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Anima, corpo, polis. La definizione della malattia dell'anima nella rete delle analogie platoniche.

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Indice

Introduzione 3

I . Prospettive antiche sulla follia §1. Il disagio della civiltà antica 14

Vita mentale in Omero e la relazione tra il «puritanesimo» e la «civiltà di colpa» 15

Il medium tragico nella presentazione della follia sulla scena 20

Sacro e contaminazione 23

Follia al femminile e mente al maschile 27

§2. Il punto di vista medico:un 'continuum' psicofisico 31

Il vocabolario medico 32

Le forme del delirio 36

§3. L'anima e i suoi 'poroi' 40

II .La medicina e Platone, la medicina di Platone §1. Sulla 'techne' medica (ippocratica e platonica) 49

§2. La medicina nella rete delle analogie 64

§3. La città 'phlegmainousa': un modello fisico, politico, morale 73

§4. 'To nosema tes adikias': terapie del corpo e dell'anima 78

III. Il Fedro: mania e conoscenza 89

§1. Tecniche dell'irrazionale: la divinazione, il rito dionisiaco, la composizione poetica 90

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§2. 'Eros': la follia connaturata 98

§3. L'ala del corpo, l'ala dell'anima 104

IV. Il Timeo: la kinesis dell'anima tra natura e patologia 115

§1.Malattie del corpo 116

Malattia come stasis 117

Malattia come diaphthora 118

Malattia come phlegmainein 118

§2. Dal corpo all'anima 121

I pathemata 121

§3. Le 'tracce' dell'anima 128

§4. Dall'anima al corpo: il sonno 134

§5. Malattie dell'anima 138

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Introduzione

Il presente lavoro di tesi getta uno sguardo sulla nozione di malattia mentale in Platone, nelle sue connessioni con il sapere medico e con la riflessione, in particolare nel Fedro e nel Timeo, sul rapporto anima-corpo. La combinazione di lessico e nozioni mediche e uso platonico dell'analogia ha fatto emergere un concetto 'trasversale' di salute, che porta con sé delle implicazioni di tipo organico, etico-politico e, naturalmente, cosmico.

La ricerca si apre, da un lato, con una trattazione dell'irrazionale nel mondo greco arcaico e classico, dall'altro con un esame del contributo della medicina ippocratica alla spiegazione di fenomeni di disturbo mentale. Si premette che tale resoconto non mira a (e non può) risolvere questioni di definizione e di confine (che sembrano urgenti oggigiorno), ma dà semplicemente conferma del fatto che ogni cultura, ivi compresa quella greca, ha avuto (e ha) i suoi patterns of mental illness (Simon, 1978).

Nel primo capitolo ho tenuto conto della fortunata interpretazione di Eric Dodds (1949) sulla letteratura epica e tragica, che ha posto la base per ulteriori considerazioni sulla «psicopatologia antica» (Drabkin, 1955). Le fonti letterarie, e il contesto socio-culturale entro cui queste si collocano, testimoniano la realtà di manifestazioni diverse di disagio psichico (maschile e femminile) che possono presentarsi in concomitanza con determinate situazioni o fasi della vita.

In Omero non esiste un termine corrispondente al nostro “mente”: si parla di phrenes, con riferimento al diaframma, oppure del “cuore”, kardia o ker. Dove troviamo noos sappiamo che si parla di un'attività di comprensione con caratteri intellettuali, mentre il thymos è un'entità o un organo che si espande all'interno della persona e che ha a che fare con la sfera della passionalità. Psyche, pur non corrispondendo a un organo corporeo, sembra avere caratteristiche in qualche modo fisiche: spesso appare dopo la morte, lasciando l'individuo al momento della morte, e può essere connotata essenzialmente come “respiro”, “soffio vitale”.

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Nel complesso non è operata una chiara distinzione tra organi del pensiero e organi dell'emozione e nemmeno tra ciò che è fisico e ciò che è psichico. La vita mentale in Omero non appare corrispondere a una qualche struttura o organizzazione, per cui, quando si parla di agenti dell'attività mentale, non si fa riferimento a un intero composto di parti in coordinazione tra loro o in una disposizione gerarchica precisa. Questo è importante per il nostro discorso se pensiamo che, secondo Bennett Simon, per esempio, là dove manca una nozione di una struttura mentale, non può esservi neanche una nozione di disordine o di deviazione interni a una struttura mentale. D'altronde, un concetto fondamentale che nell'Iliade e nell'Odissea incontriamo spesso a proposito di una condotta irrazionale è ate, declinato diversamente in rapporto con quei modelli culturali che Dodds ha chiamato «puritanesimo», «civiltà di colpa» e «civiltà di vergogna». Nell'Iliade ate non significa mai “rovina”, ma esprime un errore inesplicabile attribuito a un'operazione demonica esterna, che viene rappresentata e oggettivata. Ogni fenomeno psichico, in generale, assume l'aspetto della parzialità: in Omero il carattere è spiegato come una specie di conoscenza e in un certo senso di appartenenza, e la vita psichica viene concepita secondo uno schema 'fuori/dentro'. Nell'Odissea si inizia invece a delineare il nesso tra colpa e punizione, e, pertanto, la civiltà incentrata sull'aidos, lascia spazio a una «civiltà di colpa».

Bernard Williams (1993) ha sfumato alcune idee chiave della costruzione di Dodds, e in particolare la contrapposizione tra «civiltà di colpa» e «civiltà di vergogna», sottesa dall'idea che l'una sia più 'evoluta' dell'altra. È molto più prudente, secondo Williams, parlare di colpa e vergogna come di sentimenti condivisi e intersoggettivi, con i quali l'uomo greco si confronta in una sfera di azione pubblica e privata. In questa prospettiva, la letteratura tragica (peraltro tutt'altro che trascurata da Dodds) offre, rispetto all'epica, una maggiore ricchezza di informazioni riguardo alla vita interiore dei personaggi e sembra altresì possibile cominciare a parlare di conflitto psichico. Lo squilibrio psichico nella tragedia è solitamente dovuto a una sorta di incompatibilità tra ciò che i personaggi ritengono sia giusto e ciò che invece, inevitabilmente, sopraggiunge

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loro. Il vocabolario della follia presenta una certa continuità con quello dell'epica: è frequente, in contesti diversi, l'uso del verbo mainomai, il cui significato rimanda principalmente a un'azione che supera i confini della 'normalità'. La follia è sempre provocata da un dio (il dio a cui è tipicamente associata è Dioniso) e l'interiorità del personaggio è articolata nello schema 'fuori/dentro' di cui si è già detto per quanto riguarda i poemi omerici: per esprimere le connessioni tra questi due 'luoghi' troviamo la nozione di poroi, “passaggi”, “canali” (Padel, 1992). Questi regolano la comunicazione fra ciò che è esterno al corpo e ciò che è interno e, naturalmente, anche quella tra le sostanze interne al corpo stesso: è il caso di sottolineare la presenza di tale «modello dei flussi» perché, come vedremo nel corso del lavoro, esso è comune sia alla letteratura medica che alla rappresentazione platonica della vita psichica (Sassi, 2007).

Il fenomeno della follia nell'antichità conosce ambiguità e contraddizioni che possiamo rendere bene con l'espressione jeux d'exclusion (Foucault, 1966), in quanto il folle è oggetto di un teatro di reintegrazione sia sociale sia spirituale. Non abbiamo nel mondo antico un corrispettivo dell'istituzione del manicomio moderno, ma possiamo dire che il folle è da subito colui che si rifiuta di riconoscere il sistema di valori della società. Pertanto, per il folle è prevista una terapia, che si configura come eminentemente rituale, mirata alla reintegrazione nel tessuto sociale. Le cure tradizionali, di tipo esorcistico, musicale e iniziatico, testimoniano di una volontà di 'spiegazione' (noi diremmo a livello culturale e antropologico) del fenomeno della follia: all'interno della società greca (e non solo) essa può essere contenuta (quindi razionalizzata e 'capita') solo permettendone l'espressione per mezzo di riti codificati, e solo se identificata come 'possessione' (Guidorizzi, 2010).

