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La pubblicità commerciale tra tutela della concorrenza e diritto del consumatore

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Academic year: 2021

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“Vale la pena fare pubblicità, se giustificata da una buona causa. Il Buddha pubblicizzò l’illuminazione e il nirvana. Se la pubblicità è ragionevole e benefica, va bene; ma se motivata solo dal profitto, dalla truffa e dallo sfruttamento, oppure se è fuorviante allora è sbagliato metterla in atto.”

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Indice:

Introduzione... 5

CAPITOLO I: La pubblicità commerciale: definizione ed evoluzione storico-normativa ... 11 - 1.1 Il d.lsg 74/1992 e la pubblicità commerciale ingannevole... 11

- 1.2 Riferimenti costituzionali... 16

CAPITOLO II: La pubblicità comparativa 18 - 2.1 La pubblicità comparativa: definizione e principi normativi…. 18 - 2.2 Quando la pubblicità comparativa è ammessa... 21

- 2.3 Tutela contro la pubblicità comparativa... 27

-2.4 Un caso emblematico: Plasmon contro Barilla……….. 29

CAPITOLO III: La pubblicità illecita... 35

- 3.1 La pubblicità superlativa... 35

- 3.2 La pubblicità ingannevole... 37

- 3.2.1 La pubblicità palese, veritiera e corretta... 41

- 3.2.2 Natura e caratteristiche della pubblicità ingannevole... 43

- 3.2.3 Criteri di valutazione della pubblicità come ingannevole... 50

- 3.3 La pubblicità non riconoscibile... 56

- 3.3.1 La pubblicità subliminale... 59

- 3.3.2 La giurisprudenza amministrativa e la pubblicità occulta... 60

- 3.4 La tutela dei più giovani... 63

- 3.5 Pubblicità tramite Internet e strumenti di telecomunicazioni... 65

- 3.5.1 Lo spamming...

- 3.5.2 L’e-commerce………... 66 66

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3

- 3.5.3 Il permission marketing... 70

CAPITOLO IV: Tutela contro la pubblicità ingannevole... 73

- 4.1 Competenza AGCM contro la pubblicità ingannevole... 73

- 4.1.1 Procedimento davanti l’AGCM... 75

- 4.1.2 Competenza dell’AGCM nei casi di pubblicità comparativa.. 80

- 4.2 L’autodisciplina pubblicitaria... 84

- 4.2.1 Composizione e procedura dell’Organo dell’Autodisciplina.. 87

- 4.3 Ricorso al Giudice ordinario... 89

CAPITOLO V Pratiche commerciali sleali... - 5.1 La direttiva 2005/29/CE………. 91 91 - 5.2 Pratiche commerciali ingannevoli... 95

- 5.3 Pratiche commerciali aggressive... 97

- 5.4 Le black lists... 98

CAPITOLO VI Codice del consumo e i decreti sulle pratiche commerciali scorrette. 102 - 6.1 Il codice del consumo... 102

- 6.2 Pratiche commerciali scorrette... 105

- 6.3 Tutela contro Pratiche Commerciali Scorrette……… 108

- 6.4 Risarcibilità del danno... 111

- 6.5 Una novità legislativa: le pratiche commerciali aggressive... 117

- 6.6 La giurisprudenza amministrativa e la nozione di “diligenza professionale" 125 CAPITOLO VII Pubblicità e Pratiche Commerciali Sleali nell’ordinamento tedesco 129 -7.1 UWG, la legge contro la concorrenza sleale... 129

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4

- 7.2 La pubblicità ingannevole nell’ordinamento tedesco………… 137

- 7.2.1 Tutela contro la pubblicità illecita……...……….... - 7.3 La pubblicità comparativa in Germania………..

140 143 Conclusioni... 146 Bibliografia... 152

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5 Introduzione

La concorrenza sleale è quella pratica economico-produttiva posta in essere dagli operatori di mercato, o più precisamente dai soggetti imprenditori, per ledere altri imprenditori concorrenti al fine di acquisire maggior clientela e migliorare la propria posizione di mercato, in modo illecito.

La concorrenza sleale è disciplinata, nel nostro ordinamento, dall’art. 2598 c.c., ma le prime regolamentazioni risalgono a normative internazionali, tra le altre la Convenzione di Parigi del 1883, per la Protezione della Proprietà Industriale.

Tra la metà del secolo XVIII e la fine del XIX, si è verificato nel mondo economico occidentale quello straordinario fenomeno noto come “la grande rivoluzione industriale”. Esso ha influenzato anche la comunicazione commerciale, con la produzione in grande serie e il conseguente dilatamento dei mercati: bisognava colmare il divario venutosi a creare tra la domanda e l’offerta dei beni, era necessario che una platea sempre più ampia di acquirenti fosse messa a conoscenza dei nuovi prodotti.

È nata così, in quegli anni, la pubblicità, o, secondo l’espressione dell’epoca, la réclame.

La funzione e lo sviluppo della pubblicità sono stati favoriti dalla diffusione parallela dei mezzi di comunicazione di massa, ed è risultato subito evidente che il legislatore sarebbe dovuto intervenire per risolvere le nuove problematiche giuridiche che ne sarebbero derivate: da un lato, l’interesse delle imprese a che la réclame dei concorrenti non violasse le “regole del gioco”, attraverso comunicazioni false e devianti; dall’altro, quello dei potenziali acquirenti a non essere ingannati da un siffatto tipo di comunicazione, ed indotti al compimento di atti economici pregiudizievoli.

Nel periodo intercorso tra la fine del primo conflitto mondiale e l’inizio del secondo si è cominciato ad affermare il principio secondo

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cui non è più l’offerta a creare la domanda, ma piuttosto è necessario stimolare la domanda affinchè aumenti la produzione e l’offerta: nasce la “società dei consumi” in cui, ancora una volta, il ruolo chiave è stato rivestito dalla pubblicità, che stimola i bisogni e incentiva la “propensione al consumo”, attraverso l’impiego di tecniche sempre più sofisticate ed il ricorso ad ogni possibile mezzo di comunicazione di massa, specie quelli audiovisivi.

Rispetto alla rapidità con cui si diffusero tali sistemi di comunicazione commerciale, lenta è stata la reazione del legislatore nei vari ordinamenti. L’autorità giudiziaria italiana, ad esempio, fino agli anni ‘60- ‘70 ha emesso delle sentenze in cui sottolineava che le menzogne pubblicitarie rientravano tra le più antiche abitudini mercantili, abitudini che avevano determinato quindi nei consumatori un alto senso critico, capace di far loro individuare le affermazioni non veritiere, e quindi non idonee a trarre in inganno. Si è dovuto aspettare sino alla metà degli anni ’80, e i primi ’90, in Italia, per avere una normativa organica e completa in materia. Oggi l’istituto della concorrenza sleale e della comunicazione commerciale è al centro dell’interesse del legislatore comunitario che si preoccupa di realizzare un mercato unico più competitivo possibile, a cui tutti gli operatori di mercato (e non solo la figura dell’imprenditore così come descritta dall’art. 2082 c.c.) possano liberamente partecipare o quanto meno avere la possibilità di accedere. Lo stesso TFUE (Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea) se ne occupa negli artt. 101 e 102.

Così recita infatti l’art 101 TFUE:

“Sono incompatibili con il mercato comune e vietati tutti gli accordi

tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto e per effetto di impedire,

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restringere o falsare il gioco della concorrenza all'interno del mercato comune ed in particolare quelli consistenti nel:

a) fissare direttamente o indirettamente i prezzi d'acquisto o di vendita ovvero altre condizioni di transazione;

b) limitare o controllare la produzione, gli sbocchi, lo sviluppo tecnico o gli investimenti;

c) ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento;

d) applicare, nei rapporti commerciali con gli altri contraenti, condizioni dissimili per prestazioni equivalenti, così da determinare per questi ultimi uno svantaggio nella concorrenza;

e) subordinare la conclusione di contratti all'accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari, che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun nesso con l'oggetto dei contratti stessi. “

Gli istituti a cui tale disposizione si riferisce sono nello specifico le ccdd pratiche concordate e gli accordi tra imprese.

