• Non ci sono risultati.

Le Province in Italia dal Testo Unico alla Legge "Delrio"

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Le Province in Italia dal Testo Unico alla Legge "Delrio""

Copied!
222
0
0

Testo completo

(1)

A mamma e papà,

Quante volte ho pensato a voi nei momenti più importanti quando da solo e da lontano affrontavo i miei giganti.

Quante volte ho detto basta ma chi me lo fa fare però poi soltanto grazie a voi riuscivo sempre a non mollare.

Grazie di cuore.

(2)

1

INDICE ANALITICO

INTRODUZIONE………pag. 3

CAPITOLO 1

Le Province dalla Costituzione al Testo unico degli enti locali.

1. Premessa……….pag. 7

2. Entrata in vigore della costituzione………. “ 10

3. Le Province nella legge 142/1990………... “ 20

4. Statuti e regolamenti provinciali………. “ 31

5. Le attribuzioni della Provincia……… “ 41

6. Aree e Città metropolitane……….. “ 50

7. Gli Organi della provincia……….. “ 57

CAPITOLO 2 Le riforma costituzionale del 2001. 1. Premessa……….pag. 65 2. Il principio di sussidiarietà……….. “ 68

3. Sussidiarietà ed enti locali……… “ 78

4. L’Autonomia finanziaria degli enti locali………. “ 97

CAPITOLO 3

(3)

2 1. Premessa………...pag. 113 2. La soppressione delle Province: un tentativo fallito…. “ 116 3. I decreti legge emanati dal Governo “Monti”………... “ 125 4. Il parere della Corte costituzionale: l’incostituzionalità della

disciplina………...pag. 137 5. (Re)istituzione della Città metropolitana……….. “ 143

CAPITOLO 4

La normativa attuale in materia di Province (e di altri enti locali): la legge “Delrio”.

1. Premessa………pag. 148 2. La concreta istituzione della Città metropolitana….. “ 151 3. Le Province: l’ultima disciplina (forse)………. “ 165 4. Le unioni di Comuni……….. “ 179

CAPITOLO 5

Prospettive di cambiamento

1. Premessa………..pag. 184 2. L’autonomia finanziaria degli enti locali nel nuovo art. 119

(cenni)………..pag. 186 3. L’abolizione (definitiva) delle Province……….. “ 192

Considerazioni finali……….pag. 205 Bibliografia………pag. 207

(4)
(5)

3

INTRODUZIONE

L’origine storica delle province.

Le province, in Italia, sono definite “enti locali”; ciò in quanto i relativi organi di Governo -alla stessa stregua di regioni e comuni- hanno competenza limitata ad una ben determinata circoscrizione territoriale e perseguono solo gli interessi pubblici riguardanti tale circoscrizione. Ciò, diversamente dagli “enti nazionali”, che perseguono -invece- gli interessi pubblici riguardanti l’intera nazione.

La provincia ha un territorio più esteso dei comuni che ne fanno parte e un territorio meno esteso rispetto alla regione di appartenenza, eccezion fatta per Valle d’Aosta e Molise (in questi casi il territorio regionale e provinciale coincidono).

Il termine “provincia” risale all’Impero romano. In quell’epoca erano denominati così i territori conquistati dalle truppe romane. Ciò, essenzialmente, allo scopo di distinguere i cittadini romani dagli abitanti delle province, non godendo -questi ultimi- dei medesimi diritti di chi -invece- possedeva la cittadinanza romana.1 Il concetto, per così dire, “moderno” di provincia risale all’epoca napoleonica. Fu, infatti, proprio Napoleone a concepire una struttura organizzativa statale accentratrice (divisione in Dipartimenti, Distretti, Cantoni e Comuni), simile a quella degli Stati moderni, caratterizzata dai controlli gerarchici sugli organi (la cui nomina, però, non era elettiva), sugli atti e sulle spese finanziarie degli enti in cui il territorio era diviso.

Tale apparato venne adottato anche nel Regno di Sardegna e, inoltre, venne mantenuto in maniera pressoché identica (suddivisione del territorio in Divisioni, Province, Mandamenti e

1 F.Fabrizzi, La Provincia: storia istituzionale dell’ente locale più discusso.

(6)

4 Comuni) anche dopo il congresso di Vienna.

Con questa impostazione il Regno di Sardegna giunse fino al 1848, anno della concessione dello Statuto da parte di Carlo Alberto. E, prendendo spunto dal nuovo assetto contenuto nello Statuto, il 7 Ottobre 1848 venne approvato il c.d. “decreto Pinelli”, che prevedeva -in ciascuno dei tre livelli territoriali- la presenza di un organo collegiale di natura elettiva (Consiglio), affiancato da un organo monocratico (intendente generale, intendente provinciale, sindaco) di designazione statale. L’intendente era Capo della Provincia e rappresentante statale. Il Consiglio provinciale si sceglieva un proprio presidente, ma l’intendente poteva intervenire nelle sedute con voto consultivo o anche deliberativo.2

Il decreto “Pinelli” rimase in vigore fino al sorgere della c.d. “questione amministrativa”, dovendosi stabilire -successivamente alla II guerra d’indipendenza- se l’assetto amministrativo franco-piemontese potesse esser mantenuto anche dopo l’estensione del Regno di Sardegna a nuovi territori. In tale contesto, nel 1859, venne emanato il r.d. n. 3702 (noto come decreto “Rattazzi”), che comunque non si discostava dall’assetto amministrativo franco-piemontese.

Il decreto “Rattazzi” aumentava i poteri degli organi posti a capo degli enti. In particolare, a capo delle province era posto un Governatore (che, nel 1861, sarà definito Prefetto), rappresentante periferico dell’amministrazione statale, nonché capo della Giunta esecutiva dell’ente autonomo provinciale.

I membri del Consiglio provinciale (eletti per mandamento) rappresentavano l’intera provincia e, all’interno dello stesso Consiglio, veniva eletto annualmente l’organo esecutivo della provincia: la Deputazione provinciale. La Deputazione provinciale era presieduta dal Governatore, il quale provvedeva anche alla sua convocazione.

Il regio decreto, oltre a riformare “politicamente” le Province, ne

(7)

5 aumentò il numero all’interno del territorio del Ragno di Sardegna, ridisegnando anche la circoscrizione territoriale di quelle esistenti. Infine, nel 1861, il decreto “Rattazzi” venne esteso a tutti i territori dell’Italia unita e rimase in vigore fino all’approvazione della c.d. “Legge per l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia” del 20 Marzo 1865, che -riprendendo con poche variazioni il precedente decreto- definiva la ripartizione politica e territoriale degli enti locali del Regno.

In particolare, relativamente alle Province, la legge di unificazione manteneva i tre organi: Governatore (sostituito dal Prefetto), Consiglio provinciale e Deputazione provinciale.

Di questi tre organi, l’unico eletto su base popolare era il Consiglio, i cui componenti erano di numero variabile a seconda del numero di abitanti di ogni singola Provincia. All'interno del Consiglio veniva eletta a maggioranza assoluta di voti la Deputazione provinciale. Vi era, poi, il Prefetto, di nomina regia, dopo una delibera formale del Consiglio dei Ministri, su indicazione del Ministro dell’Interno.

3

Nel 1889, con l’emanazione del primo testo unico degli enti locali, si ebbe una significativa innovazione, ovvero venne instituito il presidente della Deputazione provinciale, che svolgeva funzioni di indirizzo e controllo della Deputazione in piena autonomia rispetto al Prefetto. Il presidente della Deputazione veniva eletto annualmente all’interno del Consiglio.

Questa struttura amministrativa rimase in vigore -seppur con qualche piccola variazione- fino all’avvento in Italia del regime fascista. Nel 1929, infatti, il consiglio fu sostituito da un Rettorato (composto da quattro, sei o otto membri), nominato dal prefetto; mentre la Deputazione e il suo presidente furono sostituiti da un’unica figura: il Preside, il quale era nominato dal re su indicazione di Mussolini.

2 C.Ghisalberti, Storia costituzionale d’Italia 1848/1948, Bari 1974, pag.116 3 C.Pavone, Amministrazione centrale e amministrazione periferica da Rattazzi a

(8)

6 Si venne così a creare una diarchia (Preside/Prefetto) all’interno di ogni singola provincia che durò fin quando Mussolini non nominò il Prefetto “Capo delle Province”, che assunse così una posizione di supremazia nei confronti di tutte le altre cariche all’interno dell’amministrazione provinciale.

