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Recensione di: Heinrich Meier, On the Happiness of the Philosophic Life. Reflections on Rousseau’s «Rêveries», trad. inglese di Robert Bernam, The University of Chicago Press, Chicago-London, 2016, 345 pp.

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Academic year: 2021

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Heinrich Meier, On the Happiness of the Philosophic Life. Reflections on Rousseau’s «Rêveries», trad. inglese di Robert Bernam, The University of Chicago Press, Chicago-London, 2016, 345 pp.

In un celebre brano delle Confessions, in cui traccia il bilancio della ricezione del Discours sur l’inégalité a vent’anni dalla sua pubblicazione, Rousseau lamenta il fatto che la sua opera «ha trovato in tutta Europa solo pochi lettori che l’hanno capita, ma nessuno tra di loro che abbia voluto parlarne» (Confessions, libro VIII). La provocatoria tesi che anima il volume di Heinrich Meier consiste nell’estendere questa desolante constatazione alla ricezione – a ormai più di duecentotrent’anni di distanza dalla pubblicazione – dell’ultima fatica letteraria di Rousseau: le Rêveries du promeneur solitaire. Questo tormentato scritto (a cui Jean-Jacques lavorò negli ultimi due anni di vita e che fu dato alle stampe postumo nel 1782) sarebbe infatti sempre stato considerato e valorizzato in una prospettiva prettamente letteraria o estetica, trascurandone invece le fondamentali implicazioni filosofiche. Secondo Maier è necessario rileggere le Rêveries sottraendole allo schema esegetico più diffuso a partire dal Novecento, che vede in esse una delle «tre cime maggiori dell’autobiografia» (l’espressione è di Marcel Raymond), per ricollocarle all’interno di una più generale riflessione sul senso della vita filosofica e sulla peculiare felicità che la caratterizza.

Per provare a fornire un’interpretazione organica del libro di Rousseau da lui definito «il più audace e al contempo il più difficile da comprendere» (p. 4), Meier mette in atto una duplice strategia, che si riflette nella suddivisione in due libri del suo studio. La prima mossa consiste in una lettura rigorosamente filosofica delle Rêveries, portata avanti servendosi di un criterio al contempo «genealogico» e tematico. La ricostruzione della linea argomentativa che si snoda attraverso le dieci «passeggiate» – coerente e sistematica a dispetto dell’apparente dispersività del testo – consente di far emergere alcuni dei nuclei tematici fondamentali della filosofia di Rousseau, che spaziano dalla centralità della fede al concetto di natura, dalla funzione antropologica dell’amore (amor di sé, amor proprio, ecc.) alla necessità della conoscenza di sé, sino a giungere alla pervasività della riflessione politica. Quest’ultimo aspetto – oggetto di studio del quinto capitolo del volume, intitolato proprio Politics (pp. 135-177) – rappresenta uno degli spunti di riflessione più interessanti e originali dell’interpretazione di On the Happiness of the Philosophic Life. Le Rêveries du promeneur solitaire sono infatti convenzionalmente lette o come un testo estraneo alla riflessione politica (lo stesso aggettivo «solitaire» presente nel titolo ne sarebbe una spia), o addirittura come un’opera «impolitica», che sancirebbe cioè il fallimento dell’ideale antropologico del cittadino a favore di quello dell’uomo solitario – come suggerito ad esempio dalla celebre lettura di Tzvetan Todorov in Frêle bonheur (Paris, Hachette, 1985). Meier si sforza al contrario di mettere in luce come proprio la solitudine radicale a cui è condannato Rousseau, esiliato e perseguitato dalla società («Eccomi dunque solo sulla terra, senza […] altra società che me stesso» – recita il clamoroso incipit dell’opera), divenga uno strumento euristico fondamentale per ripensare le virtù politiche e le obbligazioni morali che sono alla base dell’esistenza sociale dell’essere umano. Questa componente politica del testo assumerebbe inoltre una rilevanza via via più centrale nel corso delle dieci promenades, trovando il suo punto di svolta nella sesta passeggiata (in cui viene affrontato il problema della generosità e della liceità dell’elemosina) e la sua apoteosi nella nona passeggiata, interamente incentrata sulla contrapposizione tra il «vero» Jacques, buono e socievole, e il «falso» Jean-Jacques – «costruito» dai suoi nemici – malvagio e misantropo.

A questa analisi completamente «interna» delle Rêveries segue una seconda interpretazione, distinta ma complementare alla prima, basata sulla lettura incrociata delle incompiute promenades con il testo che l’Autore considera la loro premessa teorica più compiuta, ossia la Profession de foi, incastonata nel quarto libro dell’Émile. Si tratta nuovamente di una scelta provocatoria, la cui ambizione risiede nel mettere in luce la continuità che sussiste tra l’unica opera in cui Rousseau si assoggetta alle regole del genere filosofico tradizionale e uno scritto apparentemente antifilosofico come le Rêveries. Il trait d’union tra queste due opere così distanti è individuato, ancora una volta, nella riflessione politica: «La religione e la fede sono fondamentali per la moralità e rivestono la più grande importanza per la politica» (p. 223). Nel secondo libro che compone il suo studio, Meier sottolinea in particolar modo le differenze (che segnalano tuttavia un’unitarietà di fondo nella delineazione del problema) tra la religione naturale esposta dal Vicario savoiardo – esempio paradigmatico di una vita felice ma non filosofica – e la teologia naturale del promeneur solitaire che, come mostrato nella prima parte del libro, è inseparabile da una concezione filosofica dell’esistenza.

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Anche se si tratta di un’opera ben documentata per quel che concerne i testi di Rousseau e incentrata su una tesi pienamente condivisibile – ossia il carattere autenticamente filosofico delle Rêveries – il volume di Maier presenta a nostro avviso un limite piuttosto evidente, che consiste nell’assenza di un effettivo dialogo con la letteratura critica esistente. Questo vale innanzitutto per le interpretazioni «classiche» delle Rêveries: l’Autore non cita mai Henri Gouhier, che per primo aveva visto nell’opera una lunga «meditazione sull’io, sul mondo e su Dio» (Les méditations métaphysiques de Rousseau, Paris, Vrin, 1970, p. 85), né La transparence et l’obstacle di Jean Starobinski, e neppure gli studi di Gaston Bachelard. La stessa lacuna si ripresenta per quel che concerne le letture più recenti incentrate sulla rivalutazione del carattere filosofico delle Rêveries (si pensi in particolare al volume The Nature of Rousseau’s Rêveries: Physical, Human, Aesthetic, a cura di J.C. O’Neal Oxford, Voltaire Foundation, 2008) o sulla loro possibile valenza politica (cfr. soprattutto R. Kennedy, Rêver de politique. Les Rêveries du promeneur solitaire, in Philosophie de Rousseau, a cura di B. Bachofen et al., Garnier, Paris 2013, pp. 413-426). Questo limite non inficia tuttavia la bontà di fondo del lavoro di Meier che, pur essendo probabilmente meno innovativo di quanto vorrebbe, rappresenta uno dei primi tentativi organici di ricostruire – per riprendere una suggestiva immagine dell’Autore – «il fuoco della filosofia [di Rousseau] nello specchio dell’acqua» della fantasticheria. [M. Me.]

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