ed oligodendrogliali, secondo la classificazione WHO del 201611 dei tumori del CNS:

 Astrocitoma diffuso (II)

 Astrocitoma diffuso IDH-mutato  Astrocitoma diffuso IDH-wildtype  Astrocitoma gemistocitico IDH-mutato

 Astrocitoma diffuso NOS (“not otherwise specified”)  Astrocitoma anaplastico (III)

 Astrocitoma anaplastico IDH-mutato  Astrocitoma anaplastico IDH-wildtype  Astrocitoma anaplastico NOS

 Glioblastoma (IV)

 Glioblastoma IDH-mutato

 Glioblastoma IDH-wildtype (variante a cellule giganti, epitelioide, gliosarcoma)

 Glioblastoma NOS

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14  Oligodendroglioma (II)

 Oligodendroglioma IDH-mutato e 1p/19q-codeleto  Oligodendroglioma NOS

 Oligodendroglioma anaplastico (III)

 Oligodendroglioma anaplastico IDH-mutato e 1p/19q-codeleto  Oligodendroglioma anaplastico NOS

 Oligoastrocitoma

 Oligoastrocitoma NOS

 Oligoastrocitoma anaplastico NOS  Astrocitoma pilocitico (I)

 Astrocitoma subependimale a cellule giganti (I)  Xantoastrocitoma pleomorfico (II)

 Xantoastrocitoma pleomorfico anaplastico (III)  Glioma cordoide del terzo ventricolo (II)  Glioma angiocentrico (I)

 Astroblastoma

L’obiettivo alla base dell’approccio integrato tra parametri fenotipici e genotipici sta nell’ottenere una maggiore oggettività ed una standardizzazione nel processo diagnostico. Il tutto volto ad una più accurata caratterizzazione delle entità diagnostiche con conseguente miglioramento del management dei pazienti, della definizione della prognosi e della capacità di predizione di risposta alla terapia. Questo tipo di approccio integrato favorisce, d’altra parte, la possibilità di riscontro di risultati diagnostici discordanti tra la fenotipizzazione istologica e la genotipizzazione molecolare; il che potrà portare alla preferenza della valutazione molecolare a discapito di quella istologica per l’impostazione della gestione del paziente (possibilità ad oggi ancora irrealizzabile).

È stata rivalutata la differenziazione tra le lesioni di grado II e di grado III: è stato dimostrato infatti che l’astrocitoma diffuso IDH-mutato (grado II) e l’astrocitoma anaplastico IDH-mutato (grado III) non presentano differenze significative come

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ipotizzato prima dell’introduzione dell’assetto genetico nella caratterizzazione della neoplasia8.

Più dettagliatamente, i GBM sono suddivisi secondo la classificazione WHO 201611 in 3 sottocategorie:

 IDH-wildtype (90% ca. dei casi): corrisponde alla forma che si definisce primaria, o de novo, ed insorge generalmente in pazienti di età superiore ai 55 anni9;

 IDH-mutato (10% ca. dei casi): corrisponde alla forma secondaria e colpisce in età più precoce, risulta essere l’evoluzione di un glioma diffuso di grado inferiore (II o III WHO);

 NOS: forme in cui risulta impossibile la caratterizzazione molecolare del gene IDH.

È stata aggiunta una variante di GBM IDH-wildtype: la variante epitelioide. Essa si aggiunge alla variante a cellule giganti ed al gliosarcoma tra le possibilità di peculiarità della forma IDH-wildtype. Il glioblastoma epitelioide presenta cellule epitelioidi di grandi dimensioni con inclusioni di cellule rabdoidi, insorge in giovane età (bambini o giovani adulti) come massa superficiale cerebrale o diencefalica; solitamente presenta la mutazione V600E del gene BRAF e, meno frequentemente, amplificazioni del gene EGFR o delezioni a carico del cr. 10.

La classificazione dei tumori del sistema nervoso centrale WHO 2016 risulta essere, quindi, un importante punto di svolta nell’ambito diagnostico grazie all’introduzione della genetica molecolare quale elemento almeno di pari importanza al classico inquadramento istologico. Resta la convinzione che essa sia uno step intermedio verso la redazione delle prossime classificazioni, considerato che il punto di vista genetico è un’assunzione piuttosto recente in via di caratterizzazione ulteriore.

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3.2. Assetto genetico e profilo molecolare

Il profilo molecolare e genetico riveste un ruolo molto importante per la caratterizzazione del GBM.

La patogenesi comprende una serie di alterazioni genetiche che portano alla modificazione dei segnali di trasduzione per la proliferazione cellulare. Tra i principali pathways coinvolti si ritrovano il promotore del gene MGMT, gli enzimi IDH1/IDH2, il gene TP53, i recettori tirosin-chinasici dei fattori di crescita (TKR), il sistema di trasduzione legato alla proteina Ras, il sistema PI3K/PTEN/AKT, il gene RB con la chinasi ciclino-dipendente CDKN2A-p16 ed il gene TERT (trascrittasi inversa della telomerasi).

3.2.1. MGMT

Il gene MGMT è localizzato sul locus 10q26 e codifica per l’enzima O-6-metilguanina-DNA metiltransferasi. Riveste un ruolo importante nel processo riparativo del DNA mediante il trasferimento di un gruppo metilico alla guanina in caso di eventi mutageni, riportandola alla forma fisiologica. Frequentemente risulta silenziato nel contesto dei GBM dalla metilazione del suo promotore in associazione o meno ad una delezione cromosomica.

Rappresenta un fattore decisivo per l’outcome clinico della neoplasia in quanto il suo stato è un indice predittivo di risposta al trattamento chemioterapico alchilante; il motivo sta nel fatto che alcuni agenti alchilanti utilizzati comunemente nelle terapie mediche oncologiche (quali la Temozolomide, il più utilizzato nel trattamento dei GBM) abbiano come meccanismo d’azione la formazione di un legame con un gruppo alchilico della guanina in posizione O6, che induce un errore nella replicazione del DNA con rottura della doppia catena ed apoptosi della cellula. L’MGMT contrasta quest’effetto, motivo per cui, nelle neoplasie in cui il promotore del gene è bloccato, viene a mancare l’azione protettiva e viene potenziata l’azione citotossica del chemioterapico10. Linz et al. hanno dimostrato una sopravvivenza raddoppiata nei casi

di GBM che presentano la metilazione di MGMT se trattati con associazione di terapia adiuvante radioterapica e chemioterapica con TMZ (Temozolomide) rispetto alla radioterapia esclusiva11.

