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Recensione di Cathrine Packham, Eighteenth-Century Vitalism. Bodies, Culture, Politics, Palgrave Macmillan, London, 2012

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Sebastiano Gino

Università degli Studi di Torino. Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione Recensione

Catherine Packham, Eighteenth-Century Vitalism. Bodies, Culture, Politics, Londra, Palgrave Macmillan, 2012, pp. 251.

L’obiettivo di fondo dello studio pubblicato recentemente da Catherine Packham può rintracciarsi nella ricognizione di concetti, linguaggi e potenzialità espressive derivati da studi settecenteschi di carattere anatomo-fisiologico in ambiti di indagine che trascendono la descrizione dei corpi viventi e investono la sfera dei rapporti sociali e culturali in generale. La specificità delle soluzioni e delle formulazioni linguistiche elaborate in seno alla fisiologia cosiddetta vitalista – Packham intende il vitalismo come «una teoria che comprende la vita in termini che non sono fisici, chimici o meccanici» (p. 209) – si riflette nelle tesi liberistiche del sistema economico di Adam Smith, negli scritti politici radicali e filo-rivoluzionari di John Thelwall, nonché nella produzione letteraria “femminista” di autrici anglosassoni degli anni Noventa del Settecento. In questo senso, il vitalismo settecentesco assume una caratterizzazione peculiare, che ne fa risaltare la natura specifica di contro all’organicismo dell’epoca romantica. Mentre i fisiologi del Settecento si concentrano sulla ricerca di formulazioni teoriche capaci di rendere conto della natura animata e tentano di identificare la causa, sia essa di ordine materiale o spirituale, delle funzioni vitali, l’esigenza di totalizzazione e unificazione del romanticismo «trasforma un postulato tecnico di vitalità interno alla scienza sperimentale e osservativa in una forza creatrice generalizzata, che esiste in un universo dinamico» (p. 9). In questo modo, la speculazione filosofica del primo Ottocento ha reagito alla frammentazione del sapere in discipline autonome e tecnicamente indipendenti attraverso la generalizzazione delle forze vitali su un piano metafisico. Di contro, una relativa mancanza di specializzazione disciplinare da parte di letterati e filosofi del Settecento ha portato a una forma di ibridazione dei linguaggi scientifici e ha reso i discorsi relativi alla vita e ai corpi animati strumenti utili alla costruzione di discorsi economici, politici e filosofici. Il vitalismo illuministico, inoltre, in quanto orientato alla ricerca di cause e principi che regolano la vita a livelli inconsapevoli e automatici, ha offerto alla speculazione filosofica «un modello di “sé” animato, vitale, fluido e in divenire, anziché sottoposto al controllo razionale, cosciente e regolato di una mente razionale» (p. 11). Lungi dall’apparire come l’epoca del trionfo assoluto della ragione ordinatrice e calcolatrice, l’illuminismo appare quindi come un’epoca in cui l’istanza razionalistica viene temperata

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dall’ammissione di forze che operano sul piano immaginativo, organico e inconsapevole, e in tal senso il vitalismo ha espresso possibilità di integrazione fra campi di indagine eterogenei e diversificati.