Dopo la caduta del regime fascista, iniziarono i lavori di ricostituzione degli enti locali, culminati nell’emanazione del titolo V della Costituzione, che ha disciplinato la suddivisione del territorio italiano, prevedendo che «La Repubblica si riparte in Regioni, Provincie e Comuni» (art.114 cost.). In particolare, le province vengono definite <<…enti autonomi nell’ambito dei principî fissati da leggi generali della Repubblica, che ne determinano le funzioni>> (art.128 Cost.). 4

Per avere la ricomparsa definitiva dei Consigli provinciali, però, bisognerà attendere la legge 122/1951, con la quale sarà instituita anche la “Giunta provinciale”, quale organo esecutivo della Provincia -in sostituzione della Deputazione-. A capo di entrambi gli organi vi è il Presidente della provincia che viene nominato all’interno del Consiglio e nomina, egli stesso, i membri della Giunta.

(9)

7

CAPITOLO 1

Le Province dalla Costituzione al Testo Unico degli enti locali.

1. PREMESSA.

La Costituzione italiana ha posto alla base del sistema istituzionale dello Stato le autonomie locali, riconoscendo ad esse un ruolo centrale nella gestione amministrativa dell’apparato statale.

Ciò è confermato dell’aver stabilito, tra i principi fondamentali dell’ordinamento, che “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principî ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento” (art. 5 cost).

Dal testo dell’art. 5 emerge chiaramente il ruolo assegnato dai Costituenti alle autonomie locali, le quali hanno, da tempi antichissimi, caratterizzato l’ordinamento italiano.

Nonostante la previsione contenuta nell’art. 5, le istanze autonomistiche sono state accolte, per la prima volta, nel 1990, mediante l’emanazione della legge n.142, la quale ha improntato su nuove –e più solide- basi il rapporto tra le autonomie locali e lo Stato. L’autonomia locale, quindi, considerata dalla Costituzione stessa come principio cardine della crescita degli enti locali, trova concreta applicazione nella legge 142/1990. Detta legge ha fornito agli enti locali nuove regole, strutture e procedure che da un lato miravano a affermarne ancor di più la loro autonomia; dall’altro ponevano le basi di una nuova gestione amministrativa dallo Stato incentrata sul rapporto centro/periferia.

(10)

8 La legge 142/1990 ha apportato numerose innovazioni all’interno dell’ordinamento di Comuni e Province, tra cui spicca indubbiamente l’aver dotato detti enti di autonomia statutaria e regolamentare, ossia del potere dell’ente locale di assegnare a se stesso le regole fondamentali del proprio assetto e del potere di approvare gli atti normativi volti a disciplinare determinate materie.

La legge 142/1990 costituisce il punto di partenza delle modifiche legislative degli anni ’90, le quali costituiranno la base per la riforma del titolo V avvenuta nel 2001, che ha modificato notevolmente la disciplina degli enti substatali.

Alla legge 142/1990 fanno seguito altri provvedimenti legislativi che andranno a modificare, sia sul piano strutturale, che su quello funzionale, alcuni istituti creati dalla suddetta legge, tra i quali ritengo opportuno ricordare la legge 81/1993.

Questa ha introdotto l’elezione diretta del Sindaco e del Presidente della Provincia, unitamente a quella dei consiglieri comunali e provinciali (già prevista dalla legge 142/1990), oltre ad aver significativamente modificato il sistema elettorale, la durata e la composizione degli organi politici dell’ente.

La serie di riforme strutturali e funzionali inaugurata dalla legge 142/1990 culmina con l’emanazione del D.lgs. 267/2000, il c.d. “Testo unico degli enti locali”.

In realtà il D.lgs. 267/2000 non è un provvedimento che intende innovare l’assetto delineato dalla legge 142/1990 e, di conseguenza, sostituirsi ad essa. Il Testo unico, piuttosto, mira a “riordinare” tutte le modifiche contenute nei provvedimenti legislativi in ambito di enti locali dalla legge 142/1990 in poi.

In conclusione può affermarsi che il D.lgs. 267/2000 consiste in una raccolta organica e completa di tutto ciò che è stato disposto in materia di enti locali, anche se, ovviamente, anche il Testo unico apporta alcune modifiche alla predetta disciplina.

Alla luce di quanto affermato finora, penso sia chiaro che una disamina approfondita del D.lgs. 267/2000 –che è quella che mi propongo di fare in questo capitolo- non può prescindere da una,

(11)

9 almeno sintetica, analisi di quanto è stato introdotto dalla legge 142/1990.

(12)

10

2. ENTRATA IN VIGORE DELLA COSTITUZIONE.

Durante il periodo fascista il funzionamento di comuni e province era disciplinato dal R.D. 383/1934 che stabiliva “Il regno si divide in comuni e province” (art.17, comma 1).

In piena coerenza con il regime autoritario dell’epoca, comuni e province erano considerati soltanto come organi collaborativi del governo statale; infatti le loro funzioni erano solo quelle di “cooperare alla pura e semplice realizzazione dei fini dello Stato”1.

Le amministrazioni locali, quindi, avevano scarsa –se non addirittura nulla- autonomia nei confronti dell’ordinamento statale e, inoltre, i componenti di queste non erano scelti utilizzando un criterio democratico, bensì erano nominati dal governo centrale.

Caduto il fascismo, venne emanato il D.lgs 7 Gennaio 1946 n.1. Con l’entrata in vigore del decreto citato si voleva dare un assetto democratico e maggiore autonomia agli ordinamenti comunali e provinciali. Ma, il D.lgs 1/1946 non aboliva il R.D. 383/1934, creando, così, un apparato legislativo molto incerto, in quanto entrambi i testi normativi finivano, in concreto, per sovrapporsi. Con l’avvento della Costituzione repubblicana questo dualismo normativo venne definitivamente superato; sarà infatti il titolo V della carta costituzionale a disciplinare definitivamente il funzionamento di comuni e province.

La Costituzione, nella forma antecedente alla legge cost. n.3 del 2001, stabiliva all’art.114 che “la Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni”.

L’intenzione dei padri costituenti era quella di creare uno Stato fortemente decentrato, aumentando notevolmente i poteri degli enti locali. Ma, soprattutto, disciplinando all’interno della Costituzione

(13)

11 stessa i poteri attribuiti agli enti locali, in modo tale che questi siano tutelati grazie alla rigidità della Carta stessa: viene, così, impedito al legislatore ordinario di modificare le attribuzioni degli enti.

I costituenti, così facendo, rendevano palese la loro critica verso l’assetto prefascista dell’ordinamento statale, che aveva dimostrato la sua fragilità nel momento in cui, organizzato su basi fortemente centralistiche, era stato conquistato semplicemente con la presa della capitale2.

L’alta considerazione che i relatori della Carta costituzionale davano alla questione delle autonomia locali è confermata dall’art. 5 cost. ove si stabilisce: <<La Repubblica…riconosce e promuove le autonomie locali…; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento>>. Per ciò che riguarda le province, in particolare, l’art.128 cost. -nella versione antecedente al 2001- stabiliva che «Le Provincie…sono enti autonomi nell’ambito dei principî fissati da leggi generali della Repubblica, che ne determinano le funzioni». La qualificazione di “autonomi” attribuita alle province deve essere intesa come la capacità di porre norme giuridiche. Essa rappresenta, quindi, il fondamento della loro potestà normativa e costituisce il titolo che conferisce alla normazione degli ordinamenti provinciali una diretta efficacia giuridica all’interno dell’ordinamento generale.3

Ma la potestà normativa provinciale ha dei limiti. Essa non può travalicare i principi fissati dalle leggi generali della Repubblica: ovvero, l’amministrazione provinciale, nell’emanazione di un atto normativo, deve mantenersi entro i “recinti” fissati dalle leggi statali. Questi “recinti” devono essere espressamente stabiliti dal legislatore e non possono essere assunti da norme inespresse.

2 F. PINTO, Diritto degli enti locali, Torino, 2012 pag. 11

(14)

12 Nel caso dell’art.128 i principi si riferiscono non alle singole materie, ma più in generale alla potestà normativa provinciale e, più precisamente, ai profili organizzativi degli ordinamenti provinciali4. Secondo M.S. Giannini lo Stato esplica il proprio potere “organizzativo” disciplinando l’attribuzione e la distribuzione delle funzioni trasferite agli enti locali.

Le norme organizzative hanno lo scopo di rendere le strutture di un apparato giuridicamente rilevanti di fronte ad altri soggetti giuridici5.

