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Foreword. The Government of Catastrophe between Human and Social Sciences

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Governare la paura - 2013, ottobre - ISSN 1974-4935

GOVERNARE LA CATASTROFE FRA SCIENZE UMANE E SCIENZE SOCIALI

Maria Laura Lanzillo

Alma Mater Studiorum – Università degli studi Bologna, Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali, marialaura.lanzillo@unibo.it

Abstract. Foreword. The Government of Catastrophe between Human and Social Sciences

The Author presents the theoretical framework of the special issue on the fear of nature. The main goal of the essays in the special issue is reflecting on catastrophe and on its perception within the areas of contemporary human and social sciences; that is, revising the specific forms of the relationship between man, nature, society, as well as the relationship risk-fear-security, between society and government.

Keywords: Fear, Government, Catastrophe, Nature.

Il cielo finalmente folgorò, tuonò con folgori e tuoni spaventosissimi […]. Spaventati ed attoniti dal grande effetto di che non sapevano la cagione, alzarono gli occhi e ed avvertirono il cielo.

Giambattista Vico, Scienza Nuova

1. Il passo famoso della Scienza Nuova nel quale Vico mostra come la paura, e precisamente la paura della natura (le folgori e i tuoni), sia all’origine dell’associarsi degli «uman bestioni» con l’istituzione del

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legame religioso (il tuono appare come manifestazione della potenza divina che produce il timore nell’animo umano) e l’inizio della loro uscita dall’«error ferino», grazie all’attivazione anche di altre passioni, in primis la vergogna, e di processi di natura mentale, che portano gli uomini di Vico alla costruzione delle istituzioni, del linguaggio e delle norme sociali1, ci mostra che la paura della natura è tema classico della riflessione politica. Come già in Hobbes, anche in Vico, seppure in un contesto antropologico e teorico palesemente diverso, la paura è una passione non solo bloccante, ma anche produttiva di razionalità e, in particolare, di razionalità politica. È a causa della paura della morte violenta per mano degli altri che regna nello stato di natura che nel Leviatano si produce la decisione di abbandonare quello stato e di istituire il sovrano (che governerà poi anche grazie alla capacità di incutere paura al fine di ottenere obbedienza alle sue leggi); è la paura della natura e delle sue manifestazioni di potenza che produce il sentimento religioso negli uomini della Scienza Nuova, prima forma di relazione sociale che li sottrae all’isolamento originario.

La paura, come ci mostrano le prestazioni di Hobbes e Vico, ma anche come narra la Genesi (la prima passione che Adamo prova dopo avere mangiato il frutto è proprio la paura), è una passione, un affetto, un’emozione tipicamente umana; essa contribuisce a costituire la rappresentazione che il soggetto produce di se stesso e, di conseguenza, del mondo che lo circonda. È anche passione eminentemente politica: la paura degli altri e la paura della natura, che abbiamo schematizzato attraverso le prestazioni di Hobbes e Vico, costituiscono la trama della riflessione filosofico-politica moderna. È infatti il gesto moderno che inizia con Hobbes che comprende la questione della paura non tanto come una passione da eliminare, quanto piuttosto da trasformare in una

1 Per un’analisi più dettagliata del ruolo di paura e vergogna nel pensiero politico di

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funzione, ermeneutica e politica al tempo stesso, produttrice di ordine politico e sociale2. Un modello che darà vita tra il XVIII e il XX secolo alle istituzioni della sicurezza, come le ha definite Robert Castel (la forma-Stato, la proprietà privata, lo Stato sociale)3, necessarie a mettere

l’individuo in sicurezza dalla morte violenta e dalla paura degli altri, e alle scoperte scientifiche e tecnologiche, produttrici di tutti quegli artifici che ci avevano promesso prima di proteggerci dalla natura e poi, come fossimo novelli Prometeo, di signoreggiarla.

