Corso di Laurea magistrale
in Amministrazione, Finanza e Controllo
Prova Finale di Laurea
IL PRIVATE EQUITY IN TEMPO
DI CRISI
Relatore
Ch.mo Prof. Giorgio Stefano Bertinetti
Correlatore
Ch.mo Prof. Ugo Rigoni
Laureando
Francesco Meneghello
Matricola 987054
Anno Accademico
2012 / 2013
INDICE
INTRODUZIONE ... 3
PARTE 1: IL MERCATO DEL CAPITALE DI RISCHIO ... 6
1. L'ATTIVITÀ TIPICA DEGLI OPERATORI DI PRIVATE EQUITY ... 7
1.1. ORIGINE E FINALITÀ DELL’ATTIVITÀ DI PRIVATE EQUITY ... 8
1.1.1. L’ambito Europeo ... 8
1.2.2. L’ambito italiano ... 9
1.2. GLI OBIETTIVI DEL PRIVATE EQUITY ... 10
1.3. LA CLASSIFICAZIONE DELLE OPERAZIO NI DI PRIVATE EQUITY ... 12
2. L'ATTIVITÀ DI FUNDRAISING ... 15
3. IL PROCESSO DI INVESTIMENTO ... 19
4. IL RISCHIO DELL’INVESTIMENTO NEL PRIVATE EQUITY ... 24
5. STRUTTURA ORGANIZZATIVA DEI FONDI DI PRIVATE EQUITY ... 29
6. LE TIPOLOGIE DI FONDI DI PRIVATE EQUITY ... 33
7. L'EVOLUZIONE DEL MERCATO ITALIANO DEL PRIVATE EQUITY FINO AL 2007 .. 35
7.1. L’ATTIVITÀ DI INVESTIM ENTO ... 35
7.2. L’ATTIVITÀ DI RACCOLTA E DI DISINVESTIMENTO ... 38
PARTE 2: LA CRISI FINANZIARIA E IL PRIVATE EQUITY ... 43
1. IL CONTESTO ECONOMICO DOPO IL 2008 ... 44
2. ANALISI DI UNA STRUTTURA FINANZIARIA DI LBO NEL MERCATO EUROPEO .... 56
3. ANALISI DI UNA STRUTTURA FINANZIARIA DI BUYOUT PRECEDENTE ALLA CRISI ... 60
4. LE CAUSE DELLA CRISI E IL LORO EFFETTO SULL’ATTIVITÀ DI PRIVATE EQUITY 64 5. QUALI SONO STATE LE CONSEGUENZE DEL CREDIT CRUNCH SULL’ATTIVITÀ DI PRIVATE EQUITY ... 68
PARTE 3: ANALISI DEL MERCATO ITALIANO DEL PRIVATE EQUITY E VENTURE CAPITAL ... 79
1.1. EFFETTI SULL’ATTIVITÀ DI RACCOLTA ... 80
1.2. EFFETTI SULL’ATTIVITÀ DI INVESTIM ENTO... 89
1.2.1. L’attività di early stage ... 97
1.2.2. L’attività di expansion ... 99
1.2.3. L’attività di buyout ... 101
1.3. EFFETTI SULL’ATTIVITÀ DI DISINVESTIM ENTO ... 104
1.4. ANALISI DEL SETTORE PRIVATE EQUITY SULLA BASE DEI SURVEY KPMG CORPORATE FINANCE ... 108
CONCLUSIONI ... 114
BIBLIOGRAFIA ... 128
INTRODUZIONE
Le operazioni di private equity coprono una varietà di soluzioni che hanno una caratteristica in comune: la ricerca di fondi che possano finanziare un progetto di investimento in una società target. I fondi di private equity possono essere paragonati a dei talent scout di investimenti nel mondo imprenditoriale, che investono anni e risorse nel valutare il potenziale di ogni impresa, per comprendere i loro rischi e le soluzioni per evitarli. La fonte solitamente è un fondo il cui obiettivo è quello di investire specificatamente in società non quotate piuttosto che in società quotate.
L’attività di private equity a livello europeo ha registrato un forte sviluppo nell’ultimo decennio sia sul piano quantitativo sia su quello delle innovazioni tecniche. Le società di private equity hanno raggiunto in questo periodo elevati tassi di rendimento sui capitali investiti, che hanno portato ad un aumento dei fondi a loro disposizione, e ad un netto aumento delle dimensioni delle singole operazioni svolte.
L’escalation nell’aumento dei fondi a disposizione, dei prezzi di acquisto, e della leva finanziaria hanno permesso al settore di raggiungere nel biennio 2006-‐2007 livelli di attività mai registrati. Tuttavia il ciclo economico positivo ha subito una forte contrazione nel biennio 2008-‐2009, causando elevate perdite alle società presenti nei portafogli delle società di private equity. Allo stesso modo della crisi dei mutui sub-‐prime, l’ambito del private equity ha registrato l’esplosione di una bolla speculativa relativa alle operazioni di LBO (leveraged buyout). La forte propensione verso questo tipo di operazioni1 è stata supportata dal settore bancario.