Si può, quindi, affermare, alla luce di quanto è stato detto, che il legislatore statale, allorquando la potestà normativa su una determinata materia sia affidata ad una provincia (o altro ente locale), non può –e non deve- condizionarne l’operato. Di conseguenza, i principi ex art.128 non solo non si riferiscono alle singole materie attribuite alle province, ma riguardano soltanto l’ambito entro cui si sviluppa l’autonomia provinciale (e degli enti locali, in generale). L’atto normativo statale dovrà limitarsi ad attribuire una determinata materia alla potestà normativa di una regione, di una provincia o di un comune.

Per concludere l’esame dell’art.128, si può asserire che i principi in esso contenuti salvaguardano sia l’unità dell’ordinamento, sia l’autonomia locale. Si tratta di elementi non derogabili dagli organi governativi locali che formano l’ambito entro il quale può esplicarsi la normazione provinciale (e comunale).6

L’entrata in vigore della Costituzione ha disciplinato anche i controlli sugli ordinamenti provinciali e degli enti locali in genere. Il sistema di controlli era disciplinato dall’art.130 cost. (articolo ad oggi abrogato dalla L.cost. 3/2001) il quale stabiliva: «Un organo della Regione, costituito nei modi stabiliti da legge della Repubblica,

4 A.Pubusa, sovranità popolare e autonomie locali, Milano, 1983 pag. 236 5 M.S.Giannini, lezioni di diritto amm. (1950)

(15)

13 esercita, anche in forma decentrata, il controllo di legittimità sugli atti delle Provincie, dei Comuni e degli altri enti locali.

In casi determinati dalla legge può essere esercitato il controllo di merito, nella forma di richiesta motivata agli enti deliberanti di riesaminare la loro deliberazione».

In attuazione dell’art.130 cost., l’art.55 della legge 62/1953 aveva previsto l’istituzione, presso ogni capoluogo di regione, di un Comitato regionale di controllo (CO.RE.CO.), questo era composto da tre membri nominati dal consiglio regionale, un membro nominato dal governo e un componente scelto dal presidente del T.A.R. Il comitato, che restava in carica per la stessa durata del consiglio regionale, svolgeva un controllo preventivo di legittimità su tutti gli atti adottati da qualsivoglia organo dell’ente, se tale controllo risultava positivo, veniva impresso un visto all’atto normativo, che, a questo punto, poteva diventare esecutivo.

Accanto al controllo di legittimità, per gli atti che incidevano sulla disponibilità del patrimonio dell’ente locale in modo ritenuto rilevante, era previsto anche un controllo di merito; questo si esplicava nella richiesta di nuova deliberazione da parte del consiglio (anche per gli atti adottati da altri organi) sull’opportunità di emanazione dell’atto in questione. L’atto, quindi, per essere emanato, doveva riportare la maggioranza dei voti del consiglio.

In tal modo la Costituzione, da un lato, riconosceva (per mezzo degli artt. 5 e 128) una notevole autonomia agli enti locali, dall’altro, però, mediante l’art.130 controllava scrupolosamente l’operato degli enti stessi.

Ma, il sistema di controlli così delineato, col tempo, finì per reprimere, piuttosto che favorire, l’emergere delle autonomie locali, ciò, in quanto, l’apparato di controllo non offriva nessun tipo di valutazione sull’efficienza dell’azione amministrativa, avendo, alla

(16)

14 fin fine, come unico risultato quello di ritardare oltremodo la produzione normativa degli enti locali7.

La prima modifica al sistema si ha con la legge 142/1990; detta legge, innanzi tutto, abroga il controllo di merito, mantenendo soltanto il controllo preventivo di legittimità, che rimane affidato al CO.RE.CO., questo, però, cambia composizione allo scopo di accentuarne la professionalità e l’indipendenza.

L’art.42 della legge 142/1990 detta la nuova composizione del comitato, mantenendo invariato il numero dei membri (cinque), ma così composto:

“a) da quattro esperti eletti dal consiglio regionale, di cui:

1) uno iscritto da almeno dieci anni nell'albo degli avvocati, scelto in una terna proposta

dal competente ordine professionale;

2) uno iscritto da almeno dieci anni all'albo dei dottori commercialisti o dei ragionieri,

scelto in una terna proposta dai rispettivi ordini professionali; 3) uno scelto tra chi abbia ricoperto complessivamente per almeno cinque anni la carica di

sindaco, di presidente della provincia, di consigliere regionale o di parlamentare nazionale,

ovvero tra i funzionari statali, regionali o degli enti locali in quiescenza, con qualifica non

inferiore a dirigente od equiparata;

4) uno scelto tra i magistrati o gli avvocati dello Stato in quiescenza, o tra i professori di

ruolo di università in materie giuridiche ed amministrative ovvero tra i segretari comunali

o provinciali in quiescenza;

(17)

15 b) da un esperto designato dal commissario del Governo scelto fra funzionari dell'Amministrazione civile dell'interno in servizio nelle rispettive province.”8

L’art.44, comma 2, della legge 142/1990 conferisce al legislatore regionale il potere di disciplinare le modalità di elezione e sostituzione dei membri del comitato nel rispetto dei principi sanciti dalla legge 142/1990.

A tal proposito la Corte costituzionale ha precisato che “gli artt. 42 e 44 della legge 142/1990, disciplinando specificatamente le modalità di costituzione del comitato, pongono un principio (elettività dei componenti di esso da parte del Consiglio regionale a maggioranza qualificata) certamente fondamentale con riguardo alla materia dei controlli, in quanto, incidendo sulla formazione dell’organo si riflette sulla neutralità della stessa funzione dell’organo”9.

La norma centrale del nuovo sistema di controlli, però, è sicuramente l’art. 45 della legge 142/1990. Esso distingue, in base alla possibilità che siano posti a controllo, gli atti necessariamente sottoposti a controllo, da quelli sottratti al controllo di legittimità.10 Ma, tra le due categorie di atti citate ve ne è una terza, che potrebbe definirsi “intermedia”, la quale comprende gli atti che possono essere sottoposti a controllo solo su richiesta di determinati soggetti, specificamente individuati.

La Corte costituzionale, inoltre, si era pronunciata sull’argomento, stabilendo che “le previsioni costituzionali in materia di controlli sulle pubbliche amministrazioni non delineano un sistema chiuso, che non permetta forme di controllo diverse o aggiuntive rispetto a quelle previste, purché queste trovino nella Costituzione un adeguato

8 Art.42, comma 1, legge 142/1990 9 Corte costituzionale, sentenza 415/94.

10 G.ROLLA, T.GROPPI, L.LUATTI, L’ordinamento dei comuni e delle province,

(18)

16 fondamento normativo o un sicuro ancoraggio a interessi costituzionalmente tutelati”.11

Gli atti, per cui il controllo era ritenuto necessario, erano quelli “…che la legge riserva(va) ai Consigli comunali e provinciali”.12 Ma

tra questi devono essere esclusi gli atti non aventi rilevanza esterna e quelli che dispongono la ratifica di provvedimenti emessi dalla Giunta in via d’urgenza senza che la ratifica modifichi in alcun modo l’atto di Giunta a cui si riferisce.13

L’unico tipo di controllo eventuale era quello previsto per il controllo degli atti della Giunta, su richiesta di una minoranza consiliare.14 Di

contro, però, vi era chi sosteneva che il controllo eventuale potesse estendersi anche ad altri tipi di atto, nonostante il testo della norma si riferisse solo agli atti posti in essere dalla Giunta.15

Il controllo poteva essere richiesto da un terzo dei componenti del consiglio, limitatamente alle categorie di atti indicati nel comma 2 dell’art.45 e, inoltre, poteva essere richiesto su tutti gli atti della Giunta, nei casi di incompetenza o contrasto con atti fondamentali del consiglio16.

In conclusione dell’analisi sulle tipologie di atti che possono, eventualmente –e abbiamo già visto quali sono tali eventualità-, essere sottoposti a controllo, bisogna accennare alla possibilità, introdotta dal d.l. 152/91, poi convertito in legge 203/91, data al

11 Corte costituzionale, sentenza 29/95. 12 Art.45, comma 1, legge 142/1990. 13 Cass., sez.I, sentenza 1403/93.

14 L.Camarda, Il controllo eventuale sulle deliberazioni della Giunta, in Nuova

Rassegna 1994.

15 E.Rossi, Commento all’art. 41, in art.128. Commentario alla Costituzione,

Bologna-Roma 1996, pag. 709

16 G.ROLLA, T.GROPPI, L.LUATTI, L’ordinamento dei comuni e delle province,

(19)

17 Prefetto di richiedere il controllo di legittimità sulle deliberazioni di cui all’art.45, comma 2, della legge 142/90.