Tuttavia non sono questi gli unici esempi di concorrenza sleale che potrebbero realizzarsi. L’art. 2598 c.c. prevede infatti che:

[..] compie atti di concorrenza sleale chiunque: 1. Usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con nomi o segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente;

2. Diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinare il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente; 3. Si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda.”

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Gli istituti previsti dal nostro codice sono quindi diversi. Vi sono delle fattispecie tipiche ai punti 1 e 2 e una clausola generale al punto 3. Tale clausola conclusiva è dovuta al fatto che il legislatore è conscio che in campo economico-commerciale si affacciano o possono affacciarsi sempre nuove figure, che possono ampliare il novero di condotte illecite e che pregiudicherebbero il mercato.

Il presente lavoro, come deducibile dall’excursus storico affrontato, si soffermerà su una delle pratiche più diffuse tra gli operatori del mercato, la quale è suscettibile di integrare, in determinati casi, una fattispecie anticoncorrenziale: la pubblicità.

La pubblicità di per sé non è una fattispecie illecita, al contrario essa è probabilmente uno degli strumenti più efficaci nelle mani di un imprenditore. Tramite essa l’operatore di mercato può far conoscere al pubblico il proprio bene o servizio, le sue modalità di utilizzo, i benefici che il consumatore ne riceverà con l’acquisto, etc.. È lo strumento più efficace, poiché permette da un lato di mostrare le qualità e i benefici di un prodotto, e dall’altro condiziona lato sensu la scelta d’acquisto del consumatore.

Il fatto che quest’ultimo possa essere indotto o meno all’acquisto di un prodotto grazie anche alla sua promozione pubblicitaria, fa sì che il legislatore si sia preoccupato di garantire la liceità e correttezza della stessa.

Del concetto di pubblicità il legislatore non parla direttamente nell’art. 2598 c.c., ma sicuramente esso è deducibile dai punti 2 e 3 della norma.

Il punto 2 parla infatti di attività idonea a determinare discredito al prodotto altrui, la cd denigrazione. Un esempio di attività denigratoria potrebbe essere la pubblicità comparativa.

Al contrario il punto 3 ci presenta una clausola generale, in cui si possono ricomprendere tutte le fattispecie lesive della concorrenza qualora sussistano i requisiti della scorrettezza professionale (la

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mancanza cioè di quella diligenza qualificata che è quella professionale) e l’idoneità a danneggiare il prodotto o l’attività altrui. Tra queste attività è possibile annoverare anche la pubblicità ingannevole o indiretta.

Il legislatore europeo ha rivestito in questa materia un ruolo fondamentale, anche a proposito della pubblicità.

L’UE si è espressa attraverso diverse direttive: 84/450/CEE, 97/55/CE, 2005/29/CE.

Il presente elaborato si svilupperà, dunque, attorno ai concetti fondamentali riguardanti la pubblicità: dalla sua evoluzione storico-normativa alle sue molteplici modalità di realizzazione.

Verrà esaminata la normativa interna più incisiva, il d.lgs n. 74/1992, il quale per la prima volta introduce, in Italia, regole e principi necessari per non realizzare un tipo di pubblicità ingannevole.

Successivamente verrà trattata la pubblicità comparativa, la quale è stata riconosciuta come lecita e realizzabile, in Europa, solo alla fine degli anni ’90, con la direttiva 97/55/CE.

Verranno illustrate le varie tipologie di pubblicità, diverse dalla comparativa, che possono realizzarsi, partendo da quella iperbolica, la quale difficilmente può rivelarsi ingannevole, per arrivare alle varie

réclame che presentano elementi di ingannevolezza e i diversi metodi

con cui queste devono essere esaminate ed, eventualmente, condannate. Tra le altre sono ricomprese, come illecite, anche le pubblicità indirette, ossia quelle non riconoscibili o subliminali. Si vedrà poi come il legislatore, sia europeo che italiano, sia stato, negli ultimi anni, particolarmente sensibile alla tutela di soggetti maggiormente influenzabili come i minori.

Fondamentale, in materia, è stato l’avvento e la celere diffusione di

Internet, e dell’e-marketing, il quale ha portato alla nascita di nuove

fattispecie di comunicazione commerciale illecita, spamming e

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Dal punto di vista cautelare si vedrà quali sono le autorità competenti a reprimere tali condotte, qualora realizzino un atto di concorrenza sleale. Dall’Organo dell’Autodisciplina, competente in materia sin dalla seconda metà degli anni ’60, all’Autorità Garante, alla quale è stato affidato tale ruolo solo dal 1992.

Infine si andranno ad analizzare le normative più recenti, la direttiva europea sulle pratiche commerciali sleali e i successivi decreti di attuazione. Disposizioni che hanno toccato anche l’area della pubblicità, in quanto il legislatore europeo ha annoverato, tra le pratiche ingannevoli, anche quella pubblicitaria ed ha introdotto nuove fattispecie di pratiche sleali, quelle aggressive, le quali possono realizzarsi, in determinati casi, anche attraverso messaggi promozionali. Tali regolamentazioni hanno introdotto, inoltre, un elenco di condotte da considerarsi di per sé illecite, ingannevoli o aggressive, senza che sia necessario effettuare ulteriori indagini: la

black list.

Infine questo lavoro analizzerà anche la normativa riguardante l’utilizzo illecito della pubblicità e quella sulle pratiche commerciali sleali in un altro ordinamento: quello tedesco. Verranno esaminati gli articoli di riferimento contenuti nel testo di legge riferito alla concorrenza sleale, l’UWG (Gesetz gegen den unlauteren

Wettbewerb) e l’influenza che ha avuto in tale Paese la direttiva del

2005. Le parti trattate riguarderanno specialmente i § 3 e § 6 UWG, riferiti rispettivamente alle pratiche commerciali sleali e alla pubblicità comparativa.

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CAPITOLO I

La pubblicità commerciale: definizione ed evoluzione storico-normativa.

SOMMARIO: 1.1 Il d.lgs n. 74/1992 e la pubblicità commerciale ingannevole; 1.2 Riferimenti costituzionali.

La pubblicità: il termine deriva dal latino publicus che riveste un doppio significato giuridico, “essere pubblico” e “rendere pubblico”. Nel primo senso si usa la voce “pubblicità” per indicare qualcosa di accessibile al pubblico (es. pubblicità dei dibattimenti); nel secondo essa assume il significato di rendere noto un determinato evento mettendo la collettività in grado di conoscerlo attraverso certe formalità (es. le trascrizioni). In questi ultimi casi si parla di “pubblicità legale”.

La nozione di pubblicità che a noi interessa ha invece una portata diversa, derivante dal linguaggio imprenditoriale, ed intesa come “pubblicità commerciale”, ossia comunicazione rivolta al pubblico per stimolarlo, direttamente o indirettamente, rispetto al compimento di un certo atto economico consistente nell’acquisto di beni o di servizi. Essa andrebbe distinta pertanto da altre comunicazioni, quali la “propaganda” che stimola il compimento di atti di natura non economica (propaganda politica, ideologica, religiosa..); tuttavia sovente si è attribuito a questi termini lo stesso significato, utilizzandoli come sinonimi.

1.1 Il d.lgs 74/1992 e la pubblicità commerciale ingannevole

Fino all'entrata in vigore del d.lgs. Del 25 Gennaio 1992 n. 74 mancava, nell’ ordinamento positivo italiano, una qualsiasi norma di carattere generale che espressamente sancisse, per qualsiasi tipo di

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prodotto o servizio ed indipendentemente dal settore merceologico di riferimento, l’illiceità della pubblicità ingannevole.