Uno sguardo alla letteratura medica ippocratica (un insieme di dottrine che collochiamo tra la seconda metà del V e la prima metà del IV secolo a. C., e che fanno capo a un Corpus di circa una sessantina di trattati) ci offre un cambiamento di prospettiva essenziale: la malattia mentale non è più ricondotta all'intervento di un essere soprannaturale ma richiede una spiegazione organica – e come tale non costituisce una categoria separata rispetto al disturbo fisico (Drabkin, 1955; Di

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Benedetto, 1986; Sassi, 2005; Andò, 2007). Del resto, non troviamo un organo della vita psichica distinto dal corpo e il termine psyche è presente in maniera significativa solo nel trattato sul Regime. Questa assenza, compensata in parte dal fatto che si cerca di individuare un organo o un fluido che abbia una funzione 'cognitiva' (si pensi al cervello o al sangue), non oscura una generale attitudine osservativa degli ippocratici nei confronti del versante psichico della malattia.

Il vocabolario medico della follia non sembra rispondere a esigenze nosografiche: la malattia con i suoi sintomi viene osservata nella sua globalità e per lo più descritta. Causa ed effetto di questa metodologia basata sull'aisthesis è la concezione di un continuum psico-fisico che riconduce qualsiasi disturbo a uno squilibrio in ultima istanza corporeo. È quindi necessaria cautela sia rispetto alla possibilità di rintracciare delle sindromi definite, sia nell'individuare nel linguaggio greco un termine generale corrispondente al nostro “follia”. Per il medico ippocratico non esiste, propriamente, una malattia chiamata “follia” e il sostantivo mania non compare nel C. H., dove si predilige piuttosto la forma verbale mainesthai, che indica un generico delirare del soggetto (Thumiger, 2013).

Ma al di là del problema terminologico, possiamo riconoscere nei quadri clinici ippocratici due forme principali di disturbo psichico: un tipo, per così dire, iperattivo, e un altro depressivo (Jouanna, 2013). Un esempio di questa doppia tipologia è fornito dal trattato sull'epilessia Male Sacro, dal quale emerge comunque un modello estremamente significativo della salute come equilibrio di fluidi e di temperatura degli organi. Rispetto all'epica e alla tragedia, dunque, non è il dio a causare la malattia, ma lo sono cause identificabili e interne al corpo umano, cioè gli elementi stessi della costituzione fisica dell'individuo, o lo stile di vita del paziente. La cura corrispondente consiste principalmente in esercizi fisici e alimentazione appropriata (e, in alcuni casi, di farmaci).

All'interno della letteratura medica merita particolare considerazione anche il trattato Peri parthenion, unico nel dare un quadro della follia tanto complesso quanto specifico, al punto da caratterizzare la follia come la malattia dello stato verginale (Andò, 1990). Come dagli altri trattati ginecologici, sembra emergere un

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certo 'pregiudizio' sul ruolo sociale della donna, che orienta gli autori ippocratici da un lato a definire il fenomeno della follia, e dall'altro, a trattarlo come un marchio di marginalità. È seguendo questa prospettiva più ampia che la malattia mentale sembra trovare una sua 'spiegazione' convincente.

Inoltre, il trattato ippocratico Regime offre aspetti specifici di interesse per il fatto che troviamo il termine psyche associato a due condizioni psichiche opposte: l'intelligenza (phronesis) e il suo contrario (l'aphrosyne) e, nel capitolo XXXV del

libro I, l'autore espone una teoria dell'intelligenza. Ne esistono vari gradi, ciascuno dei quali è associato a una specifica performance cognitiva (Jouanna, 2007; Van der Eijk, 2011). Interessa per la nostra ricerca notare come l'equilibrio di anima e corpo è precario, perché dipende da un movimento continuo: di cibi, di umori, di elementi, di caldo e di freddo, di flussi che vanno in una direzione favorevole (kata physin) o sfavorevole (para physin). Ne deriva che l'intelligenza è soprattutto una questione di qualità della percezione sensibile, che possiamo definire come come l'incontro tra l'anima e le aisthesies (particelle sensibili che si staccano dagli oggetti e che passano attraverso poroi dell'anima). Un'anima turbata dal corpo e dal movimento si ritrova, come vedremo, nel Timeo.

Su questa base di ricostruzione del contesto culturale e scientifico si innesta l'approccio di Platone al problema del disordine psichico aperto nel secondo capitolo. Qui mi concentro anzitutto sull'ideale di techne medica che emerge nei dialoghi e sulla 'nascita' di una metodologia filosofica unica nel pensiero antico, che integra in una linea di ragionamento unitario (benché non visibilmente tale) gli enti corpo, anima e polis.

La medicina in Platone è considerata sin dai dialoghi giovanili una techne altamente specializzata perché riunisce in sé sapere specialistico e ethos professionale: essa si distingue dalle altre technai e dalla iatrike dei trattati ippocratici. Platone non si limita, infatti, a ereditare delle nozioni ma opera una sua trasposizione personale del sapere medico (Vegetti, 1995), tanto che la sezione del Timeo dedicata alle malattie trova un'ampia considerazione (più dello stesso Ippocrate) nella dossografia medica dell'Anonimo Londinese.

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Il significato della medicina per Platone (significato che conosce uno sviluppo e una sua caratteristica conformazione) si delinea nel Carmide nella definizione di 'scienza della salute e della malattia' (Charm., 171a): la techne medica rimanda a un sapere specialistico, ha un oggetto suo proprio (in questo dialogo, il corpo umano) distinto dal metodo, e implica criteri teorici, pratici e valutativi. Tale concetto 'globale' di techne differisce dalla techne iatrike del trattato ippocratico Sull'arte perché essere un medico non significa semplicemente guarire un malato ma anche conoscere il modo per nuocergli. La medicina platonica non sembra essere confinata alla terapeutica (campo di azione, pur con qualche variazione, degli ippocratici), ma estendersi (e su questo punto si avvicina peraltro a una concezione di Antica Medicina) fino a diventare una biologia, guardando all'organismo nel suo insieme. Corrispondentemente, per Platone la techne medica deve avere una sua unità formale: in linea con la posizione dell'autore del Prognostico, il sapere del medico ha uno sguardo complessivo ai tre momenti del passato, del presente e del futuro, di modo che «si tratti sempre di una e medesima scienza» (Lach., 198d).

La nozione di salute in Platone è legata ai concetti di ordine e proporzione, intesi in un senso affine a quello della harmonia pitagorica, cioè di una disposizione gerarchica tra gli enti (Cambiano, 1982). Tale concetto di salute presuppone, dunque, che ogni intero sia dotato di parti e che tra di esse domini l'elemento 'per natura' migliore; inversamente, si verifica uno squilibrio. Sulla base di questo presupposto si innesta una nozione 'trasversale', che emerge dall'uso dell'analogia per l'esame del corpo, dell'anima e della polis. Sebbene i confini tra l'anima e il corpo non siano sempre chiaramente definiti e, di conseguenza, l'analogia non risulti sempre perfettamente coerente con le premesse della sua fondazione, l'analogia mantiene un ruolo metodologico rilevante (Balansard, 2006; Delcomminette, 2013). Rintraccio la 'storia' delle analogie platoniche principalmente in due dialoghi: il Gorgia e la Repubblica. Nel Gorgia (477c) Polo e Socrate discutono del corpo, dell'anima e dei beni di fortuna stabilendone le rispettive poneriai. Lo stato malato del corpo corrisponde alla condizione di ingiustizia nell'anima, che necessita pertanto di essere guarita. È

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così che, accolto implicitamente tale parallelismo corpo-anima (nonché l'ideale di salute del corpo corrispondente alla condizione di sophrosyne dell'anima), nella Repubblica viene inaugurato il percorso di ricerca della definizione della giustizia. Compito non facile: infatti, Socrate decide di introdurre un'altra analogia, quella tra l'anima e la città (Resp., 386c). Nella città la giustizia si mantiene se ognuno «fa le proprie cose», lo stato patologico della città è quello in cui i ruoli delle classi si scambiano. 'Patologico' qui è un aggettivo che ben si addice a una situazione politica perché è in questo contesto che Platone dà spazio a una terza coppia analogica, solitamente non tenuta debitamente in conto dagli studiosi. Nei libri II-III, infatti, la città è trattata alla stregua di un corpo. Nel passaggio dalla «città dei porci» alla città tryphosa Platone individua l'insorgere di un male progressivamente sempre più grave: l'infiammazione del corpo sociale (372e8).

