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“Intervista a Tawada Yōko”

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Academic year: 2021

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Prenderò in esame, sotto l’aspetto tematico, il rapporto con Così parlò Zarathu-stra che si intravvede in alcune Fughe. Le indicazioni che risulteranno dalla mia analisi dovrebbero in un secondo tempo essere allargate e, crediamo, confermate per le fughe non trattate in questa occasione. Far luce sul pensiero che le ispira può essere di aiuto anche sul piano più strettamente stilistico e formale, che è sempre decisivo perché risponde alla domanda di come realizzare il pensiero in poesia, e sul quale la bibliografia sulle Fughe conta importanti contributi. Precisato questo, vorrei dunque tornare su un tema già esplorato, un mio « anti-co tema», per un approfondimento o, meglio, per offrire spunti alla riflessione e alla discussione. Fughe (1928)1 dunque: non più Figure e canti secondo il titolo

del libro immediatamente precedente (1926: da Preludio e canzonette a Cuor morituro). Né figure né canti, ma colloqui con la propria anima nel segno della divisione come recita il secondo congedo: «o mio cuore/ dal nascere in due scis-so». Nel Preludio, se è vero che dice «voci invano discordi», le evoca in quanto discordi pur auspicandone la composizione («in pace vi componete»):

Oh, ritornate a me voci d’un tempo, care voci discordi!

chi sa che in nuovi dolcissimi accordi io non vi faccia risuonare ancora? L’aurora

è lontana da me, la notte viene. Poche ore serene

Il dolore mi lascia; il mio e di quanti Esseri ho intorno.

Oh, fate a me ritorno

Lorenzo Polato

Saba e Zarathustra

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3 Dürre Jahre

2013

comunicare

letteratura

edizioniosiride

6

art_00_fronte06.pmd 3 07/04/2014, 16.18

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Direttrice responsabile Giuliana Dalla Fior Direttrice scientifica Paola Maria Filippi Comitato scientifico

Werner Helmich (Università di Graz), Heinz Rölleke (Università di Wuppertal), Zoltán Szendi (Università di Pécs)

Comitato di redazione

Giuliana Dalla Fior, Mauro Festini Brosa, Paola Maria Filippi, Alessandro Niero, Giuseppe Osti Segreteria di redazione

Lia Bazzanini, Monica Marsigli

Gli Autori sono responsabili di quanto scritto espresso e citato nei propri scritti qui pubblicati

©edizioniosiride - 2014 [323]

Rovereto - Via Pasqui 10

tel. +39 0464 422372 - fax +39 0464 489854 [email protected] | www.osiride.it

ISSN: 2035-1232

Iscr. Trib. Rovereto n. 1/09 ISBN: 978-88-7498-213-4

Composizione, impaginazione e stampa: Osiride - Rovereto

Tutti i diritti sono riservati. Non è concessa nessuna duplicazione di quanto pubblicato se non con permesso scritto dell’Editore

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5 Dürre Jahre

Sommario

Roberto Galaverni - Conversione di Fortini ... pag. 9 Daria Biagi - Prove di traduzione

Horcynus Orca in inglese e tedesco ... » 21 In onore di Peter Handke ... » 33 Hermann Dorowin - Peter Handke, scrittore europeo ... » 35 Luigi Reitani - «Tra la nausea del mio villaggio... e il nichilismo

dell’Universo»

Peter Handke in Friuli ... » 51 Anna Maria Carpi, Claudio Groff & Hans Kitzmüller - Tradurre

Handke. Tre prospettive ... » 57 Peter Handke - Der Grosse Fall/Il Grande Evento... » 67 Daniela Moro - Intervista a Tawada Yo–ko ... » 71 Caterina Mazza - Schwager in Bordeaux / Borudo– no gikei:

tradurre la lingua ‘straniante’ di Tawada Yo–ko ... » 77 Tawada Yo–ko Schwager in Bordeaux Borudo– no gikei

