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Una storia che «non osa pronunciare il suo nome»? Lo spazio atlantico contemporaneo tra storia atlantica e storia globale

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Academic year: 2021

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«Passato e presente», a. XXXV (2017), n. 100, ISSN 1120-0650, ISSNe 1972-5493

una storia che «non osa pronunciare il suo nome»?

Marco Mariano

*

The contemporary Atlantic space: A history that «dare not speak its name»? While a significant output of current historical research focuses on specific aspects of transatlantic relations in the modern world, the modern Atlantic space is not con-ceptualized as a unit of analysis. This essay argues that the gap between empirical dynamism and theoretical stalemate in the study of modern transatlantic relations is largely due to the way in which, in the last decades, Atlantic history and global his-tory have shaped the study of international and transnational hishis-tory. On the other hand, the transnational approach to U.S. history calls for the acknowledgement of the modern Atlantic as crucial field of interactions within the global context.

Key words: Atlantic history, Global history, Transnational history, Periodization Parole chiave: Storia atlantica, Storia globale, Storia transnazionale, Periodizzazione

Esiste una storia atlantica dell’età contemporanea? O una dimensione con-temporanea della storia atlantica? Naturalmente esistono molti studi che si collocano più o meno esplicitamente in questo ampio e indefinito territorio storiografico, ma questo è sufficiente a definire contorni, strumenti e orizzonti di un campo di studi? La letteratura sulle relazioni transatlantiche in età con-temporanea rivela un curioso paradosso, o quantomeno uno scarto significa-tivo tra il livello teorico e quello empirico, tra la debolezza della riflessione sul (e la concettualizzazione del) mondo atlantico contemporaneo come unità storico-geografica di analisi e la ricchezza del panorama delle ricerche su specifici aspetti dello scambio transatlantico durante gli ultimi due secoli.

Da un lato, tendenze storiografiche che stanno attraversando da anni una fase di grande fermento – storia atlantica e storia globale, nelle loro con-cettualizzazioni e pratiche più recenti – prendono le mosse da premesse metodologiche e culturali che mettono fortemente in discussione la stessa

* Dipartimento di studi umanistici, Piemonte orientale; [email protected]

FrancoAngeli

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possibilità e utilità di problematizzare lo spazio atlantico nel mondo contem-poraneo, per motivi legati alla dimensione temporale, a quella spaziale e al presentismo. Dal punto di vista cronologico il mondo atlantico come unità di analisi verrebbe meno nei primi decenni dell’800 con il collasso dell’ordine imperiale, la fine delle «rivoluzioni atlantiche» e il declino della tratta degli schiavi. Quanto alla geografia, il ruolo economicamente e politicamente subordinato dell’Africa e la progressiva emarginazione dell’America lati-na nei confronti dell’America settentriolati-nale e dell’Europa nord-occidentale nel secolo scorso metterebbero in discussione la stessa nozione di spazio o bacino atlantico, ridotto a un corridoio basato sulla special relationship anglo-americana; infine, la concettualizzazione della regione atlantica come ambito caratterizzato da peculiari dinamiche interne di scambio e da una significativa capacità di influenza e diffusione verso l’esterno sarebbe parte di una operazione presentista strumentale all’ideologia della guerra fredda e del primato dell’Occidente. Ne conseguirebbe che scale di ampiezza globale – più che atlantica – si imporrebbero per uno sguardo sul mondo contem-poraneo capace di cogliere l’ampiezza delle sue interdipendenze e scevro di ideologismi atlantisti.

Dall’altro tuttavia molte ricerche, soprattutto in ambito americanistico, stanno offrendo un quadro ricco e sfaccettato della fitta rete di scambi poli-tico-culturali, economici e tecnologici, dei reciproci tentativi di ibridazione e imitazione e infine delle analogie e convergenze tra le due sponde dell’At-lantico nel corso dell’800 e di buona parte del secolo scorso. Questa stagio-ne di studi, nata come una sfida transnazionale al paradigma eccezionalista/ nazionalista a lungo egemone negli Stati Uniti, sta internazionalizzando la storia americana attraverso un gioco di scale (emisferiche, atlantiche, pacifi-che, globali) che di fatto fa affiorare la peculiarità dello spazio transatlanti-co transatlanti-come campo di interazione di partitransatlanti-colare densità e capacità diffusiva. A questa stagione stanno contribuendo sguardi europei sulla storia americana. Per quanto anch’essi non deliberatamente “atlantici”, sono connotati da una

posizionalità geografica, culturale e istituzionale che si riflette nell’adozione di prospettive relazionali e comparative le quali contribuiscono a riproporre il problema della specificità e rilevanza del nesso transatlantico nell’era con-temporanea1. Qui si intende portare alla luce la tensione tra afasia teorica e

vivacità empirica degli studi sul mondo atlantico contemporaneo, situarla nel panorama delle correnti storiografiche contigue più rilevanti e, infine, di-scuterne le cause, nella convinzione che questo possa essere il primo passo verso un dialogo più proficuo tra diversi approcci alla storia internazionale contemporanea.

1 N. Barreyre-M. Heale-S. Tuck-C. Vidal (eds.), Historians Across Borders. Writing Amer­ ican History in a Global Age, University of California Press, Berkeley (CA) 2015.

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L’Atlantico contemporaneo tra storia atlantica e storia globale

Da almeno vent’anni lo spazio atlantico sembra inabissarsi sulla soglia dell’età contemporanea, svanire in un quadro globale otto-novecentesco in cui verrebbero meno le peculiari dinamiche interne che ne avevano fatto un «sistema», e un oggetto di studio per gli storici, durante l’era moderna. La di-scussione teorica e metodologica sull’Atlantico contemporaneo è assai debole, nonostante alcune eccezioni degne di nota. In Europa la Transatlantic Studies Association è tra le poche ad aver abbozzato una riflessione teorica multidi-sciplinare sul «paradigma atlantico». Nella galassia di fondazioni e centri di ricerca con sede negli Stati Uniti gli unici a promuovere studi focalizzati sul rapporto transatlantico sembrano essere il German Marshall Fund e il Ger-man Historical Institute. Tra gli storici ha avuto una discreta eco la pubblica-zione di The Transatlantic Century. Europe and America, 1890­2010 di Mary Nolan, ma la discussione che ha suscitato è rimasta confinata nel campo degli studiosi americani di storia europea e degli studiosi europei di storia america-na2. Tra le più di 200 liste di discussione del sito H-Net nessuna si occupa in

modo specifico di relazioni transatlantiche, variamente intese, tra ’800 e ’900. Infine non esiste tutto ciò che certifica il riconoscimento di un campo di studi nell’accademia internazionale: manuali, enciclopedie, readers e, con qual-che parziale eccezione, riviste scientifiqual-che esplicitamente dedicate alla storia dell’Atlantico contemporaneo. Ciò è dovuto a ragioni esterne e interne al contesto accademico e alle dinamiche storiografiche. Nel dibattito pubblico si registra un’attenzione decrescente per il legame euro-americano, che perdura quantomeno dalla fine della guerra fredda e si è accentuata con l’accelerazio-ne della globalizzaziol’accelerazio-ne economico-finanziaria e strategica. Ma è soprattutto per i contesti culturali e le vicende metodologiche della ricerca storica che l’Atlantico, che ha trasformato la storiografia sui secoli dal ’500 all’800, per i secoli successivi sembra svanire come legittimo e rilevante campo di studi. Come se l’eredità di una stagione ormai superata, in cui la storia atlantica co-me studio di istituzioni politiche e finanziarie e di élite composte di uomini bianchi era strumentale alla costruzione di scenari fortemente euro-centrici, rendesse ora problematico un nuovo approccio all’Atlantico contemporaneo.

Fin dove si spinge la nuova storia atlantica? E che peso ha la periodizza-zione nella definiperiodizza-zione di questa sottodisciplina emergente? Come affermano

2 M. Nolan, The Transatlantic Century. Europe and America, 1890­2010, Cambridge UP, Cambridge 2010; “The Transatlantic Paradigm Reconsidered: Multidisciplinary Perspec-tives”, TSA Annual Meeting, Middelburg, 6-8 July 2015. Oltre alla conferenza del German Historical Institute “More Atlantic Crossings?” Washington, 7-9 June 2012, tra le occasioni di discussione più recenti ricordo “Rethinking the West in a Post-Cold War World”, University of Maryland-College Park, 7 April 2015 e “European Perspectives on the History of Transat-lantic Relations. New Directions and Case Studies”, Università del Piemonte orientale, 14-15 dicembre 2015.