Fin qui il discorso ha portato al riconoscimento di situazioni patologiche distinte, ma dal presupposto comune, per quanto riguarda tre enti: le analogie platoniche sono infatti come incatenate tra di loro, e l'ulteriore coppia corpo-città va riconosciuta come sorta di chiusura di un anello concettuale. Del resto, soprattutto dal confronto con i testi ippocratici, sembra emergere che è proprio l'applicazione dell'analogia all'anima e al corpo che ha permesso a Platone di 'inventare' la malattia dell'anima.

Nel terzo capitolo introduco il tema della 'follia' in Platone partendo dal Fedro, in cui il fenomeno della mania interessa un recupero dell'irrazionale in certo senso tradizionale, ma è anche investito di una prospettiva innovativa (è il caso, come vedremo, della mania erotica). Socrate non considera la follia una malattia: essa è un male se è umana, ma è il bene più grande per l'uomo se è una malattia divina. La mania si presenta come un comportamento irrazionale (in quanto occultazione temporanea della ragione) che assume diverse combinazioni in situazioni diverse, e che Platone identifica come 'divino' certamente anche perché inesplicabile, ma benefico.

Platone descrive quattro forme di mania e invita a soffermarsi sulla follia che viene da Eros: essa è connaturata alla natura della nostra anima, la cui natura

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composita (espressa dalla celebre immagine della biga alata) è dovuta alla comunanza dell'anima con il corpo. La concezione dell'anima 'impura' del Fedone sembra sfumare per lasciare spazio a una rappresentazione dinamica della psyche, che possiede qualità energetiche simili a quelle di eros (Guthrie, 1955; Cornford, 1967). Ritrovare un desiderio così plastico e dinamico (già emerso in una sua manifestazione positiva, nella scala amoris del Simposio, e negativa, quale è la figura dell'eros tiranno della Repubblica) ci conduce all'acquisizione che eros e mania sono fortemente apparentati. In altre parole, in tale contesto del Fedro, la follia erotica è l'espressione potenziata di una forza psichica connaturata all'uomo.

Il rapporto tra l'anima e il corpo nel Fedro è esemplificato nella concezione dell'anima come principio di kinesis (proprietà primariamente fisica) e il modello dei «flussi dell'anima» (Cornford, 1967; Sassi, 2007) si concretizza nella funzione dell'ala, che pur appartenendo alla psyche, sembra avere qualità corporee (Griswold, 1951; Fussi, 1995). Prova ne è la sua sensibilità e la sua fragilità: la mania erotica è lo sconvolgimento che avviene nel corpo e nell'anima dell'amante quando vede un bel ragazzo.

Nella lettura della sezione del Fedro relativa alla crescita dell'ala ho sottolineato i numerosi paralleli con luoghi ippocratici (per esempio di Regime, per quanto riguarda la nozione dei poroi, degli scritti Della generazione e Della natura del bambino, per quanto riguarda le metafore che descrivono la crescita dell'ala mediante analogie con il mondo vegetale). Da questo esame risulta che Platone fa ampio ricorso a vocabolario e nozioni mediche, mirando a fare emergere, attraverso il dispiegarsi di una precisa sintomatologia, il concetto di “malattia dell'anima”, che potremmo dire già 'fisiologico'.

Il Fedro sembra in questa lettura preannunciare l'approccio alla malattia dell'anima sviluppato nel Timeo, cui è dedicato l'ultimo capitolo. Nella seconda parte del dialogo Platone attinge a una vasta tradizione di sapere elaborato dai medici e dai naturalisti presocratici per descrivere la costruzione del corpo umano da parte degli 'dei minori' (Solmsen 1950; Lloyd, 1968). Le modalità patologiche esaminate sono definite da termini (stasis, diaphthora, phlegmainein) usati da

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Platone nei dialoghi precedenti per indicare la malattia non solo del corpo, ma anche dell'anima e della città: si riconferma dunque qui l'idea di una catena analogica, emersa nel corso di questa ricerca. È da notare inoltre che le malattie (così come le percezioni) sono riportate a un corpo epyrrhyton kai aporrhyton (43a5-6), cioè come un ente che subisce influssi ed efflussi. Vediamo dunque riemergere il «modello dei flussi» già rilevato nel Fedro, e del resto un altro elemento di continuità col Fedro va visto nella nozione di kinesis dell'anima, che nel Timeo trova una manifestazione fisiologica nei vari pathemata che l'anima subisce, e una manifestazione patologica nei suoi nosemata.

Abbiamo dunque affrontato la teoria della sensazione del Timeo nel suo complesso per sottolinearne il carattere di processo eminentemente corporeo che ha per destinatario l'anima.

Come ho anticipato all'inizio di questa introduzione, mantenere il riferimento al Regime ci conduce verso un problema cruciale nel Timeo: quello della 'forma' dell'anima. Essa presenta, infatti, dei tratti 'materiali', che la apparentano più a un'entità corporea. Una simile immagine della psyche si regola, come per il trattato ippocratico di riferimento, su un rapporto reciproco tra l'anima e le aisthesies, da cui dipendono la qualità della trasmissione e la performance cognitiva dell'individuo (Brisson, 2013; Jouanna, 2013). È, in definitiva, il movimento proprio all'anima razionale a essere il fattore discriminante per la salute e la malattia, qualora esso sia costante e regolare. Proprio come nel capitolo

XXXV di Regime, la regolarità di questo movimento ha come effetti l'intelligenza e

«il suo contrario». Il termine è lo stesso nel trattato e nel Timeo: se le periodoi (nel Timeo l'anima segue i movimenti del cerchio dell'Identico e del Diverso) dell'anima vengono turbate e sono o troppo veloci o troppo lente, l'anima si ammala, vista la sua stretta comunanza con un corpo epyrrhyton kai aporrhyton.

Ma il peso della trattazione in questo capitolo cade sull'operazione che Platone conduce nel Timeo per una spiegazione dell'irrazionale, lungo due binari: da un lato (e in linea col Fedro), un processo di razionalizzazione di fenomeni tradizionalmente assorbiti per via culturale, quali la divinazione e il sogno profetico, sulla cui riduzione fisiologica mi soffermo mettendo in evidenza

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paralleli con il libro IV del Regime. Qui l' 'interpretazione dei sogni' è resa possibile dal fatto che il corpo, l'anima e il cosmo sono della stessa natura e, pertanto, il linguaggio del corpo è in armonia con il linguaggio del cosmo (Struck, 2003). Dall'altro lato, finalmente, ecco nel Timeo la spiegazione delle malattie dell'anima: qui metto l'accento sull' 'invenzione' del concetto di nosos psyches, che nel Timeo prende il nome di anoia ed è posta in dipendenza dalla (pre)disposizione del corpo, nelle sue due specie della mania e dell'amathia (da notare che ritroviamo la classificazione binaria dei disturbi mentali del C. H., in quanto l'una si caratterizzerebbe per un comportamento iperattivo, l'altra somiglia a un'ipotonia dell'umore). Centrale è nuovamente il concetto di equilibrio, ma l'interesse è per l'organismo nel suo complesso. Il nodo centrale della questione ruota anzi attorno alla continuità tra lo psichico e l'organico, sulla base di un comune sostrato fisiologico: tutti i disturbi psichici dipendono da un cattivo stato del corpo e questa condizione si ripercuote sulle capacità cognitive del soggetto (Jouanna, 2013), che non è più padrone del suo ragionamento. Il detto socratico per cui “nessuno compie il male volontariamente” trova una significativa estensione nel fatto che i motivi di questa malvagità risiedono nella cattiva costituzione dell'individuo (Cornford, 1937; Tracy, 1969; Sassi, 2013).

Le terapie previste da Platone riguardano il ripristino della proporzione tra il corpo e l'anima, perché la ametria più grande è quella che riguarda l'anima nei confronti del corpo (87d2-3). La definizione della malattia come dismisura e bruttezza riecheggia un passo del Sofista (già considerato nel secondo capitolo) in cui viene però utilizzata una terminologia differente e una diversa applicazione dell'analogia corpo-anima, su cui val la pena di soffermarsi. Le difficoltà presentate da una ricostruzione lineare della rete di rapporti analogici che si è tentato di ricostruire in questo lavoro sembrano risolversi nel Timeo, perché il 'dualismo' di Platone si presenta ora come un 'dualismo integrato' e l'attenzione è rivolta all'insieme di corpo e anima e non da uno dei due enti. La nozione di movimento salda equilibrio e squilibrio, anima e corpo, uomo e cosmo: la salute psicofisica si mantiene e si recupera esercitando il corpo con la ginnastica e tenendo attiva la psyche con la musica e la filosofia, e ponendoli così entrambi in

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armonia con il principio razionale del cosmo. Il movimento è principio terapeutico (Van der Eijk, 2013), e non è questo l'unico caso in cui Platone a esso affida un ruolo guida nella conoscenza: lo abbiamo visto nel Fedro in cui un'anima 'mossa' dalla mania è un'anima filosofica che si prende cura di sé come tramite tra un mondo finito e il mondo intelligibile.