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Ulteriori indagini hanno proposto il ruolo della metilazione di MGMT come fattore predittivo positivo anche nella risposta alla terapia radioterapica in assenza di associazione con TMZ, anche se questa associazione non è stata confermata; non è chiaro se la risposta migliore sia dovuta al fatto che MGMT sia coinvolto nella riparazione di danni da radiazioni, se la metilazione del promotore porti al silenziamento di ulteriori geni implicati nella riparazione dei danni al DNA o se si trattasse di neoplasie a carattere meno evolutivo con compresenza di altri fattori prognostici (codelezione 1p/19q, mutazione di IDH1).

3.2.2. IDH1/IDH2

Le mutazioni del gene IDH1 nella patogenesi del GBM sono state introdotte nel 200812, laddove si era notato come fossero riscontrabili in una popolazione significativa di pazienti con GBM più giovani e che si associassero ad un aumento medio della sopravvivenza; tali mutazioni erano presenti anche in lesioni di grado più basso (II e III) della serie astrocitaria (astrocitoma diffuso, astrocitoma anaplastico) così come di quella oligodendrocitaria (oligodendroglioma diffuso, oligodendroglioma anaplastico). Le mutazioni a carico del gene IDH2, invece, sono state riscontrate maggiormente nelle lesioni oligodendrocitarie. Le più frequenti mutazioni del gene IDH1 sono localizzate sulla prima o sulla seconda base del codone 132 (la più frequente R132H con CGT -> CAT); la più frequente del gene IDH2 è sul codone 172 (R172K).

Sono state documentate eccezioni, seppur rare, di GBM primari IDH-mutato i quali, tuttavia, insorgevano in pazienti più giovani con caratteristiche molecolari similari alla forma secondaria (mutazione del gene TP53 ed assenza dell’amplificazione del gene EGFR); allo stesso modo le forme di GBM secondario in assenza di mutazione di IDH1/2 presentavano un’evoluzione clinica più aggressiva tipica dei primari e spesso risultavano essere l’evoluzione di un glioma di grado III al contrario di quanto avviene con le forme IDH-mutato quali evoluzione di gliomi di grado II.

La caratterizzazione dell’IDH prevede la valutazione immunoistochimica della proteina mutata R132H IDH1 e il sequenziamento dei codoni 132 (gene IDH1) e 172 (gene IDH2). La negatività ad ognuna di queste valutazioni definisce la forma IDH-wildtype. La valutazione completa del profilo IDH non è sempre richiesta: nelle lesioni

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di più basso grado (II e III) è fortemente consigliato proseguire, a seguito dell’eventuale negatività all’analisi immunoistochimica della proteina mutata R132H IDH1, con il sequenziamento dei geni IDH1 ed IDH2 visto l’impatto prognostico della mutazione; tuttavia, nei casi di GBM in pazienti di età superiore ai 55 anni e negativi all’immunoistochimica non è opportuno proseguire con l’analisi genetica, tenendo conto dei dati epidemiologici che differenziano i GBM di insorgenza precoce da quelli di insorgenza più tardiva, con questi ultimi di gran lunga più frequenti e nella stragrande maggioranza dei casi con profilo IDH-wildtype13.

3.2.3. p53

La proteina TP53, codificata dal gene omonimo, esplica il suo ruolo nel contesto della proliferazione cellulare attraverso il riconoscimento e la riparazione di danni del DNA ed il suo coinvolgimento nelle attività di segnale apoptotico e differenziativo della cellula.

Il pattern molecolare legato al TP53 si attiva in risposta a stimoli stressogeni, favorendo la riparazione del DNA o la morte programmata in caso di danno irreparabile. Svolge un’azione determinante nel blocco del ciclo cellulare in fase G1 mediante l’inibizione della ciclina D, permettendo la riparazione della molecola di DNA prima della fase mitotica14. Uno studio condotto da Meletis et al. hanno dimostrato l’importanza nella progressione dei GBM dell’azione soppressiva del TP5315.

La regolazione negativa di TP53 si verifica con un meccanismo di feedback innescato dalla molecola stessa che, una volta terminata la condizione di stress cellulare, promuove la trascrizione della molecola MDM2, regolatore negativo di TP53. La sua attivazione è promossa dal blocco di MDM2 attraverso il legame di quest’ultima con la CDKN2A-p1410.

Nel contesto dei GBM in cui questa via non è regolata, le cause possono essere la mutazione del gene TP53, l’iperespressione di MDM2 o la perdita di funzione di CDKN2A-p14. Statisticamente questo pathway riveste un ruolo importante nella patogenesi dei GBM, considerata la presenza di mutazioni a carico dei suoi effettori (TP53/MDM2/CDKN2A-p14) in ca. il 50% dei GBM primari e in più del 70% dei

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secondari. La TCGA ha riscontrato questo tipo di alterazioni nell’87% dei GBM presi in esame3.

3.2.4. Altri

3.2.4a. Growth factor TKR pathway

I fattori di crescita PDGF (Platelet-derived growth factor) ed EGF (Epidermal growth factor) giocano un ruolo cruciale nella proliferazione del tessuto gliale sia in condizioni fisiologiche che in caso di neoplasia. Il riscontro nel contesto dei GBM dell’iperespressione del recettore tirosin-chinasico EGFR per questi fattori di crescita ne dimostra il ruolo nella patogenesi16. È possibile riscontrare una disregolazione a livello autocrino, sia a carico del recettore che del ligando, che contribuisce alla genesi della neoplasia17. Il fatto che questo fenomeno sia riscontrabile di frequente anche in gliomi di grado inferiore lascia ipotizzare che sia un evento piuttosto precoce nella tumorigenesi.