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Philip Morgan e Jack Greene nella loro autorevole sintesi, «the presumption seems to be that the expansion of European imperialism and the spread of commerce after 1800 make a global framework of more utility than an At-lantic one for those who are not content to continue to operate within tradi-tional natradi-tional and imperial frameworks». Analogamente, secondo Emma Rothschild, con le innovazioni nei trasporti e nelle comunicazioni degli anni ’30 dell’800, «Atlantic history ends because the Atlantic is no longer distinct, in a new world of literally worldwide or global connections». E nonostante gli stessi autori abbiano invitato a interpretare in modo più flessibile la cornice temporale del mondo atlantico, questa sembra tutt’ora coincidere di fatto con i confini scientifici e istituzionali della storia moderna3. L’International Center

for the History of the Atlantic World fondato da Bernard Bailyn all’Universi-tà di Harvard nel 1995 e affermatosi come punto di riferimento mondiale di questa corrente di studi si concentra su un arco di tempo che va dal 1500 al 1825, e la frequentata lista di discussione H-Atlantic analogamente è focaliz-zata sui tre secoli dal 1500 al 1800. Nella grande quantità di pubblicazioni nate in questo ambito i primi decenni dell’800 vengono di solito ridotti a una sorta di appendice, una corrente destinata a perdersi presto nel grande mare della globalizzazione ottocentesca. Anche chi nell’ambito degli studiosi di storia atlantica ne ha messo in discussione la periodizzazione prevalente, e in particolare il suo termine ad quem, si è limitato a porre in evidenza come alcuni dei suoi elementi costitutivi, come la schiavitù, abbiano continuato a dispiegare i loro effetti per alcuni decenni successivi alla disintegrazione se-gnata dalle «rivoluzioni atlantiche», dalle crisi degli imperi “leggeri” dell’età moderna e dall’affermazione graduale e parziale di nuovi modelli di statuali-tà4. Mentre sono finora cadute nel vuoto le sollecitazioni volte a considerare

3 J. Greene-P. Morgan, The Present State of Atlantic History, in Id., Atlantic History. A Critical Appraisal, Oxford UP, New York 2009, p. 21 (cfr. anche N. Canny, Atlantic History and Global History, ivi, pp. 317-36); E. Rothschild, Late Atlantic History, in N. Canny-P. Morgan (eds.), The Oxford Handbook of the Atlantic World (c. 1450­c. 1850), Oxford UP, New York 2011, p. 637. Per una sottolineatura delle connessioni e interdipendenze tra scala atlantica e globale in età moderna e sul concetto di «Atlantic world history», cfr. C. Strobel, The Global Atlantic, 1400 to 1900, Routledge, New York 2015. Sull’emergere della nuova storia atlantica cfr. D. Armitage, Three Concepts of Atlantic History, in D. Armitage-M. Braddick (eds.), The British Atlantic World, 1500­1800, Palgrave Macmillan, London 2002; B. Bailyn, The Idea of Atlantic History, «Itinerario», 20 (1996), pp. 19-44, poi ampliato in Id., Atlantic History. Concepts and Contours, Harvard UP, Cambridge (MA) 2005; A. Games, Atlantic History: Definitions, Challenges, and Opportunities, «American Historical Review», 111 (2006), n. 3, pp. 764-81; W. O’Reilly, Genealogies of Atlantic History, «Atlantic Studies», 1 (2004), n. 1, pp. 66-84. Per l’Italia cfr. F. Morelli, Il mondo atlantico. Una storia senza con­ fini (secoli XV­XIX), Carocci, Roma 2013 e M. Battistini, Un mondo in disordine: le diverse storie dell’Atlantico, «Ricerche di storia politica», 2012, n. 2, pp. 173-88.

4 Alan Karras suggerisce di spingersi fino agli anni ’80 dell’800, in cui si ebbe l’abolizione della schiavitù a Cuba e in Brasile: cfr. A. Karras, The Atlantic World as Unit of Study, in A.

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l’Atlantico non solo come uno spazio costruito dalle interazioni tra individui e culture connesse da reti commerciali, migratorie e religiose, secondo una ottica anti-statualista debitrice della storia sociale e del dialogo con l’antropo-logia e le scienze sociali, ma anche come uno spazio epistemico, una «visione del mondo» da analizzare con gli strumenti di una nuova storia sociale e cul-turale delle idee, o meglio di una «history of meaning»5. Questa riluttanza a

oltrepassare le colonne d’Ercole del primo ’800, radicata nei presupposti me-todologici della nuova storia atlantica, riflette altresì la sua matrice politico-culturale, attenta a prendere le distanze da una stagione di studi che aveva fatto delle «rivoluzioni atlantiche» un passaggio cruciale dell’affermazione della «Western civilization» secondo un disegno che, nelle parole di David Armitage, «owed to Nato more than it did to Plato»6.

Quindi buona parte della ricerca prodotta dalla nuova storia atlantica negli ultimi vent’anni, animata dall’obiettivo di una «storia senza confini», ha in realtà appena scalfito, se non in alcuni casi rafforzato, i confini tradizionali tra storia moderna e contemporanea, pur incidendo profondamente sulle scale di riferimento adottate per lo studio delle due epoche: applicata al periodo tra il XVI e il XIX secolo la scala atlantica metterebbe in luce elementi ca-ratteristici della globalizzazione – strutture imperiali e trasformazioni nella comunicazione e nei trasporti; mobilità di commercianti, lavoratori e schiavi; circolazione di capitali, beni e idee – che nei secoli successivi informerebbe la storia globale.

Se in questa prospettiva il campo di interazione atlantico di fatto svanisce in una integrazione globale delle principali macro-regioni del mondo in con-comitanza con la transizione all’età contemporanea, nella prospettiva della storia globale l’Atlantico non è mai stato una unità storico-geografica di ana-lisi e a maggior ragione non lo è a partire dall’800, secolo della «nascita del mondo moderno» e della «trasformazione del mondo»7. Analogamente alla

nuova storia atlantica, questa nuova «world history», o meglio «global histo-ry», nasce in polemica con la generazione che l’ha preceduta – esemplificata dall’influente The Rise of the West di William McNeill (1963) e riaffiorata soprattutto dopo l’11 settembre 2001 nell’opera di studiosi di grande notorietà

Karras-J.R. McNeill (eds.), Atlantic American Societies. From Columbus through Abolition 1492­1888, Routledge, New York 1992, pp. 1-15.

5 E. Rothschild, Late Atlantic History cit., p. 640.

6 D. Armitage, Three Concepts of Atlantic History cit., p. 14. Sulla storia atlantica del secondo dopoguerra e in particolare sul suo principale artefice, Robert R. Palmer, si veda-no oltre alle considerazioni di Bailyn e Canny, gli interventi di E. Tortarolo-A. Jourdan-J. Goldstone-S. Neri Serneri-P. Onuf, L’era delle rivoluzioni democratiche, «Contemporanea», 10 (2007), n. 1, pp. 125-56.

7 C. Bayly, La nascita del mondo moderno, Einaudi, Torino 2007 (ed. or. Oxford 2004); J. Osterhammel, Die Verwandlung der Welt: eine Geschichte des 19. Jahrhunderts, C.H. Beck, Munchen 2009, pubblicato negli Stati Uniti con il titolo The Transformation of the World. A Global History of the Nineteenth Century, Princeton UP, Princeton (NJ) 2014.

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come Niall Ferguson –, di cui vengono contestate l’ottica eurocentrica, l’im-pianto essenzialista e il retrogusto ideologico della sua visione lineare e teleo-logica della «ascesa dell’occidente»8.

Nella storia globale convivono invero molte sensibilità e approcci, alcuni dei quali non solo contestano qualsiasi specificità europea/occidentale nella storia mondiale, ma mettono fortemente in dubbio che l’espansione europea e le interazioni atlantiche dell’età moderna abbiano anticipato in modo si-gnificativo la globalizzazione di secoli successivi. È il caso di Christopher Bayly, che in The Birth of the Modern World individua la fase decisiva dell’integrazione della società internazionale tra il 1760 e il 1830 – «la pri-ma epoca di imperialismo davvero globale» – mentre considera i secoli della precedente espansione dell’Europa come parte di una pluricentrica e non integrata «globalizzazione arcaica», e riduce gli scambi dell’economia atlantica dell’età moderna, incluso il traffico degli schiavi, a uno sviluppo di tipo proto-capitalistico9.

La proiezione di questo sguardo globale verso l’800 e la prima metà del ’900 in realtà solleva interrogativi almeno pari alle prospettive che apre. Qual è l’impatto dell’ascesa dello stato contemporaneo, per quanto graduale e par-ziale, sul mondo senza confini e sulle circolazioni transnazionali che stanno al centro dell’agenda della «global history»? E soprattutto come conciliare l’aspirazione a uno sguardo decentrato e anti-eurocentrico sul mondo con la necessità di fare i conti con l’ascesa europea, e poi euro-americana, dopo la «grande divergenza» che dalla fine del ’700 avrebbe creato la forbice tra Inghilterra e Cina e, per estensione, tra Occidente e Asia? Bayly ha messo a fuoco il dilemma in questi termini:

Non c’è storia globale di questo periodo che possa in alcun modo eludere l’impor-tanza centrale rivestita dal sempre più forte dominio economico da parte dell’Europa occidentale e del Nordamerica […] La storia di tale epoca deve, dunque, fare emer-gere un bel po’ di cose diverse e apparentemente contraddittorie. Deve registrare l’in-terdipendenza degli eventi mondiali, pur tenendo conto del fatto bruto del dominio occidentale. Nello stesso tempo, deve fare mettere in luce come, per larga parte del mondo, simile dominio sia stato solo parziale e temporaneo10.