Il presente lavoro affronta, senza pretendere di chiuderle, questioni ampiamente dibattute nello studio del pensiero antico, quale, per esempio, quella del ruolo della medicina antica in una 'storia del corpo' nei suoi rapporti con quel principio cognitivo che in Platone si definisce in modo autonomo come psyche.

D'altra parte, il tema della psicopatologia del Timeo, in tutta la sua novità e problematicità, si connette con la questione più ampia della strumentazione concettuale applicata da Platone nella riflessione sul rapporto fra corpo e anima. Il presupposto di una symmetria tra un microcosmo e un macrocosmo non è certamente del tutto originale, ma la sintesi e rielaborazione platonica di idee tradizionali assume una veste linguistica e concettuale degna di essere sottoposta a un rinnovato esame. I concetti di “anima del mondo” e “corpo del mondo”, a mio avviso, sono inscindibili dal lavoro analogico che Platone ha messo in atto nei vari dialoghi, attingendo al sapere naturalistico e medico precedente, quell'ambito dominato, come ha brillantemente indicato Geoffrey Lloyd (1966), dall'argomentazione per analogia.

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I . Prospettive antiche sulla follia

§1. Il disagio della civiltà antica

Di fronte all'associazione classicistica di logos e pensiero greco, di nascita insieme della civiltà greca e della filosofia, gli studiosi del Novecento si sono ampiamente e progressivamente interrogati sugli elementi irrazionali di questa civiltà, svelandone le origini col Vicino Oriente e i suoi Rois Divins1.

Il problema dell'irrazionale nel mondo antico riguarda soprattutto l'uomo nel suo essere un individuo impegnato in vincoli sociali, quindi l'immagine che l'uomo greco (inteso normalmente al maschile) rimanda alla comunità che lo circonda e alla quale si sente di dover corrispondere. È pertinente, dunque, ipotizzare, sulla base dei dati sull'irrazionale che la cultura greca ci ha lasciato, la presenza di un disagio della civiltà antica. È una situazione che emerge chiaramente, per esempio, dalla letteratura medica: Israel Edward Drabkin spiega che sintomi come allucinazioni, compulsioni e fobie «reflect difficulties in personal relations, and the fears, anxieties, stresses and strains of daily life»2. E, in

un contesto di vita quotidiana, non si può non tener conto anche di un altro soggetto esposto allo stress sociale: le donne.

Sicuramente la malattia mentale costituiva un fatto in qualche modo prodigioso, anche per gli osservatori più convinti di una sua spiegazione fisiologica e non soprannaturale. Così ci dice l'autore del trattato ippocratico Male Sacro3 a proposito della visione diffusa dell'epilessia come male causato dagli dei:

Così stanno le cose a proposito della cosiddetta malattia sacra. A me non sembra affatto che sia più divina né più sacra delle altre malattie […] Se invece la si vorrà considerare divina per il suo carattere straordinario (dia to thaumasion), molte, per questo motivo, saranno le malattie sacre. Per esempio, le febbri quotidiane […] E inoltre vedo uomini in preda alla follia (mainomenous) e fuori di senno (paraphroneontas) senza alcun motivo manifesto (ap'oudemies prophasios emphaneos) che compiono le più varie azioni inconsulte, e so di molti che nel sonno gemono e gridano, di altri che addirittura si

1 J-P. VERNANT, Les origines de la pensée grecque, Paris 1962, p. 18.

2 I. E. DRABKIN, Remarks on Ancient Psychopathology, «ISIS», 46 (1955), p. 227.

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sentono soffocare, e di altri ancora che balzano su e scappano fuori e sono fuori di senno fino a che non si svegliano, dopo di che sono sani e in sé come prima, ma sono pallidi e deboli; ciò accade spesso, non una sola volta (1, 1-8).

Emerge subito l'essenza del disturbo psichico: esso c'è, è manifestamente presente, ma non si spiega. Vi è un senso di familiarità e al tempo stesso di estraneità: la malattia mentale è visibile solo nel comportamento del malato stesso, nelle sue azioni inconsulte, ed è visibile nella misura in cui un osservatore si accorge di cambiamenti nello stato cognitivo del malato.

Si pongono, quindi, subito, gli stessi problemi che riguardano la psichiatria moderna: cos'è la follia? Qual è la soglia superata la quale si può definire una persona “folle”? Non ci proponiamo di risolvere questioni così ampie, questioni di definizione e di confine.

Diamo semplicemente conferma del fatto che ogni cultura, ogni civiltà, ha avuto e ha i suoi modelli di malattia mentale4 e che anche per i casi di follia antica

il disturbo mentale può presentarsi in concomitanza con determinate altre situazioni o fasi della vita: la pubertà, la malattia, una separazione o un evento traumatico, la morte.

Vediamo dunque come nel mondo antico vengono conciliati logos e alogon e in quale quadro le passioni vengono collocate o relegate, e, se logos e alogon sono tra loro in conflitto, quali sono i sintomi di questo disagio in uomini e donne.

Vita mentale in Omero e la relazione tra il «puritanesimo» e la «civiltà di colpa». Partiamo dalla civiltà omerica. I termini per indicare gli agenti interni della vita mentale non sono chiaramente distinguibili5: non esiste una parola 4 Riprendo qui la definizione di Bennett Simon: models of mental illness. In particolare i modelli di malattia mentale ai quali Simon fa riferimento si riconducono alla poesia epica e tragica, alla filosofia e alla medicina. Cfr. B. SIMON, Mind and Madness in Ancient Greece. The Classical Roots of Modern Psychiatry, New York 1978.

5 Possiamo trovare phrenes, che si riferisce alla parte del corpo corrispondente al diaframma, oppure le varianti del termine “cuore”, come kardia e ker. Il termine che meglio indica un'attività puramente intellettuale è noos, mentre il thymos è un'entità o un organo che si espande all'interno della persona e che può fuoriuscire dal corpo al momento della morte. È l'organo a cui si rivolge un personaggio nel suo dialogo interiore. Psyche, che appartiene solo

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corrispondente alla nostra “mente” e in Omero non è operata una chiara distinzione tra organi del pensiero e organi dell'emozione. «To a large degree, all of the terms of mental functioning are amalgams of mind and heart or of thinking and emotionality»6.

Al di là di una mancata distinzione tra ciò che è fisico e ciò che è psichico, la vita emotiva in Omero non appare come il prodotto di una qualche struttura od organizzazione. Quindi, quando si parla di agenti dell'attività mentale in Omero, non si fa riferimento a un intero composto di parti in coordinazione tra loro7 né in

una disposizione gerarchica precisa.

Bennett Simon suggerisce che, non essendoci la nozione di una struttura mentale, conseguentemente non c'è una nozione di disordine o di deviazione interni a una struttura mentale. La conferma di una tale 'assenza' risulterebbe anche dal linguaggio: la follia farebbe parte di un incidental vocabulary8

all'interno di un contesto più ampio di descrizione di stati mentali normali. Piuttosto che specifiche connotazioni di stati psichicamente alterati, si preferisce un linguaggio metaforico come: “Devi essere pazzo a pensare ciò...”. «In contrast to characters in the tragedies, no one in the poems is considered out-and-out mad»9. Lo stesso linguaggio 'incidentale', comunque, suggerisce che i poeti e

l'audience a cui i poeti si rivolgevano conoscevano il fenomeno della follia, e, naturalmente, Omero descrive numerosi situazioni di conflitto interno, soprattutto relative al momento opportuno in cui compiere una determinata azione.

