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La riforma comunitativa e il progetto costituzionale

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L

UCA

M

ANNORI

LA RIFORMA COMUNITATIVA E IL PROGETTO

COSTITUZIONALE

ESTRATTO

da

RASSEGNA STORICA TOSCANA

2016/1 ~ a. 62

Pietro Leopoldo e la Toscana laboratorio dei Lumi

a duecentocinquant'anni dall'inizio del suo Governo (1765) - Atti del Convegno, Firenze Educandato della SS. Annunziata Villa di Poggio Imperiale, 30 novembre 2015

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ISSN 0033-9881

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OSCAN

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-Anno

LXII,

2016,

n. 1

Anno LXII - n. 1 Gennaio-Giugno 2016

LEO S. OLSCHKI EDITORE

F I R E N Z E

RASSEGNA

STORICA TOSCANA

Organo della Società toscana per la storia del Risorgimento

(3)

Volume pubblicato con il determinante contributo di

Tutti gli articoli proposti alla rivista sono soggetti a un esame preliminare per valutare la loro rispondenza ai criteri propri di un contributo di carattere scientifico. Gli articoli che superano questo screening preliminare vengono sottoposti a un sistema di revisio-ne in “doppio cieco’’, con esame compiuto da uno specialista della tematica. L’autore può essere chiamato a rivedere il suo testo sulla base delle raccomandazioni del referee perché possa superare una seconda lettura. La direzione si riserva comunque la deci-sione finale in merito alla pubblicazione.

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Pubblicato nel mese di giugno 2016

Anno LXII - n. 1 Gennaio-Giugno 2016

Direttore responsabile: Sandro Rogari Redattore capo: Fabio Bertini

Redazione esecutiva: Maria Grazia Parri, Giustina Manica

Comitato di redazione: Domenico Maria Bruni, Giustina Manica, Sheyla Moroni, Gabriele Paolini, Maria grazia Parri, Marco Pignotti, Christian Satto

Comitato scientifico: Paolo Bagnoli, Pier Luigi Ballini, Fabio Bertini, Domenico Maria Bruni, Cosimo Ceccuti, Zeffiro Ciuffoletti, Fulvio Conti, Romano Paolo Coppini, Maria Francesca Gallifante, Luigi Lotti, Giustina Manica,

Gabriele Paolini, Marco Pignotti, Sandro Rogari, Marco Sagrestani, Simone Visciola, Alessandro Volpi

S O M M A R I O

Pietro Leopoldo e la Toscana laboratorio dei lumi a duecentocinquant’anni dall’inizio del suo Governo (1765) – Atti del Convegno, Firenze Educandato della SS. Annunziata Villa di Poggio Imperiale, 30 novembre 2015

Necrologio, Luigi Lotti . . . pag. 5 Valerio Vagnoli, Introduzione . . . » 7 Giovanni Cipriani, La figura e l’opera di Pietro Leopoldo . . . » 13 Luca Mannori, La riforma comunitativa e il progetto costituzionale . . » 17 Vittoria Del Carlo, Il riformismo leopoldino tra economia, finanza e

Stato . . . » 29 Fabio Bertini, Il «principe filosofo» e il Risorgimento . . . » 51

Biblioteche

Giovanni Pestelli, Giuseppe Molini, Cesare Guasti e la questione delle

biblioteche fiorentine . . . » 73

Donne del Risorgimento

Aurora Savelli, Il primato della patria: Baldovina Vestri (1840-1931),

l’ultima garibaldina . . . » 93

Massoneria

Gianpiero Caglianone, La massoneria in Maremma: logge di rito

scozzese (1865-1900) . . . » 125

Recensioni

Helen Zimmern, Corriere di Londra 1884-1910, a cura di Caterina Del Vivo, di Maria Gra-zia Parri (p. 159); Carlo Bini, Tutti gli scritti, a cura di Roberto Antonini, PatriGra-zia Casci-nelli, Roberto Goracci, di Fabio Bertini (p. 161); Michel Ostenc, Le gendre de Mussolini, di Fabio Bertini (p. 163); Alessia Cecconi, Resistere per l’arte. Guerra e patrimonio artistico in

Toscana. Dieci storie di uomini e opere salvate, di Andrea Giaconi (p. 165); L’ammiraglio

Na-poleone, a cura di Maria Lia Papi, di Anna Rocchi (p. 167); Giovanni Cipriani, La via della

salute. Studi e ricerche di storia della Farmacia, di Duccio Vanni (p. 169).