In un primo capitolo che si concentra su alcune figure di medici e letterati scozzesi del primo Settecento, Packham dimostra la presenza di un diffuso senso di ansia e preoccupazione culturale dovuto alla scissione fra il corpo umano inteso come un macchinario e la mente spirituale, garante della buona condotta e della salvezza ultraterrena. Negli scritti di John Arbuthnot, che fu poeta e letterato oltreché medico, il problema della dualità intrinseca alla natura umana trova soluzione con l’apertura all’esperienza salvifica della morte del corpo. Ma questa contrapposizione apparentemente radicale fra spirito e corpo non deve mascherare il fatto che in Arbuthnot «un intero nuovo linguaggio di fisicità, materialità e corporeità trabocca anche nella produzione letteraria» (p. 27), come risulta dai suoi scritti scientifici, dove si fa riferimento a una forza vitale capace di convertire gli alimenti in fluidi e l’essenza divina dell’uomo viene vista come la scintilla immateriale che vivifica il corpo. La stessa insufficienza delle metafore meccanicistiche nel rendere conto del composto umano come sistema capace di auto-regolarsi si coglie anche negli scritti di filosofia morale di Francis Hutcheson e David Fordyce. Il modello epistemologico fornito dall’anatomia appare limitante là dove viene trasposto nelle indagini sull’uomo come soggetto morale e in questo senso, le metafore che si incentrano sulla vitalità del corpo forniscono spunti concettuali per rappresentare la natura umana come fonte della sua stessa organizzazione. Analogamente, nella Art of Preseving Health (1744) dello scozzese John Armstrong le prescrizioni terapeutiche volte al conseguimento di un durevole stato di sanità psicofisica mettono in luce un contrasto fra un concetto di “economia animale” come forma del corpo dovuta a un potere immanente al sangue e la regolazione razionale delle attività fisiche e alimentari. Secondo Packham, è proprio «una crisi dell’idea stessa di regolazione» ciò che «apre alla visione di un corpo che opera in modo naturale e salutare indipendentemente dalla direzione umana» (p. 43). La regolazione indipendente del corpo fa inoltre risaltare il problema della disfunzione e della malattia sotto una luce particolare, come si evince dagli scritti di un altro scozzese, il poeta Thomas Blacklock, che fu autore di una rinomata raccolta di poesie pubblicata nel 1746 e più volte ristampata. Nelle poesie di Blacklock spicca la particolare concretezza dei riferimenti formali relativi agli oggetti della vista, ciò che ha fatto supporre a Joseph Spence, professore ad Oxford, che il poeta avesse sviluppato una capacità di cogliere le variazioni cromatiche attraverso il tatto. In realtà, la particolare sensibilità corporea e la profondità dei sentimenti di Blacklock – registrata anche da David Hume, che lo conobbe personalmente – non gli impedisce di rappresentare la propria condizione come miseranda e malinconica: nell’articolo “Cecità” dell’Encyclopaedia

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Britannica, il poeta riconosce che la relativa marginalizzazione del cieco dal consorzio umano non può essere compensata dall’acuta sensibilità degli altri organi corporei.

I due capitoli centrali del testo offrono un’articolata ricostruzione del pensiero di Adam Smith in rapporto al problema della simpatia e della nascita dei sentimenti morali da una parte e alla questione economica dall’altra. In contrapposizione al meccanicismo morale di Bernard Mandeville, la Theory of Moral Sentiments (1759) argomenta che la genesi della moralità va ricercata in un principio simpatetico connaturato a tutti gli esseri umani. La socievolezza dell’uomo e il suo inserimento in un contesto sociale non sono funzioni di un bilanciamento meccanico fra istinti egoistici, bensì derivano da un istinto simpatetico che opera per mezzo dell’immaginazione; grazie a questa facoltà, che in Smith si carica di una valenza propriamente generativa, gli uomini sono in grado di abbandonare il punto di vista del self-love e di partecipare dei sentimenti altrui, e per questa via essi giungono a formulare giudizi morali. Questo tipo di spiegazione è per certi aspetti analogo al modello vitalistico che prevede un potere di auto-movimento intrinseco ai corpi viventi e l’analogia serve a illustrare in che senso Smith si oppone alle spiegazioni morali basate sulla mera somma e sovrapposizione di passioni egoistiche. «La sicura descrizione della simpatia come parte integrante ma disinteressata della natura umana doveva quindi evitare di identificarla con l’interesse soggettivo da una parte, o vederla come il prodotto di un crudo “meccanismo” della natura umana dall’altra» (p. 62). Inoltre, l’ideale regolativo della morale di Smith viene individuato nel punto di vista dello spettatore imparziale, ossia la capacità dell’uomo di diventare oggetto a se stesso per vedersi collocato in quella trama di giudizi e convenzioni morali che costituisce la società. Ma anche in questo caso è l’immaginazione a rendere possibile questa alterazione di prospettiva.