Altri dati sulla vita mentale in Omero e sulla questione dell'irrazionale in generale possono esserci forniti dalla nozione di ate, nelle sue diverse sfumature di significato per i due poemi dell'Iliade e dell'Odissea10. Il termine ate nell'Iliade

non significa mai “rovina”, ma esprime un errore inesplicabile attribuito a

agli uomini e non agli animali, pur non corrispondendo a un organo corporeo, sembra avere caratteristiche in qualche modo fisiche: spesso appare dopo la morte, può lasciare una persona quando questa perde conoscenza e, presumibilmente, ritornare al suo risveglio; può anche essere connotata come “respiro”, “soffio vitale”.

6 SIMON, Mind and Madness in Ancient Greece, p. 59.

7 E naturalmente non vi è un termine corrispondente a “struttura”. 8 SIMON, Mind and Madness in Ancient Greece, p. 66.

9 Ibi, p. 65.

10 È sempre illuminante la trattazione di E. DODDS, I Greci e l'irrazionale, trad. it. di Virginia

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un'operazione demonica esterna. Questa può assumere l'aspetto di Zeus, di una Moira, delle Erinni. Analogamente accade per il menos, lo stato d'animo, la fiducia e lo slancio che invadono chi ne ha avuto infusione.

Scettico sulle interpretazioni di questa tendenza all'oggettivazione che fanno leva su una 'instabilità di spirito' degli eroi omerici, Dodds spiega che essa riflette piuttosto la volontà di evitare l'indeterminazione. L'uomo omerico crede nell'intervento psichico e gli attribuisce un carattere demonico o comunque soprannaturale, perché non possiede un concetto unitario di anima come principio di conoscenza. Ne consegue che ogni fenomeno psichico assume l'aspetto della parzialità, diviene oggettivo e perciò rappresentabile. Infatti, i personaggi omerici hanno l'abitudine di spiegare il carattere come una specie di conoscenza e, in un certo senso, come appartenenza. « […] se carattere vale conoscenza, quel che non è conoscenza non fa parte del carattere […] »11: questo il modo di concepire la

vita psichica secondo uno schema di tipo 'fuori/dentro'.

L'interpretazione di Dodds, che vede nella società omerica il prodotto di una «civiltà di vergogna» i cui membri agiscono in vista della propria time, implica che il concetto di ate funga per l'uomo omerico da proiezione su una potenza esterna del proprio insostenibile senso di vergogna. Col tempo ate, pur mantenendo il significato di condotta irrazionale, diventa l'espressione del castigo, della generale rovina12. Così nell'Odissea si iniziano a delineare il concetto di

giustizia divina e il nesso tra colpa e punizione.

La lettura di Dodds ricostruisce concetti (tra cui, appunto, ate) e atteggiamenti che, in seno all'esperienza religiosa greca, hanno acquistato una connotazione sempre più morale e «puritana»13. L'idea ponte tra la civiltà di vergogna e una 11 DODDS, I Greci e l'irrazionale, p. 59.

12 Susanne Said preferisce non fare riferimento a un 'doppio' significato di ate. Al di là delle possibili differenziazioni, secondo la studiosa, il vero significato di ate sta negli effetti dell'azione commessa in stato di ate: dagli effetti si comprendono la mancata lucidità del soggetto e la qualità dell'azione compiuta. «This is the reason why mistakes brought about by alluring promises of gods, or men, actions of other men or interventions of a god, errors made out of carelessness, intoxication or stupidity that had fatal consequences for their author are a

posteriori acknowledged as ate by their agent or by the narrator in the Homeric poems». Cfr. S.

SAID, From Homeric 'ate' to Tragic Madness, in W. V. HARRIS (ed.), Mental Disorders in the Classical World, Leiden-Boston 2013, pp. 364-365.

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nuova «civiltà di colpa» è lo phthonos theon (invidia degli dei), ma i cambiamenti investono, naturalmente, la dimensione pubblica e privata della società greca. La polis si innesta, infatti, con continuità sull'oikos, il corrispettivo nucleo privato della famiglia. Dalle ceneri del vecchio potere centralizzato del basileus risorge la figura del padre, il garante della solidarietà e solidità familiare. Con la civiltà di colpa il timore del pubblico discredito diventa bisogno intimo di punizione. Dodds osserva come nell'evoluzione da una civiltà all'altra si raccolgano segni di crescente ansia e timore, dovuti certamente al clima di scarsa sicurezza personale – cambiamenti geopolitici dovuti anche alle invasioni doriche –, ma soprattutto a un rilassamento dei vincoli familiari.

La ricostruzione di Dodds andrà ridimensionata almeno alla luce di alcune considerazioni di Bernard Williams (che su questo punto concorda con quella di Simon14), che oltrepassa la distinzione tra un 'primitivo' sentimento di vergogna e

un 'evoluto' senso di colpa. Per l'uomo omerico l'aidos è un sentimento condiviso e intersoggettivo: è criterio di valutazione delle proprie azioni tanto quanto delle azioni altrui. Esporsi al giudizio degli altri non sarebbe dunque solo questione di 'perdere la faccia': è un valore interiorizzato come arete, come andreia. La differenza rispetto al senso di colpa risiederebbe piuttosto nella diversa modalità di percezione del sentimento. Nel caso della vergogna, l'esperienza ha a che fare con l'essere visto, con lo sguardo. Nel caso della colpa «è interessante che […] affondi le sue radici nell'ascolto, il risuonare in se stessi della voce del giudizio»15. Persino lo spazio in cui il soggetto agisce si modificherebbe:

compiere un'azione vergognosa suscita il desiderio di scomparire o che lo spazio attorno a noi si svuoti. Il pensiero della colpa suscita nel soggetto, ovunque si trovi, un senso di persecuzione. E il desiderio di nascondersi conferma la differenza tra una vergogna che si limita all'imbarazzo e una vergogna più profonda, che investe l'autostima.

È però più prudente, per non sminuire l'importanza della vergogna nella società greca a favore della centralità della colpa, inserire il sentimento etico dell'aidos (qualcosa che per noi è vergogna) in un quadro ampio, al cui interno risiede

14 SIMON, Mind and Madness in Ancient Greece, p. 67.

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qualcosa che per noi è identificato come sentimento di colpa (termine che non ha un corrispettivo in greco). Non vi è probabilmente una così netta distinzione tra vergogna e colpa per i Greci, quanto, piuttosto (e questo è ben messo in evidenza nella tragedia), tra sfera pubblica e sfera privata. Non possiamo né dobbiamo 'correggere' i Greci, pensando come se provassero emozioni 'sbagliate' nel contesto sbagliato: è chiaro che l'etica competitiva suggerisce che, in un campo di battaglia ad esempio, si provassero spinte individualistiche, ma nulla esclude che queste stesse spinte venissero messe da parte.

Non è comunque improprio riscontrare, nel cammino che porta alla democrazia, i segni della formazione di questo 'sentimento del peccato'. Dopo la crisi del sistema monarchico, infatti, Atene partecipa del processo della divisione del potere: «L'accent n'est plus mis sur un personnage unique qui domine la vie sociale, mais sur une multiplicité de fonctions qui, s'opposant les unes aux autres, nécessitent une répartition, une détermination récriproques»16. Jean-Pierre Vernant

descrive la nuova vita politica di Atene come un momento di trasformazione e trasferimento di poteri: dall'aristocrazia sacerdotale al demos. In questo processo di razionalizzazione, le antiche procedure religiose non vengono semplicemente spazzate via, ma gli strati sopravvissuti sono portatori di quel carattere «puritano» che Dodds ha rilevato.

Al centro di questa lettura si trova, progressivamente, l'anima. I termini che la connotano sono, come abbiamo detto, in qualche modo imprecisi17, ma non si

parla (ancora)18 comunque dell'anima intellettuale: l'io in questione è un io

emotivo, una dimensione interiore che inizia a contrapporsi al corpo.

Nella interpretazione puritana di Dodds una tale psicologia deriva dalla civiltà sciamanica19. Uno sciamano è un soggetto psichicamente instabile, la cui anima si

credeva lasciasse il corpo e viaggiasse. È un uomo dotato di vocazione religiosa, e per questo osserva un regime di vita ascetico grazie a cui prende possesso delle

16 VERNANT, Les origines de la pensée grecque, p. 50.

17 Cfr. supra, nota 5.

18 È con Socrate e più decisamente con Platone (per quanto riguarda l'immortalità) che avviene questo passaggio.