In modo analogo Sebastian Conrad afferma nella sua lucida panoramica delle “controversie” attorno alla storia globale:

8 S. Conrad, Storia globale. Un’introduzione, Carocci, Roma 2015; M. Meriggi-L. Di Fio-re, World History. Le nuove rotte della storia, Laterza, Roma-Bari 2011.

9 N. Canny, Atlantic History and Global History cit., pp. 322-23. Secondo Bayly, «nei suoi primi stadi, l’“espansione dell’Europa” fu semplicemente uno tra i tanti esempi contempo-ranei di globalizzazione, piuttosto che un sistema mondiale in fieri» (La nascita del mondo moderno cit., pp. 25, 29).

10 Ivi, pp. XX-XXI.

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I contatti e i processi di scambio transculturali e transnazionali dal tardo XVIII secolo non si lasciano più comprendere senza riferimento all’egemonia dell’Europa occidentale e più tardi degli Stati Uniti. L’integrazione dei merca-ti capitalismerca-tici, la superiorità tecnica e militare dei poteri industrializzamerca-ti e la pretesa di superiorità dei suoi valori universalmente formulati erano efficaci nell’età dell’imperialismo del libero scambio e del colonialismo anche al di fuori dell’Occidente11.

Piuttosto è importante che si mettano in rilievo i limiti temporali e spaziali di questa egemonia, la sua casualità, il suo carattere non lineare né inevitabi-le. Tuttavia rimane la difficoltà della storia globale nell’affrontare il nodo del mondo atlantico contemporaneo come specifico campo di interazione di gran-de rilevanza sia per la molteplicità e gran-densità gran-delle relazioni che lo innervano, sia per la sua capacità di diffusione ed espansione nell’arena globale. Una difficoltà che appare ancora più rilevante quanto più ci si avvicina al «secolo americano» e all’ascesa degli Stati Uniti come potenza mondiale. Secondo lo storico statunitense Andrew Cayton, «to incorporate the United States […] into world history is like incorporating Starbucks into the history of coffee. It has to be done, but at what price? Even if there is no celebration of Starbucks, its history will define the terms of the larger debate». Il rischio è di snaturare l’impianto della storia globale e farne il palcoscenico dell’ascesa statunitense: da «the United States in global history» a «the United States as global histo-ry» secondo l’icastica sintesi di Thomas Bender12.

The Transformation of the World di Jürgen Osterhammel esemplifica que-sta impasse. Salutata dai critici come un’opera dall’impianto più eurocentrico di quella di Bayly, a cui viene spesso paragonata, e sospesa tra la ricerca di uno sguardo decentrato sul mondo ottocentesco e la presa d’atto di singoli aspetti dell’egemonia europea, essa fatica a fare i conti con la scala atlantica13.

Da un lato alcuni dei suoi cinque «angoli visuali» sull’800 la chiamano in causa. Tra le caratteristiche di fondo di quel secolo vi sarebbe una asimme-tria nell’efficienza della crescita («asymmetric efficiency growth») che mostra livelli assai più alti di produttività, articolazione della struttura statale e forza militare (a proposito del quale l’autore parla di «military great divergence») da parte di alcune società dell’Europa occidentale, con l’inclusione successiva di Stati Uniti e Giappone. Pur con molte riserve e distinguo, «the rise of Europe,

11 S. Conrad, Storia globale cit., pp. 96-97.

12 A. Cayton, Putting the United States in Its Place, «Reviews of American History», 34 (2006), n. 4, pp. 573-80; T. Bender, A Nation Among Nations. America’s Place in World History, Hill & Wang, New York 2006, p. 298. Cfr. anche M. Adas, From Settler Colony to Global Hegemon. Integrating the Exceptionalist Narrative of the American Experience into World History, «American Historical Review», 106 (2001), n. 5, pp. 1692-720.

13 Per una stimolante comparazione tra i due volumi cfr. M. Meriggi, Storie mondiali dell’Ottocento, «Contemporanea», 13 (2000), n. 3, pp. 591-97.

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the United States and Japan in comparison with the rest of the world was mo-re than ever befomo-re or since an incontrovertible fact», certifica Osterhammel (p. 910). Un’altra caratteristica saliente è individuata dall’autore nella «asym-metric reference density» (p. 911), che starebbe a indicare la disponibilità e circolazione di idee e in generale di produzione culturale proveniente anche da altre regioni del mondo (grazie alla stampa, alle traduzioni ecc.). Anche in questo ambito viene registrata una forte asimmetria: «instead of a multiplicity of cultural models, the West now appeared as the global standard», sia come modello da imitare, sia come riferimento nella formazione di identità attraver-so processi selettivi di identificazione e opposizione (p. 912).

Dall’altro, tuttavia, queste formule non contribuiscono a problematizzare come unità di analisi l’Atlantico ottocentesco, che anzi l’autore considera uno spazio sempre meno coeso, a differenza dell’oceano Pacifico: «In the ninete-enth century, the Atlantic and the Pacific were subject to different tendencies. The ‘peaceful’ ocean experimented a phase of integration in every domain; the two sides of the Atlantic drifted apart in reality and in people’s minds» (p. 100). E grandi trasformazioni come le migrazioni di massa e la rivoluzione dei trasporti, collocate nei decenni a partire degli anni ’70, servirebbero solo a qualificare – ma non a mettere in discussione e tantomeno a smentire – l’idea di un Atlantico assai più largo e disarticolato rispetto a quanto lo fosse stato durante l’età delle rivoluzioni. Spicca la marginalità cui è relegata l’esperienza nordamericana in un secolo che vede la trasformazione degli Stati Uniti da periferia post-coloniale a grande potenza economica e tecnologica fortemente integrata nei flussi transnazionali globali, a partire quantomeno dalla fine della guerra civile. Le voci dell’indice analitico riguardanti gli Stati Uniti sono circa 30, un terzo di quelle relative alla Cina. E soprattutto la domanda sulla speci-ficità euro-americana e sul ruolo della modernità nel definire un perimetro at-lantico nel quadro globale è considerata irrilevante, se non irricevibile in quan-to inevitabilmente destinata a derive presentiste: «Hisquan-torians quan-today need not allow political rethoric to drive them into making essentialist statements about Europe. Their discipline is in the fortunate position of being able to leave behind political-ideological struggles over the conception of Europe» (p. 906).

Rimane così sostanzialmente inevasa la questione non marginale delle ori-gini di un secolo di egemonia europea/occidentale, come ha fatto notare Enzo Traverso14, mentre la possibilità di concettualizzare l’Atlantico contemporaneo

come legittimo campo di studi sembra essere negata. Come nel caso della nuova storia atlantica, anche in questo da un lato la periodizzazione che risen-te della matrice modernista e dall’altro il nodo (o il fantasma) del presentismo sembrano rendere problematica la concettualizzazione di uno spazio atlantico otto-novecentesco come unità storico-geografica di analisi. La critica

dell’Oc-14 E. Traverso, Rethinking the Nineteenth Century. On Jürgen Osterhammel’s The Trans-formation of the World, «Constellations», 21 (2014), n. 3, pp. 425-31.

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cidente come civilization e ideologia imperiale e il superamento di prospettive di ricerca eurocentriche basate sul primato della politica e dello stato-nazione finiscono per mettere in ombra in primo luogo quanto lo spazio atlantico sia stato una «mappa mentale»15 adottata da molti attori della vicenda

otto-novecentesca e, in secondo luogo, quanto la scala atlantica mantenga un ruolo centrale per lo studio della storia internazionale del mondo contemporaneo.

L’Atlantico contemporaneo come «mappa mentale»

Prima di essere una chiave di lettura della storia, la prospettiva atlantica era stata una delle nozioni metageografiche che i suoi protagonisti avevano costruito e utilizzato per situare la loro esperienza in un quadro sempre meno riconducibile alla scala locale e nazionale. Per tutto il «lungo ’800» e oltre si diffuse tra i contemporanei la consapevolezza di essere parte di una fitta rete internazionale e transnazionale di scambi, di opportunità e rischi, di azioni e reazioni tra le due sponde dell’Atlantico. Se ne ha una inattesa quanto lucida formulazione nelle istruzioni del segretario di Stato del Regno di Sardegna Clemente Solaro della Margarita al primo incaricato d’affari a Washington, Augusto Avogadro di Collobiano, nel 1838:

Nos relations avec l’Amérique septentrionale paraîtraient au premier coup d’œil ne devoir être que des relations purement commerciales, vue la distance qui nous sépare, mais les distances se rapprochent aujourd’hui par la multiplication des voies de communication et les rapports sans nombre qui se sont établis entre l’ancien et le nouveau monde ont créé entre eux une telle complication d’intérêt que toute commotion politique qui se prépare ou qui surgit dans l’un des deux continents doit avoir, nécessairement un grand retentissement dans l’autre. Les traités de commerce cachent souvent des vues politiques ou du moins peuvent leur être associés16.

