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Declinazioni del trauma e della violenza in letteratura: un percorso attraverso Kazuo Ishiguro, Margaret Atwood e J.M. Coetzee

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(1)

DIPARTIMENTO DI

FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA

CORSO DI LAUREA IN LETTERATURE E FILOLOGIE

EUROAMERICANE

TESI DI LAUREA

Declinazioni del trauma e della violenza in letteratura: un percorso

attraverso Kazuo Ishiguro, Margaret Atwood e J.M. Coetzee

CANDIDATO

RELATORE

Ilaria Coppini

Chiar.ma Prof.ssa Laura Giovannelli

(2)

1

Perdersi nelle pagine di un libro, nelle ricostuzioni labirintiche di Antonio Tabucchi, nello spessore dei personaggi di Ian McEwan, nella forza rivoluzionaria dei protagonisti di Margaret Atwood. Nei meandri dell’umanità delle parole di David Grossman, nella patina così falsamente leggera delle pagine di Gustave Flaubert, nel lucido delirio di António Lobo Antunes. La follia grottesca di Irvine Welsh, la solennità di William Shakespeare, la potenza malinconica di Virginia Woolf. Grazie a loro, come a molti altri, oggi mi emoziono ancora nel leggere. A chi, nel corso degli anni, mi ha sempre sostenuto, con puro e incondizionato affetto,

nonostante tutto, sia con gesti che parole. A chi non è più al mio fianco, il cui ricordo coltivo ogni singolo giorno. “From this new and intimate perspective, she learned a simple, obvious thing that she had always known, and everyone knew: that a person is, among all else, a material thing, easily torn, not easily mended”. Ian McEwan, Atonement (2001)

(3)

2

INDICE

INTRODUZIONE ... 4

C

APITOLO

I ... 10

T

RAUMA

:

NASCITA DEL CONCETTO

,

SVILUPPO STORICO E LETTERARIO

... 10

1. Il trauma in psicologia e nella psicoanalisi ... 10

2. Sigmund Freud: l’ipnosi, le libere associazioni, le nevrosi traumatiche, la coazione a ripetere ... 16

3. Shell shock e nevrosi traumatica a cavallo tra le due Guerre ... 20

4. Lo stress post-traumatico nella seconda metà del Novecento ... 22

5. Il trauma in letteratura ... 24

C

APITOLO

II ... 39

K

AZUO

I

SHIGURO

:

UN CRAFTSMAN MODERATO

... 39

1. Cenni biografici e stilistici ... 39

2. Aspetti del macrotesto di Kazuo Ishiguro ... 42

C

APITOLO

III ... 52

N

EVER

L

ET

M

E

G

O: UN RACCONTO DI LOSS

,

MEMORY

,

REGRET ... 52

1. Genesi del romanzo e impostazione ... 54

2. La ricostruzione memoriale di Kathy H.: “to look in the past in the light of later events” 57 3. Kathy H. e il passaggio dall’acting out al working through... 63

4. Una vita negata: il “Concertina Effect” ... 65

5. Never Let Me Go: limiti e rivisitazione del Bildungsroman ... 69

6. “No desire to escape” ... 74

7. Il “Gift exchange” e la “Commodification” ... 77

C

APITOLO

IV ... 80

M

ARGARET

A

TWOOD

:

“A

PUBLIC FACE

,

A FACE WORTH DEFACING

”... 80

(4)

3

2. Il macrotesto di Margaret Atwood ... 92

C

APITOLO

V ... 114

T

HE

H

ANDMAID

S

T

ALE:

“A

LL OF IT IS A RECONSTRUCTION

” ... 114

1. La genesi del romanzo ... 114

2. The Handmaid’s Tale: “I’m sorry there is so much pain in this story” ... 124

3. “Double temporality” e reiterazione traumatica in The Handmaid’s Tale ... 131

4. “Telling as an Act of Bearing Witness”: le teorie di Dori Laub e la valenza del processo narrativo in The Handmaid’s Tale ... 133

5. Ritualizzazione della violenza e strategie di controllo: Ceremony, Prayvaganza, Salvaging, Particicution ... 137

C

APITOLO

VI ... 144

J

OHN

M

AXWELL

C

OETZEE

:

“H

ISTORY NEVER EMBRACES MORE THAN A SMALL PART OF REALITY

” ... 144

1. Biografia e cenni sullo stile ... 144

2. Osservazioni sul macrotesto di J.M. Coetzee ... 154

C

APITOLO

VII ... 167

D

USKLANDS:

“I

HAVE HIGH HOPES OF FINDING WHOSE FAULT

I

AM

” ... 167

1. Dusklands: la genesi dell’opera ... 167

2. Dusklands: “The dark self sickens the bright self with doubts and qualms” ... 175

3. Le teorie di Dominick LaCapra e la manifestazione traumatica: acting out e working through in “The Vietnam Project” ... 186

4. La violenza in Dusklands: fantasie sadomasochistiche di auto-affermazione ... 191

C

ONCLUSIONI

... 199

(5)

4

INTRODUZIONE

The doctor said an anti-psychotic might help me forget what the trauma said. The trauma said, “Don’t write these poems. Nobody wants to hear you cry about the grief inside your bones.” But my bones said, “Tyler Clementi jumped from the George Washington Bridge into the Hudson River convinced he was entirely alone.” My bones said, “Write the poems.” Andrea Gibson, The Madness Vase1

La prima accezione del termine “trauma” si riferisce alla ferita fisica, inflitta al corpo da un qualsiasi agente in grado di recare danno in maniera rapida e improvvisa. Solo a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, il vocabolo ha iniziato ad acquisire un significato in ambito psichico, andando ad indicare la vessazione subita da un individuo in seguito al contatto con uno stimolo invasivo e lacerante.

Secondo lo psicoterapeuta Carlo Bonomi, la storia delle teorie moderne sul trauma psichico può essere suddivisa in tre fasi fondamentali, come egli illustra nella sua “Introduzione storica all’idea di trauma psichico”2: il primo momento corre parallelamente

1 Andrea Gibson è un poeta e attivista americano originario di Calais, Maine, nato nel 1975, da Mark e Shirley

Gibson. In seguito agli studi condotti in istituti religiosi di stampo battista, Gibson si trasferì nel 1999 a Boulder, Colorado, dove partecipò ad un’iniziativa culturale rivolta ai giovani scrittori: da qui nacque il suo desiderio di intraprendere la carriera letteraria. In quanto attivista per i diritti della comunità LGBT e da sempre sostenitore della parità di genere, Gibson ha riversato questo suo interesse nella poesia. Come ha affermato egli stesso, “I don't necessarily identify within a gender binary. I've never in my life really felt like a woman and I've certainly never felt like a man. I look at gender on a spectrum and I feel somewhere on that spectrum that's not landing on either side of that." Vincitore di alcuni noti concorsi di poesia, tra cui ricordiamo il Denver Grand Slam, lo scrittore si classificò terzo nel 2006 e nel 2007 all’Individual Poetry Slam. Nel 2008, Gibson si è aggiudicato il premio Women of the World Poetry Slam, l’unico uomo ad aver mai vinto in questo concorso. Tra le sue opere più famose si menzionano Pole Dancing To Gospel Hymns (2009) e altri quattro romanzi autofinanziati: Trees that Grow in

Cemeteries, Yellow Bird, What the Yarn Knows of Sweaters e Pansy. Nel 2011, la Write Bloody Publishing ha

pubblicato la sua opera più famosa, The Madness Vase. Alcuni dei suoi scritti, inoltre, sono diventati parte integrante della sua attività di musicista, altra grande passione coltivata da Gibson, che ha all’attivo sette dischi. Tig Notaro, “The Pioneering Poet”, Interview Magazine, April 22, 2015,

https://www.interviewmagazine.com/culture/andrea-gibson [consultato in data 16/04/2018].

2 Carlo Bonomi, “Introduzione storica all’idea di trauma psichico”, intervento letto in occasione della

presentazione del Centro di Psicotraumatologia, Firenze, Chiostro del Maglio, 19 maggio 2001,

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5

alla nascita e al tramonto del concetto di “nevrosi traumatica” (1870-1920 circa); nella seconda fase, invece, gli specialisti del settore si impegnarono a ridefinire alcuni risvolti e problematiche, a cavallo fra il XIX e il XX secolo. In questo periodo, i grandi nomi della psicologia e della psichiatria, tuttora capisaldi della disciplina, quali Jean-Martin Charcot, Pierre Janet e Sigmund Freud, misero a fuoco quanto la mente umana portasse con sé una traccia dell’evento traumatico, nonostante gli estenuanti tentativi della psiche del soggetto traumatizzato di negarli e relegarli in un angolo recondito. La terza e ultima fase vede la re-introduzione del concetto di trauma psichico, a partire dal 1980, anno in cui la American

Psychiatric Association riconobbe ufficialmente la patologia nota come PTSD, Post-Traumatic Stress Disorder.