Esistevano diverse disposizioni contenute in varie leggi che vietavano di pubblicizzare certi prodotti o certe forme di vendita che potessero indurre in errore il pubblico sulle loro caratteristiche. Tuttavia si trattava di norme che non presentavano alcun collegamento tra di loro e che non rispondevano ad alcun disegno organico, ma che piuttosto toccavano solo alcune aree merceologiche lasciando priva di tutela la restante gran parte. Vero è che la pubblicità ingannevole era stata considerata illecita in via di principio anche dalla giurisprudenza consolidata, la quale, con riferimento alla clausola generale dell’art. 2598 n. 3 c.c., ravvisava un comportamento scorretto idoneo a sviare la clientela altrui, ma tale disposizione mirava a tutelare solamente gli interessi dei concorrenti, i quali non sempre coincidevano con quelli dei destinatari della comunicazione commerciale: i consumatori. La situazione legislativa italiana antecedente il decreto n. 74 era dunque carente per l’esiguità e la limitatezza delle aree coperte da queste norme, che si limitavano tra l’altro ad enunciare un obbligo meramente negativo (divieto di pubblicità ingannevole) senza esprimere, in positivo, il principio secondo cui una pubblicità deve rispondere ai criteri di verità e correttezza. In sostanza le norme e l’orientamento giurisprudenziale di quegli anni non avevano mai considerato la pubblicità nel suo momento fisiologico, come comunicazione con funzione informativa, ma solo quando avesse rivestito gli estremi dell’illecito.1

La prima definizione normativa generale di pubblicità è contenuta nell’art. 2, comma 1 del d.lgs n. 74 del 25/01/1992. Essa è definita come “qualsiasi forma di messaggio, che sia diffuso in qualsiasi

modo, nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale, allo scopo di promuovere la vendita di

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beni mobili o immobili, la costituzione o il trasferimento di diritti ed obblighi su di essi, oppure la prestazione di opere o di servizi”.

Si tratta del decreto legislativo attuativo dell’art. 2, comma 1 della direttiva 84/450/CEE in materia di pubblicità ingannevole, che a sua volta definisce come pubblicità “qualsiasi forma di messaggio che sia

diffuso nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale, allo scopo di promuovere la fornitura di beni o di servizi, compresi i beni immobili, i diritti e gli obblighi”.

Prima ancora del decreto del 1992 era stata una legge ordinaria, la l. 06/08/1990 n.223 (cd legge Mammì), sulla disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato, ad aver fornito un’articolata disciplina in materia di pubblicità, dettando alcuni principi essenziali sul tema, per quanto limitati al settore radiotelevisivo.2

Più ampia e dettagliata è la descrizione che della pubblicità offre il Codice dell’Autodisciplina Pubblicitaria (C.A.P.) adottato dall’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria (IAP). Si tratta di un ente privato di cui fanno parte numerose associazioni, organizzazioni ed enti del settore e che affida ad un apposito Giurì il controllo della pubblicità utilizzata dai propri associati. La prima edizione del C.A.P. risale al 12/05/1966, quella attualmente in vigore è la sua 57° edizione del 06/04/2013. Da tale Codice la pubblicità è definita come “ogni forma

di comunicazione, anche istituzionale, diretta a promuovere la vendita di beni o servizi, quali che siano le modalità utilizzate”.3

Si definisce pubblicità non solo quella commerciale, ma anche quella istituzionale, che pur non avendo come diretto obiettivo la vendita di beni o servizi, persegue comunque lo scopo di accreditarsi l’immagine dell’azienda agli occhi dei consumatori. Il Giurì è approdato ad una interpretazione assai più ampia della nozione di pubblicità, fino a comprendervi ogni tipo di relazione comunicativa intrattenuta

2

Art. 8, punti 1-18, l.223/90

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dall’impresa con il mercato, ogni comunicazione che sia di supporto allo sviluppo di un’attività economica, escludendo che l’attività cui la pubblicità è funzionale debba avere carattere necessariamente imprenditoriale. Fuori da tale nozione resta allora solo la comunicazione che non interviene nel rapporto di consumo, e si rivolge al cittadino in quanto tale e non in quanto consumatore.4

Anche l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) fornisce una definizione di pubblicità considerandola come “quella

forma di comunicazione a pagamento, diffusa su iniziativa di operatori economici (attraverso mezzi come la televisione, la radio, i giornali, le affissioni, la posta, internet) che tende in modo intenzionale e sistematico a influenzare gli atteggiamenti e le scelte degli individui in relazione al consumo dei beni e all’utilizzo dei servizi".5

Ulteriori definizioni di pubblicità sono poi ricavabili da testi di fonte convenzionale, come nel “Code International de Pratiques Loyales en matière de Publicité” emanato dalla Camera di Commercio Internazionale nel 1973 che la indica come “tutte le forme d’azione

pubblicitaria a favore di prodotti o servizi”, comprendendo anche le

indicazioni sugli imballaggi, le etichette e il materiale pubblicitario usato nei punti vendita.

La pubblicità rappresenta per le imprese lo strumento più importante di valorizzazione e di sponsorizzazione di prodotti e servizi.

Essa può essere esaminata sotto diversi profili, anzitutto quello contrattuale, in quanto il fornitore o il venditore che pubblicizza sta assumendosi degli obblighi nei confronti del consumatore, che dovrà poi rispettare, da qui deriva la repressione della pubblicità non veritiera. In secondo luogo sul piano concorrenziale: vi è infatti uno stretto rapporto tra la pubblicità e una corretta concorrenza, dal

4

V. Meli, La repressione della pubblicità ingannevole, p. 25-26

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momento che la promozione della propria immagine o del proprio prodotto svolge un ruolo fondamentale nelle relazioni tra imprese appartenenti allo stesso segmento di mercato (si pensi alla pubblicità comparativa). Vi è poi un terzo profilo, più recente, concernente la tutela del consumatore, che disciplina e protegge gli interessi individuali e collettivi (grazie anche alla direttiva 2005/29/CE e al codice del consumo, che hanno come obiettivo primario proprio la tutela del consumatore).

Vi è da aggiungere infine che la pubblicità è molto persuasiva e per questo non può rimanere incontrollata, per cui spesso sono stati necessari interventi dell’Autorità o del Giurì dell’Autodisciplina, meno frequenti quelli dei Tribunali nella Sezione Imprese, competenti quando la condotta anticoncorrenziale leda o incida in qualche modo anche sui diritti di proprietà industriale.

Vi sono delle caratteristiche a cui una pubblicità deve rispondere per essere definita tale, come la presenza di una comunicazione finalizzata a stimolare la domanda di tali beni o servizi, in ragione dello scopo di lucro perseguito, e non si tratta di mera manifestazione di pensiero, poiché, come ha chiarito lo stesso Giurì , essa “è strumentale ai fini

economici dell’impresa.”6

Lo scopo di promuovere il prodotto comunque non va accertato “attraverso un’analisi psicologica sulle intenzioni dell’autore del messaggio; ma desunto dalle caratteristiche obiettive del messaggio stesso, ricomprendendo nella nozione di messaggio ogni tipo di comunicazione, anche se la sua funzione promozionale non è esplicita.”7

Non ne fanno parte le cd pubblicità sociali, come le pubblicità progresso, generalmente effettuate da associazioni senza scopo di

6

Dec. N. 21/1991 www.iap.it

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lucro ma a fini solidali, come ad esempio le pubblicità contro la droga o di prevenzione dell’AIDS.

1.2 Riferimenti costituzionali

La fattispecie in esame è stata oggetto di varie modifiche e revisioni, sia a livello interno, sia principalmente comunitario, e ha spostato sempre più l’attenzione sulla tutela del consumatore, focalizzando anche le novità che incidono sul panorama commerciale, in particolare l’avvento e la diffusione di Internet, che ha portato alla creazione di nuove fattispecie da cui tutelarsi, come lo spamming o la mailing. Alcuni esempi di pubblicità illecita invece sono sempre meno frequenti, quale quella subliminale.