Il recettore EGFR ed i suoi ligandi sono espressi lungo l’ontogenesi del tessuto cerebrale dall’embriogenesi fino all’età adulta. Nelle cellule del GBM la via di segnalazione legata all’EGFR può essere attivata, tuttavia, in maniera ligando-indipendente con l’attivazione costitutiva dei segnali a valle a causa dell’incontrollata attività catalitica del recettore attivato18. Tra le mutazioni genetiche a carico dell’EGFR, è stato dimostrato che la più frequente riguarda la delezione di 267 amminoacidi (EGFRvIII) nel dominio extracellulare della proteina, deputato al legame con il ligando19.

3.2.4b. Ras pathway

Ras è una proteina G la cui attivazione dipende dal legame con una molecola di GTP e la disattivazione dal legame con il GDP. Le mutazioni della proteina Ras sono frequenti in un elevato numero di neoplasie visto il ruolo determinante nella proliferazione cellulare. Nonostante l’iperattivazione del pathway trasduttivo legato a Ras sia virtualmente presente in tutte le forme di GBM, la mutazione del gene per la sua codifica non è un riscontro frequente20. È stato ipotizzato, dunque, che la via possa essere attivata da altri segnali di trasduzione a monte (come gli stessi recettori TKR).

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Gli effettori a valle della proteina Ras (MAPKs) hanno un ruolo ancora incerto in termini di contributo patogenetico, ma sono ancora in fase di studio in quanto la loro iperattivazione potrebbe dipendere dall’inibizione della via di trasduzione PI3K/mTOR21. Un’ulteriore ipotesi plausibile al riguardo del coinvolgimento di Ras risiede nel suo legame con il prodotto del gene NF1 (Neurofibromin 1), la cui perdita di funzione favorirebbe la perdita di inibizione dell’attività di Ras. Il gene NF1, infatti, è alla base della patogenesi della Neurofibromatosi di tipo I, sindrome che annovera tra le manifestazioni cliniche, in una percentuale di casi, anche la presenza di GBM. A questo proposito, i risultati del TCGA Consortium hanno dimostrato la presenza di mutazioni del gene NF1 in ca. il 20% dei GBM presi in esame3.

3.2.4c. PI3K/PTEN/AKT pathway

Il segnale intracellulare attivato dalla fosfatidil-inositolo-3-chinasi (PI3K) porta all’attivazione di effettori a valle, come AKT e mTOR, coinvolti nella proliferazione cellulare mediante il blocco dell’apoptosi e la diretta stimolazione dell’attività proliferante. Il gene PTEN è un oncosoppressore, è coinvolto in questa via di trasduzione grazie all’effetto inibitorio sulla PI3K; la sua perdita o diminuzione di funzionalità esita nella mancata inibizione del bersaglio con conseguente aumento dei segnali di proliferazione.

Frequentemente nel contesto dei GBM si osserva l’espressione ridotta di PTEN a causa della perdita di eterozigosi (LOH) sul locus genico 10q23.322. I GBM che presentano alterazioni di questa via possono essere sensibili ad un trattamento chemioterapico con rapamicina, inibitore di mTOR (mammalian target of rapamycin); è stato dimostrato, inoltre, come terapie che utilizzano vettori virali contenenti geni PTEN wildtype possano ridurre la capacità proliferativa legata alla via di segnalazione PI3K/AKT23. Il progetto condotto dal TCGA ha dimostrato come in una percentuale significativamente elevata di GBM (88%) si riscontra almeno una mutazione tra quelle dei pathway elencati finora (EGFR/Ras/NF1/PTEN/PI3K)3.

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3.2.4d. RB/CDKN2A-p16 pathway

Il gene RB (13q14) codifica per la fosfoproteina RB che, nelle cellule quiescenti, si trova in forma ipofosforilata (attiva) legata al fattore di trascrizione E2F impedendo così la proliferazione attraverso il blocco del checkpoint tra le fasi cellulari G1 ed S. Nelle cellule in proliferazione i fattori di crescita portano all’attivazione della ciclina D1 e a quella conseguente delle CDK (chinasi ciclino-dipendenti). La loro azione di fosforilazione si esplica sulla proteina RB che, se fosforilata, riduce la sua azione portando al rilascio del fattore E2F che stimola la trascrizione di geni per la sintesi del DNA e la crescita cellulare23.

La famiglia delle proteine Ink4 (tra cui Ink4a, o CDKN2A-p16) svolge il ruolo opposto in questa via di segnalazione: competono, infatti, con le cicline D per il legame con le CDK ed hanno azione inibente su queste ultime, riducendo la loro funzione fosforilativa, non permettono il rilascio del fattore E2F da parte della proteina RB24. È

importante sottolineare come il locus genico 9p21 produca per splicing alternativo sia la proteina CDKN2A-p16 che CDKN2A-p14 (coinvolta nel pathway di segnalazione legato al gene TP53): l’inattivazione simultanea di entrambi i geni per delezione in omozigosi porta alla disregolazione di entrambe le vie con la pesante compromissione del controllo proliferativo.

L’alterazione del pathway legato ad RB risulta alterato, sia in maniera diretta attraverso l’alterazione del gene sia indirettamente mediante l’alterazione dei regolatori di RB, in una percentuale significativa di GBM primari (75% ca.); di contro, in caso di GBM secondari, si verifica più di frequente l’alterazione diretta per silenziamento genico10. Il pathway legato ad RB può subire influenze dalla via di trasduzione legata ad AKT. Questo infatti, se attivato, è in grado di deregolare il ciclo proliferativo mediante la stabilizzazione della ciclina D e la promozione dell’ingresso all’interno del nucleo di MDM2, che porta alla degradazione dell’oncosoppressore TP5325.

3.2.4e. TERT

Le mutazioni del gene TERT sono state oggetto di studio nell’ultimo periodo a causa del presunto ruolo patogenetico nei gliomi (grado II-IV), sebbene il loro ruolo risulti ancora poco chiarito.

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Il gene, localizzato sul locus 5q15.33, codifica per la subunità catalitica dell’enzima telomerasi, che riveste un ruolo importante nell’apoptosi cellulare: catalizza la reazione di aggiunta di nucleotidi in sequenza TTAGGG nella porzione terminale dei telomeri cromosomici; questo si traduce in un segnale di prevenzione dalla degradazione, sfavorendo così la morte cellulare.