In seguito, studiosi provenienti da ambiti variegati si sono interessati al concetto di trauma, in particolare alla luce delle realtà che le convergenze storiche novecentesche hanno presentato agli occhi del mondo, come ad esempio i conflitti mondiali e gli stermini di massa, che hanno lacerato le coscienze e plasmato la sensibilità degli individui.

Ed è proprio in questo contesto che, nel Novecento e nel nuovo millennio, assistiamo al crescente interesse dell’ambito critico nei confronti del tema del trauma, che convergerà nei cosiddetti Trauma Studies. È convinzione di questa branca della critica letteraria e antropologico-culturale, difatti, che la letteratura si porga come veicolo privilegiato per mettere a fuoco eventi che la mente traumatizzata non riuscirebbe altrimenti a far emergere. Tra gli esponenti di spicco dei Trauma Studies troviamo la docente universitaria Cathy Caruth, che, nel volume Unclaimed Experience. Trauma, Narrative, and History (1996), fonda le sue teorie sulla convinzione che la letteratura, allo stesso modo della psicoanalisi, riesca a potenziare la complessa relazione che intercorre fra il dicibile e l’indicibile3. Tra gli altri teorici del trauma, che hanno contribuito allo sviluppo della disciplina, troviamo studiosi e interpreti provenienti da ambiti distinti, come per esempio lo psicanalista di origini rumene, naturalizzato americano, Dori Laub, il cui lavoro a fianco dell’accademica statunitense Shoshana Felman circa i processi di testimonianza ha trovato esplicazione in Testimony. Crises of Witnessing in Literature, Psychology and History (1991); lo storico, umanista e accademico Dominick LaCapra, che ha coniato due concetti chiave delle teorie sul trauma, acting out e working through, trattati nel saggio Writing

df&ved=0ahUKEwjck4v13b3XAhWO26QKHUZBBxcQFggcMAA&usg=AOvVaw2wrAQMQ6uYNzC-EceuOshu [consultato in data 15/10/2017].

3 “And it is, indeed at the specific point at which knowing and not knowing intersect that the language of literature

and the psychoanalytic theory of traumatic experience precisely meet”, Cathy Caruth, Unclaimed Experience:

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6

History, Writing Trauma (2001); l’accademica britannica Anne Whitehead, a cui si deve la

definizione di Trauma fiction.

Alle teorie sopracitate, illustrate nel Capitolo I di questo lavoro, ci si richiamerà nell’analisi di tre opere di autori contemporanei anglofoni: Kazuo Ishiguro, Margaret Atwood e J.M. Coetzee, nei cui romanzi vari tipi di trauma, collettivo o meno, relativo al passato o immaginabile in un prossimo futuro, acquisiscono rilievo.

Il primo autore a cui farà riferimento questo lavoro è Kazuo Ishiguro, scrittore nato a Nagasaki nel 1954 e naturalizzato britannico, in seguito al trasferimento in Inghilterra della famiglia per motivi lavorativi. Nel Capitolo II, verrà delineato il profilo dello scrittore, il cui stile si caratterizza per una “ethics of empathy” peculiare, poco “chiassosa” ma profonda. Inoltre, si farà cenno al macrotesto dello scrittore, composto da soli otto romanzi, le cui due pietre miliari sono The Remains of the Day (1989), vincitore del Booker Prize sui cui si basa il film omonimo del 1993 con Anthony Hopkins e Emma Thompson, e Never

Let Me Go (2005), anch’esso ispiratore di una trasposizione cinematografica, nel 2010, per

la regia del britannico Joe Wright.

Quest’ultimo romanzo, di difficile classificazione, è oggetto d’analisi del Capitolo III, in cui si osserverà come esso rientri in una categoria “that meshes the science fiction and dystopian genres”4, secondo le parole dello studioso Barry Lewis. Never Let Me Go è ambientato in un’Inghilterra semi-reale nella seconda metà del XX secolo, in cui lo sviluppo scientifico post-bellico avrebbe rivolto il suo interesse principalmente alle tecnologie biogenetiche. Vengono così fondati istituti finalizzati a creare e mantenere in salute cloni umani, utilizzati come ricettacolo di organi per pazienti “normali”, ma malati. Protagonisti del romanzo sono per l’appunto tre di questi cloni, Kathy H., Tommy e Ruth, il cui percorso memoriale è ricostruito dalla prima: ormai giunta alla fine del suo ciclo vitale, costretta ad iniziare il percorso delle “donazioni”, Kathy vuole scandagliare il passato per comprendere le dinamiche del presente, al fine di dare un senso alla sua vita e alla sua identità. Applicando le teorie di Dominick LaCapra circa i concetti di acting out e working through, si analizzerà la valenza catartica della ricostruzione memoriale, capace di indicare una via d’uscita dalla ripetizione delle circostanze traumatiche che incombono sui cloni. Questi ultimi sono costretti a fare i conti con un lasso di tempo ristretto a loro concesso, con un’esistenza che risulta “concertina-ed”, per utilizzare l’espressione coniata da Barry Lewis e Sebastian Groes in Kazuo Ishiguro: New Critical Visions of the Novels (2011). Di qui la

4 Barry Lewis, “The Concertina Effect: Unfolding Kazuo Ishiguro’s Never Let Me Go”, in Sebastian Groes and

Barry Lewis (eds.), Kazuo Ishiguro: New Critical Visions of the Novels, Palgrave Macmillan, London, 2011, p. 200.

(8)

7

Bildung atipica dei cloni, il cui unico percorso di crescita possibile consiste nel donare i

propri organi vitali e continuare il loro “sviluppo” in un corpo altrui. Infine, si farà riferimento a due concetti introdotti nell’ambito degli studi economici, ovvero il “gift exchange” e la “commodification”, mostrando come nel romanzo di Ishiguro i donatori incarnino una contraddizione in termini, in quanto sono obbligati a compiere un atto che dovrebbe essere spontaneo: il loro corpo è in realtà una commodity.

Nel Capitolo IV si analizzerà il percorso biografico e il macrotesto di una delle scrittrici canadesi più famose a livello internazionale, Margaret Atwood. Donna decisa, impegnata a livello sociale e politico, la scrittrice ha al suo attivo un macrotesto ampio, variegato, in cui si è cimentata in generi e forme letterarie di varia impostazione, spaziando dalla poesia al romanzo e alla saggistica. Tenendo sempre presente la necessità di un affinamento del linguaggio, che deve coinvolgere il pubblico ma anche spingerlo alla riflessione, Atwood ha attinto ad uno spettro tematico ampio, spaziando dalla relazione tra uomo e donna alla rappresentazione della vita della donna e del rapporto con la fisicità femminile. Importanti risultano poi la costruzione dell’identità, compresa quella nazionale e cosa significhi “essere canadese”; i rapporti fra il Canada e il mondo, e in particolare la conflittualità col mondo statunitense; il rispetto dei diritti civili ed umani; l’interesse per l’ambiente e i timori legati al fenomeno del global warming; l’inquinamento e lo sviluppo biotecnologico. Potenziando anche l’aspetto dell’intertestualità, la Atwood ha tracciato i contorni, nel corso della sua lunga e prolifica carriera, di un macrotesto in grado di esplorare e illustrare la complessità e le idiosincrasie della natura umana, al di là di ogni generalizzazione. Per quanto la scrittrice sia spinta da un desiderio di profonda analisi e ricerca, riesce a stimolare la riflessione senza tralasciare l’aspetto comunicativo.