La previsione citata suscitò un ampio in dottrina: vi era, infatti, da un lato, chi sosteneva la necessità che il Prefetto potesse vigilare su determinati atti, ritenuti particolarmente significativi.17 Dall’altro

lato, invece, vi era chi individuava nell’ampliamento dei poteri del Prefetto una forma di limitazione dei poteri delle Province.18

Sia aderendo alla prima, che alla seconda delle correnti dottrinarie sopra citate si può intravvedere, a parer mio, una certa –per così dire- “sfiducia” nei da parte dello Stato nei confronti degli enti locali. In altri termini, se si aderisce alla teoria secondo cui è bene che il Prefetto eserciti il controllo su determinati atti posti in essere dell’ente locale, si può scorgere l’idea che il Governo centrale abbia bisogno di controllare più da vicino l’operato delle amministrazioni locali, per timore –forse- di una gestione inefficiente o –più probabilmente- eccessivamente dispendiosa.

Se si aderisce, viceversa, alla teoria che ritiene la previsione introdotta dalla legge 203/91 una forma di limitazione dell’autonomia riconosciuta agli enti locali, appare ancora più chiaro l’intento –probabile- dello Stato di tenere sotto controllo l’attività economico-istituzionale degli enti locali.

Per ciò che riguarda la terza categoria di atti, quelli non sottoposti a controllo, non si può non segnalare che erano esclusi dal controllo del comitato –seppur con numerose e aspre critiche- tutti gli atti posti in essere dagli organi monocratici di comuni e province (sindaco e presidente della provincia).19

17 G.Cassone/F.P.Castaldo, Il potere di intervento del Prefetto secondo la legge

203/91, in Nuova rassegna 1993, pag.2017.

18 M.Martina, L’attivazione del controllo del Co.Re.Co. su iniziativa del Prefetto, in

Amministrazione e politica 1993, pag. 154.

19 L.Romeo, Il nuovo sistema di controlli dopo la legge n. 142, in Nuova Rassegna

(20)

18 Ma la norma, probabilmente, più innovativa della legge 142/90, per ciò che riguarda i controlli sulle amministrazioni locali, è l’art. 53, il quale stabilisce, al comma 1, che, per l’emanazione di ogni atto normativo, deve essere richiesto il parere di regolarità tecnica e contabile. Il primo, non vincolante, espresso dal responsabile del servizio interessato e il secondo, espresso dal responsabile dei servizi finanziari, era un parere vincolante ai fini dell’adozione dell’atto in questione.20

Il punto di rottura con il passato sta nel fatto che, i soggetti, tenuti ad emettere il parere, ne sono responsabili sia in via amministrativa che contabile21; quindi la persona fisica o giuridica che assuma di esser lesa dall’atto, a differenza del passato -per mezzo dell’art.53-, sa a chi imputare eventuali negligenze.

Lo spettro della sanzione dovrebbe essere una spinta notevole per coloro i quali gestiscono Comuni e Province ad amministrare l’ente in maniera efficace, e tale aggettivo riferito all’attività amministrativa in un ordinamento democratico dovrebbe essere scontato; ma soprattutto una gestione efficiente (come stabilito anche dall’art. 97 cost.).

In realtà l’importanza della legge 142/90 sta nel fatto che questa costituisce il primo importante passo per l’evoluzione del sistema di controlli sugli enti. Tale evoluzione porterà all’attuale sistema di controlli sulle amministrazioni locali (disciplinato dal titolo VI, I parte, D.Lgs.267/2000), per la cui trattazione si rinvia al paragrafo 8 di questo capitolo.

Vorrei concludere la mia disamina sulle mutazioni che la Costituzione ha prodotto agli ordinamento degli enti locali, citando – seppur in sintesi- l’art.133 cost., la cui importanza non secondaria è

20 M.U.Francese, La responsabilità dei dirigenti statali nell’esercizio delle funzioni

dirigenziali, in Foro amministrativo, 1991, pag. 282.

(21)

19 data anche dal fatto che tale norma è ancora in vigore nel suo testo originale, cosa non comune per le norme facenti parte del titolo V della costituzione.

La suddetta norma costituzionale è composta da due commi: il primo comma –quello che interessa la nostra trattazione- disciplina la formazione di nuove circoscrizioni provinciali e la modifica di quelle esistenti; il secondo comma, invece, tratta dell’istituzione di nuovi comuni e della modifica del territorio o della denominazione di quelli già esistenti.

L’art.133 cost. stabilisce, infatti, al comma 1, che possono essere istituite nuove province o modificate quelle già esistenti su richiesta dei comuni interessati. Questi, però, non possono prescindere dal parere della Regione di appartenenza.

I criteri, in base ai quali la revisione delle circoscrizioni provinciali deve attenersi, sono stabiliti dal D. Lgs 267/2000; il decreto appena citato indica, inoltre, in duecentomila il numero minimo di abitanti che ogni nuova circoscrizione provinciale deve avere.22

Le province preesistenti, poi, devono fornire a quelle di nuova formazione le risorse ed i mezzi adeguati per svolgere le proprie funzioni.23

22 Art.21, comma 3 lett.e), D.Lgs. 267/2000. 23 Art.21, comma 3 lett.g), D.Lgs. 267/2000.

(22)
(23)

20

3. LE PROVINCE NELLA LEGGE 142/1990.

Penso si possa affermare, senza timore di smentita, che la legge 142/1990 rappresenta sicuramente il passaggio alla concezione normativa –per così dire- moderna degli enti locali.

Tra le novità più significative che la legge apporta alle amministrazioni provinciali si possono annoverare i nuovi sistemi di controllo (di cui si è già detto nel precedente paragrafo) e la nuova distribuzione di competenze tra gli organi amministrativi delle province. Ma, la novità più importante della sopra citata legge è data dalla possibilità che le province (e anche i comuni) adottino un proprio statuto, il quale tiene conto specificamente degli interessi e delle esigenze di ogni singola provincia.

L’introduzione della potestà statutaria delle province è molto importante perché, per la prima volta, la legge sembra lasciare spazio –seppur indicandone i limiti- ad un potere di autorganizzazione dell’ente, che non dovrebbe restare confinato nelle sue regole interne, ma avere diretta applicazione al suo esterno e nel rapporto con i terzi.1 A tal proposito l’art.4 della legge 142/1990, al comma 1, statuisce, lapidariamente, che “…le province adottano il proprio statuto”, poi il comma 2 precisa che “Lo statuto, nell’ambito dei principi fissati dalla legge, stabilisce le norme fondamentali per l’organizzazione dell’ente…”. E’ proprio l’inciso <<…nell’ambito dei principi fissati dalla legge…>> che ha creato le maggiori difficoltà interpretative, da cui scaturiscono due diversi orientamenti.

Una parte della dottrina2 considerava la competenza statutaria delle

province (e dei comuni) costituzionalmente fondata, facendo leva sul dettato degli artt. 5 e 128 cost. (nella versione precedente la riforma

1 F. PINTO, Diritto degli enti locali, Torino, 2012 pag.23 2 G.Rolla, Istituzioni di diritto pubblico, Torino 1994, pag. 424.

(24)

21 del 2001); ciò portava a due importanti conseguenze, ovvero: 1) solo la legge generale, che ai sensi dell’art. 128 cost. può disciplinare le autonomie locali, è abilitata a designare i controlli della loro competenza statutaria; 2) la legge che invadesse la competenza statutaria sarebbe incostituzionale3.

Altra parte della dottrina4 sostiene, invece, che la competenza statutaria degli enti è legislativamente (art.4 legge 142/1990) -e, quindi, non costituzionalmente- fondata.

Se si sposa questo orientamento, bisogna ritenere che la competenza statutaria delle amministrazioni provinciali (e degli enti locali in genere) può essere delimitata da qualunque legge statale successiva all’art. 4 della legge 142/19905, purché le disposizioni riguardanti lo

statuto siano uniformi per ogni singola provincia.

Inoltre, i sostenitori di tale teoria riducono anche la portata del termine “generali” dell’art.128 cost., modificando così anche il concetto di “uniformità” della legislazione statale che regolamenta le competenze statutarie provinciali (e comunali). Quindi, secondo alcuni giuristi, il termine “generali” non si riferisce all’obbligo del legislatore di dettare una disciplina indifferenziata in assoluto per ciò che riguarda i limiti delle competenze statutarie -come, di contro, sostenuto da coloro i quali ritengono la competenza statutaria costituzionalmente fondata-, ma il legislatore deve, sì imporre una disciplina, quanto più possibile organica ed uniforme in relazione ai limiti delle competenze statutarie6, però, può, se del caso, apporre

3 F.CLEMENTI/A.PRAINO, Gli statuti comunali, Trieste, 1990 pag.36

4 V.Italia, L'interpretazione sistematica degli statuti e dei regolamenti, Milano

1993, pag. 14.

