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Itinera, N. 1, 2011. Pagina 196

Le parole dell’estetica per la ricerca storica.

La prospettiva metodologica di Dahlhaus

di Sonia Ghidoni

«Il sistema dell’estetica è la sua storia» (Carl Dahlhaus, L’estetica della musica, tr. it. di R. Culeddu, Astrolabio, Roma 2009, p. 7): questa premessa, che sarà poi finemente argomentata nei monumentali Fondamenti di

storiografia musicale (Grundlagen der Musikgeschichte, 1977), apre

programmaticamente la dahlhausiana Estetica della musica

(Musikä-sthetik, 1967), finalmente edita in lingua italiana per Astrolabio nella

limpida traduzione di Riccardo Culeddu. Un titolo ingannevole, per certi versi, quello scelto dall’autore per questa breve sintesi di caratte-re espositivo: e proprio perché, come emerge dal trattamento teorico che Dahlhaus riserva alla disciplina, egli intende l’estetica come una scienza normativa, volta a conferire alla musica regole e indirizzi com-positivi e fruitivi. Niente di tutto questo, invece, nel libretto in questio-ne, che percorre le filosofie della musica elaborate tra Sette e Novecen-to proponendo al letNovecen-tore odierno non semplicemente un’estetica, ma una storia dell’estetica, un resoconto e una testimonianza che tenta di ritagliare all’interno di un orizzonte concettuale incerto i confini dia-cronici e metodologici della disciplina stessa.

Di altrettanta difficile definizione è l’oggetto, o gli oggetti, di questa

storia: dal punto di vista dello storico, nota infatti Dahlhaus nel

conte-sto dell’esposizione del “paradosso di Hanslick”, «un’intenzione auten-tica dell’autore rimasta celata o non compresa è meno rilevante di un fraintendimento che abbia avuto conseguenze storiche» (p. 85). Il fare

storia dahlhausiano si concretizza, in questo senso, nel dare la spinta

iniziale a un pendolo narrativo che oscilla dal pensiero degli autori alle correnti, dalle formulazioni teoriche alle tradizioni, in un continuo in-trecciarsi di esplorazioni concettuali. In questo senso il metodo

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to da Dahlhaus è qualcosa di molto simile, anche solo per suggestione analogica, a quello attribuito dal musicologo stesso a Johann Gottfried Herder in occasione della discussione del procedimento analitico: «un

metodo nel senso originario del termine, un metà hodós, un “giro più

ampio” che può condurci alla comprensione» (p. 129). Un girare intorno ai concetti, quindi, in modo più comparativo che genealogico: le diverse “estetiche” vanno via via definendosi nel confronto serrato con le altre, nell’individuazione di un movimento storico-culturale che sostituisce, secondo Dahlhaus, l’estetica dell’espressione all’estetica dell’imita-zione, il formalismo al sentimentalismo, la fenomenologia all’estetica storicista di stampo hegeliano.

Nonostante l’intento tutto dahlhausiano di definire le varie epoche a partire dalle scelte linguistiche e concettuali in esse operate, dal di dentro delle singole formulazioni filosofiche (infatti «il rapporto tra sto-riografia ed estetica ha una struttura circolare: da parte loro le pre-messe estetiche che possono reggere una storiografia della musica, so-no storiche, ossia mutaso-no nella storia», C. Dahlhaus, Fondamenti di

storiografia musicale, Discanto, Fiesole 1980, p. 23), la strada percorsa

dal musicologo nell’Estetica della musica non è, tuttavia, totalmente esente da irrigidimenti in senso dogmatico. L’attribuzione di uno stato di cecità alla prassi musicale quando pretenda di fare a meno della teo-ria («una prassi musicale che creda di poter rinunciare alla teoteo-ria e alla critica è simile all’intuizione che, secondo Kant, è cieca finché manca di concetti», p. 149) risulta, per esempio, abbastanza sconcertante per il lettore contemporaneo se non adeguatamente contestualizzata. E al tempo stesso, tale provocazione, ancora appartenente alla vexata

quaestio dell’opposizione tra teorici e pratici dell’arte musicale,

contie-ne in sé una domanda fondamentale sull’identità del filosofo: entro quali limiti, infatti, la speculazione concettuale, la theorìa, non violen-ta, tradendoli, gli oggetti che vorrebbe spiegare?

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La risposta di Dahlhaus a questa domanda è rintracciabile nelle ul-timissime righe della sua Estetica della musica, alla fine del paragrafo intitolato Criteri. I limiti che il teorico deve imporsi nella sua esplora-zione e ridefiniesplora-zione degli oggetti culturali – musicali e non – sono gli stessi entro i quali egli è consapevole del suo fare storia e non sempli-cemente critica; del suo riscoprire «l’attualità del passato», senza tutta-via farne «una preistoria del presente», in modo regolato e intellet-tualmente onesto. Facendosi storico, il filosofo ridesta in sé la «memo-ria del processo da cui è derivato l’esistente», acquisisce gli strumenti per reimpostare le coordinate della sua stessa epoca. Senza dimentica-re, infine, che la sua ricerca attraverso orizzonti lontani nel tempo non è priva di un supremo fine morale: «scoprire in ciò che è dimenticato qualcosa che possa essere utile per il presente, non importa quanto in-direttamente, non è la peggiore delle motivazioni di uno storico» (p. 150).

Carl Dahlhaus, L’estetica della musica, tr. it. di R. Culeddu, Astrolabio, Roma 2009, pp. 168.

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