Rimane da qualificare la comunicazione pubblicitaria dal punto di vista costituzionale: essa deve essere considerata come manifestazione di pensiero e quindi tutelata ex art. 21 Cost., ovvero come attività imprenditoriale e dunque riconducibile nell’ambito dell’art. 41 Cost.? La Corte Costituzionale più volte ha precisato che la pubblicità commerciale costituisce fonte di finanziamento degli organi di informazione ed è quindi da considerare una componente delle attività delle imprese editoriali e televisive, subordinata quindi alle limitazioni di cui il 2° e il 3° comma dell’art. 41 Cost. Come affermato anche dall’art. 8 della suddetta legge Mammì a proposito della pubblicità radiofonica e televisiva, nonché dall’art. 4 del d. lgs 74/92 “la

pubblicità deve essere chiaramente riconoscibile come tale”: vi è una

chiara distinzione tra la mera informazione neutra, asettica riproduzione di dati e la comunicazione pubblicitaria soggetta alla disciplina di riferimento (l.223 e d.lgs 74 e seguenti modifiche).

Diversa è stata la posizione presa invece dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo, la quale ha ritenuto che la pubblicità commerciale rientrasse tra le forme di espressione tutelate dall’art. 10 della

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Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, sottolineando tuttavia che essa può essere soggetta a restrizioni, censure, e autorizzazioni.8

Alla luce di ciò si può concludere sostenendo che la pubblicità è soggetta ai limiti del 2° e 3° comma dell’art. 41 Cost., limiti previsti per le attività economiche. La norma prevede infatti che ogni attività economica non debba essere in contrasto con l’utilità sociale o arrecare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e debba inoltre rispondere alla legge ordinaria che ne determinerà programmi e controlli opportuni affinchè tale attività possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali. Pertanto, qualora essa sia lesiva, sleale, scorretta, o violasse le norme di legge che la riguardano, dovranno essere applicate le opportune sanzioni o restrizioni. La stessa disposizione, con i suddetti vincoli, è applicabile dunque alla comunicazione commerciale in quanto inerente ad un’attività economica.

8

Francesco Saja, presidente AGCM, saggio inserito in “La pubblicità” di Giorgio Bernini

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CAPITOLO II

La pubblicità comparativa.

SOMMARIO: 2.1 Pubblicità comparativa: definizione e principi normativi; 2.2 Quando la pubblicità comparativa è ammessa; 2.2 Tutela contro la pubblicità comparativa scorretta; 2.3 Un caso emblematico: Plasmon contro Barilla.

2.1 Pubblicità comparativa: definizione e principi normativi

L’art. 2598 c.c. è la norma fondamentale che riguarda la disciplina della concorrenza sleale nel nostro ordinamento. Il punto 2 di tale disposizione indica come atto anticoncorrenziale la diffusione di notizie su prodotti o attività del concorrente idonee a determinarne il discredito: è la cd denigrazione.

Tra i diversi modi con cui è possibile realizzare tale fattispecie anticoncorrenziale si può annoverare anche la pubblicità comparativa. La definizione “pubblicità comparativa” è molto generica, in quanto comprende almeno tre forme di comparazione che è importante distinguere, anche per la differente prospettiva giuridica cui danno luogo:

- la cd “comparazione diretta” o “nominativa”, in cui si opera un aperto confronto tra l’impresa o il prodotto pubblicizzato ed una o più imprese o prodotti concorrenti espressamente nominati ovvero individuati o individuabili attraverso non equivoci riferimenti;

- la cd “comparazione indiretta” nella quale il raffronto avviene con aziende o prodotti non individuati o individuabili (es. pubblicità dell’acqua Uliveto);

- la “superlazione”, nella quale, pur in assenza di un confronto esplicito, l’uso del superlativo relativo (il migliore, il più efficace..) implica, pur non esprimendola, una comparazione generica con tutti

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gli altri prodotti dello stesso genere o tutte le altre aziende di settore.9 Delle tre forme è la prima quella più controversa, tale da essere stata trattata in maniera diversificata nei vari ordinamenti. Gli Stati Uniti ad esempio hanno sempre ammesso la comparazione pubblicitaria, mentre la maggior parte dei paesi europei fino a qualche anno fa la vietava del tutto. Oggi essa è ammessa ma a determinate condizioni. L’ordinamento italiano comunque fu uno dei primi a non proibire la pubblicità comparativa in modo assoluto, alla condizione che non vi fosse alcuna norma a vietarla. Ciò che non veniva e non viene tuttora consentito, sul piano concorrenziale, è denigrare i concorrenti o i loro prodotti in relazione a quanto dispone l’art. 2598 n. 2 c.c. Poiché la pubblicità comparativa consente, da un lato, a chi ne fa uso di “mettere in luce” i propri prodotti, e dall’altro a sottolineare gli aspetti negativi di quelli dei competitors, ne deriva che spesso, soprattutto in passato, essa sia stata qualificata illecita, in relazione agli effetti denigratori da essa prodotti.

Oggi la pubblicità comparativa è ammessa se sono rispettati determinati criteri, dettati dalla direttiva 97/55/CE, modificativa della precedente n. 84/450/CEE, e dal d. lgs n. 67/2000.

La comparazione pubblicitaria diretta è stata generalmente considerata illecita dall’Autorità giudiziaria, in quanto denigratoria. In precedenza tale considerazione era assoluta, poiché si riteneva che una pubblicità, critica e obiettiva per quanto potesse essere, per sua natura, non fosse mai improntata a criteri di imparzialità. Tuttavia ancor prima dell’ingresso della direttiva suddetta, che riconosce la possibilità di una pubblicità comparativa lecita, la giurisprudenza aveva assunto una posizione più flessibile, riconoscendo a determinati presupposti che tale confronto fosse ammissibile, ad esempio quando si trattava di comparare prezzi.

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Posizione molto più rigida è stata invece mantenuta dall’organo dell’autodisciplina pubblicitaria: il codice all’art. 15 ammetteva in passato solo, ed entro limiti molto severi, una pubblicità comparativa indiretta, vietando in modo assoluto quella nominativa diretta. Numerosi sono i casi in cui il Giurì ha censurato una comparazione con raffronto diretto, ovvero casi in cui, pur non menzionando l’azienda o il prodotto oggetto di confronto, gli stessi venivano individuati attraverso riferimenti non equivoci ai loro elementi distintivi. L’unica eccezione che veniva posta era nel caso in cui il mercato di riferimento fosse caratterizzato da un sostanziale duopolio, poiché in tali casi la comparazione finiva per essere sempre “diretta”, essendovi un solo concorrente.

Ovviamente con le riforme introdotte anche il codice dell’autodisciplina si è dovuto adeguare e l’attuale art. 15 prevede che sia consentita la comparazione quando questa sia utile ad illustrare caratteristiche e vantaggi di beni e servizi, ponendo a confronto obiettivamente elementi essenziali, verificabili tecnicamente e rappresentativi di beni e servizi concorrenti che soddisfino gli stessi bisogni o si pongano gli stessi obiettivi.10 Il nuovo dettato dell’art. 15 riprende le caratteristiche proprie che deve avere una pubblicità comparativa affinchè sia lecita; essa neanche per il Giurì sarà più ex se scorretta.

Per quanto riguarda le pubblicità comparative “indirette” invece queste erano ammesse nel nostro ordinamento anche prima della riforma del 2000, infatti, non essendo nominata l’azienda o il produttore concorrente, si riteneva che non potesse crearsi alcuna denigrazione. Lo stesso codice dell’autodisciplina la ammetteva a determinate condizioni: il confronto doveva basarsi su dati veri ed essere circoscritto ad aspetti significativi e rilevanti per il consumatore, quali le caratteristiche e le proprietà del prodotto o le

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condizioni economiche dell’offerta. La posizione del Giurì rimaneva comunque molto rigida anche in tali casi infatti diversi sono stati i provvedimenti adottati contro pubblicità di questo genere che, seppur veritiere, sfociavano in una denigrazione; veniva considerata illecita persino la pubblicità comparativa indiretta che causava “auto denigrazione” (ad es. il confronto di nuovi modelli con altri vecchi e obsoleti della stessa impresa), se essa era tale da ledere anche i produttori concorrenti.