-Il cognato di Bordeaux ... » 83 Peter Waterhouse - Der flammende Weg / La via fiammeggiante ... » 91 Amelia Alesina - Recensione e riassunto del romanzo Briefe in

die chinesische Vergangenheit di Herbert Rosendorfer ... » 109 Herbert Rosendorfer - Briefe in die chinesische Vergangenheit ... » 117 Károly Csúri - Visioni oniriche lunari

Sulla lirica Offenbarung und Untergang di Georg Trakl ... » 141 Csilla Mihály - Un sogno di Franz Kafka

Un tentativo di interpretazione ... » 161 Francesca Boarini - Voce del testo, voce del traduttore

Note in margine alla traduzione italiana di Gegen Klimt

di Hermann Bahr ... » 175

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La rivista Comunicare letteratura propone per la prima volta in Italia un dossier dedicato a Tawada Yôko per presentare un’autrice che è già molto conosciuta e stimata all’estero, ma che nel nostro Paese non ha avuto la stessa fortuna perché ancora poco tradotta. In questo numero si pubblica la traduzione in italiano dell’incipit dell’opera Schwager in Bordeaux/Il cognato di Bordeaux, scritta in tedesco e auto-tradotta in giapponese dall’autrice stessa. Questa traduzione ha la particolarità di essere stata svolta alternativamente dal tedesco e dal giapponese. Si tratta di un esperimento volto a mettere in luce attraverso la traduzione gli effetti di una coesistenza creativa di due lingue in un unico testo. Nell’articolo di Francesco Eugenio Barbieri, apparso sul numero 4 di questa rivista, sono messi in evidenza i punti cruciali dell’opera di Tawada, ma qui preferiamo focalizzarci principalmente sull’aspetto che emerge maggiormente dall’opera tradotta. L’intervista che proponiamo è pertanto incentrata sulla peculiarità dell’uso della lingua nell’opera di Tawada, che si auto-definisce scrittrice exofonica, aspetto che non può prescindere da quello culturale. Tra le molteplici interviste che Tawa-da ha concesso a livello internazionale in questi anni, questa è mirata a far luce sulle ragioni, lo sviluppo, le modalità e le particolarità di una scrittura di «inter-stizio» che migra di continuo tra il giapponese e il tedesco, ma non è limitata da questi due sistemi linguistici. Piuttosto è una scrittura che è resa libera proprio grazie a tale incontro. Con questa intervista si vuole indagare il processo di crea-zione continua che nasce proprio dalla libertà e dal distacco che Tawada prende nei confronti di una singola lingua.

Apriamo l’intervista con un accenno a un’opera che parzialmente tratta del-l’Italia. Si tratta di GottoharUdo Tetsudo– ( , 1996) che come si evince dal titolo, è una storia incentrata sulle riflessioni della narratrice in-torno all’immagine del traforo del San Gottardo, che unisce idealmente l’Italia al mondo germanofono. In un passaggio dai toni fortemente ironici, si prende gioco del cliché sull’Italia diffuso nella classe intellettuale tedesca come

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to luogo di vacanza, dove alle antiche rovine si unisce la luce del sole. Probabil-mente l’aspetto più interessante dell’atteggiamento nei confronti dello stereoti-po che emerge spesso dalla sua opera è quello di non rinnegare lo stereotistereoti-po, ma decostruirlo con una buona dose di ironia e lasciarlo lì, in bella vista, alla porta-ta di tutti, per giocarci e trasformarlo in qualcos’altro. Qual è il cliché nei con-fronti dei giapponesi e dei tedeschi che attira di più la sua attenzione e perché? Il pregiudizio secondo il quale i giapponesi reprimono i loro sentimenti e non li manifestano, sono educati e non dicono chiaramente ciò che pensano mi lascia perplessa. Infatti credo che non sia possibile esprimere direttamente le emozio-ni. In qualsiasi cultura i sentimenti vengono tradotti in espressioni, gesti o paro-le. Abbiamo una profonda familiarità con le modalità espressive caratteristiche della nostra cultura, ma quando non si conoscono le modalità di altre culture lontane, può capitare di non comprenderle. Riguardo ai tedeschi, c’è lo stereoti-po che rispettino sempre gli orari, ma per me è strano che ci siano persone che la pensano in questa maniera. In special modo mi irrito in Germania quando aspet-to un treno che è in ritardo e mi aspet-torna in mente quesaspet-to cliché. Se il ritardo è particolarmente grave, c’è sempre qualcuno che si lamenta: «La Germania è pro-prio come la Spagna», ma trovo che questa sia un’espressione che racchiude due pregiudizi insieme.