E invece la paura negli ultimi decenni è tornata ad abitare prepotentemente le nostre vite, ripresentandosi, seppure in forme diverse, con le sembianze delle due paure all’origine della modernità: di nuovo la paura degli altri e la paura dela natura. La paura ci occupa e ci preoccupa, ogni giorno siamo sempre più angosciati dalla crescita delle nostre paure, alimentate da sconvolgimenti climatici, situazioni di panico finanziario, crisi economiche, rischi e pericoli tecnologici, minacce di epidemie e pandemie, presunte minacce per la sicurezza nazionale e internazionale, insicurezza individuale e sociale, diffidenza nei confronti del prossimo e dell’altro. La paura vince, ha scritto Michela Marzano4. E

non c’è dubbio che questa sensazione sia dovuta anche al fatto che nella crisi odierna delle forme istituzionali progettate dalla modernità, di fronte all’accelerazione che la rivoluzione tecnologica sta imponendo al nostro modo di stare al mondo, di fronte all’aumento della complessità politica e sociale che trasforma radicalmente gli stili di vita e le relazioni individuali e collettive, i paradigmi ermeneutici prodotti dalle scienze sociali otto-novecentesche per lo studio e la definizione della nostra

2 Come primi riferimenti sulla passione politica della paura cfr. la parte monografica di

«Filosofia politica», 2010, n. 1, pp. 3-83, dedicata al concetto di «paura» (con saggi di C. Galli, M.L. Lanzillo, R. Cornelli, M. Durante); e F. Cerrato, Un secolo di passioni e politica. Hobbes, Descartes, Spinoza, Roma, DeriveApprodi, 2012.

3 R. Castel, L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti?, Torino, Einaudi, 2004. 4 M. Marzano, Visages de la peur, Paris, Presses Universitaires de France, 2009.

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condizione affettiva e del nostro stare al mondo appaiono ormai insufficienti.

Ma il ritorno della paura, se non ci lasciamo ossessionare dall’uso ormai paranoico che ne fa il discorso pubblico, ci offre anche un punto prospettico di fondamentale importanza per comprendere le trasformazioni in atto nel nostro presente. D’altra parte, è proprio questo il progetto scientifico e di ricerca che sta alla base della nostra rivista, «Governare la paura»: la scelta del punto prospettico della paura per indagare il presente, la convinzione che la paura sia stata una potente forza di traino e di sviluppo della storia occidentale e che proprio per questo l’odierno spettro della paura non possa essere ignorato. Per paura di questo spettro e nel tentativo di governarlo, le società contemporanee sono sempre più disponibili ad accettare come norma (e dunque a riconoscere come «normali») risposte autoritarie, indiscriminate e sproporzionate, lesive delle libertà civili e che si autogiustificano in nome del principio di precauzione, il principio che ha assunto negli ultimi decenni un ruolo pivotale nella discussione internazionale in tema di rischi, salute, ambiente, strategie militari, politiche pubbliche, ecc5.

Se seguiamo la tipologia recentemente presentata da Marc Augé, che distingue le nuove paure umane in paure delle violenze economiche e sociali, paure delle violenze politiche e paure delle violenze tecnologiche e di quelle naturali6, nello special issue che qui presentiamo, il nostro

sguardo si è rivolto verso il terzo tipo di paure, la nuova paura della natura e delle sue minacce e i tentativi di governarla. La paura della natura. Governare la catastrofe tra scienze umane e scienze sociali l’abbiamo intitolato, fedeli come sempre all’idea che nel mondo globalizzato che sperimenta ogni giorno la novità dello sfondamento dei confini e dei margini, nonostante tutti i tentativi di resistervi e di opporvisi costruendo nuovi

5 C. Sunstein, Il diritto della paura. Oltre il principio di precauzione, Bologna, Il Mulino, 2010. 6 Cfr. M. Augé, Le nuove paure. Che cosa temiamo oggi?, Torino, Bollati Boringhieri, 2013, p.

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muri materiali e simbolici, non sia più possibile affrontare questioni che riguardano noi, il nostro modo di vivere insieme con gli altri e il mondo, l’ambiente in cui viviamo, dunque questioni eminentemente politiche, da un unico aproccio disciplinare, ma che la molteplicità dei punti di vista e degli approcci metodologici sia feconda e vitale per la comprensione e la capacità di stare all’altezza del presente in vista della sua trasformazione.

L’occasione particolare che ci ha portato a interrogarci sulla rinnovata paura della natura che inquieta le nostre conoscenze, agita il discorso pubblico e interroga tutti, cittadini, ricercatori, attori istituzionali, è stata il terremoto che ha devastato l’Emilia nel maggio 2012. Un evento del tutto imprevisto e inaspettato, che ha fatto sì che l’Emilia si scoprisse terra di terremoto dopo che aveva perso la memoria di esserlo già stata (i giornali di quei giorni ricordavano che un teribile terremoto aveva terrorizzato la Ferrara dei duchi d’Este nel XVI secolo). Cittadini e istituzioni si trovarono così a dover fare i conti in prima persona, e non più perché lo si era visto solo alla televisione, con un evento imprevisto, con la sua imponderabilità, con la sua novità e con tutte le emozioni che ciò suscita. Il governo della catastrofe e le sue implicazioni ha occupato, e occupa ancora, molte delle politiche dell’Emilia-Romagna; ma i cambiamenti prodotti a livello di percezione individuale, di comunità sociale e di politiche messe in atto per realizzarlo imponevano anche una riflessione che dal caso particolare si elevasse a una riflessione universale.