5 G.ROLLA, T.GROPPI, L.LUATTI, L’ordinamento dei comuni e delle province,

Milano 1996, pag.75.

(25)

22 discipline differenziate per classi di enti, purché non irragionevoli in quanto vessatorie, arbitrarie o abusive.7

Difettando una competenza statutaria costituzionalmente fondata, però, si rischia di eludere la volontà dei costituenti, i quali (come già detto nel paragrafo precedente) volevano tutelare l’autonomia degli enti locali, per mezzo proprio della Carta costituzionale, utilizzando lo scudo dell’illegittimità, nel caso in cui una legge statale interferisca infondatamente con le materie attribuite alla potestà di questi ultimi. Infatti relegando gli statuti provinciali al rango di legge ordinaria non si può nemmeno tacciare di incostituzionalità, in base al principio della successione di leggi nel tempo, una legge di pari rango (quindi, anche un’altra legge ordinaria) che disciplini una materia attribuita alla competenza di un ente locale.

Ma, l’idea che uno statuto locale non abbia alcun tipo di “protezione” istituzionale non poteva –e non può- sicuramente essere accettata, in quanto l’assetto, che la Costituzione repubblicana dà allo Stato, è basato su un modello di governo decentrato, tutelando, quindi, le autonomie territoriali, e da ciò non possono prescindere nemmeno i più ostinati sostenitori della teoria secondo cui la competenza statutaria degli enti è legislativamente fondata, questi, infatti, non potendone prescindere, fanno discendere la maggiore resistenza degli statuti dall’art.1, comma 3, della legge 142/1990, il quale stabilisce che “…le leggi della Repubblica non possono introdurre deroghe ai principi della presente legge se non mediante espressa disposizione delle sue disposizioni”. Quindi una legge che non deroghi espressamente ai principi stabiliti dalla legge 142/1990 non può vincolare nessuna amministrazione locale.8

Stando a detta interpretazione, una qualsiasi legge generale –e in alcuni casi anche speciale- potrebbe derogare a quanto attribuito alla

7 L.Pegoraro, Gli statuti degli enti locali, Rimini 1993, pag.49. 8 L.Pegoraro, Gli statuti degli enti locali, Rimini 1993, pagg. 52-53.

(26)

23 competenza statutaria degli enti locali, purché indichi espressamente quali parti abrogare della legge 142/1990.9

Coloro i quali, invece, sostengono la teoria del fondamento costituzionale della competenza statutaria rimarcano il fatto che l’autonomia statutaria, pur essendo disciplinata da una legge generale, trova, comunque, una copertura costituzionale sia nell’art.5, che nell’art.128.10

In base a questa teoria, l’affermazione contenuta nell’art.128 cost. secondo la quale “Le province…sono enti autonomi nell’ambito dei principi fissati dalle leggi della Repubblica” significa che le leggi dello Stato possono solo delineare l’ambito dell’autonomia provinciale, e nient’altro, perché essa trova direttamente sostegno nel dettato costituzionale.11 Pertanto le leggi statali emanate si sensi dell’art.128 non sono fondanti l’autonomia delle province, né tanto meno possono ritenersi fondanti la potestà normativa di queste, ma anzi, nel caso in cui, venissero ad eliminare, o comunque ad incidere, la sfera di autonomia spettante alle province (e ai comuni) sarebbero censurabili in sede di giudizio di costituzionalità.12

Da questo orientamento prenderà corpo il principio del c.d. “policentrismo istituzionale”, in base al quale il Parlamento nazionale perde quella posizione di supremazia assoluta rispetto ad ogni altro organo rappresentativo13. Affermando ciò si asserisce che, con l’avvento degli statuti, si affiancano alle leggi dello Stato altre

9 L.Pegoraro, Gli statuti degli enti locali, Rimini 1993, pag. 55.

10 C.Corsi, L’autonomia statutaria dei comuni e delle province, Milano 1995, pagg.

39 ss.

11 A.Pubusa, sovranità popolare e autonomie locali, Milano 1983, pag. 221 e

pag.238.

12 C.Mortati, Atti con forza di legge e sindacato di costituzionalità, Milano 1964,

pagg. 52 ss.

13 C.Corsi, L’autonomia statutaria dei comuni e delle province, Milano 1995, pag.

(27)

24 forme legislative con pari legittimazione, anche esse espressione della sovranità popolare.

Sicuramente, tra le due teorie sopra esposte ha avuto più fortuna quella che vede negli statuti locali una legittimazione costituzionale. A mio avviso è proprio da questo tipo di interpretazione della norma in esame che si può notare la prima fase –o meglio la fase, ancora, embrionale- di quel processo politico-istituzionale che porterà all’affermarsi dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza che rappresentano il fulcro della riforma costituzionale del 2001.

La conferma del “legame” tra statuti locali e Costituzione la darà – come illustrato nel paragrafo successivo- l’art. 6 della legge 131/2003, in base al quale soltanto la Carta costituzionale può fissare dei limiti potestà statutaria di Comuni e Province.

Con la legge 142/1990, di conseguenza, sarà superata quella concezione che vede le fonti normative provinciali (e comunali) in posizione di mera subordinazione rispetto alla legge statale.14 A tal proposito riveste un ruolo fondamentale il titolo V della Costituzione (nella versione precedente la riforma del 2001), in quanto, considerando di pari rango le norme statali e quelle statutarie, si pone un problema di raccordo tra queste all’interno dell’ordinamento complessivo, che può essere risolto soltanto per mezzo del titolo V della Carta fondamentale, il quale delinea le relazioni tra i vari ordimenti15. Per quanto riguarda in particolare le province l’art.128 cost, già nella sua formulazione originaria, affidava alle leggi generali della Repubblica il compito di delineare l’ambito entro cui si dovrà svolgere l’autonomia delle province stesse.16 Quindi, ben

prima della legge 142/1990, si parlava di funzione di “raccordo” della

14 G.Zagrebelsky, Diritto costituzionale, Torino 1990, pag.307. 15 G.Zagrebelsky, Diritto costituzionale, Torino 1990, pag.214.

16 A.Pizzorusso, Delle fonti del diritto, in commentario del Codice Civile, Bologna

(28)

25 legge statale, nel senso che questa deve garantire al sistema quell’unitarietà e univocità necessarie per un suo sviluppo ordinato17.

Un’altra significativa novità introdotta dalla legge 142/1990 riguarda la distribuzione di competenze tra gli organi amministrativi delle province.

Fino alla legge 142/1990 le competenze degli organi amministrativi provinciali erano disciplinate, per la maggior parte, dal R.D. 148/1915 che conteneva il “Testo unico delle leggi comunali e provinciali”. Il T.U. del 1915 ripartiva l’organizzazione amministrativa della provincia in due organi istituzionali: il Consiglio provinciale e la Deputazione provinciale. Ciascuno di questi, nominava al suo interno un Presidente, che però aveva solo il compito di convocare e presiedere le adunanze, senza possedere nessuna competenza amministrativa ben precisa.

Con la legge 122/1951 la Deputazione viene sostituita dalla Giunta, il cui Capo assume la denominazione di “Presidente della provincia”, quest’ultimo veniva, anche, posto a capo del Consiglio ma le sue funzioni e quelle degli organi non subiscono mutazioni rilevanti. La legge 142/1990 stabilisce all’art.30, comma 2, che “Sono organi della Provincia il Consiglio, la Giunta, il Presidente”. In tal modo la provincia passa ad un’organizzazione –per così dire- ternaria.

Nel T.U. le competenze del Consiglio erano indicate negli artt. 241 e 242; in ognuna di queste norme vi era un elenco tassativo degli ambiti in cui il Consiglio poteva deliberare.

La legge 142/1990 innova profondamente la normazione previgente. La nuova disciplina tratta le funzioni del Consiglio nell’art.32, al cui comma 1 si afferma che “Il Consiglio è l’organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo”. Con questa norma si è inteso differenziare marcatamente gli atti di indirizzo, che sono espressamente affidati al Consiglio, dagli atti di attuazione dell’indirizzo, affidati espressamente (art.35) alla Giunta provinciale.