Oggi non vi è più alcuna distinzione normativa tra pubblicità comparativa diretta e indiretta: è possibile realizzare una campagna pubblicitaria con confronti diretti ma che rispetti determinati presupposti. In ogni caso, sia che si tratti di comparazione diretta o indiretta, non debbono mai integrarsi gli estremi di un atto denigratorio, il quale rimane sempre vietato. Evidentemente però tale fattispecie sarà più facilmente ravvisabile in un confronto di tipo diretto piuttosto che indiretto.

2.2 Quando la pubblicità comparativa è ammessa

La pubblicità comparativa, implicitamente od esplicitamente, fa riferimento a un concorrente o a beni e servizi concorrenti. Essa non è di per sé illegittima, in quanto può essere utile per informare i consumatori, nel loro interesse.

È ritenuta lecita qualora rispetti le seguenti condizioni: che essa - non sia ingannevole ai sensi delle direttive comunitarie nn. 2006/114/CE e 2005/29/CE;

- confronti beni e servizi che soddisfano gli stessi bisogni o si propongono gli stessi obiettivi;

- per prodotti recanti la denominazione d’origine, si riferisca in ogni caso a prodotti aventi la stessa denominazione;

- confronti obiettivamente una o più caratteristiche essenziali del prodotto;

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- effettui confronti verificabili e rappresentativi;

- non causi discredito o denigrazione di marchi, denominazioni commerciali, altri segni distintivi, beni e servizi di un concorrente.11 Questi sono i presupposti affinchè la pubblicità comparativa sia ammessa, presupposti che vengono confermati nella direttiva europea 2006/114/CEE, direttiva di codificazione che sostituisce definitivamente la precedente in materia di pubblicità ingannevole, la dir. 84/450/CEE.

Il primo riferimento normativo è riscontrabile proprio nella direttiva del Consiglio Europeo n. 84/450/CEE.

Scopo primario della norma è quello di “tutelare il consumatore e le

persone che esercitano attività commerciale (..) dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali”.12

Anzitutto risulta evidente che il soggetto che potrebbe venire pregiudicato dalla pubblicità non è solo l’imprenditore concorrente ma anche il consumatore. Questi non rimane mero spettatore, osservatore o giudice della condotta imprenditoriale ma diventa soggetto passivo a tutti gli effetti, e in quanto tale deve essere tutelato.

Tuttavia tale direttiva inizialmente non si è occupata della pubblicità comparativa. Essa è stata disciplinata e riconosciuta come lecita per la prima volta, nel nostro ordinamento, dopo l’ingresso della direttiva 97/55/CEE e nel corrispondente decreto attuativo n. 67/2000.

Tale norma prende le mosse da quelli che sono gli obiettivi propri della CE, cioè creare un mercato interno unico, affidando un ruolo fondamentale alla pubblicità in tal senso. Essa raffigura uno strumento fondamentale per aprire sbocchi reali in tutta l’UE per qualsiasi bene o servizio, per cui le disposizioni che disciplinano forma e contenuto della pubblicità comparativa devono essere uniformi e le condizioni per la sua utilizzazione vanno armonizzate in tutti gli Stati Membri.

11

Art. 4, Direttiva n. 2006/114/CE, Eur-lex

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Sarà utile ricorrervi dunque per mettere in evidenza, oggettivamente, quelli che sono i pregi dei prodotti, pregi ovviamente comparabili. La pubblicità infatti può stimolare la concorrenza tra gli imprenditori, nell’interesse dei consumatori.

Tale direttiva afferma proprio che la pubblicità comparativa per non essere sleale o negativa per la concorrenza deve permettere solo il confronto tra beni o servizi che soddisfino gli stessi bisogni o che si pongano gli stessi obiettivi. Potrebbe inoltre essere indispensabile per l’imprenditore fare riferimento ai pregi, alle caratteristiche, ai marchi o alla denominazione altrui per poter pubblicizzare il proprio prodotto. Ciò che rileva è che siano comunque rispettate le condizioni della direttiva e lo scopo finale sia quello, e unicamente quello, di effettuare distinzioni tra di loro per metterne obiettivamente in rilievo le differenze.13

Le novità introdotte con tale direttiva sono tangibili sin dal primo articolo. La direttiva dell’84 infatti si poneva l’obiettivo di tutelare il consumatore e i concorrenti dalla sola pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze, lasciando ben poco spazio alla pubblicità comparativa, anzi assimilandola in tutto e per tutto, sia come fattispecie che come effetti, alla pubblicità ingannevole. Ma dalla lettura dell’art.1 della successiva direttiva si nota il mutamento di direzione del legislatore comunitario e il suo intento nel disciplinare una forma di pubblicità diversa da quella ingannevole:

Art.1- “ La presente direttiva ha lo scopo di tutelare i consumatori e

le persone che esercitano un’attività commerciale, industriale (..) dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali e stabilire le condizioni di liceità della pubblicità comparativa”.

Analizzando i vari “considerando” della normativa si capisce quanto il legislatore tenga alla “salvezza” della pubblicità comparativa, prevedendo appunto delle ipotesi in cui questa possa essere lecita

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senza sanzionarla per il solo fatto di essere realizzata. Ciò che risulta da tale articolo è che, diversamente che per la pubblicità ingannevole, per la pubblicità comparativa è fisiologicamente previsto un profilo di liceità: quest’ultima non va ritenuta illecita di per sé, ma sarà soggetta ad un’analisi più accurata al termine della quale sarà possibile stabilire se rientra tra le fattispecie di concorrenza sleale o meno.

Sin da subito quindi è possibile affermare che si possono ritrovare casi di pubblicità comparativa non lesiva. La sua portata lecita o illecita verrà quindi esaminata volta per volta in base a dei parametri determinati. È lo stesso legislatore a fornire delle linee guida per stabilire la portata lecita o illecita di tale pubblicità, esse sono annoverate all’art. 3 bis:

- Non deve essere ingannevole ai sensi dell’art. 2, punto 2, dell’art. 3 e dell’art. 7, paragrafo 1 della direttiva dell’84. Pertanto sarà lesiva quella pubblicità che induca o possa indurre in errore i suoi destinatari, pregiudicandone il comportamento economico e di conseguenza ledendo i concorrenti. Per valutarne la portata lesiva poi si devono considerare tutti gli elementi costitutivi del bene o servizio, ossia natura, scopo, origine, risultati che si possano attendere, prezzo, condizioni di fornitura;

- non sarà ingannevole nel caso in cui il confronto avvenga su beni e servizi che si pongano gli stessi obiettivi o soddisfino gli stessi bisogni;

- se il confronto avverrà tra una o più caratteristiche essenziali o pertinenti del bene, verificabili o rappresentative, compreso il prezzo; - non crei confusione, né causi discredito, non se ne tragga indebitamente vantaggio dall’uso della connessione a marchi o prodotti altrui, non si presenti un bene come imitazione o contraffazione di marchio altrui, legittimamente depositato (cd marchio registrato).

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Le indicazioni fornite dal legislatore sono chiare ed è immediatamente possibile dedurre quale sia la portata lecita di una pubblicità comparativa: affinchè essa sia tale occorre una comparazione effettuata tra prodotti che soddisfino gli stessi bisogni, ovviamente soddisfare gli stessi bisogni non comporta necessariamente l’esistenza di un’identità tra i prodotti, possiamo avere infatti prodotti diversi che però soddisfino ugualmente il consumatore e prodotti invece che, al consumatore medio, potrebbero apparire uguali mentre non soddisfano gli stessi bisogni o non si pongono i medesimi scopi.

Per fare un esempio, prodotti che si pongono lo stesso obiettivo potrebbero essere una bottiglietta di acqua minerale e una di bibita gassata, certamente non è lo stesso prodotto, ma tuttavia assolvono allo stesso compito: dissetare.