Alla fine degli anni ’30 era in pieno svolgimento la «rivoluzione dei tra-sporti» generata in primo luogo dall’introduzione dei motori a vapore e sim-boleggiata dagli steamers che iniziarono ad attraversare l’Atlantico riducendo i tempi e aumentando la regolarità degli attraversamenti atlantici, con effetti dirompenti sui costi e i volumi della circolazione transatlantica di merci e persone. Queste istruzioni al primo incaricato d’affari di uno stato italiano nel Nuovo mondo vanno lette sia alla luce di questa svolta, sia nel quadro del-la «questione occidentale» che si era aperta con il crollo dell’impero spagnolo

15 A. Henrikson, Mental Maps, in M. Hogan-T. Patterson (eds.), Explaining the History of American Foreign Relations, Cambridge UP, Cambridge 1991, pp. 177-92.

16 Archivio del Ministero degli Esteri del Regno di Sardegna, Ministero degli Affari Este-ri, Roma, Solaro della Margarita, Istruzioni a Avogadro di Collobiano, Incaricato d’affari del Regno di Sardegna negli Stati Uniti, 7 dicembre 1838, registro 292.

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nelle Americhe, le indipendenze latinoamericane e dalla conseguente com-petizione per l’influenza commerciale e politica nella regione. Stati Uniti e monarchie europee rafforzarono le loro reti e consolari e diplomatiche in una fase di ripresa del commercio e di crescente diffusione transnazionale di idee repubblicane e liberali, creando così un tessuto connettivo di vitale importan-za per l’integrazione atlantica17.

La riduzione delle distanze transatlantiche che insospettiva un alfiere del-la Restaurazione come Sodel-laro deldel-la Margarita era salutata con speranza da Frederick Douglass, il maggiore leader afroamericano dell’800, che nel 1846 attraversò l’oceano per partecipare alla World’s Temperance Convention di Londra e compiere un trionfale tour britannico che influenzò uno dei suoi discorsi più noti:

A change has now come over the affairs of mankind. Walled cities and empires have become unfashionable. The arm of commerce has borne away the gates of the strong city. Intelligence is penetrating the darkest corners of the globe. It makes its pathway over and under the sea, as well as on the earth. Wind, steam, and lightning are its chartered agents. Oceans no longer divide, but link nations together. From Boston to London is now a holiday excursion. Space is comparatively annihilated. – Thoughts expressed on one side of the Atlantic are distinctly heard on the other18.

Douglass, che era fuggito dalla sua condizione di schiavo a vent’anni, si trovò ad attraversare l’Atlantico a bordo di uno steamer della Cunard Lines separato dai passeggeri bianchi e lungo il tragitto rischiò di essere buttato a mare da alcuni passeggeri americani. Ma la sua esperienza contribuì al rafforzamento del carattere transnazionale e all’influenza internazionale del movimento abolizionista, che era parte di un più ampio intreccio euro-ameri-cano di progetti riformatori e, cavallo del 1848, rivoluzionari, non limitato al contesto anglo-americano.

I legami tra Vecchio e Nuovo mondo stavano diventando più stretti in buona misura grazie alle innovazioni tecnologiche che costruivano un nuovo spazio atlantico sulle ceneri di quello vecchio, basato sugli imperi e sulla tratta. Non sorprende che i contemporanei ne divennero vieppiù consapevoli quando alla rivoluzione dei trasporti si aggiunse quella delle comunicazioni,

17 P. Butel, Histoire de l’Atlantique de l’antiquité à nos jours, Perrin, Paris 1997, pp. 243-47; G. Rogers Taylor, The Transportation Revolution 1815­60, Rinehart, New York 1951; R. Blaufarb, The Western Question. The Geopolitics of Latin American Independence, «Ameri-can Historical Review», 112 (2007), n. 3, pp. 742-63. Sulla diffusione delle reti consolari e diplomatiche ottocentesche cfr. M.S. Anderson, The Rise of Modern Diplomacy 1450­1919, Longman, London-New York 1993; F. de Goey, Consuls and the Institutions of Global Capi­ talism, 1783­1914, Pickering & Chatto, London 2014; D.C.M. Platt, The Cinderella service. British consuls since 1825, Longman, London 1971.

18 F.J. Douglass, What to the Slave is the Fourth of July? An Address Delivered in Rochester, New York on July 5 1852, in J. Blassingame et al. (eds.), The Frederick Douglass Papers, series 1, 5 voll., Yale UP, New Haven (CT) 1979-92, II, pp. 359-88.

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che accelerò fortemente la circolazione delle informazioni e illustrò plasti-camente quanto l’Atlantico fosse sempre più un ponte e sempre meno una barriera. La posa del cavo telegrafico transatlantico, avvenuta nel 1858, diede la stura a un’ondata di celebrazioni non prive di connotati fortemente emotivi e ideologici. Sul «Times» di Londra si leggeva: «The Atlantic is dried up, and we become in reality as well as in wish one country. The Atlantic Telegraph has half undone the Declaration of 1776, and has gone far to make us once again, in spite of ourselves, one people»19. Anche in questo caso l’asse su cui

si costruiva il nuovo spazio atlantico era anglo-americano, ma attorno ad esso tra la metà dell’800 e la prima guerra mondiale si sviluppò una fitta e diver-sificata rete di flussi migratori, commerciali e finanziari e di scambi politico-culturali che coinvolse buona parte dell’Europa occidentale e delle Americhe.

Le migrazioni di massa ne erano l’esemplificazione più chiara, sia per le dimensioni dei flussi (i 51 milioni di europei che migrarono verso il Nuovo mondo tra le guerre napoleoniche e la grande depressione non hanno prece-denti nella storia mondiale) sia perché questi riflettevano la molteplicità e pe-culiarità dei nessi (tecnologici, economici, demografici, politico-culturali) tra le due sponde dell’Atlantico. Il nuovo accesso alla mobilità transcontinentale spiega «l’abitudine diffusa e radicata a pensare l’America come risorsa possi-bile» di cui Antonio Gibelli ha parlato a proposito della Liguria, e la conse-guente estensione di legami comunitari e affettivi lungo le stesse rotte. Come scrisse nel 1875 un prete progressista impegnato nell’istruzione dei contadini della Val di Vara: «de’ miei scolari ne ho quasi in tutte le parti del mondo, al-cuni soldati, parecchi in Prussia, in Russia, in Francia, negli Stati Uniti, molti in California, a Buenos Aires, a Montevideo, a Lima, e neppur uno, che io mi sappia, dimentico del mio affetto, ma tutti, tutti mi inviano lettere»20.

L’ascesa degli stati nazionali e la moltiplicazione dei confini non ostacolò né i flussi migratori, né altri aspetti dell’integrazione atlantica. Anzi la circo-lazione di pratiche di nation building e di nazionalismi inevitabilmente parti-colaristici, ma dai forti tratti comuni, finì per contribuire a forgiare il senso di appartenenza a una comunità di popoli e nazioni moderne e “civilizzate” che si definiva in opposizione all’“altro” barbaro e selvaggio. Nella seconda metà dell’800 il potere coloniale prese una direzione nuova, come ha affermato J.R. McNeill: «within the confines of the Atlantic world, colonialism had begun to take a north-south profile more than an east-west one […] It was as if geopoli-tics now recognized the tectonic plates that underlie the continents, separating

19 Cit. da I. Tyrrell, Transnational Nation. US History in Global Perspective since 1789, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2007, p. 25.

20 Cit. da A. Gibelli, La risorsa America, in A. Gibelli-P. Rugafiori (a cura di), Storia d’I­ talia. Le regioni dall’Unità a oggi, La Liguria, Einaudi, Torino 1994, p. 601. Su questa aper-tura atlantica in ambito imprenditoriale, rinvio ai lavori di Ferdinando Fasce e in particolare a Id., L’Ansaldo dei Perrone e gli Stati Uniti, ivi, pp. 693-726.

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the Old World from the New»21. Tuttavia il passaggio da un asse longitudinale

a uno latitudinale come cardine della geografia del potere in questa regione del mondo, se da un lato lacerò vecchie connessioni dall’altro ne creò di nuove; lungi dall’accelerare la disintegrazione dello spazio atlantico, gli conferì una dimensione ideologica e geopolitica che avrebbe poi trovato una fortunata formulazione nell’idea di «comunità atlantica» coniata da Walter Lippmann nel 1917, quando quell’Occidente “civilizzato” venne dilaniato e travolto dalla guerra totale: «Britain, France, even Spain, Belgium, Holland, the Scandina-vian nations and Pan-America are in the main one community in their deepest needs and their deepest purposes […] we cannot betray the Atlantic Commu-nity by submitting […] what we must fight for is the common interest of the Western world, the integrity of the Atlantic powers»22.