Da rivista edita dall’Università di Bologna e il cui comitato di Direzione è costituito per lo più da persone che vivono in Emilia non potevamo non interrogarci sulla novità di quell’esperienza personale e collettiva; un’esperienza che ci ha portato poi ad allargare lo sguardo alle nuove e diverse modalità con cui le catastrofi naturali degli ultimi anni (dall’uragano Kathrina allo tsunami del Giappone al terremoto di Haiti, solo per fare alcuni esempi), ma non solo, hanno determinato teorie, legislazioni, politiche, costrutti sociali, rappresentazioni narrative.

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La novità che abbiamo riscontrato nel lavoro di ricerca e che ha portato alla pubblicazione di questo special issue, esito di un call for paper, è, per dirla con Frank Furedi, il fatto che «nel XXI secolo la convinzione ottimistica del potenziamento dell’umanità di sottomettere l’ignoto e di diventare padrona del suo destino ha ceduto il passo alla convinzione che siamo troppo deboli per affrontare i pericoli che abbiamo di fronte»7. Un

senso di incertezza ci pervade, da signori del mondo che ci credevamo, ci ritroviamo spettatori atterriti della potenza e della violenza della natura e abitanti di una società che, nata per garantire sicurezza, si trova invece a istituzionalizzare l’insicurezza e alimentare così un clima di confusione e impotenza. Si crea allora una condizione che spezza il legame sociale e certifica la perdita del mondo, «intesa nel duplice senso di perdita del pianeta che ospita la vita e perdita del mondo comune»8, perdita che è

fonte delle paure contemporanee. La nostra diventa allora la «società del caso peggiore», come l’ha definita Furedi9, o la società del rischio,

l’espressione coniata da Ulrich Beck, dove rischio indica l’anticipazione della catastrofe: i rischi sono sempre virtuali e divengono attuali solo quando sono anticipati; e ciò significa che i rischi non sono, ma divengono reali. La consapevolezza di ciò ha importanti conseguenze sulle nostre società, perché «la costruzione sociale di un’anticipazione “reale” delle catastrofi può diventare una forza politica capace di trasformare il mondo»10. Tutto dipende da come vengono anticipate le

catastrofi. Se la minaccia, il rischio, viene dal futuro e noi sentiamo questo qualcosa futuro sotto forma di paura, ne deriva che quando noi sentiamo una minaccia, quando abbiamo paura, allora quella minaccia esiste già nel nostro presente.

7 F. Furedi, La paura come chiave dell’irresponsabilità, in «Idem Rivista», 2012, n. 5, p. 30. 8 E. Pulcini, La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale, Torino, Bollati

Boringhieri, 2009, p. 14.

9 F. Furedi, La paura come chiave dell’irresponsabilità, cit., p. 31.

10 U. Beck, La società mondiale del rischio e le insicurezze fabbricate, in «Iride», 2008, n. 55, p.

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Si innesta un circolo pulsionale, che fa sì che da un punto di vista affettivo-passionale la minaccia si riveli come causa sui. Situazione che però non si limita a rimanere chiusa alla dimensione pulsionale, ma che si estende anche al contesto istituzionale, come dimostra, per esempio la scelta nel 2000 della Commissione europea di adottare, con riferimento ai rischi ambientali, un principio di precauzione nelle decisioni sull'ambiente11. In queste istanze di regolazione di tipo cautelativo

emerge uno slittamento dal concetto di «rischio» a quello di «ignoranza». Il sapere basato sull'ignoranza, connessa alla progressiva consapevolezza delle molteplici sfaccettature e implicazioni dell'incertezza scientifica, nell'attuale condizione di crescente intensità dei rischi, non può far altro che portare a decisioni «relative», in grado di minimizzare l'impatto del singolo potenziale evento dannoso, riducendo l'insicurezza specifica di quel caso, ma senza produrre, in generale, maggiore sicurezza. Un esempio, quello dell’adozione del principio di precauzione nelle decisioni ambientali, che conferma che «la tendenza a entrare in contatto con l’incertezza attraverso il prisma della paura, anticipando risultati distruttivi, può essere intesa come una crisi della logica della causalità»12;

il che significa che forse siamo in presenza della catastrofe, del crollo, non solo di un sistema politico-sociale, quello fondato sulla sovranità dello Stato, ma anche e soprattutto di un sistema epistemologico e di razionalità (fondato sul calcolo e l’utilità) che quel sistema reggeva.