Nel Capitolo V si analizzerà uno dei romanzi più famosi ascrivibili al macrotesto atwoodiano, The Handmaid’s Tale (1985), attualmente tornato in voga tra il grande pubblico grazie ad una trasposizione televisiva di successo lanciata dal canale televisivo Hulu e vincitrice di prestigiosi premi, quali due Emmy Awards. Si descriverà il processo di genesi del romanzo, strettamente legato a esperienze di vita di Margaret Atwood, in particolare il periodo degli studi americani, fase formativa e influente nella sua narrativa. Successivamente si darà rilievo ad un’indagine sulla double temporality rintracciabile nel resoconto-confessione di Offred, la protagonista. Secondo Cathy Caruth, difatti, questa sarebbe una fenomenologia tipica della psiche del soggetto traumatizzato, che, per difendersi dal confronto con il dolore, dilata lo scarto temporale esistente tra la percezione del trauma e la sua “integrazione”. Tipica di questo processo sarebbe l’eliminazione di precise coordinate temporali nei resoconti del soggetto traumatizzato, tendenza che è

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8

evidentemente presente nel racconto di Offred in quanto soggetto vessato e ferito. Si analizzerà poi il processo di testimonianza, con richiamo alle argomentazioni di Dori Laub e Shoshana Felman in Testimony. Crises of Witnessing in Literature, Psychoanalysis and

History (1992): in The Handmaid’s Tale la testimonianza assume un ruolo di grande rilievo

poiché si erge a veicolo dell’integrazione traumatica da parte della protagonista (tuttavia, ne verrà illustrato anche un esempio in cui il processo è messo in crisi). L’ultimo paragrafo del capitolo è dedicato a un’analisi dei riti sociali vigenti nella Repubblica di Gilead, solita esercitare il controllo sui cittadini attraverso metodi intimidatori e violenti come esecuzioni pubbliche o la ritualizzazione della violenza sessuale, con una rilettura perversa delle Sacre Scritture.

Protagonista del Capitolo VI è il terzo ed ultimo autore indagato in questo elaborato: lo scrittore sudafricano di nascita, cittadino australiano per scelta, John Maxwell Coetzee. Figura da sempre avversa alle categorizzazioni, Coetzee riconosce la funzione intellettuale dello scrittore, che tuttavia a suo avviso non deve essere necessariamente incasellato in una categoria o in un ruolo. In questo modo, la componente immaginativa e allegorica ha la possibilità di spaziare e toccare tematiche profonde, con uno stile che spesso si allontana dalle coordinate del realismo mimetico. Dopo alcuni cenni della vita e alla formazione dello scrittore, si passerà ad un breve excursus del suo macrotesto narrativo, composto da diciassette romanzi. Autore di grandi opere quali In the Heart of the Country (1976),

Waiting for the Barbarians (1980), Foe (1986) e Elizabeth Costello (2003), la carriera di

Coetzee è costellata di premi prestigiosi, il cui culmine è stato, nel 2003, il conferimento del Premio Nobel per la Letteratura.

Nel Capitolo VII si analizzerà il romanzo che ha dato l’abbrivio alla carriera di Coetzee, ossia Dusklands (1974), opera dalla struttura bipartita che fornisce un quadro amaro di due momenti distinti della storia coloniale, illustrandone la genesi e la lotta per la conservazione del potere. L’opera è divisa in due parti, intitolate “The Vietnam Project” e “The Narrative of Jacobus Coetzee”, le quali hanno come protagonisti, rispettivamente, il mitografo e analista della retorica di propaganda statunitense Eugene Dawn, a cui le autorità governative hanno affidato il compito di ideare una strategia vincente per le ultime fasi della guerra in Vietnam, e Jacobus Cotzee, un esploratore settecentesco olandese delle terre africane, presumibilmente antenato dello scrittore stesso, che ricostruisce le esperienze che questi avrebbe vissuto con i nativi incontrati durante una spedizione nella terra della tribù Nama.

Traendo spunto dalle teorie di Dominick LaCapra, si analizzeranno le esternazioni dell’acting out e del working through di Eugene Dawn, la cui mente vessata, poiché a stretto

(10)

9

contatto con esperienze traumatiche, lo getterà in una spirale di follia che lo condurrà ad un gesto estremo, dilatando l’acting out e bloccando il percorso di un redentore working

through. Infine, verranno analizzate le fantasie sadiche e masochiste che popolano la mente

dei protagonisti delle due sezioni che compongono Dusklands, con richiami alle riflessioni di Rosemary Jane Jolly in Colonization, Violence and Narration in White South African

(11)

10

C

APITOLO

I

T

RAUMA

:

NASCITA DEL CONCETTO

,

SVILUPPO STORICO E

LETTERARIO

1. I

L TRAUMA IN PSICOLOGIA E NELLA PSICOANALISI

Il termine “trauma” deriva dal greco antico traumatismos, traducibile con ferire, e dal sostantivo trõma, ovvero ferita, danno. La radice trõ, inoltre, è riconducibile all’atto del forare, perforare, e collega il sostantivo ad un tipo di lesione provocata da un agente capace d’esercitare un impatto improvviso, rapido e violento5. È evidente, quindi, che le prime accezioni del termine “trauma” fanno riferimento ad una ferita a livello fisico, nell’ottica medica della definizione. Il termine ha acquisito valenze correlate anche a un livello psichico solo successivamente, a partire dalla seconda metà del XVIII secolo: da questo momento in poi, il termine è stato usato per indicare la vessazione subita da un soggetto in seguito ad uno stimolo eccessivo e sproporzionato. Dopo il configurarsi della doppia valenza del lessema “trauma”, sia a livello fisico che mentale, e del suo impatto devastante sulla vita quotidiana dell’individuo6, per molto tempo lo studio inerente quest’ambito non ha avuto ulteriori sviluppi decisivi, finché le convergenze storiche non hanno riportato alla luce le riflessioni del caso.

In un contributo intitolato “Introduzione storica all’idea di trauma psichico”, Carlo Bonomi ha individuato nel pensiero sul trauma psichico tre fasi: la prima coincide con la nascita e il tramonto del concetto di “nevrosi traumatica”, coprendo un periodo che si estende all’incirca dal 1870 al 1920; la seconda fase, invece, vede gli specialisti impegnati a ridefinire alcuni concetti e problematiche; la terza fase re-introduce il concetto di trauma psichico, a partire dal 1980, anno in cui la American Psychiatric Association rese ufficiale il fenomeno del PTSD, Post-Traumatic Stress Disorder7. All’interno di questa categoria diagnostica sono stati inseriti, dal quel momento, i sintomi che costituiscono una risposta a catastrofi umane e naturali e che convergono nella sindrome da shell shock, nella CSR

5 AA. VV., Vocabolario della lingua italiana, Volume IV, Arti Grafiche Ricordi, Milano 1994, p. 944.

6 “Something alien breaks in on you, smashing through whatever barriers your mind has set up […]. It invades

you, takes you over, becomes a dominating feature of your interior landscapes- “possess you […], and in the process, threatens to drain you and leave you empty”, Kai Erikson, “Notes on Trauma and Community”, in Cathy Caruth, Trauma: Explorations in Memory, The Johns Hopkins University Press, Baltimore, 1995, p. 183.

7 Carlo Bonomi, “Introduzione storica all’idea di trauma psichico”, intervento letto in occasione della

presentazione del Centro di Psicotraumatologia, Firenze, Chiostro del Maglio, 19 maggio 2001,

https://www.google.it/url?sa=t&source=web&rct=http://carlobonomi.it/files/introduzione_al_trauma_psichico.p df&ved=0ahUKEwjck4v13b3XAhWO26QKHUZBBxcQFggcMAA&usg=AOvVaw2wrAQMQ6uYNzC-EceuOshu [consultato in data 15/10/2017].

(12)

11

(Combat Stress Reaction)8, nel PTSD a effetto ritardato e nella nevrosi traumatica. In seguito, tra i fattori di stress sono stati individuati anche eventi specifici e più incisivi a livello personale, quali lo stupro e gli abusi sessuali subiti in età adulta o durante l’infanzia. A partire dal 1980, molti ambiti disciplinari si sono interessati al concetto di trauma, realtà ormai difficile da ignorare nella società del XX secolo. Soprattutto in questo secolo, difatti, si è assistito ad eventi traumatici su scala globale, quali i due conflitti mondiali e gli stermini di massa, che hanno sicuramente contribuito a sensibilizzare sulla portata e sulle risonanze di tali stravolgimenti.