In conclusione, nel lungo ’800 prese forma una consapevolezza delle con-nessioni atlantiche che contribuì a formare le mappe mentali di reazionari e rivoluzionari, di migranti e di pundits dei grandi giornali. Una sorta di «co-munità immaginata» transatlantica, di cui la carta stampata era solo uno dei veicoli e delle espressioni. Uno spazio il cui baricentro nel corso del ’900 si sarebbe spostato verso Nord come conseguenza della emarginazione dell’A-frica e dell’integrazione in chiave progressivamente subordinata dell’America latina nell’economia mondiale, ma che era sempre meno riducibile alla rela-zione bilaterale anglo-americana e vieppiù capace di esercitare influenza e ca-pacità attrattiva verso l’esterno. Non una “civiltà” né lo stadio avanzato di un “progresso” lineare e inevitabile, ma un campo di interazione segnato dalla densità e varietà delle relazioni che lo informavano.

La riemersione dell’Atlantico contemporaneo

La dimensione soggettiva e qualitativa dello scambio transatlantico evi-denziata da queste mappe mentali è tra quelle che sfuggono a coloro i quali vedono l’Atlantico contemporaneo svanire in un indistinto oceano globale. Ve ne sono altre. È noto che le innovazioni nei trasporti e nelle comunicazioni sperimentate su scala atlantica avrebbero presto trovato applicazione altro-ve, come ci ricordano gli studi che individuano nella metà dell’800 una fase decisiva dell’integrazione dei mercati mondiali; è altresì risaputo che anche in altre regioni del mondo esistessero aree di intensa circolazione di merci e persone, come evidenziato dalla storia globale23. Ma un approccio quantitativo

21 J.R. McNeill, The End of the Old Atlantic World. America, Africa, Europe, 1770­1888, in A. Karras-J.R. McNeil (eds.), Atlantic American Societies cit., p. 265.

22 W. Lippmann, The Defense of the Atlantic World, «The New Republic», 17 February 1917.

23 P. Coclanis, Beyond Atlantc History, in J. Greene-P. Morgan, Atlantic History cit., pp. 337-56; Id., Drang Nach Osten. Bernard Bailyn, the World­Island, and the Idea of Atlantic History, «Journal of World History», 13 (2002), n. 1, pp. 169-82.

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attento soprattutto al volume dei flussi commerciali e demografici, o al chi-lometraggio delle reti ferroviarie e al tonnellaggio delle flotte, o ancora alla convergenza di prezzi di materie prime e prodotti agricoli non è il più adatto a cogliere la singolare densità delle connessioni atlantiche nell’800 e nel ’900.

La svolta transnazionale che ha trasformato il panorama degli studi sulla storia degli Stati Uniti negli ultimi vent’anni ha avuto un ruolo importante nel portare alla luce questa densità. Due volumi di ampio respiro e forte origina-lità interpretativa, ad opera rispettivamente di Thomas Bender e Ian Tyrrell, pressoché contemporanei e accomunati dal progetto di sottrarre la storia americana all’ipoteca eccezionalista e al primato della dimensione nazionale, di fatto mettono in luce come per molti decenni la dimensione transatlantica abbia fortemente informato l’esperienza americana e suggeriscono l’urgenza di una messa a fuoco dell’Atlantico contemporaneo come unità d’analisi sto-riografica24. Secondo Bender la periodizzazione della storia atlantica va

rivi-sta in chiave contemporanea:

If most of those scholars who sail under the flag of the Atlantic world do not carry their inquiries beyond the age of revolution, the topic remains… The Atlantic and global connections and comparisons that have been so illuminating from the sixteenth, seventeenth, and eighteenth centuries need to be carried forward into the nineteenth and twentieth centuries, where they promise to be just as fruitful25.

Il tentativo più ambizioso in questa direzione era giunto nel 2004 con il primo numero di «Atlantic Studies», rivista nata con l’obiettivo di promuove-re lo studio dello spazio atlantico in chiave multidisciplinapromuove-re, transnazionale e globale al di fuori di rigide periodizzazioni26. In quell’occasione Donna

Gabaccia lanciò in un importante saggio una triplice sfida: l’analisi di lungo periodo di specifici aspetti dello scambio transatlantico; l’integrazione tra varie correnti di studi focalizzate rispettivamente sull’Atlantico dell’economia e delle merci, della diaspora africana, dei migranti e dei lavoratori; e infine l’attraversamento dei confini disciplinari. Tuttavia uno sguardo alla letteratura recente mostra come quelle sfide siano state raccolte solo in modo parziale: la notevole vivacità empirica degli studi che indagano specifici aspetti delle re-lazioni transatlantiche tra ’800 e ’900 stride con la debolezza della riflessione metodologica e teorica sull’Atlantico contemporaneo come unità di analisi.

Di seguito si intende offrire un quadro sintetico dei principali filoni di questa letteratura e, in conclusione, alcune riflessioni sul rapporto tra questa e

24 T. Bender, A Nation among Nations. America’s Place in World History cit.; I. Tyrrell, Transnational Nation cit.

25 T. Bender, Foreword, in J. Cañizares Eguerra-E. Seeman (eds.), The Atlantic in Global History, 1500­2000, Pearson Prentice Hall, Upper Saddle River (NJ) 2007, pp. XX-XXI.

26 D. Gabaccia, A Long Atlantic in a Wider World, «Atlantic Studies», 1 (2004), n. 1, pp. 1-27.

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altri approcci alla storia internazionale contemporanea. Si darà particolare ri-lievo all’800 in considerazione del fatto che la letteratura sul secolo successi-vo, con particolare riferimento alla proiezione internazionale degli Stati Uniti, è già piuttosto nota e dibattuta.

L’approccio cliometrico alla storia dell’economia atlantica ottocentesca come fase decisiva della globalizzazione contemporanea è una delle correnti di ricerca di maggior rilevanza pubblica, ad esempio in termini di politiche sul commercio internazionale e sulle migrazioni, anche se risulta piuttosto appartata nel dibattito tra diversi approcci storiografici. Partendo da uno studio quantitativo sul commercio internazionale delle materie prime Kevin O’ Rourke e Jeffrey Williamson hanno concluso che il declino dei costi di trasporto e quindi dei prezzi avvenuto a partire dagli scambi nord-atlantici nei primi decenni dell’800 è un momento periodizzante nella storia della glo-balizzazione economica: «the date for big bang theories of global economic history should be the 1820s, not the 1490s»27. Questa lettura, molto attenta

alla periodizzazione della storia della globalizzazione, sembra tuttavia indif-ferente alla sua dimensione spaziale: il perimetro dell’economia atlantica vie-ne dato per scontato, così come non vievie-ne problematizzato il passaggio dalla scala atlantica a quella globale, che sembra avvenire secondo un “naturale” processo di «evoluzione»28. Anche molti studi di storia globale riconoscono la

centralità dell’economia nord-atlantica tra la seconda metà dell’800 e la pri-ma del ’900. Come afferpri-mano Steven C. Topic e Allen Wells, «our approach acknowledges the central role that Western European and North American capitalists, laborers, and technology played in the metamorphosis of world trade and finance and agrees that entrepreneurs on both sides of the North Atlantic were fundamental to the era’s profound transformations»29. Tuttavia

si mette in rilievo come questa centralità sia stata spesso esagerata, a scapito di sviluppi in altre regioni del mondo caratterizzate come statiche e passive, secondo una grammatica tipicamente orientalista ed eurocentrica.

Una seconda corrente di studi che sta contribuendo a riconsiderare perio-dizzazioni e compartimentazioni tradizionali dello spazio atlantico deriva dallo sguardo transnazionale alle indipendenze latinoamericane. Visti sotto questa luce gli anni ’20 dell’800 assumono un nuovo profilo, non più consi-derati come la fine dell’era coloniale e dell’antico regime e/o l’inizio di una

27 K. O’Rourke-J. Williamson, When Did Globalization Begin?, «European Review of Economic History», 6 (2002), n. 1, p. 37. Per uno stimolante approfondimento sull’impatto di questi studi sulla questione dell’eccezionalismo americano cfr. E. Rauchway, More Means Different: Quantifying American Exceptionalism, «Reviews in American History», 30 (2002), pp. 504-16.

28 K. O’Rourke-J. Williamson, Globalization and History: the Evolution of a Nineteenth­ Century Atlantic Economy, MIT Press, Cambridge (MA) 1999.

29 S. Topic-A. Wells, Commodity Chains in a Global Economy, in E. Rosenberg, A World Connecting, 1870­1945, Harvard UP, Cambridge (MA) 2012, p. 596.

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fase repubblicana o nazionale, ma piuttosto come un decennio cruciale di transizione durante il quale l’intreccio tra vecchi legami imperiali e nuove dinamiche di scambio politiche, economiche e culturali trasforma il rapporto tra America latina ed Europa. Più in generale il superamento di un approccio rigidamente, e teleologicamente, nazionale alle indipendenze sta mettendo in luce le forme di ibridazione tra antico e nuovo regime, tra strutture imperiali e stato nazionale, tra abolizione e schiavitù. La messa in discussione della bipartizione tra storia moderna e contemporanea invita a considerare un «lun-go» Atlantico che nel caso latinoamericano si spinge fino all’ultima ondata delle abolizioni degli anni ’80 o addirittura alla guerra ispano-americana30.