Sebbene anche l’Italia abbia vissuto un forte sviluppo del settore, questo sbilanciamento dell’attività di private equity non è stato così marcato come negli Stati Uniti e in Inghilterra (i mercati principali a livello mondiale). Tuttavia,
1 Nel 2006, più dell’80% del capitale raccolto dal settore private equity è stata utilizzato per operazioni di LBO. E €71
miliardi su €90 sono stati allocati per operazioni di buyout. Fonte: ECB, Leveraged Buyouts and Financial Stability, Monthly Bulletin, August 2007
anche in Italia è stato attribuita molta meno importanza alle operazioni cosiddette di venture capital ed di expansion dato il maggiore livello di rischio sottostante queste tipologie di operazioni.
Tuttavia, è bene ricordare che il tessuto economico italiano è prevalentemente composto da piccole e medie imprese, e lo sbilanciamento del settore private equity verso certe tipologie di operazioni più votate alle speculazione finanziaria e all’arbitraggio piuttosto che alla creazione di valore d’impresa risulta dannoso per l’economia italiana.
È quindi obiettivo dell’elaborato analizzare come queste distorsione del settore del private equity abbia influenzato lo sviluppo di determinate tipologie di operazioni a scapito di altre.
Infatti, il peggioramento delle condizioni economiche, la diminuzione del capitale di debito e la competizione più forte per la sopravvivenza, sono fattori che sommati possono riportare l’attività di private equity verso operazioni più consone al sostenimento della tipica attività imprenditoriale nazionale.
Inoltre, l’aumentata avversione degli istituti bancari a concedere prestiti rispetto al periodo pre-‐crisi, sta lasciando ampi e proficui spazi all’attività di private equity che svolgerebbe in questo modo quell’attività di supporto finanziario e di advisory così poco presente nell’attività imprenditoriale italiana.
Il presente elaborato si prefigge quindi l’obiettivo di valutare se sono avvenuti cambiamenti nel settore del private equity causati dalla recente crisi finanziaria, e nondimeno dalla crisi europea del debito sovrano. Il fine infatti è capire se questo avvenimento ha cambiato le “regole del gioco” del settore private equity, e se i benefici hanno superato gli aspetti negativi, che una crisi economica generalmente crea.
Sebbene, quindi, l’attenzione si focalizzi sul mercato italiano, non mancano riferimenti al più ampio mercato europeo e ovviamente a quello americano, da sempre più evoluto e da dove è iniziato il processo di crisi economica.
Con riferimento alla strutturazione del lavoro, la prima parte tratterà i circuiti del capitale di rischio non quotato: il private equity e venture capital. Si dedicherà spazio alle caratteristiche tipiche delle operazioni e alla strutture di governo utilizzate dalle private equity firm. La prima parte quindi verrà conclusa esponendo la panoramica sull’attività del settore in Italia fino al 2007.
Nella seconda parte invece il protagonista principale sarà la crisi finanziaria e i suoi collegamenti con l’attività del private equity: verrà analizzato come il nuovo business model adottato dagli istituti bancari ha permesso lo sviluppo di operazioni speculative piuttosto che di sviluppo imprenditoriale.
Nella terza e ultima parte quindi verrà analizzato il mercato del private equity dal 2007 al 2012, nelle sue tre attività principali, al fine di evidenziare i potenziali cambiamenti subiti e in atto, e le possibili tendenze che potranno svilupparsi.
Parte 1
Il mercato del capitale di rischio
1. L'attività tipica degli operatori di Private Equity
Agli inizi degli anni Ottanta, l’apporto di capitale di rischio, da parte di operatori professionali, in aziende non quotate e ad alto potenziale di sviluppo con il fine ultimo di realizzare un capital gain a seguito della dismissione, veniva definito venture capital. In particolare, tali operazioni avevano come oggetto principalmente aziende ad alto contenuto tecnologico.
Nel corso del tempo, l’attività di investimento istituzionale nel capitale di rischio, definita attualmente private equity, si è sviluppata in un ampia gamma di possibilità di intervento. Tuttavia, l’acquisizione di partecipazioni significative in imprese, in un’ottica di medio-‐lungo periodo, con l’obiettivo di ottenere alti rendimenti al momento dell’exit è rimasto il comune denominatore durante questa evoluzione della disciplina.
Attualmente l’attività di private equity, secondo la prassi diffusa negli Usa, include due tipologie di investimento nel capitale di rischio delle imprese: operazioni di venture capital e operazioni di buyout. Collegate alla prima categoria si trovano due tipologie specifiche di investimenti: l’early stage financing, che sta a indicare il finanziamento delle start-‐up; e l’expansion financing, a indicare il finanziamento di imprese già mature, che necessitano di un apporto di risorse per consolidare la loro crescita.