Anche in ambito critico-letterario, assistiamo nella seconda metà del Novecento al consolidarsi di approcci di indagine chiamati Trauma Studies, al cui interno si delinea un dialogo tra il trauma e la rappresentazione letteraria: la letteratura, infatti, riuscirebbe a dare voce a ciò che per la mente umana traumatizzata è intollerabile e inesprimibile. Nel saggio

Unclaimed Experience. Trauma, Narrative, and History (1996), Cathy Caruth, docente alla

Cornell University e voce importante nell’ambito dei Trauma Studies, si appella a Sigmund Freud per ricordare che la letteratura, così come la psicoanalisi, si confronta con la complessa relazione che intercorre fra il dicibile e l’indicibile9; per questo motivo, la letteratura offre strumenti adatti, per dar voce e spessore a eventi traumatici. Lo sviluppo dei Trauma Studies si è senza dubbio affinato nel corso del ventunesimo secolo, sul quale gravano minacce come gli attentati terroristici su scala globale, l’intolleranza, le rivendicazioni nazionalistiche, l’aumento delle aggressioni ai danni dei soggetti più deboli.

JEAN-MARTIN CHARCOT E PIERRE JANET

Quella che possiamo definire “rivoluzione” circa lo studio del trauma e dei suoi effetti sulla psiche si situa a cavallo fra il XIX e il XX secolo, periodo cruciale in cui si mise a fuoco quanto la mente umana portasse con sé una traccia dell’evento traumatico, per quanto lo si volesse negare e relegare in un luogo inaccessibile alla coscienza. A far luce su tali argomenti sono stati tre grandi esploratori della fenomenologia della mente umana, nonché padri delle teorie che avrebbero costituito i pilastri della psichiatria odierna: Jean-Martin Charcot, Pierre Janet e Sigmund Freud.

8 “Combat stress reaction, or CSR, is a term used within the military to describe acute behavioral disorganization

seen by medical personnel as a direct result of the trauma of war. Also known as ‘combat fatigue’ or ‘battle neurosis’, […]. It is historically linked to shell shock and can sometimes precurse post-traumatic stress disorder”, C.M. Izania, J. E. Driskell, et al., “Effects of Preparatory Information on Enhancing Performance Under Stress”,

Journal of Applied Psychology, n. 81, August 1996, pp. 429-435.

9 “And it is, indeed at the specific point at which knowing and not knowing intersect that the language of literature

and the psychoanalytic theory of traumatic experience precisely meet”, Cathy Caruth, Unclaimed Experience:

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12

Jean-Martin Charcot (1825-1893) si può definire come uno dei più grandi neurologi moderni, i cui studi condotti presso l’ospedale Salpêtriere di Parigi hanno avuto un rilevante impatto sul trattamento dei disturbi neuropsichiatrici. Saranno proprio i suoi studi sull’isteria ad aprire un varco a Sigmund Freud, suo discepolo presso l’ospedale parigino. L’ospedale di Salpêtriere si presentava come un ambiente frequentato da un gruppo di pazienti alquanto variegato: al suo interno, difatti, circolavano criminali violenti, donne afflitte da sintomi isterici e individui il cui comportamento assomigliava ad un tipo di possessione demoniaca. Charcot entrò qui come medico nel 1862, e gli venne affidato il reparto delle donne vittime di convulsioni. Al suo interno vi erano confluite sia le pazienti affette da isteria, sia quelle colpite da epilessia, vista la somiglianza fra i sintomi e le manifestazioni delle due patologie10. Tuttavia, Charcot, sulla base di attente osservazioni, ritenne che i due tipi di pazienti dovessero essere necessariamente divisi poiché la natura stessa delle due patologie era profondamente differente: egli riteneva cioè che le cause alla base dell’isteria non fossero un disagio fisico, bensì di natura psicologica, mentre le molle scatenanti dell’epilessia riconducevano ad un problema a livello fisiologico. Risulta evidente, quindi, che l’interesse di Charcot era rivolto alle cause che scatenano i sintomi, e durante il suo operato presso il Salpêtriere ebbe modo di raccogliere abbondante materiale per le sue ricerche.

Nel periodo in cui si collocano i suoi studi, l’isteria era associata esclusivamente a pazienti di sesso femminile, vista l’origine etimologica del termine11: le cause della patologia venivano rintracciate in una “debolezza” a livello genetico nelle donne, e per questo motivo si escludeva categoricamente la possibilità che un paziente di sesso maschile presentasse un tipo di sintomatologia corrispondente a quella dell’isteria. Già dagli anni '50 del XIX secolo, Charcot si era dedicato a degli studi volti a smentire tale teoria, analizzando sei casi di isteria maschile: i risultati di tali studi vennero raccolti e pubblicati in Leçons sur

les maladies du système nerveux (1881). In questo studio, Charcot raccolse testimonianze

in difesa della sua ipotesi: secondo il neurologo, difatti, i pazienti di sesso maschile coinvolti presentavano una serie di sintomi correlati ad eventi traumatici, come per esempio incidenti avvenuti nelle fabbriche o ferroviari. In particolare, i reduci di incidenti ferroviari presentavano la railway spine syndrome, concetto coniato dal chirurgo inglese John

10 Alcuni sintomi che possono accumunare le due patologie sono la paralisi o anomale contrazioni muscolari. 11 “Il termine isteria deriva dal greco antico ed è traducibile come ‘utero’, per questo la patologia veniva definita

di pertinenza esclusivamente col sesso femminile”, AA. VV., Vocabolario della Lingua Italiana, Volume IV, Arti Grafiche Ricordi, Milano, 1994, p. 1009.

(14)

13

Erichsen (1818- 1896)12. Ciò che poteva trarre in inganno, secondo Charcot, era il fatto che i sintomi nell’uomo fossero difficili da disambiguare e risultassero quindi più immediatamente riconducibili a malattie organiche, data la loro natura più persistente e stabilizzata rispetto ai sintomi che affioravano nelle donne. Ad ogni modo, in entrambi i casi sarebbero prevalse cause psicologiche, non fisiologiche.

Nei suoi studi, Charcot notò inoltre che anche incidenti di minore portata potessero dare origine a gravi contratture, forme di paralisi, stati confusionali o amnesie di vario livello e grado. Fino ad allora, si pensava che il disordine funzionale avesse origine dalla ferita fisica, diffondendosi poi attraverso il sistema nervoso fino a tradursi in manifestazioni organiche. Charcot notò però che le contratture e le paralisi non potevano essere spiegate seguendo solo le reti dei nervi presenti nel corpo umano: in sostanza, non poteva trattarsi di una mera disfunzione fisiologica scaturita da una ferita fisica, quanto di sintomi isterici, di “paralisi psichiche”. Scopo di Charcot non era quello di sottovalutare in qualche modo il disagio della sintomatologia; anzi, egli voleva conferire uno statuto clinico all’isteria e alla paralisi, al fine di considerarle malattie a tutti gli effetti:

[…] I do not say imaginary paralyses, for indeed these motor paralyses of psychical origin are as objectively real as those depending on an organic lesion.13

In linea con tali affermazioni, egli si soffermò sulla sensazione di paura provata al momento di un incidente o di un’esperienza traumatica, come per esempio un abuso sessuale. È in queste reazioni emotive che egli collocò l’origine dei sintomi nevrotici e isterici:

Along with the injury, there is a factor which most probably plays a much more important part in the genesis of the symptoms than the wound itself. I allude to the fright experienced by the patient at the moment of the accident.14

Nonostante queste affermazioni, Charcot riteneva che ci fosse una sorta di predisposizione genetica ai sintomi isterici, una sorta di inclinazione ereditaria alla base del perché il vivere un’esperienza traumatica avesse potuto portare alla comparsa delle

12 Con l’introduzione di questo termine, Erichsen intese collegare le patologie nervose e psichiche dei passeggeri

vittime di incidenti ferroviari a lesioni organiche della spina dorsale. Erichsen, che non riusciva ancora a cogliere l’idea di una possibile sindrome psicopatologica alla base della sintomatologia, attribuì i sintomi dei pazienti alle lesioni fisiche riportate alla spina dorsale durante l’incidente. Nella “spina dorsale da ferrovia” (railway spine

syndrome), rientravano sintomi come stanchezza, ansia, disturbi del sonno, irritabilità, vertigini, vari tipi di paralisi

e vuoti di memoria. Sembra, in sostanza, evidente che Erichsen escludesse che un quadro sintomatologico del genere potesse essere ricondotto all’isteria.

13 Jean-Martin Charcot, Clinical Lectures on Diseases of the Nervous System (1889), cit. in Roger Luckhurst, The

Trauma Question, Routledge, New York, 2008, p. 35.