Viceversa si potrebbe ritenere che vi sia identità tra una busta di latte fresco e una di latte a lunga conservazione, invece in questo caso siamo di fronte a due prodotti non solo differenti ma addirittura non interscambiabili o sostituibili e quindi non paragonabili tra loro, poiché il secondo tipo di latte, ad esempio, non è adatto a determinate fasce di consumatori, quali i neonati.

La direttiva del 1997, così come altre normative interne, derivano da una ricca giurisprudenza14 che si era già ampliamente e anche in modo piuttosto univoco, espressa riguardo a casi in cui la pubblicità comparativa era ammessa.

Un elemento risulta evidente dalla lettura della direttiva in esame: l’obiettività.

Una pubblicità comparativa è lecita quando basata su elementi obiettivi, verificabili, rappresentabili.

Ciò che il legislatore vuole puntualizzare è che la pubblicità è strumento di chi svolge attività commerciale al fine di promuovere il suo prodotto ma è anche espressione di uno dei diritti fondamentali

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del consumatore: diritto all’informazione. Gli operatori pubblicitari nel momento in cui realizzano una pubblicità comparativa basata su elementi oggettivi non fanno altro che “semplificare” il compito del consumatore, anticipare valutazioni che egli comunque sarà portato a compiere.

Ad esempio: un imprenditore che pubblicizza il suo prodotto facendolo apparire “splendente”, in un contesto socio-culturale di alto livello e vi pone accanto il prodotto altrui (paragonabile) inserendolo all’interno di un contesto sociale decisamente medio - basso, sta compiendo un’attività sleale. S’induce infatti il consumatore a credere che la sua qualità di vita migliorerà decisamente acquistando il prodotto di quell’imprenditore, piuttosto che quello di un altro. È necessario ricordare comunque che il consumatore da tutelare è sempre un soggetto mediamente avveduto, e quindi deve essere effettiva la portata ingannevole della condotta secondo le capacità di discernimento di tale soggetto.

Una pubblicità comparativa sarà dunque sleale nel momento in cui verranno posti in essere dei paragoni non valutabili, non accertabili, non obiettivi.

Il primo elemento paragonabile, e forse anche quello più incisivo nella scelta d’acquisto, sarà il prezzo del prodotto.

Se un imprenditore per la sua campagna pubblicitaria decide di mettere a confronto il prezzo d’acquisto del proprio bene con il prezzo di quello di altri sostituibili, non compie atto di concorrenza sleale. Egli sta solamente illustrando un fattore del tutto verificabile, non solo dagli altri concorrenti il cui prodotto è termine di comparazione, ma anche dai consumatori stessi. Ogni consumatore, prima dell’acquisto di un certo prodotto, può verificare se può soddisfarsi allo stesso modo con un altro, ma risparmiando. L’imprenditore che usa questo tipo di pubblicità sta solo anticipando l’esito di tale verifica.

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Diversi sono i casi di questo genere con cui si può venire a contatto quotidianamente. Si pensi alle compagnie assicurative, bancarie, etc.. che sul sistema della comparazione dei prezzi hanno basato molte delle loro pubblicità.

2.3 Tutela contro la pubblicità comparativa scorretta

Numerosi sono stati i ricorsi presentati all’AGCM (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato), in cui si richiedeva la cessazione di condotte lesive basate su pubblicità comparative, le quali schermandosi dietro elementi obiettivi in realtà basavano la comunicazione su fattori psicologici diversi.

Le direttive europee in materia sono state recepite nel nostro ordinamento rispettivamente con i d.lgs nn. 74/92 e 67/2000.

A seguito della direttiva 97/55/CE è stato aggiunto al d.lgs del 1992 l’art. 3 bis, il quale viene richiamato poi espressamente dal d. lgs n. 67/2000.

Entrambe le disposizioni confermano ciò che già era stato chiarito nella direttiva europea, ossia la possibile liceità della pubblicità comparativa una volta che siano rispettati i criteri suddetti.

Nel momento in cui l’operatore pubblicitario non rispetta tali criteri compie un’attività sleale, per cui sarà necessario rivolgersi all’autorità competente in materia: l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, istituita con la l.287/90.

L’art. 5 del d.lgs n. 67 prevede infatti che i concorrenti, e non solo, ma anche i consumatori e le loro associazioni di categoria ed organizzazioni, possano rivolgersi all’Autorità per chiedere che siano inibite le pubblicità comparative ritenute illecite, che venga sospesa la loro continuazione e che siano eliminati gli eventuali effetti intanto realizzati. L’Autorità è dotata anche del potere di emettere un provvedimento di tipo cautelare, il quale sospenderà immediatamente

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e provvisoriamente la pubblicità, nel caso in cui ritenga che vi siano ragioni di urgenza. L’avvio della procedura deve essere comunicato all’operatore commerciale, che ha realizzato la pubblicità, cosicché questi sia messo in grado di presentare le sue difese, con prove a sostegno dell’esattezza dei dati contenuti nella pubblicità. L’Antitrust si può avvalere anche dell’aiuto, tramite richiesta di pareri, di altre Autorità, come quella per le garanzie nelle comunicazioni, quando ad esempio le pubblicità vengono trasmesse attraverso mezzi di comunicazione di massa, come la stampa o la radiotelevisione. Qualora al termine dell’istruttoria l’Autorità riscontri che sussistano i presupposti per dichiarare l’illiceità della pubblicità, emette un provvedimento con cui vieta la trasmissione o la continuazione della stessa.

Per una corretta procedura istruttoria sono comunque garantiti, anche in questa sede, principi processuali, quali il rispetto del contraddittorio, la piena cognizione degli atti e le verbalizzazioni. L’operatore che non ottempererà ai provvedimenti emessi sarà suscettibile di arresto e/o condanna al pagamento di una sanzione pecuniaria: sanzioni applicabili anche ad altri soggetti, quali il proprietario del mezzo di diffusione del messaggio nel caso in cui si rifiutasse di collaborare alle indagini, omettendo informazioni rilevanti.

Contro tali provvedimenti è ammesso ricorso al giudice amministrativo: si tratta di uno dei casi di giurisdizione esclusiva. Tuttavia la competenza dell’AGCM, nei casi di pubblicità comparativa, è discussa dalla dottrina, la quale sostiene che tale Autorità deve essere adita solo quando l’attività anticoncorrenziale leda gli interessi anche dei consumatori e non solo dei concorrenti. Nei casi di pubblicità comparativa il più delle volte vengono pregiudicati solo gli interessi dei concorrenti, quindi più volte è stata sostenuta l’incompetenza dell’Autorità. Nella prassi ciò che è

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accaduto è stato diverso, in quanto essa si è espressa anche in materia di pubblicità comparativa.15

Infine l’art. 6 del decreto riconosce comunque alle parti la possibilità di rivolgersi anche ad un organismo volontario e autonomo di autodisciplina: il Giurì dell’Istituto dell’autodisciplina pubblicitaria.

2.4 Un caso emblematico: Plasmon contro Barilla

Di seguito vi è un sunto di un caso di pubblicità comparativa ritenuta scorretta. Esso è stato denominato dai media “guerra tra colossi”, tra Plasmon S.r.l. e Barilla S.p.A.

A scatenare la diatriba tra i due colossi alimentari sono state alcune pubblicità comparative realizzate dalla società Plasmon nel 2011, apparse sui giornali e in rete. Si trattava di pubblicità di alcuni suoi prodotti, come pasta e biscotti, in cui si mettevano a confronto le proprietà nutritive di questi con quelle dei medesimi alimenti prodotti dalla società concorrente Barilla.

Sulle confezioni della pasta Plasmon, chiamata “Pasta per bambini”, infatti, veniva effettuato un confronto tra i valori nutrizionali di quest’ultima e quelli della nota pastina Barilla, conosciuta come “i Piccolini”. Accanto alle due poi era posta la dicitura: “qual è la

differenza?”