Nel Vecchio continente, in passato, si faceva corrispondere il termine venture capital alle operazioni finalizzate a sostenere la nascita di nuove imprese. Al contrario il termine private equity rappresentava le operazioni finalizzate a sviluppare attività già esistenti oppure a gestire i cambiamenti di proprietà dell’impresa.
Negli ultimi anni, si è giunti alla totale standardizzazione della terminologia europea con quella statunitense, grazie anche alla presenza di associazioni di private equity a livello di singolo paese e a livello continentale.
Tale organismo in ambito europeo è l’European Venture Capital Association2(EVCA) ovvero l’associazione europea del venture capital, che definisce il private equity come i fondi usati per apportare “equity capital to enterprises not quoted on a stock market”. Continuando nella definizione, si specifica che il private equity può essere utilizzato per sviluppare nuovi
2 EVCA è stata costituita nel 1983 a Bruxelles, e ad oggi annovera più di 1200 membri. È l’associazione che riunisce tutti
prodotti e tecnologie, per espandere il capitale umano, per dare vita ad acquisizioni o per rafforzare la solidità finanziaria di una società; inoltre può risolvere questioni legate alla proprietà e alla gestione, come una ricambio generazionale, un buyout o un buyin di società il cui management è gestito da manager con esperienza3. E infine, definisce il venture capital come “a subset of private equity investments made for the launch, early development, or expansion of a business”.
Infine, sempre secondo la definizione fornita dall’EVCA, il private equity rientra “under the umbrella of ‘alternative investments’”4, la quale ingloba anche assets come venture capital, hedge funds, real estate commodities e collateralized debt obligations (CDOs). Quindi l'investimento nel capitale di rischio è considerato un investimento alternativo alla stregua di hedge funds o CDOs, ovvero strumenti ad elevato grado di rischio, a cui d'altra parte corrispondono rendimenti elevati.
1.1. Origine e Finalità Dell’Attività Di Private Equity
1.1.1. L’ambito Europeo
Il Paese che ha svolto il ruolo più importante nell’origine e nell’evoluzione del private equity in Europa è stato il Regno Unito, dove già nell’800 venivano realizzati investimenti nelle American Railways da parte di fondi comuni di investimento inglesi (investment trusts). Inoltre subito dopo la seconda guerra
3 “Private equity is an engine for economic growth and provides vital sources of finance for growing, non-‐listed
companies. Private equity invests in companies at all stages of their development and has adapted to the different need of companies by offering a range of specific investment structures. Private equity offers early-‐stage companies seed and start-‐up funding and development stage businesses expansion funding, all of which are usually referred to as venture capital. Later stage companies receive private equity via buyout, buyin turnaround and acquisition financing.
Private equity can be used to develop new products and technologies, to expand working capital, to make acquisitions, or to strengthen a company’s balance sheet. It can also resolve ownership and management issues. A succession in family-‐owned companies, or the buyout and buyin of a business by experienced managers may be achieved by using private equity funding” – EVCA, Further comments to the Basel Committee: the risk profile of private equity and venture
capital”, February 2004
4 Con il termine “alternative investments”, si fa riferimento a investimenti che possiedono le seguenti caratteristiche: la
ricerca di un profitto assoluto, che è la ricerca di raggiungere una rendita positiva indipendentemente dal fatto che i prezzi degli asset stiano salendo o scendendo; la libertà di scambiare tutte le classi di asset e un ampio ventaglio di strumenti finanziari mentre si ricorre a una varietà di stili, strategie e tecniche di investimento in differenti mercati, e l’affidamento sulle capacità di investimento del manager e l’applicazione di un chiaro processo di investimento per sfruttare le inefficienze del mercato e le opportunità identificando e comprendendone cause e origini. (www.aima.org)
mondiale, venne fondata la 3i5, Investing in Industry, che operava fornendo capitale di rischio a imprese con elevate prospettive di crescita.
Tuttavia, in Europa, solo nei primi anni Ottanta, nacque un vero e proprio mercato del venture capital e del private equity, grazie all’istituzione dell’EVCA.
Lo sviluppo del settore è stato caratterizzato da una forte crescita nella seconda metà degli anni Novanta, seguita da un improvviso declino nel 2000. Fino a circa la metà del 2007, il private equity europeo ha vissuto un nuovo periodo di significativa espansione, includendo un periodo di due anni (dal 2003 a metà 2005) nel quale l’attività di investimento in Europa ha superato quella americana.
In seguito, alla crisi finanziaria del 2008, l’attività ha ripreso lentamente un percorso di miglioramento e attualmente il mercato europeo ha raggiunto un grado di maturità quasi equiparabile a quello americano, da sempre leader in questa attività.