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14

manifestazioni fisiche sopra citate in alcuni soggetti, mentre altri sembravano uscirne incolumi. Charcot analizzava sempre la storia familiare dei pazienti, ed è proprio in questo materiale che trovò la conferma di quest’idea: facendo un controllo incrociato tra i sintomi presenti nel paziente di sesso maschile e manifestazioni simili a livello familiare, notò che c’era una corrispondenza, nel 70 % dei casi, fra madre e figlio. Si poteva quindi parlare di un’isteria ereditaria, insita nel patrimonio genetico, che poteva manifestarsi nel paziente maschile in seguito al coinvolgimento in un evento traumatico.

Per giungere a un’ulteriore conferma delle sue teorie, Charcot ricorse all’ipnosi15, in via sperimentale, nel tentativo di dimostrare come i sintomi isterici insiti nell’individuo potessero venire a galla se sottoposti a delle pressioni. Secondo il neurologo, infatti, solo i pazienti predisposti ad una dissociazione dell’apparato psichico avrebbero reagito all’ipnosi. Lo stato di trance così indotto era per Charcot molto simile a quello causato da uno shock nervoso: perciò le reazioni dei pazienti sottoposti ad ipnosi avrebbero aiutato a comprendere ciò che avviene nella psiche in seguito ad un trauma.

Sulla base delle sperimentazioni condotte da Charcot al Salpêtriere, furono molti gli studiosi a interessarsi al trauma psicologico. Tra i più degni di nota vi fu sicuramente Pierre Janet (1859-1947), le cui indagini hanno contribuito in maniera sostanziale allo sviluppo della teoria del trauma. Janet, così come il suo maestro, concentrò la sua ricerca sul processo di elaborazione dei ricordi, concentrandosi sui casi in cui la mente si rivela incapace di elaborarne alcuni: “how certain memories became obstacles that kept people from going on with their lives”16. Janet continuò inoltre a studiare il legame esistente tra sintomatologia isterica ed esperienze traumatiche, ritenendo che alla base dei sintomi nevrotici ci fossero emozioni ingestibili dalla mente umana colpita da eventi scioccanti17.

Basandosi precisamente sulle sue osservazioni cliniche, Janet sviluppò una teoria volta a spiegare gli effetti dei ricordi traumatici sulla coscienza. Nonostante i suoi studi fossero ben noti ai colleghi nella prima metà del XX secolo, Janet fu poi accantonato per

15 Il termine ipnosi deriva dal greco “hypnos”, traducibile come “sonno”, ed indica un fenomeno psicosomatico

che può essere generato tramite una suggestione prodotta da un’immagine o un suono che il soggetto percepisce a un alto livello di intensità. Esso coinvolge la dimensione fisica e psicologica. L’ipnosi può essere considerata una condizione molto simile al sonno, anche se provocata artificialmente da un operatore o dal soggetto stesso che, precipitando in uno stato di trance, è come privo di coscienza e volontà. Il termine fu introdotto nel lessico medico nella prima metà del XIX secolo da James Braid; sulla falsariga delle ricerche condotte da Franz Anton Mesmer, molti dei fenomeni che oggi ascriviamo a specifiche potenzialità dell’immaginazione smisero di essere considerati alla stregua di manifestazioni divine o diaboliche.

16 Bessel A. Van der Kolk, Onno Van der Hart, “The Intrusive Past: The Flexibility of Memory and The Engraving

of Trauma”, in Cathy Caruth, Trauma: Explorations in Memory, cit., p. 158.

17 “At the same time the psychologists and the psychiatrists around the turn of the century were fully aware that

some memories are not evanescent and that “certain happenings would leave indelible and distressing memories- memories to which the suffering was continually returning, and by which he was tormented by day and night”, Ivi.

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15

molto tempo, finché Henry Ellenberger recuperò l’eredità dello psicologo nel saggio The

Discovery of the Unconscious (1970):

For the past seventy-five years, psychoanalysis, the study of the repressed wishes and instincts, and descriptive psychiatry virtually ignored the fact that actual memories may form the nucleus of psychopathology and continue to exert their influence on current experience by means of the process of dissociation.18

Janet considerava la coscienza individuale e la memoria veicoli fondamentali per garantire l’integrità della psiche, quando nel soggetto permane la consapevolezza del passato unita a una percezione calibrata del presente e dell’ambiente circostante; tutto ciò garantirebbe la capacità di rispondere adeguatamente allo stress. Janet coniò il termine

subconscious per indicare quella serie di ricordi che vengono automaticamente “archiviati”

nella nostra mente e che servono come una mappa semi-visibile atta a guidarci nell’interazione con l’ambiente circostante. Sempre secondo Janet, il processo automatico che sintetizza e assimila stimoli esterni in schemi di comportamento e ricordi è così rapido che spesso risulta difficile analizzarne gli stadi, o il perché questi influiscano in un determinato modo sulla risposta dell’individuo. Nel momento in cui un soggetto interagisce con una nuova sollecitazione esterna, gli schemi mentali pre-esistenti integrano nuove informazioni, al fine di consentire di reagire al meglio nell’eventualità in cui si ripresentino stimoli della stessa natura. È a questo punto che Janet distingue il concetto di narrative

memory dall’integrazione automatica di nuove informazioni. Quest’ultima sarebbe

un’operazione di sintesi spontanea, comune all’uomo e all’animale; la narrative memory, invece, sarebbe una capacità prettamente umana e si fonderebbe su una serie di costrutti mentali elaborati per dare un senso alle esperienze vissute. Janet ritiene che la capacità di integrare l’esperienza in questi schemi sia proporzionale alla consapevolezza che l’individuo ha di ciò che sta accadendo19.

Può accadere, però, che il soggetto si trovi al cospetto di eventi totalmente destabilizzanti che non si inseriscono in nessun schema cognitivo conosciuto. Questo processo di mancato “inserimento” può portare all’impossibilità di ricordare chiaramente ciò che è accaduto, o l’evento può resistere all’integrazione, facendo sì che il ricordo venga archiviato in modo differente rispetto agli altri o in un luogo recondito della mente a cui non si può avere accesso in condizioni normali. L’esperienza viene quindi “dissociata” dalla

18 Bessel A. Van der Kolk, Onno Van der Hart, “The Intrusive Past: The Flexibility of Memory and The Engraving

of Trauma”, in Cathy Caruth, Trauma: Explorations in Memory, cit., p. 159.

19 “[…] familiar and expectable experiences are automatically assimilated without much conscious awareness of

details of the particulars”, Bessel A. Van der Kolk, Onno Van der Hart, “The Intrusive Past: The Flexibility of Memory and The Engraving of Trauma”, in Cathy Caruth, Trauma: Explorations in Memory, cit., p. 160.

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coscienza e dal controllo della mente. Così Janet arriva a definire il concetto di traumatic

memory:

It is only for convenience that we speak of it as a traumatic memory. The subject is often incapable of making the necessary narrative which we call memory regarding the event; and yet he remains confronted by a difficult situation in which he has not been able to play a satisfactory part, one to which his adaptation had been imperfect, so that he continues to make efforts at adaptation.20

La traumatic memory non si inserirebbe nel contesto quotidiano poiché necessita di un periodo molto lungo per l’integrazione, che invece avviene rapidamente nel caso della

narrative memory. La tramautic memory, inoltre, può essere richiamata in circostanze

particolari: un certo tipo di situazione attiverebbe il processo di reminiscenza, facendo emergere i dettagli del caso21.

La mancata integrazione di esperienze “estreme” culmina quindi nella dissociazione e, conseguentemente, nella formazione della “memoria” o “ricordo” traumatico. Janet ritiene che questi sprazzi di memoria dissociata incidano sulle idées fixes, un substrato cognitivo che influenza le percezioni e il comportamento. L’unico modo per accedervi sarebbe l’ipnosi. Durante i suoi studi, lo psicologo francese indicò quali fossero i sintomi presentati dagli individui nel momento in cui essi entravano in contatto con eventi capaci di stimolare il ricordo del trauma. Tra questi troviamo sensazioni fisiche di disagio, allucinazioni ed incubi terrificanti, spesso combinati tra loro. I ricordi affioranti dal subconscio assumerebbero il controllo e la psiche non riuscirebbe più a erigere barriere di difesa. Una conseguenza estrema di tale stato mentale è il disturbo della personalità multipla, in cui ogni singola idée fixe trova un suo sviluppo autonomo. In questi casi, il trauma impedisce al soggetto di assimilare correttamente qualsiasi tipo di esperienza, poiché la persona rimane “ancorata” ad uno schema deviante che ha ormai influito su ogni aspetto della sua vita.