Schwager in Bordeaux/Il cognato di Bordeaux del 2008, è un’opera che ha scritto appositamente in tedesco, proprio come esperimento su giochi di parole che vengono dall’impatto visivo dei caratteri giapponesi. È palese che però scri-vendo aveva in testa il giapponese. Spesso lei ha dichiarato che non è importan-te capire tutto di un’opera. Ma come crede che uno straniero, che non conosce il giapponese, possa recepire quest’opera?

Forse il lettore all’inizio ha l’impressione che il narratore si esprima basandosi su un sistema di scrittura a lui estraneo. Poi forse comincia a chiedersi: «Io sono sicuro di capire le mie espressioni, i miei collegamenti mentali, il mio sistema di pensiero?». Non vale solo per quest’opera, ma in generale quando si legge della letteratura penso che questa situazione capiti spesso: può sembrarci che la su-perficie della letteratura sia costituita da molteplici sistemi a noi ignoti nascosti nel «sostrato». In realtà non si tratta di quei sistemi a noi sconosciuti, ma è la superficie ad essere complessa.

Che cosa ne pensa dello stile che è stato scelto per questa versione dell’incipit di Schwager in Bordeaux in cui abbiamo sperimentato questa traduzione in ita-liano dei primi paragrafi alternata dal tedesco e dal giapponese? Quali sono le sue aspettative?

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Non riesco proprio ad immaginare che tipo di traduzione risulterà, perciò mi incuriosisce. Io non so leggere l‘italiano, ma penso che me la farò leggere da qualcuno che conosce questa lingua. Forse risulterà simile ad un pezzo teatrale, in cui ogni parte è recitata da una voce diversa.

La lingua giapponese, essendo il frutto dell’adattamento di una lingua autocto-na che era solo orale al sistema di scrittura straniero cinese, è basata su un meccanismo complesso e già di per sé intricato e pieno di «interstizi» (Zwischen-raum, sama ). Crede che il fatto che la prima lingua con cui è venuta a contatto fosse il giapponese abbia influito sulla sua visione delle lingue come traduzione da pre-verbale a verbale e perciò sulla decostruzione del concetto di lingua madre?

Credo che ci sia una dualità in tutte le lingue. Ad esempio in Germania si parla-no vari dialetti a seconda della località e il tedesco scritto si è sviluppato grazie alla traduzione in tedesco della Bibbia ad opera di Lutero. Fino ad allora i testi venivano scritti in latino. Ad esempio nel tedesco contemporaneo per «astrono-mia» si può utilizzare sia il vocabolo derivato dal tedesco antico Sternkunde, sia il termine di origine latina Astronomie. Questo aspetto ricorda il rapporto che intercorre nel giapponese tra i caratteri cinesi e la lingua autoctona orale yamato-kotoba o tra i caratteri cinesi e l’alfabeto hiragana. Soltanto che il giapponese ha la particolarità di essere un sistema di scrittura misto, composto di alfabeto e caratteri. Quando si vive in Giappone non si presta particolare attenzione a que-sto aspetto, ma se si inizia a scrivere in giapponese vivendo in un Paese straniero, si pensa tutti i giorni sulla scrittura. Credo che questo si rifletta nella mia lettera-tura. Ad esempio mi capita di avere la sensazione che anche i caratteri facciano parte dei personaggi della storia.