1.2.2. L’ambito italiano
Come in Europa, la nascita di un vero e proprio settore di operatori professionali nell’attività del venture capital e del private equity è fatta risalire all’istituzione dell’associazione di categoria avvenuta nel 1986, grazie all’iniziativa di nove società finanziarie private e di emanazione bancaria. All’epoca il nome era AIFI, Associazione Italiana delle Finanziarie di Investimento, ma attualmente è conosciuta come Associazione Italiana del Private Equity e del Venture Capital.
Nel corso degli anni, il settore ha subito una notevole evoluzione in relazione ai cambiamenti del contesto economico e finanziario e al quadro normativo che si sono sviluppati in Italia.
Sul piano normativo, l’evoluzione del settore è stata dettata principalmente dai seguenti interventi:
• delibera del CICR (Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio) del febbraio 1987: in seguito a tale delibera anche le aziende di credito furono abilitate allo svolgimento di suddetta attività
5 3i, nato nel 1945 con un capitale gestito di 15 milioni di £, oggi è una dei più importanti investors a livello mondiale,
(fino al 1986, le aziende di credito non potevano svolgere l’attività di investimento nel capitale di rischio).
• emanazione del Testo Unico in materia bancaria e creditizia nel settembre 1993 (D.Lgs. 385/93)
• emanazione della Legge 344/93, istitutiva dei fondi di investimento mobiliare chiusi: rilevante in quanto queste strutture sono divenute il principale strumento per lo svolgimento dell’attività di investimento nel capitale di rischio in aziende non quotate. Tuttavia, si nota come già al momento dell’emanazione, la legge presentava alcuni limiti che impedivano al mercato italiano di confrontarsi con i competitors europei6.
• emanazione del Testo Unico della Finanza nel febbraio 1998 (D.Lgs. 58/98): ha introdotto la struttura della Società di Gestione del Risparmio (SGR). Importante se si considera che tra il 2000 e il 2010 il numero delle SGR attive nella gestione di fondi di private equity è passato da 11 a 687.
Per quanto riguarda l’espansione del fenomeno private equity, bisogna sottolineare che nella prima fase, che abbraccia più o meno due lustri, dal 1986 al 1996, solo un numero limitato e stabile di operatori era attivo nel mercato. Successivamente, dal 1997 al 2001 grazie alla diffusione delle nuove tecnologie e del settore dotcom, gli operatori sono aumentati considerevolmente. Il periodo seguente è proseguito con stabilità tra gli operatori, culminando con un andamento negativo tra il 2008 e il 20098.
1.2. Gli Obiettivi Del Private Equity
Il private equity è l'attività di investimento nel capitale di rischio di imprese generalmente non quotate che va a sostenere progetti di crescita, tipicamente
6 In particolare, il vincolo alla composizione del portafoglio del fondo, imponeva le seguenti quote: tra il 40% e l’80%
titoli di società non quotate, e quote non superiori al 20% per titoli di Stato italiani, stranieri e titoli azionari quotati. Inoltre, era negato al fondo l’acquisto di più del 5% di azioni o quote per ogni società quotata, e meno del 30% per ogni società non quotata. Relativamente alle quote di sottoscrizione, il tetto era fissato a 100 milioni di lire (51.645,69€), oppure 400 milioni di lire (€206.582,76), qualora la raccolta fosse effettuata attraverso meccanismi di sollecitazione del pubblico risparmio. (Gervasoni A., Sattin F.L., “Private Equity e venture capital – manuale di investimento nel capitale di
rischio”, Guerini e Associati, Milano, 2000)
7 Banca d’Italia, Il private equity in Italia: un analisi sulle “imprese target”, Questioni di Economia e Finanza (Occasional
Papers) Numero 98, Luglio 2011
8 Banca d’Italia, Il private equity in Italia, Questioni di Economia e Finanza, Occasional Papers, Numero 41, Febbraio
acquisizioni e fusioni, di crescita di valore per mezzo di ristrutturazioni e turnaround aziendali. Il soggetto che investe in questo tipo di struttura generalmente non esige una remunerazione immediata, al contrario del soggetto che fornisce capitale di debito. Il debito, soprattutto quello di emanazione bancaria, è per definizione un capitale impaziente, che mal si collega con le operazioni di private equity. Al contrario il private equity dovrebbe fornire capitale paziente, dovrebbe selezionare progetti con buone prospettive di rendimento nel medio termine e in situazione di razionamento finanziario. Quest'ultima situazione tuttavia non individua aziende in difficoltà finanziarie, ma piuttosto società nelle fasi si avviamento che registrano flussi di cassa bassi e necessità di capitali; oppure società mature che desiderano attuare un espansione dimensionale il cui progetto però richiede consistenti risorse finanziarie.