S

IGMUND

F

REUD

:

L

IPNOSI

,

LE LIBERE ASSOCIAZIONI

,

LE NEVROSI TRAUMATICHE

,

LA COAZIONE A RIPETERE

I primi contatti fra Sigmund Freud (1856-1939) e Charcot ebbero inizio nel 1885, quando lo studioso austriaco giunse al Salpêtriere grazie ad una borsa di studio che gli consentì di frequentare le lezioni sull’isteria. In particolare, Freud rimase affascinato dall’impiego a cui Charcot sottopose l’ipnosi; per questo motivo, quando ritornò a Vienna, decise di prendere in cura pazienti affette da isteria in collaborazione col suo amico e collega

20 Ivi.

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17

Joseph Breuer (1842-1925). Frutto della collaborazione fra Freud e Breuer furono gli Studi

sull’isteria, redatti tra il 1892 e il 1895, in cui vennero raccolti i dati relativi all’esercizio

dell’ipnosi su vari pazienti isterici22.

Nel primo capitolo degli Studi sull’isteria, Freud e Breuer indagano il meccanismo psichico che sta alla base dei fenomeni isterici, confermando le precedenti teorie di Charcot e Janet: secondo i due psicologi austriaci, le manifestazioni isteriche sono strettamente legate ai ricordi traumatici che, inaccessibili per la coscienza, riescono ad emergere nel processo ipnotico. Mettere il soggetto nella condizione di accedere a tali ricordi, permettendogli quindi di organizzarli secondo gli schemi cognitivi della memoria narrativa, condurrebbe auspicabilmente alla scomparsa dei sintomi isterici. Il contrasto tra il normale assetto della coscienza e la dissociazione della psiche tipica dei pazienti isterici è riscontrabile nella quasi totalità dei casi clinici presi in esame dai due medici, cinque dei quali sono riportati nel secondo capitolo del volume. Analizzando questi casi, i due autori si allontanano dall’idea secondo la quale la sintomatologia isterica si presenterebbe solo in soggetti immaturi, suggestionabili e poco intelligenti23.

Dopo il caso ormai noto di Anna O.24, Freud decise di allontanarsi dall’utilizzo dell’ipnosi come trattamento dei sintomi isterici. Egli aveva notato che, nel momento in cui la paziente veniva sottoposta a queste pratiche, cadendo quindi in uno stato di trance, riusciva a risalire alle cause del trauma, senza però conservarne ricordo nel momento in cui

22 In questi scritti emerge l’influenza esercitata dagli studi di Janet su Freud e Breuer, in particolare circa i concetti

di dissociazione, memoria traumatica, formazione di ricordi ossessivi e idées fixes che sfociano poi in sintomi isterici.

23A smentire tale teoria fu in particolare il caso di Anna O., che presentava sintomi isterici pur essendo una giovane

donna “notevolmente intelligente, dotata di capacità di comprensione sorprendentemente rapida e di profonda intuizione”, Sigmund Freud, “Studi sull’isteria” (1895), in Opere 1886-1905, Newton Compton, Roma, 1992, p. 148.

24 Anna O. è lo pseudonimo attribuito a Bertha Pappenheim (1859-1936), paziente di Joseph Breuer e di Sigmund

Freud, che sottoposero la giovane donna all’ipnosi per curarne l’isteria. Bertha, avvenente e dotata di grandi doti intellettuali, aveva 21 anni all’epoca in cui si manifestarono in lei i primi sintomi, nel 1880, a seguito della malattia del padre, (un’infezione polmonare), sintomi che si acuirono dopo la morte di quest’ultimo. I sintomi consistevano in forti e repentini sbalzi d’umore seguiti in genere da una profonda depressione, strabismo, contratture muscolari, disfasia, allucinazioni, torpore, sonnambulismo e compresenza di due stati di coscienza distinti. La donna inoltre soleva rifugiarsi in una sorta di “teatro personale” in cui inscenava situazioni immaginarie, anche in presenza di altre persone. In seguito a queste “assenze diurne”, raccontava storie che si facevano sempre più angoscianti, a mano a mano che i sintomi peggioravano. A seguito della comparsa dell’astenia, che la costrinse a letto per molti mesi, Bertha si chiuse nel mutismo, che Breuer riuscì a rompere solo tramite l’ipnosi; in seguito la paziente presentò una sorta di disturbo disfasico particolare, dimenticandosi della lingua madre e parlando solo in inglese. Successivamente, iniziò a rifiutare il cibo e a volere la sola compagnia di Breuer, e le crisi di ansia e di aggressività peggiorarono. Così entrò in scena Freud, che applicò per la prima volta il metodo catartico, che consisteva nel far visita alla paziente di sera e, tramite ipnosi, farla parlare di ciò che era avvenuto dal loro ultimo incontro fino al momento. Fra la paziente e Breuer si instaurò quello che Freud definì “passione di transfert”, un meccanismo secondo il quale la paziente inizia a provare dei sentimenti per il medico. Spaventato da tali manifestazioni di affetto, che culminarono anche fisicamente in un parto isterico, frutto del desiderio di unirsi al medico (e forse di intrecciare una relazione incestuosa con il padre), Breuer abbandonò il caso. Alleviò comunque i sintomi tramite ipnosi, che sembrò essere il trattamento più efficace sulla paziente. Bertha risultò in remissione a cavallo tra il 1881 e il 1882, con ricadute negli anni successivi.

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18

ritornava ad uno stato cosciente. Alla ricerca di un nuovo metodo, Freud notò che il paziente affetto da isteria traeva beneficio dal parlare liberamente del suo stato d’animo e delle sue afflizioni. Così facendo, opportunatamente guidato dalle domande dell’analista, questi sarebbe stato in grado di accedere ai ricordi nascosti che ne hanno causato la nevrosi e il malessere. Così Freud elaborò il metodo delle libere associazioni, grazie a cui raccolse importanti intuizioni sull’organo della psiche, arrivando a formulare la tesi relativa alla struttura tripartita di conscio, preconscio e inconscio25. Si tratterebbe di una struttura verticale, in cui la psiche si alimenta di contenuti consci e inconsci26.

Negli anni a seguire, Freud si concentrò sullo studio dei contenuti psicosessuali latenti nella mente dei suoi pazienti, mostrandosi scettico sulla possibilità che un unico trauma potesse essere la causa diretta dei disturbi mentali. Freud notò, infatti, che in un considerevole numero di casi la scena traumatica a cui si ascriveva l’insorgere del sintomo non presentava un’adeguata forza di determinazione e deflagrazione, risultando sostanzialmente estranea al sintomo isterico. Alla luce di ciò, ipotizzò che alla base di un complesso quadro sintomatologico nevrotico ci fosse una serie di eventi traumatici risalenti all’età infantile. Questi traumi infantili, in sinergia con una determinata esperienza vissuta nell’attualità, avrebbero generato i sintomi nevrotici.

Successivamente, un evento storico di enorme portata come la Prima Guerra Mondiale indusse Freud ad interessarsi nuovamente alle nevrosi, che in questo contesto si configurarono come “nevrosi di guerra”. Entrando in contatto con i soldati, vessati dalle terribili esperienze vissute in battaglia, notò in loro dei sintomi simili a quelli dei casi di isteria, ma con un maggior indebolimento psichico. L’approccio da lui utilizzato fu quello della terapia delle libere associazioni: alla luce dei risultati ottenuti, il padre della psicoanalisi arrivò a formulare la nota teoria della coazione a ripetere, illustrata in parte nell’opera Introduzione alla psicoanalisi (1917) ed ampliata in Al di là del principio di

piacere (1920). Basandosi sulle loro dichiarazioni o rivelazioni, Freud notò che i reduci di

guerra avevano la tendenza a ripetere e rivivere le esperienze traumatiche nei sogni, ricadendo ogni volta nello stesso stato di terrore. Sembrava evidente che una tendenza

25 Questa tripartizione è nota come prima topica freudiana: il “conscio” è quel sistema che permette di rimanere

in contatto con il mondo esterno attraverso le percezioni; il “preconscio” è invece il sistema psichico dove i processi sono momentaneamente opachi, ma possono poi diventare lucidi e passare al livello conscio. L’“inconscio”, infine, è la parte sommersa della psiche con funzionamenti autonomi rispetto alla coscienza. La

seconda topica freudiana vedrà la distinzione tra “Es”, “Io” e “Super Io”.