Le cellule tumorali che presentano la mutazione di TERT acquisiscono una potenziale capacità replicativa infinita mantenendo la lunghezza dei telomeri senza il fisiologico accorciamento. Tra i regolatori negativi della trascrizione del gene TERT vi è la molecola p53. Mutazioni di TERT sono stati riscontrate approssimativamente in ca. l’80% dei GBM26 e sono state relazionate al grading WHO dei gliomi, dimostrando

che la mutazione del gene possa correlare con la prognosi della neoplasia27.

3.2.5. Genetica dei GBM recidivi

La recidiva è un evento inevitabile nella storia naturale dei GBM e colpisce potenzialmente tutti i pazienti, a dispetto di ogni tipologia di trattamento ad ora conosciuto28. Spesso si presenta con caratteristiche di aggressività più marcate rispetto

al primitivo, un’aumentata resistenza al trattamento ed una prognosi che in una grande percentuale di casi risulta fatale. Lo sviluppo di recidiva si pensa che possa derivare, a partire da una lesione primitiva, dalla presenza di cellule quiescenti alla periferia dell’area tumorale o dalla migrazione di cellule neoplastiche dal contesto tumorale verso altre zone anatomiche cerebrali prima che si proceda alla resezione della massa29. Gli studi ad oggi disponibili si sono concentrati perlopiù sulla comprensione del profilo genetico e molecolare delle lesioni primitive di GBM e su come esso possa essere dirimente nella caratterizzazione e nel trattamento in funzione della predizione di evoluzione e di risposta allo schema terapeutico.

D’altra parte, la conoscenza al riguardo delle recidive di GBM è ancora poco chiara; una causa importante di ciò è legata alla mancanza, in una quota significativa di casi, di materiale sufficiente analizzabile. Solo il 20-30% delle lesioni recidivanti sono candidabili al re-intervento di resezione chirurgica, il che ostacola una raccolta su larga scala di materiale da porre all’analisi genetica e molecolare30. Un’ulteriore problematica è legata alla composizione istologica tissutale, che spesso presenta estese

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aree necrotiche ed una ridotta componente di tessuto vitale rispetto alla controparte primitiva.

Ci si basa perciò sulle conoscenze dei profili genetici dei GBM primitivi per la gestione delle recidive nonostante si possa ipotizzare una differenziazione ed un’evoluzione in caso di lesioni ricorrenti nel contesto molecolare. Di contro, spesso i trials terapeutici focalizzati sui GBM primitivi vengono effettuati sugli episodi di recidiva29.

Alcuni studi hanno dimostrato come, già nel contesto del GBM primitivo, vi sia una differenza tra le porzioni centrali della lesione e quelle marginali dal punto di vista del micro-ambiente, dell’infiltrazione di cellule del sistema immunitario e del profilo molecolare (è stata riscontrata, infatti, la condivisione del solo 60-80% delle mutazioni genetiche tra massa tumorale e zona marginale31); differenze sotto gli stessi punti di vista sono emerse, inoltre, tra le zone più ipossiche della neoplasia e zone maggiormente ossigenate. Il che sta a sottolineare l’eterogeneità presente fin da subito nel contesto del GBM, la quale potrebbe essere alla base delle supposte differenze genetiche e molecolari riscontrabili nelle forme recidivanti.

Un terzo dei GBM recidiva in zone anatomicamente distanti dalla localizzazione primaria (in un lobo differente, nell’emisfero controlaterale o, perfino, in aree sottotentoriali)32. A partire da questo dato, uno studio effettuato su un campione di 15 casi di recidive di GBM locali e 7 casi di recidive a distanza (tutti comparati con il corrispettivo primitivo) ha dimostrato un tasso estremamente variabile (11-97%) per quanto concerne le mutazioni condivise, ovvero che si sono ripresentate nello stessa forma nel primitivo e nella sua recidiva; nessuna correlazione è stata dimostrata con fattori confondenti come età, sesso, storia di radio-chemioterapia, mutazioni del gene IDH1, stato di metilazione del promotore MGMT. L’unico dato che si è mantenuto pressoché costante è stata la correlazione tra la localizzazione della recidiva e le mutazioni condivise con la controparte primitiva: nelle recidive locali si attestano intorno ad una media del 70%, tasso significativamente più alto rispetto alla media del 25% riscontrata nelle recidive a distanza29.

Nonostante una limitazione comune alla gran parte degli studi di comparazione dei profili genetici e molecolari costituita dalla selezione delle molecole candidate a seconda del loro ipotetico ruolo nella riparazione dei danni al DNA o nell’azione

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proattiva nel contesto della crescita tumorale, in uno studio condotto su 42 paia di lesioni (GBM primitivo e recidiva) è emerso un dato riguardante gli enzimi coinvolti nel mismatch-repair (MLH1, MSH2, MSH6) che ha dimostrato la notevole riduzione di espressione di MLH1 nei casi di recidiva; questo è stato associato, di conseguenza, ad un aumento di suscettibilità al trattamento chemioterapico con TMZ, al quale tale enzima conferisce un certo grado di resistenza29.

I GBM recidivanti, generalmente, hanno la tendenza all’acquisizione di mutazioni. Si rimarca, perciò, l’eterogeneità dell’evoluzione del profilo molecolare e genetico nella presentazione di una recidiva. Sono stati supposti, al proposito, due differenti pattern evolutivi: un primo che si dimostra mantenere in corso di recidiva caratteristiche molecolari similari al tumore primitivo dando prova di una probabile linea evolutiva comune in cui le divergenze genetiche vengono a svilupparsi tardivamente, contrapposto ad un seconda modalità nella quale si dimostra un elevato numero di caratteristiche molecolari peculiari nella lesione recidivante a dimostrazione della precoce separazione delle linee evolutive cellulari (questi casi più frequentemente mostrano recidiva a distanza)33.