Il rischio elevato tuttavia è l'altra caratteristica intrinseca di questa attività, e il tasso di default delle operazioni di early stage o start-‐up ne è la prova: la metà delle iniziative solimante portano alla perdita del capitale. Tuttavia, risulta elevato anche il tasso di rendimento: questo valore espresso dall'IRR, è circa del 20% annuo.
A fronte di questo alto rischio, le società di private equity tipicamente esercitano un controllo molto stretto sulla gestione: entrano in partecipazioni con quote significative spesso di maggioranza o di minoranza qualificata mai inferiore al 20%-‐30%. Inoltre, richiedono di entrare nel consiglio di amministrazione, per monitorare il più attentamente possibile l'elevato grado di rischio da gestire.
L'approccio è quindi diverso dal mercato public nel quale i rischi negoziati sono medio-‐bassi. La società che ha rischi elevati deve andare sul mercato private, cioè nella negoziazione privata, nella quale soggetti come gli investitori professionali possono dedicare tempo e risorse all'analisi del profilo di rischio e alla gestione del processo di creazione del valore.
Un aspetto ulteriore del tema del rischio degli investimenti di private equity è legato alla durata degli investimenti e alla loro illiquidità. Il ciclo temporale tipico di un veicolo di private equity è determinato da una prima fase, il fundraising, della durata di massimo 48 mesi, un secondo periodo detto investment period, che varia dai 5 ai 6 anni e infine la fase del disinvestimento, dai 5 ai 10 anni. Questa suddivisione tuttavia può variare poiché ogni
investimento ha il suo percorso e quindi le fasi possono anche sovrapporsi. Infatti la realizzazione dei disinvestimenti e della ridistribuzione agli investitori possono cominciare quando è in corso la fase di investimento.
Quindi, si sono sviluppate modalità diverse di creazione di liquidità. Questa, con riferimento agli strumenti di investimento, è correlata allo stile di investimento del fondo: fondi di buyout hanno in portafoglio asset con una vita media molto più breve rispetto a un fondo di venture capital. In una certa misura la liquidità è legata anche alla formula dei fondi di fondi.
1.3. La Classificazione Delle Operazioni Di Private Equity
I fondi di private equity, secondo la letteratura classica, tendono a specializzarsi in corrispondenza degli stadi del ciclo di vita delle imprese, come sintetizzato nella figura seguente.
Ad ogni stadio di sviluppo dell’azienda corrisponde un diverso intervento dell’investitore istituzionale.
Generalmente, le operazioni di investimento sono le seguenti:
• -‐Early Stage Financing o Finanziamento dell’Avvio (comprende Seed Financing, Start-‐Up Financing, First Stage Financing): letteralmente Seed Financing significa finanziamento del seme. Si interviene infatti a
Figura 1 -‐ Cambiamento del rischio e dei finanziamenti al variare della stadio del ciclo di vita delle imprese
finanziare l’idea imprenditoriale, quando non è ancora presente il prodotto. Gli operatori, a causa dell’elevata rischiosità dell’investimento, sono altamente specializzati nei vari settori industriali in questione, e il loro apporto finanziario è contenuto. In queste operazioni, se da un lato il ritorno atteso dagli investimenti è molto alto, dall’altro è elevatissimo anche il tasso di insuccesso: in Europa nel 2011 il 20,7% delle operazioni di venture capital, cioè 205 su 991, si è concluso con un write off9, cioè un fallimento, quando lo
stesso risultato ha interessato solo il 7,4% delle operazioni nella categoria Buyout & Growth10.
Con l’evolvere del ciclo di vita una parte del rischio operativo si riduce, e si passa alla fase start-‐up financing, l’avvio dell’attività produttiva, e il first stage financing, valutazione commerciale del prodotto o servizio. In queste fasi e soprattutto nell’ultima, è necessario potenziare il capitale investito netto per accompagnare la crescita del capitale circolante netto.
• Expansion Financing Stages (comprende Growth Stage Financing ed Expansion Capital): è la seconda macro-‐categoria di interventi e riguarda lo sviluppo e il consolidamento di aziende già avviate.
Questi interventi possono essere messi in pratica attraverso l’aumento o la diversificazione diretta della capacità produttiva, l’acquisizione di altre aziende o rami di azienda, oppure l’integrazione con altre realtà imprenditoriali (cluster venture11).
In questi casi, è già presente un mercato conosciuto e sono disponibili più informazioni che diminuiscono il grado di rischio di queste operazioni. Inoltre, l’esistenza di un prodotto o servizio e di uno storico è utile nella fase di due diligence12, configurandosi come supporto concreto all’attività di valutazione.