26 I contenuti “manifesti” si trovano in superficie, e perciò la coscienza può accedervi facilmente. I contenuti

“latenti”, invece, sono sepolti nelle profondità dell’inconscio: quando riaffiorano, essi destabilizzano la psiche, affiancandosi a incubi, atteggiamenti compulsivi o sintomi isterici. Tali contenuti latenti tendono a non riaffiorare alla coscienza non per “debolezza” del soggetto, ma a causa di una continua repressione operata dalla psiche. Quest’ultima percepisce i contenuti traumatici o violenti come letali e li proietta nell’inconscio.

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simile non potesse essere associata all’Eros e, per questo motivo, Freud arrivò a postulare l’esistenza di una tendenza contraria alla soddisfazione della libido, ossia Thanatos, che si sarebbe collocata, per l’appunto, “al di là del principio di piacere”27. Se nell’L’interpretazione dei sogni (1899) egli aveva scritto che la funzione dell’attività onirica consisteva primariamente nell’appagamento di desideri reconditi, nei reduci di guerra ciò non accadeva, in quanto il sogno si trasformava in incubo ripresentando la scena traumatica, e dunque impedendo di “dar sollievo” alla psiche. Lo shock rivissuto durante il sonno, correlato al manifestarsi di un’evidente pulsione di morte, avrebbe inoltre influenzato il soggetto anche al risveglio e nei comportamenti coscienti, impedendogli di svolgere una vita normale.

In seguito, Freud approfondì lo studio delle nevrosi traumatiche, giungendo alla formulazione di un altro importante concetto, noto come “incubazione” o periodo di “latenza”, illustrato in L’uomo Mosè e la religione monoteistica (1939), dove egli ricorse all’esempio di un incidente ferroviario28. Con “periodo di latenza” si indica l’intervallo durante il quale gli effetti dell’esperienza traumatica non sono ancora manifesti. Freud fu il primo a definire in termini clinici questa peculiarità nel comportamento del paziente traumatizzato, postulando che il trauma tragga la sua forza proprio in virtù della dilazione con cui si manifestano i sintomi29.

27 Così si espresse Freud a riguardo: “Nella teoria psicoanalitica possiamo sostenere senza riserve che l’andamento

dei processi psichici è regolato automaticamente dal principio del piacere. Pensiamo, cioè, che esso sia sempre messo in moto da una tensione spiacevole, e che si orienti in modo tale che il risultato finale consista nell’abbassamento di questa tensione, in altre parole in un annullamento del dispiacere o in una produzione di piacere. […] Facciamo comunque notare che, a rigor di termini, non è del tutto corretto parlare di dominio che il principio del piacere esercita sul corso dei processi psichici. Se un tale dominio esistesse, quasi tutti i nostri processi psichici dovrebbero accompagnarsi al piacere o portare al piacere, conclusione invece completamente smentita dalla generale esperienza.” Ibidem, pp. 23-25.

28A riguardo Freud afferma: It may happen that someone gets away, apparently unharmed, from the spot where

he has suffered a shocking accident, for instance a train collision. In the course of the following weeks, however, he develops a series of grave psychical and motor symptoms, which can be ascribed only to his shock or whatever else happened at the time of the accident. He has developed ‘traumatic neurosis’. This appears quite incomprehensible and is therefore a novel fact. The time that elapsed between the accident and the first appearance of the symptoms is called the ‘incubation period’, a transparent allusion to the pathology of infectious disease. As an afterthought, it must strike us that— in spite of the fundamental difference in the two cases, the problem of the traumatic neurosis and that of Jewish monotheism—there is a correspondence in one point. It is the feature which one might term latency. There are the best grounds for thinking that in the history of the Jewish religion there is a long period, after the breaking away from the Moses religion, during which no trace is to be found of the monotheistic idea. . . Thus . . . the solution of our problem is to be sought in a special psychological situation”, in Cathy Caruth, Unclaimed Experience. Trauma, Narrative, and History., cit., pp. 16-17.

29 Caruth commenta: “Yet what is truly striking about the accident victim’s experience of the event, and what in

fact constitutes the central enigma revealed by Freud’s example, is not so much the period of forgetting that occurs after the accident, but rather the fact that the victim of the crash was never fully conscious during the accident itself: the persongets away, Freud says, “apparently unharmed”. The experience of trauma, the fact of latency, would thus seem to consist, not in the forgetting of a reality that can hence never be fully known, but in an inherent latency within the experience itself”. Ibidem, p.17.

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2. SHELL SHOCK E NEVROSI TRAUMATICA A CAVALLO TRA LE DUE G

UERRE

Il consolidarsi dell’espressione “nevrosi traumatica”, termine che rivoluzionerà la trattazione della sintomatologia in materia, è ascrivibile al neurologo e organicista tedesco Hermann Oppenheim (1858-1919). Con “nevrosi traumatica” si intende un importante complesso di sensazioni di ansia riconducibili a traumi riportati in seguito a shock emotivi. Oppenheim indicò come causa fisiologica del quadro sintomatologico alcune modifiche molecolari a livello del sistema nervoso centrale. Si arrivò così ad associare evidenti sintomi post-traumatici a nevrosi cardiache, visto il riscontro di sintomi cardiovascolari nei pazienti analizzati.

In relazione al caso dei reduci di guerra, nel 1915 il dottore britannico Charles Samuel Myers (1873-1946) usò per la prima volta il termine shell shock in letteratura medica. L’espressione shell shock può essere letteralmente tradotta come “trauma da bombardamento” e la patologia può insorgere in un contesto di trauma violento, come appunto una guerra. All’inizio si ritenne che il violento spostamento d’aria provocato dall’esplosione di ordigni avesse potuto causare un danno cerebrale, individuando quindi la presenza di un disturbo organico alla base dei sintomi nevrotici. I soldati diedero adito a questa teoria, che escludeva completamente come causa del loro “malessere” la codardia; inoltre, il riconoscimento di una patologia vera e propria consentì loro di chiedere risarcimenti o indennità proporzionali ai danni subiti.

Continuando gli studi sui reduci di guerra, però, ci si rese conto che i sintomi tipici dello shell shock, ovvero attacchi di panico, insonnia, mutismo e paralisi degli arti, si riscontravano anche in altri soggetti che non avevano avuto un contatto diretto con deflagrazioni durante la guerra. Per questo motivo, si arrivò a ipotizzare che ci fossero pure delle predisposizioni a livello emotivo. Myers avanzò l’idea secondo la quale la nevrosi legate ad esperienze belliche e l’isteria presentavano delle somiglianze notevoli a livello sintomatologico, escludendo dal quadro clinico la necessità di un fattore quale un danno a livello cerebrale. L’ipotesi fu però smentita e accantonata nel momento in cui si valutò meglio come la guerra potesse rivelarsi un’esperienza traumatica, anche per i soggetti di forte tempra.

Le nevrosi da guerra furono dunque sottoposte a un’indagine mirata e suddivise in tre categorie. La prima era quella dell’esaurimento nervoso, causata da un carico emotivo eccessivo paragonabile alla paura o all’orrore, che generava quindi una nevrosi. A sua volta, l’esaurimento nervoso da shell shock si sarebbe manifestato in due fenomenologie: isteria

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e nevrastenia. L’isteria era ritenuta una reazione a breve termine che, se curata tempestivamente, consentiva al soldato di riprendere il suo posto al fronte in tempi relativamente ridotti. Tuttavia, l’isteria era anche vista come uno “stigma” nel contesto militare, poiché spesso veniva associata a forme di debolezza mentale o morale, nonché alle classi sociali di estrazione più bassa. La nevrastenia, invece, si sarebbe manifestata in seguito ad un prolungato coinvolgimento in situazioni di ansia e terrore e colpiva prevalentemente gli ufficiali, sui quali grava la responsabilità del comando in situazioni estreme.

La seconda categoria di nevrosi da guerra era quella della suggestione, associata agli strati più “deboli” dell’esercito, in particolare ai soldati più giovani. Era una patologia ritenuta subdola e epidemica, vista la sua capacità di diffondersi tra i membri di un plotone in modo rapido e inizialmente silente.

La terza ed ultima categoria era il conflitto psicodinamico; l’espressione fu coniata dall’antropologo, biologo e neurologo W.H.R. Rivers (1864-1922). Secondo Rivers, le nevrosi da guerra sarebbero state scatenate dal riemergere di contenuti psichici rimossi, ma ancora attivi. Accantonate negli angoli più reconditi della mente, le esperienze traumatiche avrebbero accumulato un potenziale dinamico capace di sconvolgere l’equilibrio psicosomatico dell’individuo30.