19 Una civiltà al tempo di Dodds ancora viva in Siberia e che ha lasciato il suo passaggio nell'arco che ricopre i territori della Scandinavia, passando per il continente euroasiatico, fino all'Indonesia.

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sue facoltà particolari. I Greci sarebbero venuti a contatto con questa civiltà in Scizia e in Tracia (patria del leggendario Zalmoxis), quando nel VII secolo a. C. il Mar Nero si aprì al commercio e alla colonizzazione. Il successo di questi personaggi risponde a un bisogno di quell'epoca.

Per Dodds a una «psicologia puritana» si riferiscono sia l'orfismo che il pitagorismo. Tralasciando i dettagli che portano all'identificazione di una dottrina o dell'altra, basti ricordare che la concezione del corpo come carcere dell'anima, la prescrizione del regime vegetariano e di tabù alimentari, l'eliminazione della contaminazione con mezzi rituali e la teoria della reincarnazione si connettevano con interrogativi riguardanti non solo il destino oltremondano, ma l'agire morale.

Vi è una dimensione interiore, una sorta di demone, rispetto a cui si rivolge la purificazione: «la purezza, piuttosto che la giustizia, è diventata strumento capitale di salvazione»20. Dietro la ricerca di una askesis si nasconde l'orrore

primordiale per lo spargimento di sangue. Qual è la fonte? La risposta è nel mito. Quando i Titani catturarono Dioniso bambino, lo fecero a pezzi e lo mangiarono. Zeus li incenerì con un fulmine e dai loro resti nacque il genere umano, che ereditò così il temperamento crudele dei Titani, e una piccola parte immortale (l'io occulto che viene da Dioniso). Anche questo popolo ebbe la sua dottrina del 'peccato originale' per spiegare l'universalità del senso di colpa.

Il 'medium' tragico nella presentazione della follia sulla scena.

Perhaps the answer to why Homer at most only hints at madness can be found in the epic form, which has certain capabilities that the tragic does not. Epic allows for an unending story, and so greater potential for action. As long as a hero can act (which means fight) he does not have to go mad […] Tragedy requires situations in which action either is blocked or has shattering consequences that cannot be undone. Epic time is never ending; tragic time is short and intense, and allows no return21.

20 DODDS, I Greci e l'irrazionale, p. 202.

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C'è questo nesso, riconosciuto da molti studiosi22, che lega la rappresentazione

della follia (e specialmente una sua manifestazione particolare, come vedremo) nella tragedia all'essenza stessa della tragedia come rappresentazione sulla scena, e quindi con la visibilità a cui è soggetto il materiale di una composizione tragica.

È bene innanzitutto ricordare che c'è continuità tra il vocabolario della follia nell'epica e quello nella tragedia23, come può mostrare anzitutto l'uso del verbo

mainomai. Questo ha la sua radice in menos, in Omero un termine generico per indicare vitalità ed energia, ma la connotazione positiva del sostantivo non è presente nella forma verbale: mainomai qualifica un individuo come al di fuori dei confini della normalità, della sanità mentale24. Tuttavia, nella tragedia vi è una

ricchezza di descrizioni della vita interiore dei personaggi che non ritroviamo nell'epica e un grande interesse per il fenomeno della follia. L'attenzione è focalizzata sull'individuo e sul conflitto: conflitto tra uomini e dei, tra uomo e uomo, o interno all'individuo. I personaggi diventano folli nel momento in cui patiscono l'incompatibilità tra ciò che essi ritengono sia giusto e ciò che inevitabilmente, invece, sopraggiunge loro. Possiamo, dunque, dire che nella tragedia si tratta sempre di una questione di equilibrio e armonia: lo squilibrio causa la malattia e il collasso.

E, difatti, come efficacemente sostiene Simon: «If the causes of madness could

22 Si vedano R. PADEL, In and Out of the Mind. Greek Images of the Tragic Self, Princeton 1992;

G. MOST, The Madness of Tragedy, HARRIS (ed.), Mental Disorders in the Classical World, pp.

395-410.

23 Questa continuità è stata rilevata da Simon (SIMON, Mind and Madness in Ancient Greece, p.

68) e da Said (SAID, From Homeric 'ate' to Tragic Madness, pp. 363-393).

24 Mainomai è molto usato come un insulto all'interlocutore; può connotare la furia del guerriero, ed essere usato per criticare coloro che non rispettano le leggi di ospitalità; in generale, come

ate e menos sono spesso presentati come doni divini, anche la mania è connessa a un

intervento soprannaturale. A differenza di ate, però, la mania non è mai 'oggettivata' e può essere attribuita agli dei (il dio a cui è associata specificamente è Dioniso). Inoltre, mentre ate mette l'accento sul danno che il soggetto fa a se stesso, con mainomai l'attenzione è concentrata sul danno ai nemici o agli amici.

Altri termini già presenti in Omero che hanno contribuito alla formazione di una follia tragica sono (oltre al già citato ate), lyssa (e i composti lyssodes e lysseter), margos e margainein, che sono comunque piuttosto rari. Lyssa e i suoi composti si possono riferire alla foga delirante del guerriero, mentre margainein (come mainomai) esprime gli effetti fisici della frenesia guerriera, come la pulsazione del cuore, la bocca che schiuma, e gli occhi fiammeggianti. Sono presenti nel vocabolario omerico anche aphron, aphrosyne, aphronein e aphrainein: denunciano la stupidità dell'interlocutore, il suo comportamento infantile o una condanna per delle azioni criminali.

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be epitomized in a single sentence, it would be this: Madness comes from conflict»25. Insieme al conflitto, gioca un ruolo importante l'ambivalenza, che si

esprime nel sacrificio rituale, nella mistura di amore e aggressività che si riversano sulla vittima, animale o umana. E proprio l'insorgere della follia conferma un'altra differenza rispetto all'epica: anche se nella tragedia gli dei, per quanto presenti, non gestiscono solitamente i pensieri e le emozioni dei personaggi, proprio la follia, così come il sacrificio, sono sempre provocati dal dio. Il dio rappresenta in qualche modo la forma del conflitto interiorizzata dal personaggio: i vincoli sociali e l'obbligo di obbedienza a questi vincoli sono la causa del conflitto nella tragedia. Il folle si pone subito come il disobbediente della società.

Thus madness in Greek tragedy is inseparable from religion and from feelings about the gods. That feeling, a mixture of reverence, dread, occasional affection, and dutiful obligation, bespeaks an attempt to cope with emotions and wishes that must also exist between parents and children and between the sexes26.

L'interiorità del personaggio è espressa nel linguaggio concreto delle connessioni tra ciò che è fuori e ciò che è dentro: è il linguaggio 'materialista' della filosofia presocratica, e un termine-chiave è poroi27, “passaggi”, “canali”.

Sono queste le vie di comunicazione fra ciò che è interno al corpo e ciò che è esterno al corpo (e, naturalmente, i poroi regolano anche la comunicazione tra le stesse sostanze interne al corpo).

È il senso della vista anzitutto a favorire la comunicazione tra il soggetto e l'ambiente che lo circonda, in un senso più 'stratificato' rispetto all'epica. Nella tragedia l'interiorità dei personaggi interagisce nella trama e per il pubblico. La visione è un fenomeno di trasmissione e interazione tra la realtà esterna e l'interno, e l'occhio nella tragedia è hermeneus della realtà. Lo sguardo di un personaggio può esprimere le emozioni del personaggio e gli occhi emanano i segnali di uno stato alterato. La follia che viene da fuori esce fuori attraverso lo

25 SIMON, Mind and Madness in Ancient Greece, p. 101.

26 Ibi, p.102.

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sguardo: occhi che roteano, che fiammeggiano. Non solo, la vista è un senso particolarmente debole e sensibile all'alterazione (nella sua connessione privilegiata con la percezione e la conoscenza), e perciò precisamente la tragedia si presta a una rappresentazione della follia sotto forma di stati allucinatori28.