9 Abbattimento totale del valore della partecipazione detenuta da un investitore nel capitale di rischio, a seguito della
perdita di valore permanente della società partecipata ovvero della sua liquidazione o fallimento
10 EVCA, Yearbook 2012
11 Tipologia di intervento finalizzata al raggruppamento, cluster appunto, di più società operative indipendenti,
integrabili verticalmente od orizzontalmente e caratterizzate da considerevoli similitudini, possedute da una holding svolgente un ruolo di coordinamento strategico. È particolarmente importante perché dà la possibilità di utilizzare al meglio le capacità manageriali e imprenditoriali esistenti nelle varie società. Inoltre, risultano più vantaggiose le condizioni a cui si possono attrarre investimenti, grazie alla maggiore diversificazione di portafoglio.
12 Questa espressione indentifica l’insieme delle attività, svolte dall’investitore o per mezzo di consulenti esterni, volte
ad analizzare il valore e le condizioni di un’azienda o di un ramo di essa, con il fine ultimo di acquisizione o investimento. Il processo raccoglie tutte le informazioni relative all’impresa, come la struttura societaria e organizzativa,
• La terza e ultima fase è quella del cambiamento ed è quella maggiormente indipendente dallo stadio di sviluppo raggiunto dall’impresa. Spesso il cambiamento è indotto dalla volontà di uno o più azionisti della società in questione di abbandonare l’attività e infatti si parla di replacement capital: la ristrutturazione della compagine azionaria, tramite la sostituzione di uno o più soci non più coinvolti nell’attività aziendale. Secondo questa pratica chi tra i soci non è interessato a strategie di lungo termine e di sviluppo ha l’opportunità di uscire dalla compagine societaria.
In caso di cambio totale della proprietà, l’obiettivo dell’operatore è quello di supportare finanziariamente il cambiamento e generalmente tali operazioni rientrano nella macro-‐categoria buyouts. All’interno di questa è possibile distinguere tra sostituzione della compagine societaria con manager interni (management buy in) o esterni (management buy out).
Infine la fase di turnaround, che indica gli investimenti di ristrutturazione delle imprese in crisi, attraverso l’avvicendamento del gruppo proprietario o manageriale: risultano spesso fondamentali per la risoluzione di crisi aziendali, più o meno profonde.
il mercato di riferimento, i fattori critici di successo, le strategie commerciali, le procedure gestionali e amministrative, i dati economo-‐finanziari e gli aspetti fiscali e legali.
2. L'Attività di Fundraising
Descritta la struttura tipica di un fondo di private equity, si prosegue analizzando l'attività di fundraising, ovvero la raccolta delle fonti necessarie all'attuazione della fase successiva di investimento. Questa fase è importantissima, e deve essere pianificata e preparata in anticipo: si deve assicurare che sia completata entro un periodo di tempo ragionevole dopo la prima chiusura del fondo. Tipicamente i termini di mercato indicano che la chiusura di questa fase dovrebbe avvenire entro 12-‐18 mesi dalla prima chiusura, a meno che non ci sia il consenso dei Limited Partner (come verrà esplicitato in seguito sono i soci a responsabilità limitata)13.
L'attività di raccolta, come tuttavia anche l'intera attività di private equity, può essere pesantemente influenzata da fattori strutturali. La legislazione finanziaria, societaria e fallimentare infatti incidono sull'attività di private equity e possono danneggiare il settore nella competizione con i mercati internazionali.
Secondo una ricerca, Global Venture Capital Country Attractiveness Index Study 2009-‐2010, i 6 fattori chiave che determinano l'attrattività del mercato del private equity di un Paese sono:
• l’attività economica • la cultura imprenditoriale
• la profondità del mercato di capitali • la tassazione
• la tutela dell’investitore e la corporate governance • l’ambiente umano e sociale
In base a tali indicatori, l’Italia si trova al 32° posto, preceduta da paesi come Portogallo, India, Cile, Sud Africa, Spagna, e Malesia. Se si escludono i paesi non-‐UE, il ranking migliora e l'Italia passa al 13° posto, con Regno Unito, Svezia e Olanda che rispettivamente occupano i primi 3 posti. Infine, mentre nel periodo compreso tra il 2007 e il 2011 paesi come Portogallo, Germania, Belgio, Croazia, Francia, Ungaria, Austria, Danimarca, Olanda e Regno Unito hanno visto un miglioramento, l’Italia non ha seguito lo stesso trend14.
13 EVCA Handbook, Professional Standards for the Private Equity and Venture Capital Industry, January 2012
14 Groh A., Liechtenstein H., Lieser K., “Global Venture Capital Country Attractiveness Index Study 2009-‐2010”, 2011
Non è compito di questo elaborato analizzare nello specifico gli indicatori precedentemente elencati, tuttavia è evidente come il nostro Paese registri consistenti deficit per ogni singolo indicatore di attrattività, e in particolare come la cultura imprenditoriale e la tassazione siano probabilmente quelli più dannosi.