La società Plasmon rafforzava inoltre la propria posizione sostenendo, in fondo alla confezione, che “molte mamme usano la pasta per adulti anche per bambini con meno di tre anni. Questa pasta va bene per gli adulti ma può contenere livelli di contaminanti anche molto superiori ai limiti di legge stabiliti per i bambini di questa età. Plasmon attraverso il programma Oasi stabilisce il rispetto di tali limiti.” Tale confronto riguardava i valori numerici di alcune sostanze, talvolta

15

Sul punto si tornerà al Cap. IV, par. 4.1.2 “Competenza dell’AGCM nei casi di pubblicità comparativa”

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nocive, come pesticidi e micotossine, evidenziando che i valori della pastina Plasmon erano conformi alle quantità richieste dalla normativa vigente, diversamente da quelli della concorrente, la quale metteva di fatto in pericolo la salute dei bambini. La pubblicità si concludeva con un ulteriore slogan: “Plasmon da sempre ti dà il meglio per il tuo

bambino”.

La società Barilla, a sua volta, rispose diffondendo una pagina pubblicitaria che mostrava un pacco di pasta Barilla e uno di pasta Plasmon sormontati da una scritta a caratteri cubitali “Le mamme italiane sanno quello che fanno”, ad essa aggiungeva che “Plasmon ha pubblicato una pubblicità comparativa che confonde le mamme, perché mette in relazione prodotti fra loro assolutamente diversi. (…) il rispetto per la trasparenza, per l’etica e per il benessere dei consumatori, per Barilla vengono sempre al primo posto. Questo secondo noi fa la differenza. E le mamme lo sanno”.

A valutare il comportamento delle due società, leaders nel settore alimentare, sono stati chiamati da un lato il Giurì dell’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria e dall’altro il Tribunale di Milano, nella Sezione Specializzata in materia di Proprietà Industriale e Intellettuale. I provvedimenti, però, sono stati parzialmente discordanti.

Secondo il Giurì quella posta in essere da Plasmon era una pratica pubblicitaria fuorviante e denigratoria, a causa dell’utilizzo di un linguaggio scientifico difficilmente comprensibile per i consumatori, che portava la clientela a ritenere che la società Barilla utilizzasse sostanze nocive per la salute dei bambini. Tuttavia la pubblicità seppur imprecisa venne ritenuta lecita, inoltre sempre per il Giurì anche il claim utilizzato da Barilla “a mangiar bene si comincia da

piccolini” venne ritenuto fuorviante, in quanto suggeriva al

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dell’allattamento, mentre in realtà si trattava di prodotti non destinati alla prima infanzia16

Parzialmente diversa è stata la posizione assunta dal Tribunale: la domanda di Barilla s.p.a. si fondava su tre argomenti:

1. i propri prodotti non erano di per sé destinati alla prima infanzia (0-3 anni), a differenza dei prodotti Plasmon, pertanto un confronto non sarebbe stato ammissibile, non soddisfacendo tali prodotti gli stessi interessi o proponendosi gli stessi obiettivi;

2. nella pubblicità Plasmon non veniva specificato che i valori si riferivano a quantità infinitesimali, si trattava infatti di “μg/kg”, ed omettendo ciò si è prodotto un effetto denigratorio per Barilla, dando l’impressione che questa non si preoccupa della salute dei bambini;

3. Attraverso tale pubblicità Plasmon aveva tratto un indebito vantaggio, tramite lo sfruttamento di un marchio noto altrui e realizzando la fattispecie cd di agganciamento.

Su tali argomentazioni la società Plasmon fondava le sue difese e così si difendeva:

1. la società Barilla trasmetteva il messaggio che i prodotti generici siano adatti anche ad una fascia di consumatori specifica, quella dei bambini di età inferiore ai 3 anni, utilizzando il marchio “Piccolini” e lo slogan “a mangiar bene

si comincia da piccolini”, creando così confusione tra il nome

e la sua destinazione d’uso;

2. i valori riportati, sebbene infinitesimali, erano veritieri, pertanto inidonei ad arrecare discredito;

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3. era infondata la censura sul presunto agganciamento alla notorietà della società Barilla, data la posizione di mercato di Plasmon.

La Plasmon propose anche una domanda riconvenzionale, in cui chiedeva di dichiarare illecito il comunicato pubblicato dalla Barilla verso i consumatori Plasmon che si concludeva con la frase: “le

mamme italiane sanno quello che fanno”. E l’illiceità, in quanto

idoneo a creare confusione, dello slogan: “a mangiar bene si comincia

da piccolini”.

La richiesta avanzata dalla ricorrente Barilla era di ricevere una tutela cautelare sia in forza degli artt. 126-131 del codice di proprietà intellettuale, che dell’art. 700 c.p.c.. Il periculum rilevato era il danno all’immagine della Barilla, danno anche irreversibile se tale da sviarne la clientela; mentre il fumus risultava evidente dai messaggi contestati.

Veniva chiesta una tutela inibitoria oltre ad una sanzione pecuniaria. Secondo il Tribunale di Milano le richieste avanzate dalla ricorrente erano fondate, in quanto risultava palese la violazione dei criteri normativi che stabiliscono la liceità della pubblicità comparativa La conclusione a cui giunse il Tribunale veniva avvalorata anche dalla mancata comparazione dei prezzi dei prodotti, la quale sicuramente non sarebbe stata a vantaggio della convenuta Plasmon. Tutte le comunicazioni della convenuta risultavano quindi idonee a fuorviare il consumatore. Una volta ritenuti fondati i presupposti cautelati del periculum e del fumus, il Tribunale concedeva l’inibitoria al proseguimento della campagna pubblicitaria e condannava Plasmon s.r.l. al pagamento di una penale di 100.000€.

Plasmon rispondeva sostenendo che la misura irrogata fosse sproporzionata, la quale era stata emessa tra l’altro inaudita altera

parte, e richiamava la decisione del Giurì che aveva ritenuto tale

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inibito Barilla rispetto all’uso dello slogan “a mangiar bene si inizia

da piccolini”, in quanto considerato ingannevole.

Il Tribunale ritenne comunque non convincenti le difese della convenuta, affermando che anzitutto una pubblicità per essere lecita deve fondarsi su prodotti omogenei, qui assenti, poiché il target dei consumatori è diverso, neonati da un lato, bambini dai tre anni in su e adulti dall’altro.

Il messaggio inoltre, sebbene veritiero, è presentato con un linguaggio scientifico non comprensibile dalla media dei consumatori, pertanto idoneo ad indurli in errore: questi potrebbero ritenere infatti che i prodotti Barilla siano particolarmente dannosi per la salute dei propri figli. In realtà invece i valori delle sostanze contenute nei prodotti Barilla rientrano nei limiti stabiliti dalla legge se riferiti a consumatori non neonati.

L’omissione dei prezzi conferma che non vi sia interscambiabilità tra i prodotti, ciò avviene infatti quando questi soddisfano gli stessi bisogni a parità di condizioni, e il primo elemento da valutare dovrebbe essere proprio il prezzo. La sua assenza prova la mala fede della convenuta e l’intenzione di sviare, in modo scorretto, la clientela. Il Tribunale rigetta anche la domanda riconvenzionale, in quanto il prodotto rappresentato dal marchio Barilla “Piccolini” non si riferisce ai neonati; rigetta inoltre l’accusa riguardante la réclame “a mangiar

bene si inizia da piccolini”, poiché, sempre secondo il Tribunale, si

tratterebbe di un suggerimento al consumo del prodotto nei confronti di coloro che vogliano “mangiare bene”, i quali possono iniziare sin da bambini (dai 3 anni in su).