17 F.Pizzetti, Il sistema costituzionale delle autonomie locali, Milano 1979, pag.

(29)

26 Questa è, sicuramente, una novità di rilievo rispetto alla passata disciplina, in quanto, per la prima volta, all’interno delle amministrazioni locali, si afferma il principio della separazione delle competenze,18 che è diventato uno dei tratti fondamentali delle amministrazioni provinciali.

L’art.32, al comma 2, poi, elenca tassativamente gli “atti fondamentali”19 di competenza del Consiglio.

Facendo un parallelismo tra le competenze elencate in quest’ultima norma e gli artt. 241 e 242 del T.U. si nota subito che il Consiglio, nel dettato della legge 142/1990, ha un numero di funzioni notevolmente ridotto. Ciò risponde ad una scelta precisa del legislatore, il quale ha voluto alleggerire i compiti del Consiglio in funzione di una maggiore efficienza dell’organo nello svolgere i propri compiti. Gli atti fondamentali elencati nel secondo comma dell’art. 32 possono essere suddivisi, in estrema sintesi, in tre categorie, le quali comprendono, innanzi tutto, i provvedimenti in materia di ordinamento fondamentale dell’ente (ad esempio modifiche statutarie e regolamenti), quelli in materia di programmazione e contabilità, nonché gli atti riguardanti servizi pubblici, aziende ed enti indipendenti (ad esempio nomina, determinazione e revoca di componenti delle aziende sottoposte a vigilanza o sovvenzionate).20

Il comma 3 dell’art.32, infine, rafforza ulteriormente la competenza del Consiglio riguardo agli atti espressamente attribuiti ad esso stabilendo che le deliberazioni sugli argomenti elencati nel comma 2 del medesimo articolo non possono essere adottate nemmeno in via d’urgenza da altri organi della Provincia, “…salvo quelle attinenti

18 F. PINTO, Diritto degli enti locali, Torino, 2012 pag.22 19 Art.32, comma 2, legge 142/1990

(30)

27 alle variazioni di bilancio da sottoporre a ratifica del Consiglio nei sessanta giorni successivi, a pena di decadenza”21.

La portata innovativa della legge 142/1990, nell’ambito delle competenze degli organi provinciali, si coglie maggiormente nell’ambito delle funzioni della Giunta.

Le competenze della Giunta provinciale sono disciplinate dall’art. 35. Detta disposizione, a differenza della precedente (che elencava tassativamente le funzioni della Giunta –chiamata Deputazione fino al 1951-), attribuisce a questa un tipo di competenza che si può definire “residuale”, infatti l’art. 35, nella parte iniziale, stabilisce che “La giunta compie tutti gli atti di amministrazione che non siano riservati dalla legge al consiglio e che non rientrino nelle competenze, previste dalla legge o dallo statuto, … del presidente della provincia, degli organi di decentramento, del segretario dei funzionari dirigenti…”.

La Giunta diviene, così, competente ad adottare tutti gli atti che non rientrino espressamente nelle competenze di altri organi, sulla dello statuto o della legge.22

La suddetta disposizione, mentre si presenta chiara per quanto riguarda la ripartizione delle competenze tra Giunta e Consiglio ovvero tra Giunta e Presidente della Provincia, in quanto le funzioni di questi sono disciplinate, in maniera espressa, rispettivamente dall’art.32 e dall’art.36 della legge 142/1990, ha creato problemi interpretativi in riferimento alle competenze dei funzionari dirigenti. Tali problemi sono stati generati dal fatto che la legge 142/1990 delinea le competenze di questi ultimi non in maniera espressa, ma utilizzando, anche in questi casi, il criterio della residualità (“…tutti i compiti, compresa l'adozione di atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, che la legge e lo statuto espressamente non riservino agli organi di governo dell'ente”).23

21 Art.32, comma 3, ult.parte, legge 142/1990.

22 L.Vandelli, Ordinamento delle autonomie locali, Rimini 1990, pag. 201. 23 Art. 51, comma 3, legge 142/1990.

(31)

28 Il dilemma del rapporto tra l’art.35 e l’art.51, comma 3, della legge 142/1990 può essere risolto grazie alla disposizione contenuta nel secondo comma dell’art.51, in base alla quale “Spetta ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti che si uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo spettano agli organi elettivi mentre la gestione amministrativa è attribuita ai dirigenti”.

Dalla lettura congiunta dell’art.35 e dell’art. 51, commi 2 e 3, si possono distinguere le competenze della Giunta da quelle dei funzionari dirigenti.

Gli atti, la cui adozione implica responsabilità di “direzione e controllo” –ovviamente non espressamente attribuiti al Consiglio o al Presidente della provincia-, sono di competenza della Giunta. Ogni altro atto, invece, che può considerarsi di mera “gestione amministrativa” e la c.d. “rappresentanza esterna” dell’ente, rientra nella competenza dei dirigenti.24

In ogni caso sarà lo Statuto, comunque, a dover disciplinare le varie competenze in modo tale che da evitare, il più possibile, incertezze e sovrapposizioni.25

L’ultima parte dell’art. 35, poi, sancisce espressamente quanto detto poc’anzi in riguardo al principio della separazione dei poteri all’interno delle amministrazioni locali. Detta norma, infatti, stabilisce che la Giunta “…attua gli indirizzi generali” del Consiglio. Attribuendo così alla giunta, espressamente, il potere di attuazione degli indirizzi scelti dal Consiglio.

Il terzo, ed ultimo organo, citato dall’art. 30 della legge 142/1990, per ciò che riguarda che le province, è il Presidente della provincia. Questo, a differenza degli altri due sopra esaminati, è un organo monocratico.

24 E.Barusso, Dirigenti e responsabili di servizio, Milano 2001, pag. 137. 25 L.Vandelli, Ordinamento delle autonomie locali, Rimini 1990, pag. 203.

(32)

29 Le competenze del Presidente della provincia sono disciplinate dall’art.36 della legge 142/1990, che va a sostituire l’art.254 della disciplina previgente, l’articolo appena elencava espressamente le competenze del Presidente della deputazione provinciale (numeri da 1 a 6).

L’art. 36, di contro, non riporta più una “lista” di competenza da attribuire all’organo monocratico, stabilendo così a priori gli atti che il Presidente può o meno adottare, ma più genericamente, la norma in esame dispone che il Presidente della provincia svolge le funzioni attribuitegli dalla legge, dallo statuto, dai regolamenti e sovrintende all’espletamento delle funzioni statali o regionali delegate alla provincia.26

Dalla lettura della nuova disposizione si comprende facilmente come la legge 142/1990, non circoscrivendo a priori le competenze del Presidente della provincia, abbia, in realtà, aumentato le funzioni attribuite ad esso. Inoltre, al comma 1, l’art. 36 conferma quanto già stabilito dal T.U. del 1915, ovvero che il Presidente della provincia convoca e presiede il Consiglio e la Giunta, aggiungendo che esso sovrintende “…al funzionamento dei servizi e degli uffici nonché all’esecuzione degli atti”.27

Nella disciplina normativa introdotta dalla legge 142/90, il Presidente della Provincia (così come il Sindaco) non erano eletti dal popolo, ma erano nominati all’interno del Consiglio, ciò, comunque, rappresentava una forte limitazione all’autorità dell’organo monocratico degli enti locali. Per avere l’elezione diretta dell’organo monocratico locali bisognerà attendere la legge 81/93, che ha statuito la legittimazione popolare diretta del Sindaco e del Presidente della Provincia.28

26 P.Vipiana, Commento all’art. 36, in Ordinamento delle autonomie locali, Torino

1993, pagg. 409 ss.

27 E.Alessi, Il problema della delimitazione della competenza del Sindaco

esclusivamente alle materie espressamente attribuitegli dopo l’emanazione dell’art. 36 della legge 142/90, in Amministrazione italiana, 1993, pagg. 1357 ss.

28 M.Camero, Legge n. 81 del 1993: Elezione diretta del Sindaco, in

(33)

30 Da quanto detto in questo paragrafo emerge chiaramente che la legge 142/1990, nonostante la sua vita breve –solo un decennio-, rappresenta, senza dubbio, il pilastro portante della disciplina comunale attuale e della disciplina provinciale in vigore fino a poco (anzi pochissimo) tempo fa, dalla cui comprensione non si può prescindere nello studio delle riforme provinciali degli ultimi anni.

(34)

31

4. GLI STATUTI PROVINCIALI.

La potestà statutaria delle province è stata introdotta dalla legge 142/1990 (come detto nel paragrafo precedente) ed è, adesso, regolata dal “Testo Unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali” –introdotto per mezzo del D.lgs. 267/2000-, che riporta la stessa dicitura contenuta nel dettato legislativo precedente (“…le province adottano il proprio statuto”1).