L'attività di fundraising tuttavia non si limita a questi fattori. Infatti la reputazione e il brand delle società di private equity influenzano fortemente tale attività. Infatti, l’esperienza maturata, la dimensione del fondo e le competenze, unite alla forza negoziale, danno un vantaggio competitivo al soggetto che li possiede: devono quindi dimostrare un buon track record. Inoltre, una decisione di finanziamento da parte di un Limited Partner è anche influenzata dal modo in cui viene impostata la condivisione dei rendimenti tra i Limited Partners e i manager: esiste infatti competizione tra i fondi in base alle management fees applicate, all'hurdle rate, e alla priorità nella realizzazione dei rendimenti tra Limited Partners e manager.
Inoltre, gli investitori istituzionali possono essere affiancati dai gatekeepers, soggetti che forniscono l’attività di consulenza e l’accesso ai migliori fondi del mercato grazie al loro pluriennale rapporto con i fondi di private equity. I dati derivanti dallo studio, che annualmente svolge Deloitte15 sul sentiment del settore, confermano quanto appena esplicitato: i fattori più importanti per la determinazione della scelta di un fondo piuttosto che un altro sono la reputazione, prezzo e condizioni contrattuali offerte.
Infine, la fase di fundrasing può essere influenzata anche da fattori congiunturali. Infatti, aspettative di crescita dell’economia reale generalmente possono favorire il commitment degli investitori. Mentre una fase economica con bassi tassi di interesse, può essere favorevole per il finanziamento tramite buyout e quindi aumentare le opportunità di investimento.
Passando quindi alla fase operativa, l'attività inizia generalmente con la decisione di adottare o meno advisors locali: questa decisione è influenzata dalle dimensioni del fondo e dal livello di espansione che si vuole raggiungere. Successivamente c’è la fase vera e propria di raccolta che impegna il fondo per circa un anno.
In ambito europeo, le statistiche permettono di distinguere tra l'attività di fundraising svolta da fondi di venture capital, di buyout, e infine generalisti.
Per i primi, nel 2011, l'analisi evidenzia come le government agencies16
abbiano rappresentato la prima fonte di capitale (34%), seguita dagli individui privati (14,9%) e dagli investitori industriali (12,1%). Relativamente ai fondi di buyout, gli operatori che hanno erogato più risorse sempre nel 2011 sono stati fondi pensione (22,4%), le banche (17,5%), i fondi di fondi (16,8%), e i fondi sovrani17 (13,2%).
Infine i fondi generalisti hanno raccolto le proprie risorse principalmente dai family offices (34,1%), individui privati (25,6%), government agencies (12,7%) e banche (11,1%).
Si nota quindi una importante differenza tra i fondi generalisti e di venture capital e i fondi di buyout, relativamente all'origine dei finanziamenti, che probabilmente è dovuta alla diverse finalità che questi fondi perseguono. Rispetto alla provenienza geografica invece si nota che la maggior parte dei capitali (i valori dentro le parentesi si riferiscono al 2008), deriva dai paesi del Nord-‐Europa (Regno Unito, Irlanda, Francia, Benelux, Austria, Germania, Svizzera, Danimarca, Finlandia, Norvegia, e Svezia) che hanno prodotto il 47,9% (39,9%) della raccolta, mentre il Sud Europa ha registrato appena il 3,9% (3,3%). Infine al di fuori dell'Europa, il Nord America ha contribuito per il 20,3% (38,9%), l'Australia e l'Asia per il 14,7% (7,8%) e il resto del mondo per lo 0,1% (0,3%).
A livello europeo quindi i principali operatori che erogano capitali nell'attività di fundraising sono le government agencies, i fondi pensione e le banche. Tuttavia, i fondi di buyout hanno raccolto risorse da operatori che generalmente non risultano i protagonisti nel fundraising dei fondi di venture capital e generalisti. La motivazione può essere ricercata nella marcata differenza di queste tipologie di operazioni, che sarà in seguito analizzata. A livello di provenienza geografica dei capitali si nota che la fonte principale è rappresentata dai paesi del Nord-‐Europa e dagli Stati Uniti.
Per l'Italia è disponibile una statistica diversa che evidenzia la raccolta per tipologia di fonte. Questa mostra come i fondi di fondi abbiano rappresentato la prima fonte di capitale (34%), seguiti dalle banche (28%), dalle compagnie assicurative (15%) e dai fondi pensione (11%). Infine relativamente alla provenienza geografica dei capitali, risulta che la maggior parte dei fondi ha
16 Istituzioni o agenzie nazionali, regionali, ed europee per l'innovazione e lo sviluppo (includono le strutture come
l'EBRD o l'EIF)
avuto origine domestica (79%) mentre la componente estera ha registrato una quota del 21% della raccolta complessiva.