Molto interessante è il parallelo fra la descrizione smithiana della simpatia e le considerazioni di Mary Wallstonecraft dedicate a questo tema nelle Letters Written During a Short Residence in Sweden, Norway, and Denmark (1796). Mentre la Vindication of the Rights of Woman (1792) insisteva sull’educazione razionale del corpo, mirante a evitare la caduta in quello stato di debolezza e fragilità tradizionalmente associato al corpo femminile, nella Short Residence viene presentato un concetto di simpatia che è radicato nell’elemento corporeo ed emotivo. La naturale simpatia “materiale” fra gli esseri umani costituisce legami sociali fra gli individui indipendentemente dal controllo razionale. Per questo motivo, le popolazioni scandinave organizzate in rudimentali comunità di villaggio esprimono quei sentimenti nobili e virtuosi che rinviano a una mitica golden age dell’umanità. Questo aspetto pone il problema del rapporto fra la simpatia e l’immaginazione da una parte e la storia dell’altra. Secondo Packham, «la “mitica” presenza della simpatia, e quindi dell’immaginazione, asserisce che la loro origine non va ricercata,

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che esse sono sempre già presenti, e quindi che, mentre la loro generazione alimenta il progresso storico, al contempo esse si trovano oltre, e al di fuori, della storia» (p. 80). Lo sviluppo dei legami simpatetici e immaginativi non segue quindi uno sviluppo sincronico e non corrisponde al grado di avanzamento tecnologico di una nazione moderna.

Le sezioni che prendono in considerazione l’economia politica di Smith e rintracciano l’origine di alcune idee-chiave del Wealth of Nations (1776) nella tradizione del vitalismo scozzese elaborato a Edimburgo nei decenni centrali del Settecento sono le più appassionanti di tutto il lavoro. In una prima parte, l’antropologia smithiana viene messa a confronto con quella di Hume e fra i due scozzesi emergono importanti divergenze a proposito della ricognizione delle cause della naturale laboriosità degli uomini: mentre per Hume – che tratta questo tema nel saggio Of Refinement in the Arts (1752) – si instaura un circolo fra rilassamento e attività, le quali si alternano in virtù dell’abitudine, Smith considera invece il lavoro come risultante da un bisogno fisico dell’umanità, che si associa a un altrettanto naturale desiderio di migliorare progressivamente la propria condizione. L’ottimismo antropologico è parte integrante anche della dottrina economica sviluppata nel Wealth of Nations, in cui si argomenta che i rapporti di produzione e la circolazione delle merci favoriscono la produzione di benessere e ricchezza solo se svincolate da norme protezionistiche imposte dagli Stati. La metafora del body politic inteso come corpo contenente al proprio interno un principio di organizzazione e autonomamente tendente a una condizione di prosperità viene messa in parallelo con le tesi fisiologiche di Robert Whytt, il quale riteneva che l’animazione del corpo vivente degli animali dipendesse da un principio senziente interno al corpo stesso e capace di favorirne la salute e la conservazione in modo inconsapevole e automatico. Packham sostanzia la propria posizione citando ampi estratti dal testo di Smith e dimostra come la critica alla dottrine mercantilistiche passi proprio attraverso l’affermazione della possibilità per il mercato di prosperare solo se esso non viene sottoposto a regolamentazioni impostegli, per così dire, dell’esterno. Rispetto alla decisione del governo britannico di favorire un grande flusso di capitali verso i mercati coloniali, Smith ritiene che questa concentrazione abbia svantaggiato la produzione industriale della nazione, che si vede precluso lo sbocco dei propri prodotti nei mercati europei. Per questo egli afferma che «nella sua condizione presente la Gran Bretagna assomiglia a quei corpi malfermi in cui alcune parti vitali sono ipertrofiche […]. Un piccolo intoppo in quel vaso sanguigno che è stato artificialmente dilatato oltre le sue dimensioni naturali, e attraverso cui una porzione innaturale dell’industria e del commercio del paese è stata obbligata a circolare, molto probabilmente produce pericolosi scompensi nell’intero corpo politico» (p. 100). Così come, sul piano dell’economia animale, il corpo si giova maggiormente della propria auto-regolazione di contro a invasivi interventi terapeutici, allo stesso modo il corpo politico contiene al proprio interno i semi del

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proprio benessere, che si sviluppano solo se a esso si consente di crescere in modo autonomo e naturale.