Durante il primo conflitto mondiale, lo shell shock non fu comunque riconosciuto in termini di disturbo psichico e l’associazione con l’isteria lo trasformò in una minaccia culturale al concetto di virilità, accentuato in un contesto come quello dell’esercito. Per questo motivo, molti soldati affetti in realtà da disturbi nevrotici furono processati e, in alcuni casi, addirittura giustiziati in quanto presunti traditori della patria (in Gran Bretagna si contarono più di 2200 casi di questo tipo).

Durante la Seconda Guerra Mondiale, assistiamo ad un cambiamento positivo nel rapporto con i soldati traumatizzati, ai quali furono prescritti dei periodi di riposo, pur nel mantenimento di uno stretto contatto con i loro compagni, in modo tale da garantire una continuità dei legami che si erano creati e favorire l’alleviarsi dei sintomi. Fu inoltre introdotto un metodo noto tutt’oggi, ovvero la terapia di gruppo, in cui i soggetti traumatizzati potevano parlare liberamente e confrontarsi con l’esperienza altrui.

Nella seconda metà del Novecento, si è sviluppato un ramo di ricerca ulteriore, che ha analizzato gli effetti a lungo termine riscontrati nei sopravvissuti all’Olocausto o ad altri

30 “Painful thoughts were pushed into hidden recesses of his [the soldier’s] mind, only to accumulate such force

as to make them well up and produce attacks of depression”, W.H.R. Rivers, Repression of War Experience (1917) cit. in Roger Luckhurst, The Trauma Question, Routledge, New York, 2008, cit., p. 56.

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episodi connessi alle politiche del conflitto mondiale. Ciò che maggiormente colpì questi analisti fu l’effetto devastante che le condizioni estreme dei campi di concentramento avevano provocato sulla vita di coloro che si erano trovati coinvolti in questa orribile esperienza di letale soggiogamento e discriminazione. Fu introdotta così la definizione di

concentration camp syndrome: le vittime affette da questa sindrome presentavano i sintomi

che sarebbero poi stati classificati come parte del disturbo post-traumatico da stress, ma riportarono anche tracce permanenti a livello della personalità31.

Henry Krystal (1925-2015), psicoanalista polacco e unico sopravvissuto della sua famiglia allo sterminio nazista, è stato uno dei maggiori studiosi contemporanei dei danni a lungo termine connessi al trauma dell’Olocausto. Nei suoi studi, egli ha tracciato un’evoluzione dei sintomi traumatici di questo tipo, osservando come le vittime passino da uno stato di iper-allerta e angoscia ad un progressivo blocco emozionale e comportamentale32. I pazienti appaiono incapaci di cogliere il significato delle loro sensazioni corporali e, non essendo in grado di comprendere ciò che provano, tendono ad avere reazioni psicosomatiche violente e crolli emotivi. Questo fenomeno prende il nome di “alessitimia”33, ed è secondo Krystal il fulcro dei sintomi psicosomatici tipici dei traumatizzati cronici.

3. L

O STRESS POST

-

TRAUMATICO NELLA SECONDA METÀ DEL

N

OVECENTO La Guerra del Vietnam (1955-1975) ha segnato il punto di svolta nell’ambito della classificazione del Post-Traumatic Stress Disorder (PTSD). I combattimenti ebbero luogo principalmente nel sud del paese e videro contrapposte le forze insurrezionali filocomuniste e le forze governative della Repubblica del Vietnam. Gli Stati Uniti d’America giocarono un ruolo attivo e fondamentale durante il conflitto, intervenendo in aiuto del governo del Vietnam del Sud, con un nutrito coinvolgimento di armi e soldati. Il conflitto, però, trovò sempre minor sostegno da parte dell’opinione pubblica americana e i soldati in generale avevano la sensazione di combattere contro un nemico invisibile che non era stato sufficientemente “demonizzato” dalla propaganda. Ciò rese ancor più intollerabile la guerra: l’umore dei soldati era instabile, così come la loro motivazione. Il prolungarsi

31 Ibidem, p.29. 32 Ivi.

33 L’analfabetismo emotivo, o alessitimia, è un disturbo che consiste in un deficit della consapevolezza emotiva;

ciò comporta l’incapacità di riconoscere e dunque di descrivere verbalmente i propri stati emotivi e quelli altrui. I soggetti alessitimici hanno una capacità emotiva e onirica ridotta o inesistente e mancano di capacità di introspezione. Chi ne è affetto è incapace di “mentalizzare” e simbolizzare l’emozione. L’unico modo per percepire l’emozione è a livello somatico, e non viene né interpretata cognitivamente né concettualizzata per immagini mentali. L’espressione che inizialmente indicava questo insieme di sintomi era “analfabetismo emotivo”, mentre il termine “alessitimia” fu coniato da John Nemiah e Peter Sifneos all’inizio degli anni Settanta e divulgato per la prima volta nel 1976 alla XI Conferenza Europea sulle Ricerche Psicosomatiche.

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estenuante della guerra e gli esiti finali ebbero profonde ripercussioni sull’animo dei veterani, che, una volta tornati in patria, risultarono afflitti da serie problematiche psichiche, con sintomi che spesso rimandavano a gravi problemi cronici che impedivano loro di condurre una vita normale e di re-integrarsi nella società34. Negli anni immediatamente successivi alla fine del conflitto, il numero dei suicidi tra gli ex combattenti fu elevatissimo, così come quello di coloro che accusarono disturbi psichici sprofondando in stati di depressione.

Chaim Shatan e Robert Lifton, psichiatri originari di New York, inaugurarono nel 1970 i “gruppi di discussione” tra i reduci di guerra, contesto in cui i soldati potevano ricostruire, a distanza di tempo, le loro esperienze e confrontarsi con persone che avevano vissuto situazioni simili. Questi incontri ebbero una ricezione positiva e si diffusero rapidamente in tutto il paese. Lifton e Shatan, basandosi su un corpus di studi dove erano registrate le esperienze dei superstiti dell’Olocausto, di vittime di incidenti o traumi di altra natura, riuscirono ad identificare una trentina di sintomi ritenuti comuni nelle nevrosi traumatiche. Il passo successivo fu quello di confrontarli con i casi di reduci del Vietnam documentati fino a quel momento. Alla luce della rilevanza di questi studi, si decise di includere la voce relativa al Post-Traumatic Stress Disorder nella terza edizione (1980) del

Diagnostic and Statistical Manual dell’American Psychiatric Association35. Il concetto di

PTSD, sebbene connesso in origine agli studi sui veterani del Vietnam, non contempla soltanto i sintomi delle nevrosi da guerra, ma prende in considerazione anche numerosi altri eventi traumatici, come le violenze infantili o lo stupro. Differenti esperienze traumatiche sembrano infatti determinare lo sviluppo di sintomi simili, come per esempio la tendenza a rivivere il momento dello shock, stati di iper-allerta, manifestazioni di ansia e angoscia e atteggiamenti passivi nei confronti della vita.

Lo psicologo contemporaneo Carlo Bonomi, in “Introduzione storica al trauma psichico”, afferma che la categoria di disturbo post-traumatico da stress ha dato il via a una

34 Secondo Bonomi, la Guerra del Vietnam ha sia incentivato, sia condizionato il riproporsi dell’idea di trauma

psichico, segnando un cambiamento nell’individuazione degli effetti scatenanti: “Se nella fase iniziale il prototipo del trauma era stato l’inatteso evento accidentale nello scenario dell’inquietante industrializzazione (incidenti ferroviari, scoppi di granate, e così via), nella sua fase recente il campione dell’evento traumatico viene individuato in ciò che può danneggiare il senso di connessione con la comunità – in ciò che […] fa crollare la costruzione del sé che si è formata in relazione agli altri e viene sostenuta dagli altri, […] fa crollare il senso di connessione tra l’individuo e la comunità […]. Questa caratterizzazione sociale del trauma, sottolineando l’importanza della condivisione delle esperienze traumatiche con gli altri e del riconoscimento pubblico dell’evento traumatico, sta esercitando una profonda influenza sulla nostra cultura.”, Carlo Bonomi, “Introduzione storica all’idea di trauma psichico”, cit., p. 6.

35 La prima versione del manuale dell’American Psychiatric Association risale al 1952. Il manuale, arrivato adesso

alla quinta edizione, registra i risultati della ricerca psicologica e psichiatrica, con aggiornamenti relativi alle definizioni dei disturbi mentali.

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