Sia l’eterogeneità delle lesioni primitive che la comparsa di recidiva può essere ricondotta alla presenza, sia nel contesto del tumore primitivo che nel tessuto a seguito del trattamento, delle GSCs (GBM stem-like cells), cellule con fenotipo e genotipo assimilabile a quello di una cellula staminale in grado di garantire il potenziale proliferativo e la possibilità di accumulare, seguendo più vie differenziative, mutazioni favorevoli alla crescita. È stato da poco dimostrato che le GSCs rintracciabili nelle recidive di GBM sono filogeneticamente legate a quelle della relativa neoplasia primitiva; il che ha portato ad ipotizzare che esse siano preesistenti rispetto al trattamento e non siano una conseguenza di esso. Tuttavia, grazie alle caratteristiche genetiche e molecolari, sono influenzate dalla terapia in quanto stimolo stressogeno34.

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3.2.6. Classificazione molecolare9

I GBM possono essere suddivisi in primari e secondari, in base alla modalità di insorgenza ed al profilo molecolare.

1) GBM primari

Rappresentano la maggior parte dei GBM (90% ca.) ed insorgono de novo come tali senza l’evidenza di pregresse lesioni gliali di grado più basso. Prediligono una fascia d’età più avanzata comparendo nella maggioranza dei casi in individui di età superiore ai 55 anni. Spesso non presentano la mutazione di IDH1/2 e di TP53, al contrario è frequente l’amplificazione di EGFR. La maggior parte dei pazienti con GBM primario presenta un decorso clinico raramente superiore ai 12 mesi35,36,37.

2) GBM secondari

Costituiscono il restante 10% dei GBM in pazienti più giovani in cui vi è evidenza clinica o istologica di una pregressa neoplasia di grado inferiore al IV (astrocitoma diffuso, astrocitoma anaplastico). Generalmente compaiono nei lobi frontali e presentano un minor tasso di necrosi, motivo per cui spesso sottendono una prognosi favorevole rispetto al corrispettivo primario. Sono frequenti le mutazioni precoci a carico del gene IDH1/IDH2, il fenotipo metilato, la mutazione tardiva del gene TP53, l’assenza di amplificazione del gene EGFR e la possibilità di codelezione 1p/19q. Le forme IDH-mutato che sembrano prediligere una localizzazione all’interno del lobo frontale, nella fattispecie in corrispondenza delle porzioni più rostrali dei ventricoli laterali38. L’analogia per la localizzazione dei gliomi di II e III grado avvalora l’ipotesi che i GBM secondari ne rappresentino l’evoluzione39,40.

Anche se istologicamente indistinguibili, la differenza del profilo molecolare lascia pensare che derivino da precursori cellulari neurali differenti da quelli da cui originano le forme primarie e che, presentando mutazioni di frequente riscontro nelle neoplasie prima citate di più basso grado, ne possano rappresentare l’evoluzione in senso maligno.

L’obiettivo risultante dagli studi condotti su ciò che differenzia, soprattutto dal punto di vista molecolare e genetico, i GBM primari da quelli secondari è la corretta

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caratterizzazione di due tipi di lesioni che presentano poche caratteristiche comuni e facilitare una corretta gestione.

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3.3. Presentazione clinica

La presentazione clinica del GBM è simile alla maggior parte delle lesioni cerebrali occupanti spazio.

Individuiamo segni e sintomi associati allo sviluppo di ipertensione endocranica e segni e sintomi associati ad un deficit focale in relazione alla sede. I sintomi determinati dall’ipertensione endocranica, causata dall’espansione volumetrica della massa tumorale e dall’edema che frequentemente circonda la lesione stessa, sono vari: episodi di cefalea (presente nel 30-50% dei casi, generalmente è unilaterale piuttosto localizzata con aumento progressivo di intensità), vomito a getto, papilledema, alterazione dello stato di coscienza, paresi bilaterale del nervo abducente. La sintomatologia focale, invece, è piuttosto variabile in funzione alla sede della lesione neoplastica; il meccanismo alla base dello sviluppo di segni focali è legato alla combinazione dell’azione distruttiva sul parenchima cerebrale da parte del GBM e dello stress meccanico provocato dallo stesso che genera un processo irritativo del tessuto relativamente sano. I segni e sintomi più frequenti sono l’insorgenza di una crisi epilettica o l’insorgenza di un deficit motorio (emiparesi o emiplegia), l’insorgenza di un deficit sensitivo (emisindrome) o deficit dell’eloquio (afasia espressiva), dovuti a compressione sul parenchima cerebrale o a sanguinamento intra-tumorale. Le crisi epilettiche si verificano in circa un terzo dei pazienti e dipendono dalla localizzazione: più frequentemente si tratta di crisi ad insorgenza focale, crisi parziali semplici o parziali complesse, oppure, più raramente, crisi generalizzate. I deficit neurologici focali sono presenti nella metà dei pazienti e sono strettamente correlati alla sede della lesione: un deficit visivo ed uditivo può far sospettare una massa temporale, un deficit delle funzioni cognitive o un cambio di personalità (20-40% dei casi) indica una localizzazione nel contesto del lobo frontale41. La presentazione clinica assume importanza nel porre il sospetto di una lesione cerebrale, tuttavia, essendo aspecifica e variegata, non è dirimente per la diagnosi definitiva; l’iter dovrà necessariamente proseguire con l’indagine strumentale, resezione chirurgica o biopsia tumorale per via stereotassica ed esame istologico al fine di fare diagnosi certa.

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3.4. Diagnosi strumentale

3.4.1. Neuroimaging per la diagnosi

Il neuroimaging riveste un ruolo di primaria importanza nel processo diagnostico dei gliomi, attraverso la valutazione dell’estensione, localizzazione ed attività biologica del tumore nella fase precedente, intercorrente e successiva al trattamento42. La Tomografia computerizzata (TC) e l’Imaging a risonanza magnetica (MRI) risultano di particolare importanza nella diagnosi del GBM e sono le più utilizzate nell’iter diagnostico di routine41.