La seconda e la terza parte del libro, complessivamente più brevi della prima, rivolgono lo sguardo al panorama politico e letterario degli anni Novanta del Settecento e tentano di mettere in luce la matrice vitalistica che innerva gli scritti dei filosofi radicali e delle autrici di novelle caratterizzate da toni di denuncia sociale. Packham rinviene nell’attenzione di alcuni medici scozzesi per la possibilità di rianimare corpi di persone che appaiono prive di vita l’origine di una fascinazione culturale che arriva fino a Frankenstein e impregna di sé il linguaggio della trattatistica inglese di tendenza giacobina, in cui spesso si inneggia a una rivitalizzazione del popolo e dei suoi diritti. Il medico scozzese John Hunter aveva presentato alla Royal Society alcuni Proposals for the Recovery of Peolple Apparently Drowned nel 1776 e i metodi che proponeva per la rianimazione degli annegati si basavano sulla sua teoria dell’irritabilità del sangue, inteso come il fluido contenente il principio vitale e responsabile dell’animazione dei viventi. Una teoria analoga a questa viene esposta da John Thelwall, pensatore di orientamento radicale, famoso per aver risposto a più riprese agli scritti lealisti di Edmund Burke. Poco noto è l’Essay Towards a Definition of Animal Vitality (1793) di Thelwall che, «rifiutando la localizzazione del principio virale nel senso di Hunter nel sangue, […] suggerisce piuttosto che lo “stato di vitalità” del corpo venga provocato da una causa esterna, come un “fluido elettrico”». Inoltre, nell’Essay «la vita viene definita come “quello stato di azione (indotto da stimoli specifici su una materia specificamente organizzata)”» (p. 126). Il concetto di un organismo che prende vita solo se viene, per dir così, elettrificato dall’esterno, e la stessa nozione di vita come attività dovuta una certa stimolazione consentono un’immediata traduzione di questo vocabolario vitalistico sul piano politico: il popolo rappresenta infatti un corpo politico a sé stante, che se propriamente stimolato e risvegliato dal suo stato di supina acquiescenza al potere costituito, sarà in grado di esprimere, attraverso un sistema di democrazia diretta, le proprie potenzialità di auto-organizzazione. Il popolo liberato dal giogo dell’autorità non si comporterà come un mostro devastatore della pace dell’ancien régime, come pensa Burke, bensì sarà foriero di una forma di razionalità. Tuttavia la ragione di cui parla Thellwall si distingue dal concetto di razionalità che fa da sfondo al proto-anarchismo di William Godwin. Se la ragione di Godwin risulta da una fredda astrazione, quella cui fa riferimento Thelwall si caratterizza piuttosto come una forza vitale, risultante dalla generalizzazione di un’idea organicistica del corpo vivente che si avvicina alla teoria romantica della dipendenza del pensiero da una forza cosmica di natura cieca e irrazionale.

Nel quadro di questa ricostruzione dei rapporti fra scienza e propaganda politica nell’ultimo decennio del Settecento, la figura di Erasmus Darwin occupa un posto di primaria importanza.