2. L’ipotesi che ci ha guidato in questo lavoro è stata tuttavia quella di provare a leggere il tema della catastrofe naturale, della sua paura e del suo governo, anche da un’altra prospettiva. Catastrofe infatti ha nel suo etimo non solo un’idea di disastro, distruzione, sciagura, concretizzazione di un rischio che ci fa paura; ma ha anche un’idea di

11 Comunicazione della Commissione sul principio di precauzione, Bruxelles, 2.02.2000,

COM(2000).

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rivolgimento, di capovolgimento. Catastrofe era il termine con cui si indicava l’ultima delle quattro parti della tragedia antica, nella quale giungevano a compimento le vicissitudini del personaggio principale, si scioglievano i nodi e gli equivoci della trama, e che portava alla catarsi finale. Una tecnica, come ha dimostrato Carlo Diano13, utile per avvezzarsi a sopportare i mali e il dolore che potranno colpire.

Catastrofe, insomma, porta in sé anche il significato di cambiamento di prospettiva sugli eventi, l’istituzione di un nuovo orizzonte di senso. È questo in definitiva lo sforzo ermeneutico che è alla base dei saggi di questo numero speciale: comprendere il nostro presente a partire dalla consapevolezza che la promessa titanica della Modernità – liberi dalla paura! – non riesce più a essere mantenuta; che il nostro presente è abitato anche dalla vulnerabilità nostra, degli altri e del mondo, dal rischio e dalla catastrofe; che la ybris prometeica che aveva rivestito il soggetto moderno ancora una volta certifica la sua sconfitta. È una catastrofe reale e simbolica del nostro io, che ne sperimenta allora la doppia dimensione: quella di perdita dolorosa, ma anche di possibilità del cambiamento e di immaginazione di un nuovo mondo comune. Riflettere sulla catastrofe significa in definitiva confrontarsi con problemi essenziali per l’esistenza: l’origine e la ragione del male, il rapporto tra uomo e natura, la capacità umana di ordinare – o, anche, di ri-ordinare – l’ambiente, di imprimere alla storia un andamento progressivo, la spinta a governare la paura da parte dello Stato e delle istituzioni.

Certamente è un tema classico della riflessione filosofica e storica quello sulla catastrofe, basti pensare al dibattito che suscitò in ambito illuminista il terribile terremoto che distrusse Lisbona nel 1755 e la riflessione sulla teodicea e l’origine del male che ne scaturì e che coinvolse i principali filosofi dell’epoca da Voltaire a Rousseau a Kant14

13 C. Diano, La catarsi tragica, in Saggezza e poetiche degli antichi, Vicenza, Neri Pozza, 1968. 14 Come primo riferimento su quel dibattito cfr. Voltaire – Rousseau – Kant, Sulla

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(in particolare sulla riflessione kantiana su sublime, moralità e terrore, presente dagli scritti pre-critici fino alle ultime opere del filosofo di Könisberg, si veda in questo numero il saggio di Giulia Venturelli, che nel nesso posto da Kant fra natura umana e natura esterna vede l’anticipazione di quel sentimento del limite e della vulnerabilità della nostra natura che oggi ci pervade con sempre più urgenza nel momento in cui realizziamo che la natura non è più governabile né usufruibile a nostro uso e consumo). Così come lo studio della natura per addomesticarne la paura è uno dei motori dello sviluppo delle scienze politiche e sociali, nate dal positivismo ottocentesco. Allo stesso modo, fin dal mito del diluvio universale, che è presente in tutte le civiltà, per arrivare ai film catastrofici di Hollywood, anche le arti narrative e visive hanno da sempre attinto ispirazione dalle forze violente della natura: le catastrofi non sono utilizzate solo per creare effetti scenografici, ma spesso il loro racconto sottende riflessioni profonde sulla natura umana, sui suoi limiti e capacità di fronte a fenomeni che vanno oltre il conosciuto, il comprensibile. A partire dal mito, il racconto ha cercato di rendere umano l’evento naturale catastrofico per esorcizzarlo o anche solo per poterlo pensare e comunicare.