La TC cranio, meglio se con mezzo di contrasto, è utilizzata come primo step neuroradiologico in quei pazienti che accedono in PS per l’insorgenza acuta di sintomatologia neurologica od anche in quei pazienti che non possono eseguire la MRI per la presenza di pacemaker. Tuttavia, il gold standard resta la MRI. Grazie alla maggiore capacità di caratterizzare meglio la lesione attraverso la somministrazione di mezzo di contrasto (Gadolinio) è possibile riscontrare, nei pazienti con lesioni di alto grado, un’area centrale necrotica ed un’area periferica con edema della sostanza bianca. La MRI inoltre rappresenta la metodica di scelta anche nel monitoraggio della risposta al trattamento chemio-radioterapico e sull’individuazione precoce di recidiva. Le sequenze utilizzate nell’esecuzione di questo esame sono le immagini T1-pesate, T2-pesate, le sequenze fluid-attenuated inversion recovery (FLAIR), le immagini T1-pesate con mezzo di contrasto. Il GBM si presenta tipicamente, nelle immagini T1-pesate in T1 con somministrazione di Gadolinio, come lesione ipointensa od isointensa con un pattern circolare, ad anello, di enhancement contrastografico; nelle sequenze pesate in T2 e nelle sequenze FLAIR la lesione appare iperintensa. Nonostante l’elevato dettaglio anatomico che riesce a conferire l’immagine in MRI, la metodica non è sempre in grado di distinguere aree di radionecrosi da aree di recidiva di GBM, e spesso questo rappresenta un problema sul prosieguo dell’iter chirurgico/terapeutico. La spettroscopia protonica di risonanza magnetica è in grado di determinare le concentrazioni relative di specifici metaboliti nel contesto di un tessuto. In caso di lesioni tumorali i dati ottenuti dall’esame dell’area di interesse vengono comparati con la controparte controlaterale di tessuto sano. I metaboliti presi in esame più di frequente sono il lattato (prodotto dalla glicolisi anaerobia), l’N-acetilaspartato (indicatore della densità neuronale), la colina (indicatore della velocità del turnover di

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membrana, quindi indirettamente della proliferazione cellulare) e la creatina (indicatore del dispendio di energia della cellula). L’aumento dei valori di colina, creatina o di concentrazione dei lattati e la diminuzione dei valori di N-acetilaspartato correlano con una neoplasia di altro grado, ma anche con una progressione della neoplasia e sono riscontrabili anche nel caso di recidiva di malattia42.

fMRI

La risonanza magnetica funzionale rappresenta una metodica che identifica le aree eloquenti cerebrali mediante la misurazione dei livelli di ossigeno ematico nelle aree attivate dall’esecuzione di attività preimpostate. Questa tipologia di misurazione viene incontro alla necessità chirurgica di una resezione più estesa possibile in osservanza della preservazione delle aree eloquenti del parenchima cerebrale. La fMRI misura indirettamente il tasso di attività neuronale attraverso una sequenza specifica basata sul tasso di conversione di ossiemoglobina in desossiemoglobina, utilizzandolo alla stregua di un mezzo di contrasto (BOLD, Blood-oxygen level dependent imaging). Ai fini di ottenere il mapping chirurgico, i soggetti alternano stati di riposo a stati in cui

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sono sottoposti a test come visione di video, ascolto di suoni, emissione di odori ed esecuzioni di azioni cognitive. Si valuta la variazione dei parametri elencati durante l’esecuzione delle attività, la quale sarà marcata sull’immagine acquisita come colorazione dell’area interessata dall’azione compiuta. Considerando la vicinanza dei tumori alle aree eloquenti, circa il 20% dei casi richiede questo tipo di valutazione43. I limiti legati alla fMRI sono assimilabili alle controindicazioni valide per la tecnica convenzionale di MRI, ai quali si aggiungono problematiche legate all’impossibilità di standardizzazione del set di test richiesti per l’attivazione delle aree cerebrali ed ai bias legati all’alterata ossigenazione/vascolarizzazione delle aree in presenza di neoplasia di alto grado. Nonostante la fMRI non sia in grado di delimitare l’esatta area responsabile di una determinata funzione, può essere d’aiuto durante la resezione chirurgica. Futuri impieghi legati a tale metodica potrebbero interessare il planning del trattamento radioterapico43.

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3.4.2. Neuroimaging nel decorso post-chirurgico e di terapia adiuvante

Lo standard di trattamento per i pazienti con GBM prevede la resezione chirurgica totale, laddove possibile, associata alla terapia adiuvante combinata radio-chemioterapica. Come accennato, la storia naturale della patologia porterebbe allo sviluppo di recidiva nella quasi totalità dei casi. Considerando che la terapia stessa post-chirurgica è in grado di generare nuove lesioni che possono mimare l’insorgenza di recidiva, uno stretto follow-up ed una attenta valutazione si rendono indispensabili per la gestione del paziente trattato. Ci si avvale, perciò, dell’evoluzione delle tecniche di neuroimaging e di una migliore conoscenza degli scenari possibili per ridurre al minimo scelte terapeutiche ingiustificatamente aggressive od attendiste.

La PET con 18F-Fluoro-desossiglucosio (FDG-PET) è utilizzata in larga parte per la valutazione della risposta al trattamento, grazie ad una specificità superiore a TC ed MRI. Il fluoro-desossiglucosio è un analogo della molecola di glucosio utilizzato come tracciante, che viene captato dalle cellule utilizzanti glucosio, comprese le cellule non patologiche nervose; l’aggiunta dell’atomo di fluoro permette la sua internalizzazione senza che avvenga la successiva metabolizzazione. Dal suo pattern di distribuzione si può ottenere una stima dell’attività cellulare che viene riflessa dall’uptake di glucosio (e di tracciante). La concentrazione di FDG può permettere di identificare lesioni tumorali in cui l’attività glicolitica è notevolmente aumentata e di dare una stima del grado di una lesione non trattata, essendoci un incremento di internalizzazione del tracciante all’aumentare del grado della neoplasia. Un importante impiego di questa metodica sta nella differenziazione tra tumori recidivanti post-asportazione ed esiti di radionecrosi, nei casi in cui le metodiche convenzionali non siano in grado di dirimere il quesito: si nota, infatti, a fronte di una forte similitudine nelle scansioni classiche di MRI tra le due tipologie di lesione, una netta differenza all’esame FDG-PET che consiste nell’accumulo di tracciante solo nel caso si tratti di recidiva. La sensibilità al riguardo è minima nelle prime settimane dopo l’inizio del trattamento radioterapico, motivo per cui è utile il suo utilizzo non prima delle 6 settimane dalla prima seduta42.