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Infatti la sua fama è dovuta alla duplice natura della sua produzione letteraria: il poema The Botanic Garden (1789-91) consiste in una collezione di versi in cui le piante vengono personificate, mentre Zoonomia (1794-6) rappresenta uno studio sugli effetti dell’eccitazione del sistema nervoso nei corpi animali, sicché Darwin venne riconosciuto dai contemporanei come poeta scienziato e le sue teorie vennero attaccate tanto in senso sia letterario sia scientifico. La tesi che lo spirit of animation consiste in una materia molto sottile, analoga all’etere di cui aveva parlato Newton o al fluido elettrico di Franklin, attirò contro Darwin l’accusa di materialismo. A questo proposito, Packham sostiene la centralità del principio di analogia che si trova impiegato in tutti gli scritti di Darwin: l’uniformità della natura non solo legittima l’asserzione di una fondamentale omogeneità nella costituzione di piante, animali ed esseri umani – tutti animati da un fluido vitale contenuto nei loro corpi –, ma si traduce anche nell’adozione di un modello letterario che non rinviene una soluzione di continuità fra scienza e poesia. «Scienza e poesia sono a un tempo differenti e legate in un continuum: le libere analogie della poesia possono entrare in gioco là dove la rigida disciplina della scienza deve arrestarsi» (p. 153). Il sistema di concetti adatto alla descrizione di piante e animali è appunto uniforme e in questo senso si può affermare che la poetica basata sulla trasfigurazione del regno vegetale in quello animale possiede un certo valore scientifico. Pertanto l’immaginazione assurge al ruolo di facoltà scientifica dell’animo umano: «l’immaginazione è annoverata fra i mezzi adatti a estendere la possibilità speculative della scienza e gli atti mentali ad essa appropriati, e al contempo a dissolvere i confini disciplinari che definiscono la sua attività» (p. 157). Non è un caso che gli attacchi e le polemiche rivolti contro Darwin dagli scrittori di orientamento tory coinvolgessero sia le sue tesi sia il suo stile poetico: se la sensibilità delle piante veniva vista come una minaccia per i costumi sessuali, che prevedevano un rigido controllo degli istinti anziché una spontanea espressione dei desideri fisici, la proposta di una forma di ibridazione fra scienza e poesia appariva pericolosa proprio perché poteva destabilizzare la ragione dal suo ruolo di arbitro indiscusso nelle materie scientifiche.

Decisamente più ambiguo è il rapporto fra le teorie vitalistiche dell’animazione animale e la novellistica firmata da autrici che denunciavano i limiti della condizione femminile alla fine del secolo dei Lumi. L’ambiguità è dovuta al fatto che il ruolo della donna in società e le sue potenzialità generative vengono spesso concettualizzate in riferimento ai quadri scientifici correnti, ma con risultati discordanti proprio per il fatto che le valutazioni etiche e politiche dimostrano spesso radici e motivazioni di ordine extra-scientifico. Tema ricorrente dei racconti considerati da Packham è lo scarto che si crea fra le aspirazioni e i sentimenti delle protagoniste e le loro situazioni esistenziali, in cui subiscono le vessazioni di mariti violenti oppure sono costrette a prostituirsi per sollevare dalla miseria la propria famiglia. Nel racconto di Mary Ann Radcliffe, The Female