Pertanto per il gruppo di ricerca che lavora attorno a «Governare la paura» riflettere sulla catastrofe e sulla sua percezione è significato darsi l’occasione per ripensare le forme specifiche della relazione tra uomo, natura e società, così come il rapporto fra rischio-paura-sicurezza, fra società e governo.

2. È in questa cornice teorica che si inseriscono i saggi che compongono questo numero speciale. Così Rosanna Castorina sceglie un

Mondadori, 2004. Ma sulla catastrofe naturale e la riflessione filosofica cfr. almeno L.G. Crocker, Un’età di crisi: uomo e mondo nel pensiero francese del Settecento, Bologna, Il Mulino, 1975; A. Placanica, Il filosofo e la catastrofe. Un terremoto del Settecento, Torino, Einaudi, 1985; J.-P. Dupuy, Piccola metafisica dello Tsumani. Male e responsabilità nelle catastrofi del nostro tempo, Roma, Donzelli, 2006.

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testo che si può già considerare un classico della letteratura americana, Sulla Strada di Cormac McCarthy, per interrogarsi sul senso della fine e della finitudine umana alla luce della riflessione filosofica e antropologica di due maestri del Novecento, Ernesto De Martino e Gunther Anders. Gli strumenti ermeneutici offerti dai due studiosi permettono a Castorina di definire il romanzo di McCarthy rappresentazione di quell’apocalisse senza eschaton che caratterizzerebbe la condizione umana dopo l’esperienza della possibilità della catastrofe nucleare. Ma all’apocalisse senza escaton, la catastrofe per eccellenza, si oppone la fine di Sulla strada: dal rapporto fra il padre e il figlio che attraversa il romanzo emerge una capacità di affidamento all’altro (un altro che ci è estraneo) senza paura fondata sulla consapevolezza della propria fragilità; un romanzo, Sulla strada, che non si conclude con un happy end (il padre muore) e che tuttavia lascia al lettore un’apertura di speranza, la possibilità che alla paura si possa opporre la capacità di sentire il dolore dell’altro, di affidarsi e riconoscersi, per continuare sulla strada.

Sulla Strada non è l’unico romanzo che affronta il tema della catastrofe. Come ci dimostra il saggio di Adele Tiengo, molti sono i testi letterari che hanno affrontato il tema dell’ecofobia e dei disastri naturali, dal Dialogo della Natura e di un Islandese di Giacomo Leopardi ai molti racconti e romanzi che contraddistinguono la letteratura anglofona (Lord Byron, Mary Shelley, Jack London). Tiengo in particolare si sofferma su alcuni racconti di due narratori del Novecento, George R. Stewart e Margaret Atwood, per riflettere sull’importanza della cultura, che traspare dalle loro pagine come elemento necessario per la sopravvivenza dell’umanità alla violenza della natura. Anche Francesco Aloe affronta da un punto di vista di critica letteraria il tema della paura della catastrofe naturale e lo fa analizzando le pagine del romanzo di Juan Villoro, 8.8: El miedo en el espejo (pubblicato nel 2011), un racconto sotto forma di cronaca dell’esperienza personale vissuta dall’autore del devastante

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terremoto che ha sconvolto il Cile nel febbraio 2010. Le pagine narrative di Villoro ci dicono che il terremoto non distrugge solo gli edifici, ma fa crollare anche le nostre certezze quotidiane, il nostro modo di vivere: tutto va in macerie davanti alla paura che sconvolge il narratore-protagonista così come tutti gli altri suoi compagni.

Il tema del mutamento del modo di rappresentare e percepire la nostra vita di fronte all’evento catastrofico, o anche solo al rischio che la castrofe, si determini è affrontato non solo da un punto di vista di critica letteraria, ma anche nell’ottica della pedagogia (nel saggio di Alessandro Ferrante, che si concentra sulle nuove forme di disagio che oggi si palesano di fronte al presentarsi di scenari castrofici correlati alle crisi sociali e ambientali e che propone in conclusione come modalità di superamento di questi disagi un’educazione differente alla natura, vale a dire un pensiero critico, reticolare, sistemico e relazionale, improntato a una visione ecologica non solo dell’ambiente naturale, ma anche di quello umano e culturale) e della filosofia del diritto (si veda il saggio di Angelo Abignente e Francesca Scamardella che, sulla scorta delle analisi di Luhman, Beck, Bauman e Giddens, si interrogano su che cosa significhi vivere oggi nella società del rischio e della catastrofe, di fronte alla sfiducia nella capacità delle scienze positive e delle istituzioni politiche e sociali di rassicurarci e giungono a promuovere una nuova modalità di lettura della castrofe tesa ad instaurare un dialogo inclusivo, aperto alla partecipazione di coloro che la catastrofe hanno subito, per sfuggire a quell’autoritarismo scientifico-burocratico che per lo più viene messo in campo nei momenti della gestione delle castrofi naturali e che togliendo voce ai protagonisti, impedendo il loro riconoscimento attraverso la narrazione del loro vissuto, rischia di imporre solo una dittatura della castrofe).