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PET

L’utilizzo di (11C-MET)PET in associazione con MRI ha dimostrato un netto miglioramento nell’accuratezza diagnostica di differenziazione tra episodi di recidiva ed episodi terapia-dipendenti44. Il tracciante maggiormente utilizzato nell’imaging PET è il 18F-FDG. Esso presenta delle limitazioni in questo tipo di valutazione dovute al fatto che l’uptake di glucosio del tessuto cerebrale non patologico risulta comunque piuttosto spiccato, rendendo conto di una minore capacità di discernere distintamente la lesione. Nonostante questo, i vantaggi delle altre metodiche sono tutt’ora argomento di dibattito non indicando una netta preferenza verso l’utilizzo dell’una piuttosto che dell’altra44. L’uso del tracciante 11C-Colina ha dimostrato un’alta accuratezza

diagnostica nel distinguere i processi di radionecrosi da quelli tumorali45.

SPECT

Rispetto alla PET è un esame più accessibile sia in termini di disponibilità che di costi; compensa, di converso, con una minore risoluzione spaziale. Sono stati valutati più traccianti al riguardo atti alla differenziazione tra recidiva e radionecrosi: Tallio201 (il tessuto cerebrale sano non capta il tracciante, il suo uptake identifica la lesione recidivante), Tecnezio99-sestamibi/tetrofosmina (meccanismo d’azione assimilabile al precedente, con un aumento di risoluzione spaziale ed alcune evidenze di accuratezza associabili a quanto visto per la Perfusion-weighted MRI46), Tc99-acido dimercaptosuccinico (tracciante in studio per utilizzo futuro)47.

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3.4.2a. Radionecrosi

Il processo di radionecrosi consiste nella severa reazione tissutale in risposta alle radiazioni terapeutiche. Un meccanismo patogenetico ipotizzato alla base della radionecrosi sarebbe legato al danno sul letto vascolare, sulla glia e sulla sostanza bianca associato all’alterazione del sistema degli enzimi fibrinolitici (attivatore del plasminogeno tissutale ed urochinasi)48. In acuto, a livello di alterazioni vascolari, prevale una vasodilatazione transitoria con aumento della permeabilità che può esitare nella formazione di edema vasogenico; con la cronicizzazione questa viene rimpiazzata dal danno organico endoteliale. D’altra parte, vi è l’ipotesi che la patogenesi dipenda dalla liberazione di citochine in risposta allo stimolo radiante che alterino la corretta angiogenesi: TNFalfa, il quale porta all’iperproduzione di ulteriori citochine capaci di indurre apoptosi delle cellule endoteliali con attivazione astrocitaria ed aumento di permeabilità della BEE, e VEGF, in grado di indurre aumento di permeabilità dei piccoli vasi con aumento del rischio di edema47. I neuroni

presentano un certo grado di resistenza al danno da radiazione, ma ne risentono, tuttavia, a causa del danno oligodendrocitario a cui segue demielinizzazione e dell’attivazione degli enzimi fibrinolitici.

A fronte di questo, vi è la possibilità di ridurre le dosi erogate durante il percorso terapeutico grazie all’uso di agenti radiosensibilizzanti, tra cui la TMZ, che permettono di ottenere lo stesso effetto con una quantità minore di radiazioni. Dal punto di vista istologico, il tessuto radionecrotico si presenta caratterizzato da necrosi fibrinoide della parete vasale circondata da necrosi coagulativa parenchimale perivascolare; possono essere osservate zone telangectasiche, rigidità di parete a seguito del processo di ialinizzazione (tardivamente) e focali o diffuse porzioni di sostanza bianca demielinizzata47.

3.4.2b. Pseudoprogressione

La pseudoprogressione è la presenza all’indagine radiologica di una nuova lesione od un aumento dell’enhancement contrastografico rispetto ai rilievi precedenti al termine del ciclo radioterapico, combinato o meno alla chemioterapia in pazienti con diagnosi di glioma di alto grado. Questo fenomeno si verifica, nella maggior parte dei casi (60%), nei primi 3 mesi successivi alla terapia (può essere ritardato in caso di terapia

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concomitante con TMZ) ed è legato ad un peggioramento temporaneo delle condizioni del tessuto dovuto all’aumento dell’azione terapeutica. Sembra essere associato allo stato di metilazione del promotore del gene MGMT (2/3 dei casi di lesioni a fenotipo metilato mostrano pseudoprogressione), motivo per cui è stata proposta l’ipotesi che tali tumori, a causa della loro maggiore sensibilità terapeutica intrinseca, producano in corso di terapia un peggioramento dell’aspetto radiologico della lesione.

3.4.2c. Pseudorisposta

La pseudorisposta è una diminuzione dell’enhancement constrastografico della lesione ed una diminuzione dell’edema perilesionale alle sequenze FLAIR durante i cicli di chemioterapia o radioterapia. Esso non è dovuto all’effettiva risposta tumorale al trattamento, bensì alle alterazioni vascolari farmaco-dipendenti indotte transitoriamente dalla terapia specifica.

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3.5 Trattamento chirurgico

3.5.1. Chirurgia del GBM

Il trattamento chirurgico del GBM consiste nella resezione chirurgica della lesione tumorale quanto più radicale possibile (maximal safe resection), evitando la resezione per quanto possibile di quelle aree eloquenti che possano portare allo sviluppo di deficit motori/sensitivi al paziente ed inficiare sulla sua qualità di vita nel decorso post-operatorio. Si definisce GTR (Gross Total Resection) la resezione macroscopica del tumore in assenza di captazione contrastografica ai successivi controlli TC cranio con m.d.c. ed RM encefalo con m.d.c. Si definisce STR (Subtotal resection) la resezione che al successivo controllo radiologico post-operatorio mostra segni di captazione del mezzo di contrasto e pertanto una resezione parziale della massa.