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Advocate (1799), la protagonista Fidelia è sull’orlo del suicidio, con cui vuol porre fine alla sofferenza causatale della morte del marito, ma viene salvata da un uomo di umili condizioni, la cui figura la porterà ad aprirsi alla fede cristiana. Se in Radcliffe è ancora possibile una riconciliazione fra le miserie della donna e la sua forza vitale attraverso la mediazione religiosa, qualsiasi possibilità conciliatoria viene invece negata nel Secresy (1795) di Eliza Fenwick, in cui la protagonista cela appunto il segreto della propria gravidanza, dovuta all’incontro con un uomo che ha amato ma da cui è poi stata separata; costretta a subire i maltrattamenti e le decisioni di uno zio dispotico, Sibella viene rinchiusa nel castello dove è cresciuta e dà alla luce il proprio bambino morto. La successiva morte della protagonista stessa sancisce la definitiva scissione fra il potere generativo del corpo femminile e l’iniquo moralismo di una società maschilista, in cui la stessa esperienza della gravidanza, espressione fondamentale di una forza vitale, si risolve in un destino di morte e distruzione. Secondo Packham, questo tipo di narrativa che insiste sulla contraddizione fra vitalità naturale e pratiche sociali oppressive mette capo a un genere letterario particolare, definibile come “vitalismo gotico” (p. 188). Intima amica di Fenwick, Mary Wallstoncraft affronta il tema della condizione femminile in rapporto al matrimonio in Mary (1788), in cui il fallimento del rapporto coniugale della protagonista passa attraverso l’innamoramento per un altro uomo. Impedita nella propria espressione del sentimento amoroso, Mary si rassegna a un’esistenza arida e malinconica a fianco di un marito che non ama e la sua storia può intendersi come il fallimento di una corretta educazione sentimentale, debitamente supportata da una ragione che dovrebbe incanalare la forza immaginativa del genio – il quale viene concepito come una forza creativa della natura, sulla scorta di Edward Young, autore delle Conjectures on Original Genius (1759). Diverso e forse ulteriormente drammatico è il destino di Maria, protagonista del racconto The Wrongs of Woman (1798), ultimo scritto, peraltro incompiuto, di Wollstonecraft. Costretta a vivere in manicomio dopo aver tentato di separarsi dal marito, Maria narra la propria storia alla figlia in una lettera, che rappresenta l’attestazione più accorata del divorzio fra una sensibilità aperta alla socievolezza e all’amore da una parte e l’istituto del matrimonio nei suoi aspetti più ipocriti e artificiali dall’altra. Secondo Packham, i discorsi che evidenziano l’animazione dello spirito di Maria, definitivamente frustrato con la reclusione fisica, sono imparentati con la terminologia dei poteri e delle energie vitali che si ritrova nei testi di fisiologia dell’epoca. L’accostamento fra energia vitale e socievolezza si carica qui di un forte senso di denuncia sociale: «in Maria questo “fuoco” viene esteso oltre gli atti discreti della discriminazione morale descritta da Smith, per alimentare quel rifiuto di un intero sistema di ipocrisia sociale e ineguaglianza» (p. 204).

La conclusione del volume tenta di rintracciare un filo conduttore fra le diverse esperienze intellettuali descritte nel corso dei capitoli. Una volta provato che di fatto sussiste una rete di

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analogie semantiche fra i linguaggi impiegati dai fisiologi vitalisti per descrivere la costituzione dei corpi animali e ambiti di ricerca che si orientano alla teoria politica piuttosto che alla pamphlettistica di tendenza radicale, Packham tenta di precisare meglio in che cosa consiste questo “vitalismo” che serve come pietra di paragone per tipologie di testi così diversi fra loro. Sulla scorta degli studi di Andrew Cunningham, la fisiologia dei vitalisti settecenteschi viene descritta come lo sforzo di costruire quadri teorici adatti all’identificazione di una causa non meccanica dei processi vitali. La tendenza variamente speculativa dei sistemi scientifici sviluppati nella Scozia del Settecento si manifesta nel cospicuo ricorso a una terminologia di poteri, forze, principi, anime vitali e così via, che serviva ai ricercatori per dare conto dei risultati di sperimentazioni anatomiche ormai incompatibili con il quadro concettuale del meccanicismo cartesiano. La relativa vaghezza di questo genere di spiegazioni – che Packham talvolta definisce “ipotetiche” o “speculative” – spiega la duttilità di un linguaggio suscettibile di trovare impiego in sede di discussione economica, politica o letteraria. Il criterio di demarcazione scelto per distinguere questo modello di indagine, fortemente orientato in senso eziologico e genetico, dalle ricerche degli scienziati ottocenteschi viene rintracciato nella specializzazione delle discipline scientifiche e delle figure professionali ad esse collegate: la fisiologia nell’Ottocento si caratterizza in senso più radicalmente sperimentale e dismette qualsiasi ricerca di cause “invisibili” dei fenomeni vitali. In questo modo, la scienza dei viventi si presenta più esplicitamente come una scienza della materia, che non ha nulla a che vedere con presunte cause spirituali, e la speculazione filosofica, dal canto suo, reagisce alla propria esclusione dall’ambito scientifico sviluppando metafisiche della totalità, che ricomprendono al proprio interno gli stessi fenomeni fisiologici.

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