Suga Keijiro–, in un suo brillante saggio contenuto in Yoko Tawada: Voices form everywhere (2007), solleva in quanto traduttore molte questioni interes-santi sull’intraducibilità di un testo letterario. Riflettendo sul significato origi-nario comune di traduzione e metafora in greco antico, Suga sostiene che una traduzione in ultima analisi non sia che una metafora del testo e che non abbia senso restare linguisticamente fedeli al testo senza aver prima fatto un patto di fedeltà con l’«anima» del testo. Credo che questo atteggiamento rifletta bene quello che è anche il suo pensiero. Non le capita mai di correggere il traduttore o comunque di sentire che non è stata compresa l’anima del testo?

Non ho mai corretto il testo della traduzione di una mia opera. Ma ad esempio Bernard Banoun, che ha già tradotto cinque mie opere dal tedesco al francese, mi manda molte e-mail mentre sta traducendo chiedendomi spiegazioni. Mi

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vano domande molto precise come: «In francese ci sono questo termine con questa sfumatura oppure quest’altro con quest’altra. Quale è più vicino al termi-ne usato termi-nell’originale?».

Ma che cos’è realmente l’originale a cui il traduttore dovrebbe essere fedele? Non si tratta dell’intento dell’autore, che può essere spiegato dall’autore stesso, ma del testo. Tuttavia credo che il significato del testo in ultima analisi non possa essere compreso da nessuno. Perciò può capitare che in una fase iniziale di entu-siasmo abbia senso un dialogo tra lo scrittore, che potrebbe detenere alcune in-formazioni che altri non hanno, e il traduttore, che possiede delle abilità che altri non hanno.

Parliamo invece delle traduzioni delle sue opere in tedesco. Lei sostiene che nella traduzione c’è una lingua a sé stante, una lingua che viene creata solo in occasione

di quella stessa traduzione (Arufabetto no kizuguchi ,

1993). Che differenza percepisce tra le opere auto-tradotte e quelle tradotte da altri in questa creazione di una lingua nuova? Le è mai capitato di dover decide-re se far tradurdecide-re una sua opera o tradurla di suo pugno? C’è un motivo per cui generalmente non si auto-traduce dal giapponese al tedesco?

Nel caso di una mia traduzione, credo che dalle frasi emerga il mio stile. Si tratta del rapporto tra il respiro e la lunghezza delle frasi, o ad esempio la tinta umori-stica data dalla scelta dei vocaboli. Fino a poco tempo fa facevo tradurre in giap-ponese le mie opere scritte in tedesco, ma questa è stata la prima volta in cui ho tradotto da me in tedesco l’opera scritta in giapponese Yuki no renshu–sei/ L’ap-prendista delle nevi. Poiché fin dall’inizio ho voluto provare a tradurlo, non ho avuto incertezze.

Se mi cimento nella traduzione in tedesco di qualcosa che ho già scritto una volta in giapponese, emergono diversi problemi. Ad esempio ci sono molti casi diffici-li da risolvere: decidere il soggetto di una frase che in origine era senza soggetto, scegliere se scrivere al plurale o al singolare, se c’è un periodo in cui convivono tempo presente e tempo passato decidere per quale dei due optare, e ancora pensare a come tradurre le onomatopee. Ecco perché non avevo mai tradotto fin’ora una mia opera dal giapponese, ma l’anno scorso ho impiegato molto tem-po per tem-portare a termine la traduzione di L’apprendista delle nevi/Etüden im Schnee.

In quanto scrittrice «exofonica», quando scrive in una lingua ha sempre in testa anche l’altra. Che cosa nasce dall’accostamento di due lingue così diverse? Pro-prio in virtù della loro differenza, tedesco e giapponese sono forse due lingue adatte a far nascere opere letterarie in cui la creazione linguistica assuma un ruolo

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importante. Pensa che sarebbe meno stimolante partire da due lingue che vengo-no da uvengo-no stesso ceppo? Quanto le altre lingue che covengo-nosce (russo, inglese...) influiscono nel gioco linguistico che adotta quotidianamente nelle sue opere? Quando si paragonano due lingue che non hanno affinità dal punto di vista sto-rico, si è costretti a interrogarsi sempre sulla lingua. Ad esempio rifletto spesso sul fatto che riguardo l’esistenza o meno del plurale dei sostantivi ci siano visioni diverse a seconda del Paese, oppure sul perché in giapponese ci siano molti modi per esprimere il pronome personale di prima persona e invece in tedesco ci sia solo «ich»; o ancora sul perché in giapponese le onomatopee abbiano avuto uno sviluppo così importante. Tuttavia non ho trovato ancora una risposta.