Posizionamento del paziente

Nel corso dei decenni la tecnica chirurgica di resezione tumorale si è evoluta anche grazie al miglioramento delle tecnologie intraoperatorie, del microscopio intraoperatorio e all’utilizzo di presidi che migliorano la precisione nella resezione chirurgica, passando quindi dalla esecuzione di emisferectomie e lobectomie fino alla resezione mirata di circonvoluzioni, con l’obiettivo della citoriduzione della massa tumorale. Il posizionamento del paziente neurochirurgico è di fondamentale importanza per l’esposizione ottimale del campo chirurgico adeguato e per il mantenimento di un adeguato allineamento corporeo evitando flessioni, estensioni o rotazioni eccessive ed adeguato scarico venoso. L’utilizzo di una testiera di Mayfield permette l’immobilizzazione della testa del paziente nella posizione adeguata. La posizione supina offre un’ottima esposizione della fossa cranica anteriore e media. Con l’ausilio di sistemi di neuronavigazione, viene pianificata la traiettoria chirurgica, evitando aree eloquenti.

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Descrizione dell’intervento

L’incisione cutanea viene stabilita in base alla localizzazione del tumore. La successiva craniotomia, mediante l’utilizzo del craniotomo, avviene in diverse modalità a seconda della localizzazione della neoplasia previo scollamento della dura madre sottostante attraverso i fori di guida per la craniotomia stessa; segue l’incisione della dura madre e l’esposizione della zona tumorale da resecare. La resezione può avvenire en bloc o in maniera frammentaria e si avvale dell’utilizzo del microscopio operatorio e di un aspiratore ad ultrasuoni.

Terminata la rimozione del tessuto patologico, si procede ad adeguata emostasi al fine di evitare sanguinamenti postoperatori, alla sutura meningea diretta o con alternative di meningo-plastica in caso di particolari contesti derivati dall’esecuzione della resezione, al riposizionamento del lembo cranico con fissazione mediante placche metalliche ed alla sutura dei piani superficiali.

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3.5.2. Presidi intra-operatori

L’utilizzo di recenti tecniche intra-operatorie che affiancano l’intervento chirurgico ne hanno permesso il miglioramento dal punto di vista dell’EOR riducendo complicanze postoperatorie quali l’insorgenza di deficit motori e/o sensitivi e resezioni di aree non francamente tumorali.

3.5.2a. Neuronavigazione

I sistemi di neuronavigazione sono stati sviluppati ai fini di ottenere una più corretta localizzazione della lesione ed integrare informazioni anatomiche pre-operatorie derivate dagli esami neuroradiologici e dati intra-operatori con un margine di errore di pochi millimetri. Il sistema si avvale di un modulo di processazione dell’immagine, un’immagine di riferimento derivata dalle scansioni radiologiche (TC, MRI) ed un puntatore in grado di essere riconosciuto mediante detettori ottici od elettromagnetici. Si rende necessaria la calibrazione del sistema prima di iniziare a poter utilizzare le informazioni anatomiche ed eventualmente funzionali. Il movimento del puntatore sulla cute o nel contesto del campo operatorio viene ad essere localizzato su uno schermo sul quale è proiettata la scansione radiologica ed associato all’anatomia da essa descritta.

Gli utilizzi clinici di questo sistema riguardano la localizzazione di lesioni intracraniche, le lesioni del basicranio, l’esecuzione di biopsie cerebrali e la neurochirurgia funzionale. Lo sviluppo di tecniche radiologiche in seno alla MRI come la DWI e le sequenze FLAIR, l’utilizzo della PET o della H MRS permette di associare al dato anatomico informazioni funzionali, rendendo conto di una maggiore accuratezza dei sistemi di neuronavigazione. Apporta vantaggi dal punto di vista delle problematiche peri-operatorie riducendo il tempo di intervento e aumenta la precisione dell’atto chirurgico. Il sistema di neuronavigazione risulta essere costoso e non accessibile da tutte le strutture in termini di avanzamento tecnologico; nonostante questo, il rapido progresso digitale pone in prospettiva un ruolo importante per questa metodica49.

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3.5.2b. Traccianti intra-operatori

L’utilizzo di traccianti intra-operatori permette la visualizzazione mediante meccanismi integrati nel microscopio intraoperatorio dell’area tumorale, riducendo la possibilità di una resezione incompleta. Si basa sulle proprietà biochimiche differenti delle cellule tumorali rispetto a quelle del parenchima sano, le quali metabolizzano in modi diversi specifiche molecole fotosensibili che, in condizione luminose appropriate restituiscono colorazioni diverse dell’area tumorale e della controparte non neoplastica.

 5-ALA (Acido 5-amminolevulinico): è un amminoacido naturale biosintetizzato nei mitocondri a partire dai substrati glicina e succinil-CoA. Nelle cellule tumorali è metabolizzato a protoporfirina IX fotosensibile. È altamente specifico nelle aree di infiltrazione tumorale, sebbene non sia completamente chiaro il meccanismo per cui la metabolizzazione avvenga in questo senso. I livelli di protoporfirina IX raggiungono l’apice in ca. 6 ore dopo la somministrazione del tracciante per os. Il tessuto risulta visibile mediante la stimolazione luminosa alla lunghezza d’onda di 400-410 nm: la colorazione del tessuto tumorale sarà di colore rosso, rispetto al tessuto normale che non acquisisce fluorescenza (compreso l’edema peri-lesionale). [Fig. 1]

 Fluoresceina sodica: la concentrazione del tracciante è alta nei vasi sanguigni e, di conseguenza nei tessuti riccamente perfusi. La somministrazione prevede l’iniezione endovenosa di 5/10 mg/kg di soluzione al 20% di fluoresceina sodica dopo l’intubazione, ma prima che venga applicata l’incisione della cute (la rottura dei vasi nel momento dell’incisione provocherebbe la fuoriuscita del tracciante, disperdendolo e invalidando l’esame). La visualizzazione avviene grazie ad un microscopio modificato con una lunghezza d’onda nell’ordine dei 560 nm. Un limite di questa metodica consiste nella dipendenza dall’integrità della BEE. [Fig. 2]

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[Fig. 2 - Fluoresceina sodica]

Riferimenti

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