La produzione più consistente in tema di relazioni transatlantiche con-temporanee proviene dalla fertile stagione di riscrittura transnazionale della storia degli Stati Uniti. Internazionalizzando la storia americana ci si imbatte spesso in un paesaggio atlantico che per lo storico diventa una unità d’analisi discreta, per quanto fortemente integrata nel quadro globale. Alcune delle vo-ci più influenti di questa stagione hanno indicato nell’economia atlantica ot-tocentesca un campo di ricerca relativamente poco esplorato rispetto a quella dei secoli precedenti. Secondo quanto scriveva Ian Tyrrell all’inizio degli an-ni ’90, «the Atlantic trading network is, for much of American history, a key region within which to explore links of a transnational kind. This need not entail the old project of the United States as an extension of European civili-zation or, still less, English colonialism»31. Da allora l’esplorazione di questi

nessi nello spazio atlantico otto-novecentesco ha fatto molti passi avanti nella storiografia americanistica proprio grazie a una rilettura transnazionale intesa come way of seeing, un modo di guardare al passato capace di attraversare confini nazionali e steccati disciplinari.

Gli aspetti economici e finanziari per ora sono stati scandagliati soprat-tutto a riguardo del crinale tra ’800 e ’900, ma alcuni studi indicano che gli Stati Uniti pre-bellici erano già fortemente integrati nel quadro atlantico. Jay Sexton ha messo in luce in primo luogo come la condizione di dipendenza finanziaria degli Stati Uniti ne abbia informato la politica estera nei decenni centrali dell’800 e, in secondo luogo, come questo legame finanziario tra New York e Londra sia parte di un complesso rapporto di integrazione e competi-zione tra Stati Uniti e Gran Bretagna per buona parte dell’800. Analogamente Sam Haynes ha collocato la dipendenza finanziaria e la «schiavitù

commer-30 M. Brown-G. Paquette (eds.), Connections after Colonialism. Europe and Latin Amer­ ica since the 1820s, University of Alabama Press, Tuscaloosa (AL) 2013; C. Thibaud-G. Entin-A. Gòmez-F. Morelli, L’Atlantique Révolutionnaire. Une Perspective Ibéro­Américaine, Les Perséides, Bécherel 2013.

31 I. Tyrrell, American Exceptionalism in an Age of International History, «American Historical Review», 96 (1991), n. 4, p. 1040. Si vedano anche le più recenti considerazioni di Sven Beckert: AHR Conversation: on Transnational History, «American Historical Review», 111 (2006), n. 5, p. 1463.

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ciale» degli Stati Uniti nel quadro più ampio della «rivoluzione incompiu-ta», cioè della subordinazione politico-diplomatica e culturale nei confronti dell’impero britannico. E Donna Gabaccia ha messo in evidenza l’importanza della diplomazia commerciale statunitense nei decenni pre-bellici, quando decine di trattati bilaterali (14 con l’Europa, 8 con le Americhe, 4 con l’Asia, 2 con l’Africa tra il 1815 e il 1848) posero le basi giuridiche e materiali per flussi commerciali e migratori in ultima istanza globali, ma che per decenni ebbero un respiro prevalentemente atlantico32.

Queste connessioni economiche, che solo in apparenza delineano un Atlan-tico ottocentesco essenzialmente bianco, si intrecciavano con altre di diversa natura. Gli studi dell’ultimo ventennio sulla rivoluzione haitiana, a lungo dimenticata ed esclusa dal novero delle «rivoluzioni atlantiche», hanno por-tato alla luce come questa per tutta la prima metà dell’800 sia stata oggetto di letture contrapposte, ma accomunate dal quadro di riferimento transat-lantico. Da un lato l’incubo del “contagio” della rivolta razziale contribuì a legittimare l’ordine schiavista nel Sud degli Stati Uniti come baluardo contro la miscegenation e le presunte trame abolizioniste di provenienza britannica; dall’altro il precedente haitiano in primo luogo ispirò i settori più radicali del movimento abolizionista e in secondo luogo rafforzò la convinzione dei cir-coli più moderati che un graduale, ordinato percorso verso l’abolizione fosse l’unico modo per prevenire «un’altra Haiti»33.

Che si trattasse anche di un «Atlantico nero» è confermato dall’approccio transnazionale alla vicenda abolizionista, che ha messo in risalto le sue impli-cazioni per la storia del capitalismo e del pensiero economico, nonché le sue connessioni con altri movimenti riformatori contemporanei. Visto in ottica transatlantica, l’abolizionismo prebellico evidenzia legami con il liberalismo economico e in particolare con le campagne a favore del libero scambio; si intreccia con gli eventi del 1848, che ebbero forti echi oltre Atlantico anche perché portarono all’abolizione della schiavitù nelle colonie francesi e danesi e alla fine della servitù negli stati tedeschi e in Austria; e infine invita a

in-32 J. Sexton, Debtor Diplomacy. Finance and American Foreign Relations in the Civil War Era, 1837­1873, Oxford UP, New York 2005; Id., The Monroe Doctrine. Empire and Nation in Nineteenth Century America, Hill & Wang, New York 2011; S. Haynes, Unfinished Revolution: The Early American Republic in a British World, University of Virginia Press, Charlottesville (VA) 2010; D. Gabaccia, Foreign Relations. American Immigration in Global Perspective, Princeton UP, Princeton (NJ) 2012, cap. 1, in cui l’autrice sottolinea la portata globale di questi sviluppi.

33 D. Geggus (ed.), The Impact of the Haitian Revolution in the Atlantic World, Univer-sity of South Carolina Press, Columbia (SC) 2001; A. White, Encountering Revolution: Haiti and the Making of the Early Republic, Johns Hopkins UP, Baltimore (MD) 2010; M. Clavin, Toussaint Louverture and the American Civil War: The Promise and Peril of a Second Revo­ lution, University of Pennsylvania Press, Philadelphia (PA) 2009; A. Gomez, Le spectre de la révolution noire. L’impact de la révolution haïtienne dans le monde atlantique, 1790­1886, Presses universitaires de Rennes, Rennes 2013.

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dagare oltre i confini nazionali le cause della guerra civile americana, su cui ebbero grande influenza la fine della schiavitù nell’impero britannico e le sue ripercussioni nell’area caraibica34.

Uno sguardo transatlantico agli Stati Uniti pre-bellici, dunque, mette in ri-lievo come già a metà ’800 lo spazio atlantico, lungi dall’essere disarticolato in frammenti tra loro sconnessi o sommerso da una indistinta globalizzazione, andasse riconfigurandosi come campo di interazione di singolare complessità e densità. Nodi ereditati dai secoli precedenti (schiavitù e abolizionismo) si intrecciavano con elementi nuovi come la rivoluzione dei trasporti e l’impulso alla circolazione di uomini e merci e le idee e le esperienze riformatrici nate nelle società euro-americane in via di modernizzazione. A questi si sarebbero aggiunti, subito dopo, la rivoluzione delle comunicazioni e l’accelerazione dei processi di nation building e, sul finire del secolo, la seconda rivoluzione indu-striale e la svolta imperiale, vale a dire trasformazioni globali che nello spazio atlantico si sono verificate precocemente, diffuse in modo multidirezionale e hanno prodotto effetti di particolare intensità, profondità e durata.

Anche la rivisitazione della guerra civile americana in chiave transnazio-nale contribuisce a una problematizzazione dello spazio atlantico contem-poraneo capace non solo di guardare a ritroso alle continuità con l’ordine coloniale, quanto piuttosto in avanti verso le direttrici dello scambio transat-lantico otto-novecentesco. Pur non trascurando la centralità del nodo schiavi-tù/abolizione né oscurando questa particolarità statunitense nel quadro inter-nazionale, una nuova stagione di studi ha inserito quel conflitto in una vasta ondata di superamento di modelli imperiali e ricerca di autodeterminazione attraverso lo strumento dello stato nazionale territoriale tipico del liberalismo ottocentesco che si verificò essenzialmente in Europa e nelle Americhe. Vista in questa luce la simultaneità della guerra civile americana con processi di

nation building in atto tra gli anni ’50 e ’70 in Canada, Argentina, Messico, Germania e Italia è legata alla circolazione transnazionale e diasporica di un «liberalismo atlantico» palesatosi con il 1848 e capace di produrre i suoi ef-fetti in termini di convergenza di assetti statuali e politiche economiche fino agli anni ’70, quando la matrice nazionalista iniziò a prevalere su quella libe-rale all’interno di molti stati nazionali vecchi e nuovi35.

34 E. Dal Lago, “We Shared the Same Hostility to Every Form of Tyranny”: Transatlantic Parallels and Contacts between William Lloyd Garrison and Giuseppe Mazzini, 1846­1872, «American Nineteenth Century History», 13 (2012), n. 3, pp. 1-27; M.W. Palen, Free­Trade Ide­ ology and Transatlantic Abolitionism: A Historiography, «Journal of the History of Economic Thought», 37 (2015), n. 2, pp. 291-304; Id., The “Conspiracy” of Free Trade. The Anglo­Amer­ ican Struggle over Empire and Economic Globalization, Cambridge UP, Cambridge 2016; T. Roberts, Distant Revolutions. 1848 and the Challenge to American Exceptionalism, University of Virginia Press, Charlottesville (VA) 2009; E. Rugemer, The Problem of Emancipation. The Caribbean Roots of the American Civil War, Louisiana State UP, Baton Rouge (LA) 2008.