Abstracts . . . pag. 173

RASSEGNA STORICA TOSCANA

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Anno LXII 2016

LEO S. OLSCHKI EDITORE

F I R E N Z E

RASSEGNA

STORICA TOSCANA

Organo della Società toscana per la storia del Risorgimento

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Volume pubblicato con il determinante contributo di

In copertina: Luigi Paradisi, Ritratto di Pietro Leopoldo, per gentile concessione Archivio fotografico Museo Galileo, Firenze.

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PIETRO LEOPOLDO

E LA TOSCANA

LABORATORIO DEI LUMI

a duecentocinquant’anni

dall’inizio del suo Governo (1765)

Atti del Convegno, Firenze Educandato della SS. Annunziata Villa di Poggio Imperiale, 30 novembre 2015

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LA RIFORMA COMUNITATIVA E IL PROGETTO COSTITUZIONALE *

Sul piano della evidenza storiografica, la riforma delle comunità resta forse ancor oggi un po’ defilata rispetto, per esempio, agli interventi del granduca in materia di liberalizzazione economica o di codificazione pe-nale, che risultano sicuramente più noti al grande pubblico. Eppure, l’in-tervento di cui parleremo ha avuto un impatto sulla nostra regione e una risonanza internazionale probabilmente superiori a qualsiasi altro capitolo del riformismo leopoldino. Toccando il sistema comunitativo, in effetti, Leo poldo va ad incidere direttamente sulla “costituzione” dello Stato, cioè sul suo assetto politico fondamentale. Nelle righe che seguono, provo a riepilogare brevissimamente il senso complessivo della politica leopoldina in questa materia: e ciò articolando il discorso attorno a tre punti essenziali:

a. quale fosse la struttura politica della Toscana al momento dell’ascesa al trono del Granduca; b. quale sia stato l’impatto immediato prodotto su di essa dalla riforma – ovvero, quale nuova «forma di Stato» Leopoldo abbia inteso attribuire al territorio granducale; c. quali siano stati, infine, gli ef-fetti concreti delle scelte compiute da Leopoldo e quali i problemi che egli lasciò in eredità, in questo campo, ai suoi immediati successori.

a. La risposta alla prima domanda è che, nel 1765, l’assetto costitu-zionale della Toscana era quello di uno Stato regionale tardo-medievale a base pluricittadina. Il territorio statale si presentava come un grande, va-riegatissimo collage di comunità semi-autonome, che ancora conservava fortissimo l’imprinting «repubblicano» proprio delle sue origini. Intanto, infatti, il cosiddetto Granducato di Toscana non era per nulla un ordina-mento costituzionalmente unitario, ma si articolava al suo interno in due aree ben distinte, aventi in comune soltanto la soggezione ad uno stesso * Il testo è qui riprodotto, mantenendo i caratteri dell’oralità propri dell’intervento origi-nario. In conformità alla natura della conferenza, non si è voluto appesantire l’esposizione con note a pie’ di pagina, fornendo semplicemente una bibliografia essenziale in calce.

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signore – lo Stato di Firenze e quello di Siena. Caduti sotto la sovranità medicea rispettivamente nel 1530 e nel 1557 e governati per tutto il corso dell’antico regime come due spazi costituzionalmente del tutto autonomi, questi domini si presentavano a loro volta, al loro interno, come altrettanti alveari di entità subordinate minori, organicamente del tutto distinte dal proprio centro. Ogni comunità, in effetti – fosse essa una importante città come Arezzo, Pisa o Volterra, un tempo magari capitale essa stessa di un piccolo territorio indipendente, oppure un qualsiasi insediamento rurale tra le molte centinaia che punteggiavano lo spazio territoriale toscano, co-stituito talvolta solo da poche decine di famiglie – ogni comunità, dicevo, era titolare di un suo ordinamento, con un suo peculiare sistema di uffici e di consigli e con un suo specifico diritto, formato da norme consuetudina-rie o statutaconsuetudina-rie propconsuetudina-rie, il cui nucleo fondamentale risaliva di regola al me-dioevo, e che molto spesso si era continuato ad aggiornare e ad arricchire per tutto il corso dell’antico regime. L’inclusione di queste cellule primarie, per così dire, nell’ambito della compagine statale non aveva inciso minima-mente sulla loro natura originaria, che si continuava ad immaginare come perfettamente compiuta indipendentemente dalla sua successiva (ed in fon-do accidentale) ricomprensione in uno spazio politico più vasto. Ogni co-munità veniva quindi a costituire una sorta di minuscolo Stato nello Stato, politicamente subordinato, sì, alla “città dominante” (e al principe che se ne era poi a sua volta impossessato), ma portatrice di una identità corpora-tiva che non derivava la propria giuridica esistenza da un atto di posizione statale, bensì dalla capacità di auto-organizzazione in astratto spettante a qualunque «populus» o a qualunque «universitas», come dicevano i vecchi giuristi – cioè a qualunque nucleo umano a base territoriale formato da almeno tre persone.