Viene così confermato il provvedimento cautelare.17

L’importanza di questo caso è tangibile rispetto all’istituto preso in esame, si è infatti visto come il legislatore abbia “aperto una strada”

17

Tribunale di Milano, sezione specializzata in materia di proprietà industriale ed intellettuale, n. r.g. 72996/2011

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agli operatori pubblicitari, consentendo loro di usare pubblicità comparative per reclamizzare i propri prodotti, ma, nell’attuazione di tali tecniche pubblicitarie, ci si è anche resi conto di quanto questo strumento sia delicato e allo stesso tempo pericoloso per chi lo utilizza, essendo estremamente sottile la linea di confine tra liceità e illiceità, tra verità e lesione dell’immagine altrui, fra un’attività di concorrenza leale e una di concorrenza sleale

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CAPITOLO III La pubblicità illecita

SOMMARIO: 3.1 La pubblicità superlativa; 3.2 La pubblicità ingannevole; 3.2.1 La pubblicità palese, veritiera e corretta; 3.2.2 Natura e caratteristiche della pubblicità ingannevole; 3.2.3 Criteri di valutazione di una pubblicità ingannevole; 3.3 La pubblicità non riconoscibile; 3.3.1 La pubblicità subliminale; 3.3.2 La giustizia amministrativa e la pubblicità occulta; 3.4 Tutela dei più giovani; 3.5 La pubblicità tramite internet e gli strumenti di telecomunicazione; 3.5.1 Lo spamming; 3.5.2

L’e-commerce; 3.5.3 Il permission marketing.

Per affrontare il prossimo argomento sarà necessario anzitutto definire il rapporto che intercorre tra la pubblicità ingannevole, non veritiera o meglio menzognera e l’istituto della concorrenza sleale nel nostro ordinamento.

L’art. 2598 c.c. disciplina l’istituto della concorrenza sleale e tutela direttamente gli interessi degli imprenditori. Si tratta di una norma dettata allo scopo di garantire il libero gioco del mercato, nel rispetto dei principi di lealtà e correttezza professionale.

È possibile che vengano svolte delle attività imprenditoriali che di per sé non risultano dannose nei confronti dei consumatori, mentre saranno tali nei rapporti concorrenziali tra gli imprenditori, come nel caso della pubblicità comparativa illecita.

È altresì possibile che invece vengano poste in essere altre attività che, pur potendo considerarsi pregiudizievoli per i consumatori, non possono integrare gli estremi di un atto di concorrenza sleale: è il caso della pubblicità superlativa.

3.1 La pubblicità superlativa

La pubblicità superlativa potrebbe essere considerata come un atto di concorrenza sleale e dunque suscettibile di sanzione, tuttavia la giurisprudenza ha sempre adottato modelli meno rigorosi rispetto a

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quelli usati per reprimere la pubblicità ingannevole. Infatti si ritiene che una generica affermazione di “superiorità” di un prodotto rispetto a tutti gli altri esistenti nel medesimo mercato non è di per sé vietata. Occorre che l’atto, per essere represso, concretizzi una vera e propria tecnica di denigrazione, mentre la generica vanteria è solo un semplice elogio delle qualità del prodotto. Presentare il proprio bene o servizio con attributi che lo definiscano il migliore sul mercato o l’unico ad esempio degno di quel nome, costituisce semplice magnificazione senza che vi sia diretto riferimento ai prodotti consimili ( es. pubblicità di un noto detersivo che recita: “più bianco non si può!”). I confronti infatti, come si è visto, per poter essere lesivi devono essere per lo meno credibili per i consumatori, credibilità che nella fattispecie sotto esame manca. Secondo la giurisprudenza consolidata il pubblico è ormai consapevole che si tratta di una mera vanteria; la capacità di giudizio dei consumatori è tale da portarli a fare scelte d’acquisto non condizionate da queste réclame, scelte dunque inidonee ad arrecare alcun danno agli altri produttori. Il consumatore medio è in grado di distinguere tra un messaggio che ha puramente scopo pubblicitario e uno che invece è attinente alla realtà.

Se invece si tenesse in considerazione anche la capacità di giudizio di consumatori particolarmente inclini a credere a qualunque comunicazione, come le fasce ccdd deboli, quali bambini o incapaci, allora bisognerebbe reprimere quasi ogni tipologia di pubblicità, comprese quelle “innocue”. Tale sistema violerebbe gli interessi degli operatori di mercato, in quanto verrebbe eccessivamente limitato il loro diritto a promuovere i propri beni e di conseguenza la possibilità di partecipare al libero gioco del mercato.

La pubblicità iperbolica verrà sanzionata unicamente nel momento in cui rientra tra le fattispecie di comparazione indiretta non giustificata, così come è previsto dall’art. 15 del codice di autodisciplina pubblicitaria, cioè quando essa rischia di creare fattispecie di

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confusione o denigrazione, o ne farà trarre al produttore un indebito vantaggio derivante dallo sfruttamento dalla notorietà altrui, o ancora ricada nella nozione di pubblicità ingannevole ai sensi dell’art. 2 dello stesso codice.

Sia con riguardo alla pubblicità comparativa che per quella superlativa, comunque, la giurisprudenza ha affermato che la veridicità dei fatti affermati non esclude il controllo sulla liceità del messaggio; la falsità non rappresenta infatti la conditio sine qua non attraverso cui non possono essere integrati gli estremi della denigrazione, ma anche la divulgazione di notizie vere in modo tendenzioso, subdolo o scorretto possono produrre discredito ai prodotti o all’attività degli imprenditori concorrenti.18

3.2 La pubblicità ingannevole

Nell’ordinamento italiano, la disciplina della pubblicità ingannevole era, originariamente, contenuta nel d.lgs 74/1992.

Successivamente tale legge è stata modificata dal d.lgs 67/2000 (emanato in attuazione alla direttiva 97/55/CE sulla pubblicità comparativa).

La normativa sulla pubblicità comparativa e ingannevole è successivamente confluita nel codice del consumo (artt. 19-27).

Il d.lgs 74/1992 aveva introdotto nel nostro ordinamento un divieto generale di pubblicità ingannevole, segnando il passaggio da un’ottica esclusivamente privatistica (di matrice concorrenziale o contrattuale) a una anche pubblicistica nel considerare tale fenomeno, in conformità a quanto da tempo era stato chiesto dalla dottrina, che rilevava l’inadeguatezza, ai fini della repressione del mendacio pubblicitario, dei tradizionali strumenti volti ad assicurare la libertà del consenso nelle contrattazioni individuali. Vi era da quel momento un unico

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provvedimento legislativo che assicurava la repressione della pubblicità ingannevole, nell’interesse generale e in quello di tutte le categorie di soggetti presenti sul mercato, partendo dal presupposto che tale tipo di pubblicità poteva avere effetti discorsivi della concorrenza e dunque poteva pregiudicare gli interessi economici dei consumatori e dei professionisti.

Tutto ciò oggi è stato rivisitato e riadattato in virtù della recente direttiva europea in materia di pratiche commerciali sleali, ossia la dir. 2005/29/CE, recepita nel nostro ordinamento dai decreti legislativi nn. 145 e 146 del 2007. La direttiva modifica radicalmente tale prospettiva, e separa la tutela degli interessi economici dei consumatori dalla tutela di quelli dei professionisti, col dichiarato intento di perseguire un livello elevato e uniforme di protezione dei primi19.

Alla luce della nuova disciplina, e ai fini della protezione del consumatore più che del concorrente, la pubblicità ingannevole non forma più oggetto di autonoma considerazione, ma rientra nel novero delle nuove “pratiche commerciali ingannevoli”, e, a determinati presupposti, anche tra quelle “aggressive”.

I professionisti riceveranno comunque tutela nei confronti della pubblicità ingannevole, nonché della pubblicità comparativa scorretta, così come previsto anche dalla direttiva n. 2006/114/CE che raccoglie e codifica finalmente tutta la disciplina in materia di pubblicità ingannevole, disciplina, che dalla direttiva originaria 84/450/CEE, aveva subito non poche manipolazioni e aggiornamenti normativi, venendo a creare un sistema vasto e poco chiaro.

La direttiva del 2005 comunque sottolinea che essa “non riguarda e

lascia impregiudicate le legislazioni nazionali sulle pratiche

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