35 Per una ricca discussione di questo scenario cfr. D. Armitage-T. Bender-L. Butler-D. Doyle-S.M. Grant-C. Maier-J. Nagler, Interchange: Nationalism and Internationalism in the

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Un altro robusto impulso nella direzione della concettualizzazione di uno spazio atlantico contemporaneo è fornito dalla riconsiderazione di questa fase di nation building transnazionale come prerequisito per i processi di moder-nizzazione che si verificarono a partire dalla seconda metà dell’800 e che ebbero una significativa accelerazione con la seconda rivoluzione industriale. Emergono «traiettorie di modernizzazione» tipicamente atlantiche nella parte finale di questo lungo ’800 che terminerà in modo traumatico con la prima guerra mondiale? Secondo Hans Jürgen Puhle, lo spazio atlantico moderno e contemporaneo è caratterizzato dall’affermazione di modelli di modernizza-zione tra loro diversi, ma accomunati da varie combinazioni di industrializ-zazione, democratizzazione e burocratizzazione prima in Europa e poi nelle Americhe. In questa prospettiva di lungo periodo inizialmente era prevalsa la matrice europea, mentre con la diffusione dello stato moderno nelle Ameri-che e l’ascesa degli Stati Uniti si assiste all’affermazione di una modernizza-zione «atlantica» o «occidentale»: attraverso lo scambio transatlantico prima il modello europeo viene adattato al contesto delle Americhe e poi, nel corso del ’900, la variante nord-americana si afferma fino a influenzare in modo rilevante i processi di globalizzazione: «The Atlantic system has never been a one-way street, and it has always implied, at some critical junctures more than others, processes of transcontinental, transatlantic learning, though mo-stly not among equals: at certain points, some had to learn more than others, and for a long time some could afford to learn less»36.

Analogamente, ma secondo un approccio meno istituzionalista e uno sguar-do assai meno centrato sulla primogenitura europea, Jose Moya ha individuato nel molteplice e multidirezionale scambio transatlantico un campo di intera-zione attraversato da processi di modernizzaintera-zione a livello economico e tec-nologico, sociale e demografico, politico e culturale assai più profondi che in passato e, almeno fino alla prima guerra mondiale, diffusi su una scala atlanti-ca assai più che globale. È tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900 che la

moder-Era of the Civil War, «Journal of American History» (2011), pp. 455-89. Cfr. anche T. Bender, A Nation Among Nations cit., cap. 3; D. Gleeson-S. Lewis (eds.), The Civil War as Global Conflict. Transnational Meanings of the American Civil War, University of South Carolina Press, Columbia (SC) 2014; B. Schoen, The Fragile Fabric of the Union. Cotton, Federal Politics, and the Global Origins of the Civil War, Johns Hopkins UP, Baltimore (MD) 2009; D. Doyle, The Cause of All Nations: An International History of the American Civil War, Basic Books, New York 2015. Sulle connessioni e comparazioni tra il caso italiano e quello americano cfr. P. Gemme, Domesticating Foreign Struggles. The Italian Risorgimento and Antebellum American Identity, University of Georgia Press, Athens (GA) 2005; D.H. Doyle, Nations Divided. America, Italy, and the Southern Question, University of Georgia Press, Athens (GA) 2002 e, per uno sguardo più generale, D. Fiorentino, Gli Stati Uniti e il Risorgi­ mento d’Italia, 1848­1901, Gangemi, Roma 2013.

36 H.J. Puhle, Trajectories of Western Modernization Around the Atlantic: One World or Many?, in H. Pietschmann (ed.), Atlantic History. History of the Atlantic System, 1580­1830, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2002, p. 550.

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nità da «ideologia» diventerebbe «way of life», trasformando la vita di milioni di persone e diventando quindi un fenomeno di massa, mentre per tutto il pe-riodo coloniale aveva interessato strati sociali circoscritti. A questa diffusione sociale si accompagnerebbe una diffusione geografica limitata fondamental-mente all’Europa e alle Americhe, benché molti di questi processi avrebbero in seguito avuto diffusione globale e molti dei suoi protagonisti si sentissero parte di tendenze universali: testate della stampa anarchica come «Universal», «Hijos del Mundo» e «Dos Vraie Vort» esprimevano questa vocazione univer-salista, ma i luoghi della loro circolazione disegnavano una geografia atlantica; lo stesso si può affermare per l’internazionalismo del movimento sindacale come testimonia, tra le altre cose, la diffusione delle celebrazioni del primo maggio. Analogamente fino alla cesura del primo conflitto mondiale la diffu-sione di caratteristici indicatori della modernità come il servizio postale e le reti ferroviarie delimitano una geografia essenzialmente atlantica37.

Queste traiettorie di modernizzazione disegnano perimetri variabili e, come è ovvio, non esclusivamente atlantici; si intersecano con altre, dando vita a connessioni e reti di scambio che la storia globale ha opportunamente messo in rilievo. D’altra parte queste reti non sono a-centriche: è più convin-cente l’ipotesi di una molteplicità di centri, legati da connessioni multiple ma anche da gerarchie di potere politico, economico e culturale38. Anche qui la

riscrittura della storia americana in chiave transnazionale offre un contributo prezioso in quanto, evidenziando la persistenza se non il rafforzamento della specificità atlantica tra fine ’800 e inizio ’900, getta luce su queste gerarchie e differenze tra i poli della globalizzazione contemporanea. È il caso di lavori ormai noti che stanno esercitando una significativa influenza nei rispettivi ambiti, a partire da quelli di Samuel Baily, Donna Gabaccia, Dick Hoerder e Jose Moya sulle migrazioni di massa verso le Americhe39 e di James

Klop-penberg, Daniel Rodgers e Axel Schäfer sulle politiche sociali e le esperienze riformatrici nate in risposta alla seconda rivoluzione industriale40. È il caso,

37 J. Moya, Modernization, Modernity, and the Trans/formation of the Atlantic World in the Nineteenth Century, in J. Cañizares Eguerra-E. Seeman (eds.), The Atlantic in Global History cit., pp. 179-98.

38 Su questo punto cfr. l’intervento di Adriano Roccucci nel forum de «Il mestiere di storico», 2015, n. 2, pp. 43-47, in cui esprime considerazioni su E. Rosenberg, Storia del mon­ do, vol. V, I mercati e le guerre mondiali. 1870­1945, Einaudi, Torino 2015.

39 S. Baily, Immigrants in the Land of Promise. Italians in Buenos Aires and New York City, 1870­1914, Cornell UP, Ithaca (NY) 2004; D. Gabaccia, Italy’s Many Diasporas, Univer-sity College London Press, London 2000; D. Hoerder (ed.), Labor Migrations in the Atlantic Economies. The European and North­American Working Classes during the Period of Indus­ trialization, Grenwood Press, Westport (CT) 1985; J. Moya, Cousins and Strangers. Spanish Immigrants in Buenos Aires, 1850­1930, University of California Press, Berkeley (CA) 1998.

40 J. Kloppenberg, Uncertain Victory. Social Democracy and Progressivism in European and American Thought, 1870­1920, Oxford UP, New York 1986; D. Rodgers, Atlantic Cross­ ings: Social Politics in a Progressive Age, Harvard UP, Cambridge (MA) 2000; A. Schäfer,

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inoltre, del rinnovato interesse verso la svolta imperiale attuata dagli Stati Uniti con la guerra ispano-americana del 1898. Alle letture che sottolineano la continuità di questa esperienza con l’espansione continentale verso Ovest e la “rimozione” delle popolazioni indiane si intrecciano quelle che invece pon-gono l’accento sulla mutuazione da parte di Washington di politiche imperiali attuate dalle potenze europee, in particolare dall’impero britannico. Così lo sguardo transnazionale, mettendo in discussione il predominio della «tradi-zione nazionale», finisce per porre in luce la dimensione dell’«adattamento transatlantico»41.

L’intensificazione dello scambio transatlantico a cavallo del secolo infine fu un momento di svolta anche a livello culturale e ideologico in quanto minò profondamente la dinamica oppositiva tra il Nuovo mondo e il Vecchio che negli Stati Uniti stava alla base della cultura politica e del discorso pubblico repubblicano. Come ha affermato Daniel Rodgers, «for social policies to be borrowable across political boundaries, there must be not only a foundation of common economic and social experience but also a recognition of un-derlying kinship. The polities in question must be seen to face similar needs and problems, to move within shared historical frames, and to strive toward a commonly imagined future»42. Questo mondo atlantico, campo di interazioni

reali e al contempo luogo di una comunità immaginata, non venne meno ne-anche dopo la cesura della prima guerra mondiale e la crisi del 1929. Anzi gli anni ’20 anticiparono molte delle dinamiche in atto nello scambio transatlan-tico del secondo dopoguerra, a partire dall’interdipendenza finanziaria e dalle connessioni e ibridazioni legate all’americanizzazione, alla circolazione della cultura afro-americana, ai consumi e all’avvento della società di massa.