Il ritornare a fare i conti con il governo della catastrofe può essere affrontato anche attraverso una nuova teoria critica. È la proposta che

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emerge dal saggio di Valerio Nitrato Izzo (al fine di meglio comprendere le implicazioni che il nostro presente sta sperimentando fra Stato, democrazia e governo della catastrofe, nel momento in cui gli eventi estremi a cui abbiamo assistito negli ultimi anni possono essere assunti anche come indicatori di ingiustizia e asimmetria decisionale); così come la necessità, sottolineata dal saggio di Enrico Maestri, che il liberalismo inizi seriamente a fare i conti con la questione della responsabilità ecologica, che da Locke a Rawls non ha mai seriamente posto al centro della sua riflessione, superando la cultura politica del danno e della prevenzione per aprirsi a un’etica del limite, capace di fare i conti con un nuovo pensiero filosofico-giuridico sulla natura. D’altra parte, come si è notato sopra, il ritorno dell’incertezza e dell’insicurezza così come il riaffacciarsi della paura della natura che abita i nostri anni non può non interrogare la questione della nostra responsabilità, ripartendo inevitabilmente dal lavoro di Jonas sul principio responsabilità. È quello che fa il saggio di Roberto Franzini Tibaldeo, che declina la questione della responsabilità in relazione con i concetti di rischio e complessità che così bene descrivono il nostro tempo. La proposta di Franzini in definitiva è di costruire una governance della complessità, naturale e sociale, a partire dalla responsabilità jonasiana, al fine della messa in campo di una nuova etica della cura e di una rinnovata saggezza che si occupi della nostra zoe e che lasci aperta a chi verrà dopo di noi la possibilità di costruirsi il proprio futuro.

Nei saggi che presentiamo il nuovo governo della paura che ci accompagna ormai da qualche decennio è stato declinato anche da un punto di vista giuridico sotto la formula del principio di precauzione. Ad esso sono dedicati il saggio di Guido Gorgoni, che lo legge in stretta connessione con esigenze e forme proprie di una concezione partecipativa della democrazia, e quello di Valeria Barbi e Marco Borraccetti, che invece lo declinano sul piano internazionale della

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protezione ambientale e della lotta ai cambiamenti climatici, individuandone non solo i fondamenti giuridici, ma anche l’obbligatorietaà morale che in tale principio è contenuta. Sempre a partire da un punto di vista giuridico, questa volta di dottrina costituzionale, si muove anche l’analisi di Silvia Bagni, che presenta un interessante caso di «catastrofe» intesa nel secondo significato della parola che abbiamo individuato sopra, vale a dire come possibilità del mutamento. Bagni analizza il caso di alcuni Paesi andini, quali Ecuador e Bolivia, che hanno introdotto in costituzione, riprendendoli dalle tradizioni indigene, non un principio di sicurezza volto a tutelare ognuno di noi dalla paura (degli altri o della natura), ma un princicipio di armonia che invece che separare e rinchiuderci ognuno nella propria sfera lega insieme sé, altri e cosmo. Principio, che seppure con modalità diverse, si ritrova anche nelle costituzioni del Sudafrica e del Buthan, che proclamano l’«armonia» fra la propria parte spirituale e quella corporale, fra il sé e l’altro, fra l’uomo e la Natura, esorcizzando così la paura del diverso, del globale, del disastro ambientale.

Per concludere. I saggi che qui presentiamo non offrono risposte consolatorie alle nostre paure o visioni manichee del reale, né si limitano ad una «fredda» analisi teorica dell’uso che della paura della natura e delle sue catastrofi sempre più viene fatto, della sua governance e delle trsformazioni sociali e giuridiche che ciò determina; ma, attraverso la discussione e la ricognizione del dibattito scientifico in cui sono impegnate le scienze umane e sociali, aprono una serie di questioni, pongono domande e ci interrogano su come vogliamo stare al mondo, con l’intenzione di aprire fratture, crepe, di incrinare alcune delle modalità e delle rappresentazioni del reale che la politica della paura dei nostri anni veicola.

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