A sua volta, ciò che teneva insieme lo Stato sul piano legale, ciò che lo «costituiva» come ente politico, non era un qualche titolo unitario di sovranità, ma una lunga serie di «patti di capitolazione» o di capitoli di sot-tomissione – cioè l’insieme di tutte quelle convenzioni politiche con cui, in un certo momento del tempo (per lo più fra Tre e Quattrocento) ciascuna delle comunità soggette aveva rinunciato definitivamente alla sua indipen-denza e dichiarato di accettare la sovranità di Firenze o di Siena per vedersi però riconosciuta subito dopo la titolarità di un certo complesso di privilegi fiscali e giuridici ed in ogni caso la possibilità di continuare a mantenere indefinitamente una sua soggettività ordinamentale autonoma. Conservati con estrema cura negli archivi delle due Repubbliche e poi del Principato che ne era divenuto l’erede, quei patti erano in definitiva il solo collante legale di uno Stato pluricittadino che, a differenza di quelli regnicoli, non disponeva neppure a livello astratto di una individualità propria,

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re rispetto alla semplice somma delle sue parti. Ne era prova il fatto che, quando i giuristi avevano necessità di descrivere in termini generali la strut-tura dell’ordinamento granducale, continuavano spesso a far riferimento alla immagine medioevale di una «federazione» di terre e città più che a quella di un ordinamento unitario: intendendo con questo termine, natu-ralmente, non una «federazione» nel senso moderno, ma in quello antico, romanistico, di una struttura politica legata da un complesso di «foedera», cioè di convenzioni politiche.

Ebbene, benché per tutto il corso dell’età medicea il potere centrale cer-casse poco alla volta di incrementare il suo controllo su questo multiforme tessuto territoriale, ancora alla metà del Settecento il Granducato conser-vava questo aspetto di un grande caleidoscopio di enti della più varia origi-ne, taglia e dimensione; enti la cui autonomia istituzionale era considerata come un vero e proprio carattere intangibile della organizzazione politica toscana. Questa intangibilità, a sua volta, discendeva dal fatto che ognuna di queste cellule politiche era concepita come una specie – oggi diremmo – di società privata, formata da un certo numero di famiglie unitesi tra loro per gestire certi interessi comuni nell’ambito di uno spazio al quale lo Stato ri-maneva estraneo. La comunità, insomma, costituiva una sorta di compro-prietà o di condominio, a cui partecipavano soltanto i discendenti di coloro che un tempo l’avevano costituita e in cui i diritti di cittadinanza si eredita-vano quindi allo stesso modo del nome o dei beni di famiglia. La compagi-ne sociale di questi microcosmi era dunque, per sua natura, estremamente chiusa. Essa non inglobava affatto, neppure virtualmente, la generalità di coloro che risiedevano e vivevano sul territorio, ma solo una frazione della popolazione complessiva; frazione talvolta molto ridotta – come accadeva tipicamente nelle città, trasformatesi da molto tempo in ristrettissime oli-garchie, ma anche in molte comunità rurali, anch’esse spesso estremamente restie ad ammettere all’interno del club dei veri «terrazzani» persone venute dall’esterno e interessate a condividere quelle risorse comuni che invece il gruppo originario considerava come un vero patrimonio di famiglia.

b. Quello che accade nel corso dell’età leopoldina (e siamo così al nostro secondo punto) è appunto il superamento di questa concezione, di schietta origine medievale. All’idea della comunità come patrimonio esclu-sivo dei suoi fondatori e dei loro figli e nipoti, se ne va a sostituire un’altra, basata su un nuovo criterio di appartenenza, ancora molto lontano da quel-lo della cittadinanza universale destinato ad affacciarsi con la Rivoluzione francese, ma che segna ugualmente un enorme frattura concettuale rispet-to alla tradizione precedente. Si tratta di un criterio avente un fondamenrispet-to puramente economico e fiscale: secondo il quale appartengono a pieno