Infine, la vastissima produzione sui decenni successivi alla seconda guer-ra mondiale risente fortemente sia dell’impulso a uno sguardo globale sulla storia internazionale volto a «provincializzare» l’Europa e di conseguenza lo scambio transatlantico, sia di tendenze metodologiche (a partire dal cultural

turn e dalla svolta transnazionale) che hanno assai arricchito, sfumato e com-plicato il quadro43. Il periodo compreso tra il 1945 e gli anni ’70 – riconosciuti

da una letteratura in grande fermento come un momento di accelerazione

American Progressives and German Social Reform, 1875­1920: Social Ethics, Moral Con­ trol, and the Regulatory State in a Transatlantic Context, Steiner, Stuttgart 2000.

41 F. Schumacher, The American Way of Empire. National Tradition and Transatlantic Ad­ aptation in America’s Search for Imperial Identity, 1898­1910, «German Historical Institute Bulletin», 2002, Fall, pp. 35-50; P. Kramer, Power and Connection: Imperial Histories of the United States in the World, «American Historical Review», 116 (2011), n. 5, pp. 1348-91.

42 D. Rodgers, Atlantic Crossings cit., p. 33.

43 J. Logemann-M. Nolan (eds.), More Atlantic Crossings? Europe’s Role in an Entangled History of the Atlantic World, «German Historical Institute Bulletin», suppl. 10 (2014). Per uno sguardo sistematico alla storiografia prodotta in vari settori delle relazioni transatlantiche cfr. M. Vaudagna (ed.), Modern European­American Relations in the Transatlantic Space. Recent Trends in History Writings, Otto, Torino 2015.

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della globalizzazione contemporanea44 – risulta così sfaccettato e plurale,

ma non dissimile ai precedenti per quanto riguarda la tensione tra specificità transatlantica e quadro globale.

Ne è un esempio paradigmatico la storiografia sulla guerra fredda, che sta conoscendo da tempo una fase di impetuosa espansione dei temi di ri-cerca, che l’ha portata a dialogare con la storia culturale, sociale, di genere e dell’ambiente, e di revisione delle scale di riferimento in senso globale, che ha avuto la sua formulazione più efficace e influente con la pubblicazio-ne di The Global Cold War di Odd Arpubblicazio-ne Westad45. Mentre è innegabile che

questo global turn abbia avuto il grande merito di gettare luce sull’intreccio tra guerra fredda da una parte e decolonizzazione, modernizzazione, razza e diritti civili dall’altra, è assai discutibile affermare più o meno esplicitamente che il Sud globale sia stato il teatro decisivo di uno scontro che ha continuato ad avere come suo epicentro l’Europa. Come sostiene Federico Romero, «pro-vincializing Europe is an epistemological necessity for global and internatio-nal history, but hardly a scholarly strategy applicable to a conflict spawned in and about Europe, pivoted on the continent’s destiny, and eventually solved where it had its deepest and more relevant roots»46.

Ne scaturisce l’esigenza di ricollocare il posto dell’Europa e del legame transatlantico nel quadro globale del ’900 e in particolare del secondo dopo-guerra, come peraltro emerge anche da studi che hanno indagato da altri ango-li visuaango-li le relazioni transatlantiche, ormai incentrate su un asse settentrionale che vede l’emisfero meridionale relegato a ruoli più periferici o “dipendenti”. Ne sono la dimostrazione interpretazioni ormai classiche e ampiamente dibat-tute del rapporto transatlantico come quella di Charles Maier sull’«egemonia consensuale» esercitata dagli Stati Uniti sul Vecchio continente, o quella di Geir Lundestad sull’«invito» rivolto dagli alleati europei affinché gli Stati Uniti svolgessero finalmente un ruolo imperiale – accomunate dall’implicita premes-sa che tale rapporto fosse caratterizzato da precondizioni e convergenze tipi-camente atlantiche47. E lo stesso si può affermare sia di recenti lavori di ampio

respiro – e invero tra loro assai diversi – come quelli di Mary Nolan, Victoria

44 T. Borstelmann, The 1970s: A New Global History from Civil Rights to Economic In­ equality, Princeton UP, Princeton 2012; N. Ferguson-C. Maier-E. Manela (eds.), The Shock of the Global. The 1970s in Perspective, Harvard UP, Cambridge (MA) 2010.

45 O.A. Westad, The Global Cold War. Third World Interventions and the Making of Our Time, Cambridge UP, Cambridge 2005. Il quadro più completo di questa espansione e diversi-ficazione è fornito da M. Leffler-O.A. Westad (eds.), The Cambridge History of the Cold War, Cambridge UP, Cambridge 2010.

46 F. Romero, Cold War Historiography at the Crossroads, «Cold War History», 14 (2014), n. 4, pp. 685-703.

47 C. Maier, The Politics of Productivity. Foundations of American Economic Policy after World War II, «International Organization», 31 (1977), n. 4, pp. 607-33; G. Lundestad, Empire by Invitation? The United States and Western Europe, 1945­1952, «Journal of Peace Re-search», 1986, n. 3, pp. 263-77.

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De Grazia e David Ellwood, sia infine di studi più specifici riguardanti ambiti molto diversificati come i consumi e la società di massa, i movimenti e le cul-ture politiche, l’integrazione europea e il ruolo dei non state actors.

Si tratta di un panorama assai composito in cui tuttavia sono riscontrabili ele-menti comuni: il contributo significativo di punti di vista europei, cioè di studio-si che per provenienza o formazione o appartenenza istituzionale hanno un forte legame con l’Europa; l’attenzione alla continuità di medio periodo di processi di convergenza e interdipendenza transatlantica le cui origini precedono il 1945; e infine la consapevolezza che la «comunità atlantica» del secondo dopoguerra si inserisce in un gioco di scale locali, nazionali e globali in cui non vi è più posto per forme di ciò che Gabaccia ha definito «provincialismo atlantico»48.

Conclusioni

Il paradigma della storia globale sta finalmente varcando i confini italiani, come mostra ad esempio la pubblicazione per Einaudi della serie A History

of the World coordinata da Jürgen Osterhammel e Akira Iriye. Il quinto volu-me della serie, I volu-mercati e le guerre mondiali, 1870­1945, è curato da Emily Rosenberg che in apertura riconosce il proprio debito nei confronti della tesi di Bayly sulla «grande accelerazione» che tra la seconda metà dell’800 e la prima del ’900 avrebbe posto le basi della globalizzazione contemporanea: «Sebbene gli europei e gli americani avessero avuto un ruolo significativo nel creare e diffondere la modernità di questa era, le molte reti culturali e sociali che sempre più si intrecciarono intorno al globo contribuirono a produrre e accelerare le trasformazioni»49. Il suo saggio è una efficace dimostrazione

48 M. Nolan, The Transatlantic Century cit.; V. De Grazia, Irresistible Empire. America’s Advance through Twentieth­Century Europe, Harvard UP, Cambridge (MA) 2005; D. Ell-wood, The Shock of America. Europe and the Challenge of the Century, Oxford UP, Oxford 2012. Cfr. inoltre C. Browning-M. Lehti (eds.), The Struggle for the West. A Divided and Contested Legacy, Routledge, New York 2010; F. Fasce-M. Vaudagna-R. Baritono (eds.), Beyond the Nation: Pushing the Boundaries of U.S. History from a Transatlantic Perspec­ tive, Otto, Torino 2013; M. Mariano (ed.), Defining the Atlantic Community. Culture, Policies and Intellectuals in the Mid­Twentieth Century, Routledge, New York 2010; L. Moore-M. Vaudagna (eds.), The American Century in Europe, Cornell UP, Ithaca (NY) 2003; K. Patel-K. Weisbrode (eds.), European Integration and the Atlantic Community in the 1980s, Cam-bridge UP, CamCam-bridge 2013; M. Vaudagna (ed.), The Place of Europe in American History: Twentieth­Century Perspectives, Otto, Torino 2007. Sull’europeizzazione della politica estera americana cfr. M. Del Pero, The Eccentric Realist. Henry Kissinger and the Reshaping of American Foreign Policy, Cornell UP, Ithaca (NY) 2006; sull’«Atlantico di celluloide» cfr. S. Giovacchini, John Kitzmiller, Euro­American Difference, and the Cinema of the West, «Black Camera», 6 (2015), n. 2, pp. 17-41; sulla diplomazia culturale americana in Europa cfr. G. Scott-Smith, Networks of Empire: The US State Department’s Foreign Leader Program in the Netherlands, France, and Britain, 1950­1970, Peter Lang, Brussels 2008.

49 E. Rosenberg, Correnti transnazionali in un mondo sempre più piccolo, in Id., Storia del mondo, vol. V, I mercati e le guerre mondiali, 1870­1945 cit., p. 960.

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