Oreste è l'esempio principe della follia tragica: sia Eschilo che Euripide delineano il profilo dell'eroe che, in uno stato precedente alla follia, uccide la madre, e viene in seguito per questo perseguitato dalle Erinni. Al di là del fatto che le allucinazioni possano avere il carattere di visioni o di illusioni29, la follia

tragica così presentata è decisamente influenzata dalla visualità dello stesso medium tragico. Questa è la prospettiva adottata da Glenn Most30, rafforzata anche

dal fatto che l'istituzione tragica, già nel nome theatron, sottolineava come il luogo della sua rappresentazione fosse “il luogo del vedere” e lo spettatore, il theates, “colui che guarda”. Più precisamente, secondo Most, una delle ragioni per cui la follia di Oreste è una follia allucinatoria è che la storia di Oreste veniva rappresentata sulla scena. Viene, così, veicolato un messaggio agli stessi spettatori: “Anche voi state guardando qualcosa che non è realmente lì”. Questo messaggio si lega alla funzione catartica dell'esperienza tragica: lo spettatore, assistendo al pathos del personaggio, alterna pietà e paura; teme che la stessa pena del personaggio possa sopraggiungere e prova compassione. Ma è in qualche modo rassicurato dalla presenza della follia sulla scena sotto forma di allucinazione: lo spettatore è chiamato a svolgere un ruolo attivo e a distinguere la finzione dalla realtà.

Sacro e contaminazione. Nella sua Histoire de la folie à l'âge classique Michel Foucault descrive l'evoluzione dell'esperienza della follia dal Medioevo al Rinascimento: essa si fece posto gradatamente nella vita sociale, in un processo di

28 Cfr. MOST, The Tragedy of Madness.

29 In Eschilo Oreste vede cose che non sono presenti fisicamente, mentre in Euripide vede figure che sono realmente presenti, ma vengono scambiate per altro da quello che sono. La prima forma di allucinazione è chiamata da Most “visione”, l'altra “illusione”. Ed è l'illusione a essere più spiccatamente teatrale, perché permette agli spettatori di compartecipare al momento che Oreste vive. Lo spettatore vede una figura presente sulla scena, esattamente come Oreste, ma, a differenza di Oreste, sa che Oreste si sta sbagliando.

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integrazione che appare frammentato. All'inizio del Medioevo la follia nelle sue rappresentazioni è tenebra, portatrice di un sapere segreto, espressione significativa di un rapporto dell'uomo con il mondo. Per questo Foucault fa riferimento a una expérience cosmique: la follia affascina. A partire dal Rinascimento la letteratura e la filosofia rendono la follia oggetto del sapere ed espressione del rapporto dell'uomo con se stesso. Questa è l'expérience critique: la problematizzazione del ruolo della follia fa sì che l'uomo ne prenda distanza. In ogni caso, la follia intrattiene una relazione stretta con il sapere e la ragione: follia e ragione si avvicendano in una dialettica che non lascia mai la questione risolta, ma sempre un'ombra di tragicità. Le tappe verso quello che Foucault chiama le grand renfermement sono essenzialmente due: la scoperta di una follia immanente alla ragione, con conseguente sdoppiamento della nozione stessa di follia. Esiste la categoria della folie folle, che rifiuta la déraison come parte della ragione, e la categoria della sage folie, che invece la accoglie come bisogno e forza della ragione stessa.

Nel mondo greco non ci fu il corrispettivo di quello che Foucault chiama «il grande internamento»: nella polis i rapporti sociali vedono gli uomini davanti allo stato come homoioi, e sul piano politico i cittadini si sentono intercambiabili: «à l'intérieur d'un système dont la loi est l'équilibre, la norme l'égalité»31. Che posto

aveva, dunque, la follia?

«In origine la follia è una dimensione stessa dell'essere umano, perciò non può essere separata da lui e dalla società»32. Ricordiamo che a Dioniso è associata la

follia, in quanto il simbolo del dio è il vino che provoca alterazione psicofisica. Ma anche se nella società greca i folli non erano reclusi e isolati, il folle è da subito colui che si rifiuta di riconoscere il sistema di valori della società.

Non è facile sintetizzare questi dati raccolti sugli atteggiamenti intorno alla follia: il destino che toccò alla malattia mentale conosce ambiguità e contraddizioni. Abbiamo visto come in Omero, mancando un concetto definito di anima, non è possibile nemmeno classificare la follia come malattia dell'anima: la difficoltà sta nel fatto che l'io in questione sarebbe piuttosto scomposto in 'io

31 VERNANT, Les origines de la pensée grecque, p. 68.

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parziali'. Dodds propende per una definizione della mania come una sospensione temporanea di un flusso di pensieri, un sorta di confusione.

La follia, poi, lo abbiamo visto, diventa oggetto di riflessione critica nel teatro antico: è un'esperienza connessa col dolore, implica pathos ovvero un «sentiment direct et concret de souffrance et d'impuissance, sentiment de vie contrariée»33.

Ma è chiaro che ciò che i Greci sentivano, ciò che credevano, quello che da fuori osservavano a proposito di questa esperienza doveva in qualche modo suscitare reazioni che avrebbero marcato il confine tra l'individuo folle e il gruppo, mettendo, d'altra parte, il folle in rilievo.

La bella immagine della Nef des fous34 che Foucault offre all'inizio della sua

storia della follia racconta di un'antica suggestione: l'esperienza liminare del folle. Già il lebbroso era considerato sacro e, nonostante gli si proibisse l'accesso alla Chiesa (sorte che naturalmente toccò anche al folle), la sua esistenza era manifestazione di Dio «[…] puisque tout ensemble elle indique sa colère et marque sa bonté»35. Ed effettivamente la “Nave dei folli” consisteva nell'invio in

mare aperto di una carovana di stolti viaggiatori: follia è peregrinare, il viaggio comprende la purificazione attraverso l'elemento dell'acqua.

Anche nell'antichità la mania era legata a motivi quali contaminazione e colpa morale, e la religione provvedeva a guarire coloro che erano divenuti folli per avere violato un divieto connesso a un luogo sacro o per avere dimenticato un atto rituale. Il ruolo del folle coincide con il suo spazio: il margine mitico e invisibile, margine che contribuisce a determinare la sua personalità. L'espressione foucaultiana jeux d'exclusion si addice bene a questa situazione: il folle è il protagonista di un alternarsi di esclusione sociale e reintegrazione spirituale. È infatti un individuo aghios, che contiene la forza positiva e malefica, che al tempo stesso santifica e annienta.

«In genere, i miti sulla follia rituale o iniziatica seguono uno schema ricorrente: contaminazione-follia-fuga dall'umanità-purificazione-reintegrazione»36. La 33 G. CANGUILHEM, Le normal et le pathologique, Paris 1966, p. 85.

34 M. FOUCAULT, Histoire de la folie à l'âge classique, Paris 1972, p. 18 ss.

35 Ibi, p. 18.

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patologia necessita il riconoscimento e l'integrazione nel corpo sociale per potere essere meglio gestita e, caricandosi di significato religioso, trova la sua terapia. Le cure previste per la follia erano di carattere rituale, di tipo esorcistico, musicale, o iniziatico. La cura esorcistica veniva praticata dal katarthes, e mentre nella tradizione giudaico-cristiana il demone imprigionato, essendo il simbolo del male, viene scacciato, nella tradizione greca il demone viene ammansito, perché presenza divina. La malattia trova qui i tratti di un'esperienza soprannaturale, è ritualizzata e assorbita.

La cura musicale, che spesso si intreccia con la cura iniziatica, è affidata a un tipo di follia che chiamiamo collettiva, in opposizione alla follia privata (ad esempio, quella degli eroi nelle tragedie): come abbiamo ricordato Dioniso era folle e per questo causa di fobia improvvisa e collettiva. Tra i gruppi più specificamente associati alla cura musicale della pazzia troviamo le Baccanti e i Coribanti: essi erano considerati i guaritori della follia. Il loro stato allucinatorio, per cui credevano di sentire il suono dei flauti, provocava in loro il desiderio irrefrenabile di danzare, atto che diveniva, quindi, la terapia. Il rituale, dunque, non fa che riassumere in sé malattia e cura.

Come si svolge, allora, questo processo di alterazione psichica? Secondo Giulio Guidorizzi ai Greci non era sfuggita la differenza che oggi poniamo tra trance e estasi. In entrambi i casi si tratta di un cedimento dell'identità, ma per l'estasi avviene in solitudine e riguarda una perdita della connessione tra anima e corpo, un allentamento di questo legame: l'anima, infatti, viaggia fuori dal corpo (esce da sé, appunto). La trance, invece, è l'enthousiasmos, uno stato infuso dal dio, in cui il corpo umano diventa più vivo ed energico37.