Si percepisce un’influenza della letteratura russa, ma non della lingua russa nelle mie opere. Poiché ci sono molti aspetti comuni tra le lingue di ceppo europeo, se si viene a contatto con una tra queste (nel mio caso il tedesco), ci si pone in relazione con tutte le altre di conseguenza. Non conosco il cinese quasi per nul-la, ma a volte mi esercito a guardare libri scritti in cinese e dizionari e a creare nuovi vocaboli assemblando a mio modo i caratteri cinesi.

Avendo conseguito un dottorato in letteratura tedesca ed essendo molto spesso in contatto con l’ambiente accademico, come si sente quando un critico legge le sue opere in una maniera a cui non aveva pensato? Le capita di non essere per nulla d’accordo? Legge tutto quello che si scrive sulla sua opera?

Poiché sono numerosi gli studi sulla mia opera che vengono pubblicati, di solito non li leggo. I ricercatori impiegano tempo a leggere le mie opere e non cercano di compiacere il grande pubblico, ma lavorano seriamente, perciò posso fidarmi di loro.

Dalle sue opere si evince chiaramente l’intenzione di non dare rilevanza al Pae-se di origine nella formazione dell’identità del singolo. Nonostante lei respinga perciò le categorizzazioni sulla base della nazionalità o della cultura, c’è stato un momento in cui la sua provenienza ha causato una classificazione delle sue opere come «letteratura giapponese contemporanea» in Germania e viceversa? Non credo si possa prescindere dal fatto che io sono nata e cresciuta a Tokyo negli anni Sessanta quando si leggono le mie opere. Non si può nemmeno non consi-derare che negli anni Ottanta sono stata a stretto contatto con la letteratura tede-sca. Ma credo che il fatto stesso di ricercare un’identità sia uno sforzo inutile, in quanto deriva da un desiderio impossibile di mettere sullo stesso piano il sé e quello che è altro da sé. L’uomo non può liberarsi da desideri e bisogni impossi-bili, ma è importante riuscire ad allontanarsi da essi e osservarli, ignorarli, oppor-visi, goderne. In questo senso io mi sforzo di non cercare per nulla un’identità.

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Quando ha parlato all’Università di Bergamo, in occasione della sua ultima visita in Italia (ottobre 2013), le è stata posta la seguente domanda: «La situa-zione di vagare sempre tra una cultura e l’altra sia nelle sue opere che nei suoi saggi è generalmente interpretata in maniera positiva. Ci sono anche dei lati dolorosi?». Lei ha risposto che nella vita ci sono già abbastanza situazioni dolo-rose, perciò cerca sempre di ricavare da questa situazione delle energie positive. Ora le chiederemmo di parlarci un po’ più approfonditamente di questo sforzo di fare emergere nelle sue opere gli aspetti positivi dell’incontro tra lingue e culture differenti.

Per me tutti gli aspetti della vita sono positivi. Dal dialogo tra due persone emer-gono delle differenze, ma anche questo è interessante. Ci sono momenti in cui si prova amarezza o si finisce per litigare, ma anche questi aspetti per me sono positivi. Se non ci fossero questi momenti, infatti, il contatto con gli altri spari-rebbe e si restespari-rebbe soli. Nei momenti di sconforto gli immigrati pensano: «Non vengo compreso perché sono un immigrato». Ma io credo che non sia così. Ci sono innumerevoli persone al mondo che non vengono comprese dai loro stessi familiari. Inoltre ci sono molti casi di persone che si sentono sole pur non essen-do mai uscite dal loro paese natio. La possibilità di vagare tra una cultura e l’altra è un dono destinato solo ad alcune persone. Per questo voglio farne buon uso.

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