Lo statuto può essere definito come “l’atto fondamentale di autonomia della Provincia”, infatti è per mezzo dello statuto che la Provincia disciplina le linee e i principi del proprio ordinamento. Esso si presenta come l’espressione più elevata della potestà normativa locale e, alle sue disposizioni, rimane subordinato ogni altro atto dell’amministrazione provinciale.2 Non a caso, infatti, le

modifiche statutarie richiedono un procedimento “aggravato” simile a quello di revisione costituzionale ex art. 137 cost.

Per modificare lo statuto (o anche deliberarne uno nuovo) serve, quindi, la maggioranza qualificata, ovvero devono esprimere voto favorevole almeno i 2/3 dei componenti del consiglio, oppure, nel caso in cui la maggioranza qualificata non sia raggiunta, la modifica può essere approvata se ottiene la maggioranza assoluta dei consiglieri per due votazioni consecutive, purché tra queste non vi sia un intervallo superiore a trenta giorni, come espressamente stabilito dal quarto comma dell’art. 6 del D.lgs. 267/2000.3

I caratteri fondamentali di ogni statuto adottato da un ente locale sono: la necessarietà, ovvero la necessità che ciascun ente locale abbia il proprio statuto; l’unicità, nel senso che ogni singolo ente

1 Art. 6, comma 1, D.lgs. 267/2000.

2 L.Vandelli, Il governo locale, Bologna 2000, pag. 68

3 G.Sciullo, Il testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, in Giornale

(35)

32 locale adotta un unico statuto, il quale deve tener conto delle esigenze e delle caratteristiche della popolazione che lo adotta e solo a questa può riferirsi; la normatività, quindi carattere durevole, capacità di innovare l’ordinamento, efficacia generale e astratta, collocazione nel sistema delle fonti e ricorribilità per violazione di legge; nonché la specialità, nel senso che, in quanto norma speciale, lo statuto prevale sulla legge, in quanto norma generale.4

Il contenuto e i limiti dello statuto provinciale sono disciplinati dal secondo comma dell’art.6 del D.lgs. 267/2000.

Analizzando la norma citata possiamo distinguere sia limiti di tipo “verticale”, che di tipo “orizzontale”.

I limiti di tipo verticale si possono ricavare dall’inciso “…nei limiti dei principi fissati dal presente testo unico…”, infatti il contenuto dello statuto dovrà sempre conformarsi a quelli che sono i dettami del decreto citato. I limiti di tipo orizzontale, invece, sono relativi ai rapporti con le altre fonti locali e si desumono dal fatto che la norma in questione indica espressamente gli ambiti in cui lo statuto può dettare le “…norme fondamentali”.5

Sulla citata disciplina ha inciso, però, la legge 131/2003, che ha dato attuazione al nuovo dettato costituzionale (quello scaturito dalla legge cost. 3/2001), in cui viene individuato come unico limite alla potestà statutaria i “principi fissati dalla Costituzione”.6

A tal proposito l’art.4 della legge 131/2003, al comma 1, stabilisce che “…le province…hanno potestà normativa secondo i principi fissati dalla Costituzione”, precisando che tale potestà, oltre ad essere quella statutaria, è, anche, la potestà regolamentare.

Alla luce di quanto sopra esposto, si può affermare che, ad oggi, la potestà statutaria delle province (ma, anche, dei comuni) è tenuta a

4 A.Cacace/R.Sangiuliano, Il nuovo ordinamento degli enti locali, Napoli 2010,

pag.30

5 G.Rolla, Diritto degli enti locali, Milano 2000, pag. 39. 6 Art.14, comma 2, cost.

(36)

33 rispettare soltanto i principi inderogabili che siano imposti dalla Costituzione.7 In realtà, riguardo al concetto di principi, ha avuto fortuna una teoria, per così dire, “estensiva” del concetto, secondo la quale, sono considerati principi inderogabili anche quelli estrapolati da un interpretazione autentica (cioè fatta da un organo legislativo) della Costituzione.8

Dall’ultima disposizione legislativa citata, a mio avviso, si può ritenere definitivamente risolto positivamente il quesito posto nel paragrafo precedente, ovvero se gli Statuti locali abbiano o meno diretta legittimazione costituzionale. Infatti, dovendo rispettare i solo i limiti imposti dai principi inderogabili dell’ordinamento, gli statuti locali hanno le stesse limitazioni delle norme costituzionali, quindi, a rigor di logica, devono necessariamente essere legittimati direttamente da queste.

Quindi, a conclusione della disamina, si può affermare che le il D.lgs. 267/2000 ha confermato, la notevole autonomia data agli statuti locali mediante la legge 142/1990, successivamente, la legge 131/2003 ha rafforzato la potestà normativa statutaria, stabilendo espressamente che questa deve sottostare soltanto ai limiti imposti dai principi inderogabili dell’ordinamento.

Per ciò che riguarda il contenuto, si può distinguere un contenuto obbligatorio e un contenuto facoltativo dello statuto.

Il contenuto obbligatorio è il contenuto minimo ed essenziale che lo statuto deve avere, anzi, più precisamente, è il contenuto che ogni statuto provinciale non può non avere.

I singoli ambiti del contenuto essenziale dello statuto sono elencati nel secondo e terzo comma dell’art.6 del Testo Unico. La prima di queste norme, nella prima parte, impone allo statuto di disciplinare le norme poste a fondamento dell’organizzazione dell’ente locale che lo ha adottato; la medesima norma, nella seconda parte, poi, con una

7 E.De Marco, Statuti comunali e provinciali, in Enciclopedia del diritto, Milano

2002, pag. 1146.

(37)

34 puntuale elencazione, specifica quali sono i suddetti ambiti (tra i quali, ad esempio, le attribuzioni degli organi e gli istituti di partecipazione popolare). Tale elencazione era già contenuta nell’art. 4, comma 2, della legge 142/1990, ma il T.U. del 2000 ha, per la prima volta, concesso la facoltà allo statuto di stabilire “…i modi di esercizio della rappresentanza dell’ente, anche in giudizio…”.9

Quindi, sulla base del dettato legislativo, anche altri organi della Provincia possono rappresentare la stessa in ambito processuale. Ciò, però, si pone in contrasto con il dettato dell’art. 50 del T.U., il quale, nel secondo comma, riporta che “Il Sindaco e il Presidente della provincia rappresentano l’ente…”.

In argomento si è espressa la Cassazione; la suprema Corte ha stabilito che non vi è alcun elemento rinvenibile nell’art.50, o in altra disposizione di legge, che induca a ritenere preclusiva la possibilità che altri soggetti espressamente indicati nello statuto, oltre al Presidente della provincia (o al Sindaco, nel caso dei comuni), rappresentino l’ente nelle liti passivi o attive. Ciò è stato fatto conseguire dall’assunto che la legge dello Stato non costituisce più un limite invalicabile all’interno dell’organizzazione provinciale (e comunale).10

Sempre riguardo al contenuto obbligatorio dello statuto, è stabilito, al terzo comma dell’art. 6 del T.U. che “Gli statuti… provinciali stabiliscono norme per assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna… e per garantire la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali non elettivi… della provincia, nonché' degli enti, aziende ed istituzioni da essa dipendenti.”

Le province (e tutti gli enti autonomi dello Stato), infatti, devono predisporre piani di azioni positive volte a rimuovere gli ostacoli che “…impediscono la piena realizzazione di pari opportunità di lavoro e nel lavoro tra uomo e donna”.11

9 Art.6, comma 2, D.lgs. 267/2000.

10 Cassazione, sezioni unite civili, sent. N.12868/2005 11 Art.48, codice delle pari opportunità tra uomo e donna.

(38)

35 Il contenuto facoltativo, invece, è disciplinato dall’inciso finale del secondo comma dell’art. 6 del T.U., in cui è riportato che lo statuto stabilisce “…quant’altro ulteriormente previsto dal Testo Unico”, tra cui si possono citare, a titolo esemplificativo, la previsione di consultazioni referendarie (art. 8, comma 3) o, anche, la costituzione di commissioni consiliari.