Ognuno di questi folli lo è per 'concessione divina', vale a dire, non per una scelta autonoma si è chiamati a ricoprire questo ruolo. La follia si riconferma un'esperienza dolorosa. Guidorizzi rimarca, infatti, la funzione difensiva e regressiva sia della trance sia dell'estasi38: la follia corrisponde al momento

dell'intervento del dio per difendere colui che viene posseduto, quando lo sconvolgimento del corpo e dell'anima sono molto violenti. Così la regressione in

37 Cfr. GUIDORIZZI, Ai confini dell'anima, pp. 167-168.

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una esperienza molto 'corporea' come quella della danza coribantica può essere il mezzo per lasciare la civiltà e i suoi disagi alle spalle. È, del resto, il fil rouge del nostro discorso: non escludiamo che la pressione sociale e psicologica nella civiltà antica abbiano avuto un peso considerevole, e per questo venissero espresse in atteggiamenti ritualizzati e codificati, al fine di 'chiudere' gli individui entro confini (anche spaziali) ben precisi.

Follia al femminile e mente al maschile. A numerosi studiosi non è sfuggita la principale caratteristica di riti come quello dionisiaco: essi sono a carattere quasi esclusivamente femminile39. Difatti, accanto al culto dionisiaco ufficiale,

permangono i rituali di dionisismo primitivo. Le seguaci di Dioniso sono comunemente chiamate Baccanti' o Menadi (“furiose”, “deliranti”), ma prendono anche denominazioni locali.

Come abbiamo visto, il rito è un'esperienza conoscitiva, spinge l'uomo ai confini dell'invisibile e lo mette in armonia con il Tutto. Dapprima Dioniso chiama i suoi seguaci e li costringe a seguirlo, ed è questa un'esperienza dolorosa i cui effetti permangono anche dopo: si instaura una sorta di dipendenza tra il seguace e il rituale, per cui la trasformazione psicologica tende a diventare permanente.

Questo perché la concessione a cui sono soggetti i 'posseduti' è di tipo sociale: in alcuni periodi dell'anno è loro permesso di farsi prendere dalla mania. In occasione delle feste trieterides, infatti, le Baccanti, ma anche le Tiadi (seguaci di Dioniso a Delfi) e le Menadi praticano l'oreibasia, la processione sul monte. Varie testimonianze letterarie confermano una reale esistenza di queste figure femminili, che dunque non farebbero parte solo dell'immaginario dei Greci.

Vi sono, dunque, periodi dell'anno e luoghi nei quali alle donne è permesso di allontanarsi dalla casa paterna, liberarsi dai gravami dell'allevamento della prole, e durante la notte raggiungere la cima della montagna fuori dalla città. Come una malattia contagiosa, la danza accompagnata da flauti e tamburelli consentiva la trance e offriva uno spettacolo che doveva essere assai particolare: le

39 Cfr., ad esempio, DODDS, I Greci e l'irrazionale, pp. 329-344; GUIDORIZZI, Ai confini dell'anima, pp. 184-200.

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rappresentazioni figurate e letterarie delle donne in trance sono accomunate da tratti caratteristici, come nuca all'indietro, capelli sciolti e selvaggi, occhi rivolti verso l'alto. Questi e altri caratteri avvicinano i riti greci ai riti di altre società 'primitive' e a figure della modernità (come le donne isteriche di fine Ottocento): utilizzo dei medesimi strumenti musicali, stesso portamento della testa, analgesia del corpo40, alterazione della voce41.

Le donne, inoltre, sono rappresentate mentre vengono chiamate al rituale da Dioniso nel momento in cui tessono nella quiete della casa paterna, e la fuga dalla casa e dalla città simboleggia proprio l'insania e il disordine. È ancora una volta la coppia 'fuori/dentro' che segna i confini tra lecito e illecito. « […] les Bacchantes, […] disent le renversement de l'ordre de la cité et de la famille»42. Non solo:

durante il rito il capovolgimento coinvolgerebbe anche i ruoli del maschio e della femmina43. Le donne diventano selvagge, cacciano, si vestono di pelli animali e

allattano cuccioli di animale e, al culmine del rituale, uccidono una vittima (sparagmos) e divorano la sua carne cruda (omophagia). Dodds sottolinea che questo aspetto fa parte della «logica selvaggia»: tra le testimonianze troviamo il termine charis ad accompagnare la consumazione del pasto e a indicare quasi un certo compiacimento. È il carattere ambivalente del sacrificio: la complessità di questo rito crudele e catartico al tempo stesso, la presenza del sacro e della contaminazione prevede anche la cura del male attraverso l'alimentazione carnea.

Queste le manifestazioni del rituale, al cui interno è racchiusa una ricca simbologia. Per esempio, sono molte le attestazioni del legame tra il suono del flauto e la follia. Per Aristotele (che, come Platone, ci offre una teoria dei modi musicali) il modo frigio sarebbe quello che causa entusiasmo e delirio, quello dorico invece è nobile, ha un suono più grave e ristabilisce l'equilibrio. Aristotele aggiunge che è anche “virile”. Non è difficile riordinare gli elementi e affermare che per i Greci ciò che vi è di nobile, equilibrato e razionale appartiene alla sfera

40 Nelle Baccanti di Euripide le danzatrici portano il fuoco sulla testa senza bruciarsi.

41 Un altro aspetto tipico del rito bacchico è il grido, o meglio, la destrutturazione della voce: Dioniso è infatti Bromio, “il dio che freme”.

42 L. BRUIT ZAIDMAN, Les filles de Pandore, in G. DUBY- M. PERROT, Histoire des femmes en Occident. L'Antiquité, Paris 1992, p. 465.

43 Ricordiamo qui, per esempio, che nelle Baccanti Dioniso convince Penteo a vestirsi da donna per potere spiare le Baccanti sul monte.

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della sessualità maschile, l'irrazionale, e in genere il mondo dei sentimenti devastanti, alle donne.

Anche i medici ippocratici hanno rilevato disturbi mentali tipicamente femminili, che avevano come caratteristiche l'insorgenza improvvisa della malattia e il suo carattere collettivo. Essi colpivano le donne, dato il loro temperamento ritenuto instabile, e spesso anche le fanciulle nubili. La terapia praticata comunemente era di tipo rituale44.

Nel quadro del Peri parthenion45 ippocratico, la donna è infatti più debole

dell'uomo e quindi più facile a cadere in stati depressivi, oltre a essere naturalmente incline all'autodistruzione. Il corpo della donna appare legato in modo irrimediabile alla sua funzione riproduttiva, il ruolo sociale par excellence della donna greca.

Del resto, la ciclicità della vita femminile e i suoi cambiamenti rendono la donna oggetto di osservazione (e di mistero): in una cultura in cui la donna è un soggetto muto, è l'uomo a decidere che la patologia si riflette nella capacità di procreare.

Lo stato verginale (come nel caso del Peri parthenion), ma anche la vedovanza o più in generale la sterilità, sono situazioni guaribili unicamente con l'accoppiamento. La cura che il medico prescrive non è, dunque, rituale, ma – possiamo dire – contrattuale: il matrimonio e una regolare attività sessuale ripristinano l'equilibrio.

Per tutte le malattie del Corpus Hippocraticum, come vedremo, l'alterazione ha un carattere psico-fisico. In età puberale, infatti, il sangue confluisce nell'utero e normalmente defluisce all'esterno: se il sangue è bloccato nella sua fuoriuscita, risale verso il cuore e il diaframma, spingendo, e causando la malattia. Cosa lo blocca? La chiusura dell'orifizio (stoma) vaginale, ostruzione che provoca delirio

44 Il suicidio per impiccagione caratterizza spesso il risolversi di questo tipo di disturbi nelle donne. Sarebbe interessante chiarire, in base a queste considerazioni, il ruolo del comportamento suicidario come malattia nell'età classica. Recentissimi studi, che rivedono la classificazione nosografica del DSM, hanno proposto tra i disturbi anche il suicide behavior

disorder. Sebbene la proposta non sia stata accolta, le neuroscienze hanno confermato il

concorso di fattori non solo sociali, ma anche genetici, che predisporrebbero all'atto (http://le-cercle-psy.scienceshumaines.com/le-suicide-faut-il-en-faire-une-maladie_sh_30853).

45 Si veda lo studio di V. ANDÒ, La verginità come follia: il 'Peri parthenion' ippocratico,

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