3. Il Processo di Investimento
Una volta terminata la fase di fundraising, lo step successivo è il processo di investimento. Come in precedenza evidenziato, “la regola base degli investimenti in venture capital e private equity è di realizzare rendimenti medi elevati in attività intrinsecamente ad alto rischio”18.
In seconda battuta, l’aspetto più importante da tenere in considerazione è la scelta del settore nel quale investire. In tal senso, risulta molto importante il cosiddetto market mapping: la creazione di un database di aziende di un certo settore che evidenzi i drivers macro e microeconomici. Tipicamente lo scopo di questa attività è quello di identificare le compagnie e i settori che hanno la crescita potenziale più consistente.
Ad esempio negli Stati Uniti il settore del venture capital ha cambiato spesso il focus di settore negli ultimi 20 anni: negli anni ’80 era il settore energetico, successivamente l’ingegneria genetica e infine internet. Ciò che accomunava queste scelte era il tasso di sviluppo elevato19.
Anche la specializzazione accresce la creazione di trattative. Uno studio del 2006 di Losson ha scoperto che il tasso di remunerazione dei fondi di private equity decresce con la diversificazione per paese, ma aumenta con la diversificazione tra attività. Il focus di settore è una strategia comune negli Stati Uniti e sta diventando prevalente anche tra gli investitori di private equity europei. Nello studio, ad opera di Ernst & Young, delle più grandi trattative del 2006 nel private equity, gli investitori americani riportavano che il focus di settore era un vantaggio in 2/3 dei loro deals. In Europa invece rappresentava un vantaggio nel 25% dei casi. E comunque, in entrambi i casi, queste trattative “sector-‐focused” avevano performance superiori alla media.
Altro fattore da tenere in considerazione è il timing, cioè la scelta della fase del ciclo di vita dell’impresa in cui entrare. Naturalmente la scelta è arbitraria e quindi l’investimento in un’azienda può essere effettuato in qualsiasi fase. Tuttavia si tende a escludere le fasi di consolidamento e maturità, e allo stesso tempo le fasi di start-‐up a causa dell’elevata incertezza sia tecnologica che di mercato. È quindi la fase intermedia la più interessante per gli investitori, anche se bisogna specificare che non è sempre uniforme e quindi si possono
18 Forestieri G., Corporate & Investment Banking, Egea, Milano, 2009
19 D. Teten, C. Farmer, “Where are the Deals? Private Equity and Venture Capital Funds’ Best Practices”, The Journal of
incontrare opportunità che presentano tassi di crescita crescenti oppure situazioni che si avviano verso la stabilizzazione.
Schematicamente la procedura di investimento si articola in una serie di stadi, e di seguito si cerca di tracciare un processo tipico di investimento.
La prima fase prende il nome di Deal Flow: consiste nella “capacità di generare un flusso continuo di opportunità di investimento di buona qualità”,20 ovvero il numero di opportunità di investimento disponibili. Infatti, in questa fase, il primo step è l’individuazione dell’impresa target, che in Italia, risulta più complicato rispetto a mercati più evoluti come Gran Bretagna e Stati Uniti, a causa della scarsa conoscenza degli strumenti di private equity. Questo momento è anche molto importante e selettivo, dato che circa meno del 5% dei business plan ricevuti dai fondi di private equity si traducono nella scelta di investimento nell'impresa target21. Il business plan riveste quindi un ruolo altamente importante ed è il principale strumento utilizzato dall'investitore per valutare le prospettive del business. Infatti, costringe i team manager a fissare i loro obiettivi, a fare delle previsioni sulle performance attese e strutturare il business model che useranno. Il vero tratto distintivo per un'impresa che desidera entrare in un progetto di private equity è quindi e la prospettiva di produrre rendimenti maggiori di quelli che si possono realizzare attraverso investimenti in società quotate22.
Dal momento che le società di private equity ricevono centinaia di business plan ogni anno, la società target dovrà convincere quindi gli investitori sulla bontà delle prospettive del proprio business.
Se il business plan, viene ritenuto valido si passa alla fase della due diligence e valutazione, considerata dai gestori di private equity il fattore determinante delle performance dei private equity. Essi infatti dedicheranno tempo e risorse in questo processo, aiutati da avvocati, consulenti tributari, revisori contabili, esperti in assicurazioni e rischio, con lo scopo di definire un valore dell’impresa accettabile come prezzo per chiudere la negoziazione.
La fase successiva viene definita Deal structuring e comprende la stipulazione di clausole contrattuali volte a regolare il rapporto tra il fondo investitore e la società partecipata. È fondamentale dal momento che la struttura contrattuale
20 Forestieri G., Corporate & Investment Banking, Egea, Milano, 2009 21 EVCA, Barometer September 2007
22 Gervasoni A., Donadonibus J., Papilj P., “Caratteristiche strutturali ed operative dei fondi paneuropei di investimento