Attraverso il contenuto facoltativo dello statuto è possibile, dunque, non solo sviluppare e articolare il contenuto obbligatorio, ma, anche, valorizzare le caratteristiche di specificità della provincia in sé; queste avranno, infatti, un contenuto peculiare per ogni singola provincia, in quanto derivati da elementi insiti in essa come, ad esempio, la cultura o il percorso storico-politico.12

Il contenuto facoltativo rappresenta sicuramente una delle principali novità introdotte dal D.lgs. 267/2000, in quanto, tale previsione si pone l’obiettivo di aumentare lo spazio riservato alla potestà statutaria dell’ente.13

Le disposizioni sullo statuto presenti nel D.lgs. 267/2000 hanno fatto sì che venisse modificato il rapporto tra la legge statale e l’ordinamento statutario.

Le due suddette fonti, prima del decreto citato, si ponevano tra loro in un rapporto esclusivamente gerarchico, di conseguenza le norme contenute nello statuto erano considerate di rango secondario, o, quanto meno, -secondo interpretazioni più recenti- norme di rango “subprimario”; ciò in quanto gli statuti degli enti locali erano fonti sicuramente subordinate alla legge (fonte primaria), ma, al contempo, erano superiori rispetto alle fonti secondarie dell’ordinamento.14

12 A.Cacace/R.Sangiuliano, Il nuovo ordinamento degli enti locali, Napoli 2010,

pag.36.

13 R.Scarciglia, L’autonomia normativa, organizzativa e amministrativa degli enti

locali dopo la legge 265/1999, in Le istituzioni del federalismo, pagg. 291 ss.

(39)

36 Grazie all’introduzione del Testo Unico, il rapporto tra legge statale e ordinamento statutario non si pone più soltanto in termini di gerarchi, piuttosto si pone, ormai, in termini di competenza tra le potestà attribuite ad una fonte o all’altra. Lo statuto si qualifica, dunque, non più come disciplina di attuazione, bensì di integrazione e adattamento dell’autonomia locale ai principi inderogabili fissati dalla legge.15

Lo statuto, pertanto, non è più strumento dell’autonomia amministrativa sottoposto alla legge, ma è divenuto fonte basilare della democraticità della nostra forma di Stato. Quindi, si può affermare, che lo statuto, ad oggi, può –e forse deve- essere considerato la fonte primaria del governo della provincia (e degli enti locali in genere). In tal modo, le autonomie locali entrano a pieno titolo (in accordo con il dettato dell’art.5 cost.) nel disegno della forma di governo globale della Repubblica, attuando così la scelta, fatta dai relatori della Costituzione, di gestire lo Stato in modo “decentrato”.16

L’altra forma di esplicazione dell’autonomia normativa di cui godono le province è la potestà regolamentare.

La potestà regolamentare degli enti locali è stata prevista, per la prima volta, dall’art. 5 della legge 142/1990, subordinandola, mediante l’inciso di apertura della norma (“Nel rispetto dei limiti fissati dalla legge e dallo statuto…”), alle leggi statali e alle disposizioni statutarie.

I regolamenti degli enti locali, però, già dall’entrata in vigore della legge 142/1990, sono disciplinati dal c.d. “principio di preferenza”, ciò sta a significare che, nelle materie affidate alla potestà normativa di province e comuni, i regolamenti locali devono prevalere sui

15 Cassazione civile, sent. N.12868/2005.

16 I.M.Marino, La funzione normativa di comuni, province e città nel nuovo

(40)

37 regolamenti statali o regionali, questi, al limite, potrebbero avere carattere suppletivo.17

Una volta data la possibilità all’amministrazione provinciale di emanare regolamenti, la dottrina ha proceduto ad una classificazione dei vari tipi di regolamenti adottati dall’ente.

Una prima classificazione degna di nota è stata fatta in base al fondamento del regolamento; a tal proposito si sono distinti i regolamenti fondati sulla legge, quelli fondati sullo statuto e regolamenti liberi.18

Un’altra classificazione che merita di essere citata è quella basata sul contenuto, in cui si distinguono i regolamenti obbligatori e i regolamenti facoltativi.19

Il T.U. del 2000 disciplina la potestà regolamentare degli enti locali nell’art.7; in cui viene confermata la funzione dei regolamenti di disciplinare, in modo quanto più dettagliato possibile, ciò che è previsto dallo statuto dell’ente.

La novità più eclatante è rappresentata, però, dal fatto che la potestà regolamentare può essere esercitata su tutta l’attività tipica dell’ente locale. Infatti, mentre l’art.5 della legge 142/1990 riportava tassativamente gli ambiti entro cui la potestà regolamentare locale poteva esplicarsi, diversamente, l’art.7 del T.U. riporta l’inciso “…la provincia adotta (…) regolamenti nelle materie di propria competenza…”. Di conseguenza le province possono disciplinare con regolamento materie diverse da quelle riportate nell’art.7, purché specificamente individuate e contenuto nel proprio statuto.20

I regolamenti provinciali (ma anche quelli comunali) hanno una particolare natura giuridica, data dal fatto che, da un lato, devono

17 T.Groppi, Autonomia costituzionale e potestà regolamentare degli enti locali,

Milano 1994, pag.167.

18 R.Scarciglia, I regolamenti comunali, Rimini 1993.

19 F.Fenucci, I regolamenti dell’autonomia locale, Milano 1994.

20 A.Cacace/R.Sangiuliano, Il nuovo ordinamento degli enti locali, Napoli 2010,

(41)

38 considerarsi atti amministrativi, in quanto posti in essere da un ente pubblico; ma, dall’altro lato, contengono norme intese ad innovare il diritto oggettivo e quindi, possono essere, anche, considerati atti normativi.

I regolamenti locali si differenziano, perciò, dagli altri atti amministrativi per il loro contenuto preventivo ed astratto, rivolto alla generalità dei cittadini o ad una particolare categoria di essi, di cui disciplinano i comportamenti, alla stregua di altre norme giuridiche.21

Alla luce di quanto appena affermato, riguardo la natura giuridica dei regolamenti provinciali, sembra prendere corpo quella che poi sarà la definizione, per così dire, “moderna” dei regolamenti amministrativi (quindi anche quelli adottati da province e comuni) secondo la quale essi sono <<atti formalmente amministrativi, ma sostanzialmente normativi>>.22

La duplice natura dei regolamenti locali incide anche sul collocamento dei regolamenti provinciali sulla gerarchia delle fonti. Questi, infatti, sono considerati da alcuni fonti normative secondarie (Sangiuliano), da altri fonti normative terziarie (Martines).

Sia che si aderisca all’una o all’altra delle suddette classificazioni, i regolamenti provinciali, in ogni caso, non possono derogare o contrastare norme di rango costituzionale, norme dettate dallo statuto e principi inderogabili posti dalle leggi ordinarie.23

L’art.7 del T.U., oltre ad attribuire in modo generico la potestà regolamentare alle province (e ai comuni) specifica, anche, che devono essere adottati regolamenti “…in particolare, per l'organizzazione e il funzionamento delle istituzioni e degli organismi

21 Cassazione, I sez. civile, sent. N. 6878/96.

22 F.Caringelli, Corso di diritto amministrativo, Milano 2011.

23 M.Alì, Regolamenti degli enti territoriali, in Enciclopedia del diritto, Milano

Riferimenti

Documenti correlati

To quantify the detection power of our algorithm, we applied JointSLM with different parameter settings on simulated data sets made of 10, 30 and 50 synthetic chromosomes with

CI SONO ALCUNE REGIONI CHE SI TROVANO IN POSIZIONI PARTICOLARI (CONFINANO CON ALTRI STATI OPPURE SONO ISOLE). QUESTE REGIONI HANNO BISOGNO DI

Le prestazioni acustiche degli impianti di climatizzazione preve- dono limiti di rumorosità differenti, in relazione alle destinazioni d’uso degli ambienti, variabili fra 30 dBA

d) regola le modalità in base alle quali i comuni non compresi nel territorio metropolitano possono istituire accordi con la città metropolitana. Le città metropolitane di cui al

S UBENTRO DELLE CITTÀ METROPOLITANE ALLE PROVINCE OMONIME NEL RISPETTO DEGLI OBIETTIVI DEL PATTO DI STABILITÀ INTERNO ...6 ARTICOLO 1, COMMA 128 ...7 E SENZIONE DEI TRASFERIMENTI

* Articolo sottoposto a referaggio. 1 In merito all’attuazione della legge c.d. legge “Delrio” cfr. la Deliberazione della Sezione delle autonomie della Corte dei Conti, la

56/2014 (ossia l’8 luglio 2014), è intervenuto solo l’11 settembre 2014, istituendo l’Osservatorio nazionale e gli Osservatori regionali con compiti tecnici e politici

Oggi, assistiamo, infatti, all’aumento diffuso del lavoro discontinuo e precario, che sono fuori dal perimetro dell’azione sindacale oltre che alla generale