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titolo alla comunità, e quindi hanno diritto di gestirla e di fruirne i servizi, tutti coloro che contribuiscono alle sue spese, e in particolare coloro che vi contribuiscono tramite l’imposta più onerosa, più importante e più tipica dei sistemi fiscali del secondo Settecento, cioè quella sulla terra. Il diritto di cittadinanza viene definito in rapporto alla capacità fiscale del soggetto, al suo essere uno stabile e ordinario sovvenzionatore della società comunale.

Questa nuova idea, che aveva iniziato a circolare già da alcuni anni nella più avanzata cultura europea, soprattutto grazie all’apporto del pensiero fisiocratico francese, trova nella Toscana leopoldina, dai primi anni Settan-ta in avanti, un eccezionale laboratorio di sperimenSettan-tazione istituzionale. Già a pochi anni dal suo arrivo in Toscana, infatti, Leopoldo si rende conto della necessità di realizzare una semplificazione radicale dell’arcaico siste-ma politico ereditato dai Medici; semplificazione che però egli non punta a conseguire attraverso la costruzione di una grande amministrazione, cen-tralizzata e verticistica, che sostituisca al vecchio «Stato di corpi» un unico apparato esecutivo, capace di ricondurre al centro ogni responsabilità di governo, secondo il modello che, per esempio, alcuni anni dopo proprio suo fratello Giuseppe avrebbe cercato d’introdurre nell’Impero austriaco e in particolare nel Ducato di Milano. Il progetto leopoldino si ispira anzi a un disegno che è proprio il contrario di questo. Il suo obbiettivo consiste nel rendere il più autosufficiente possibile la società e nello sgravare paral-lelamente lo Stato da tutta quella farragine di compiti amministrativi che esso si era assunto poco per volta durante i secoli del Principato mediceo, nello sforzo logorante, compiuto dalla precedente dinastia, di tenere sotto controllo un mondo corporato infinitamente complicato, contraddittorio e rissoso. Il disegno consiste allora nel sostituire la vecchia «comunità degli originarii» con una compagine pensata in un modo completamente diver-so – una «comunità dei possessori», formata da tutti coloro che, indipen-dentemente dalla loro origine o dalla anzianità del loro domicilio, sono proprietari di una porzione qualsiasi del territorio comunale e in rapporto ad essa pagano una certa tassa al Comune. Attribuendo la gestione della comunità a coloro stessi che ne sopportano gli oneri, ragionava Pietro Leo-poldo, da una parte si ottimizzerà l’efficienza delle amministrazioni locali, garantita ora dal pungolo dell’interesse individuale, e dall’altra si ridurrà al minimo l’intervento dello Stato, che con piena fiducia potrà ora «rilasciare» alle nuove comunità il disbrigo dei loro interessi, togliendo di mezzo tutto il barocco, odioso e intrusivo sistema di controlli ereditato dall’età medi-cea. Insomma: riforma ‘costituzionale’ del territorio; recupero, da parte delle comunità, di una sfera di libertà naturale perduta ormai da un paio di secoli e minimizzazione dei compiti statali sono, per i riformatori leopoldi-ni, almeno sul piano teorico, tre facce di una medesima medaglia – quella

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consistente nell’applicare per la prima volta a un territorio tanto complesso i principi della razionalità illuminista.

È appunto con questo corredo di principi che Leopoldo si accinge, gros-so modo a partire dal 1772, alla grande opera della riforma comunitativa, che negli anni seguenti verrà applicata gradualmente, pezzo a pezzo, prima al Fiorentino (1774), poi al Pisano (1776), quindi al Senese (1777) e infine al compartimento grossetano, o Provincia senese inferiore, cioè alla Marem-ma (1783). Il risultato è impressionante: perché Leopoldo non si limiterà a cambiare – come dire? – il DNA costituzionale delle comunità toscane, sostituendo, alla loro guida, un nuovo ceto di proprietari ai vecchi privile-giati, ma ridisegnerà completamente la stessa geografia amministrativa del Granducato: travalicando di molto, quindi, i limiti su cui si erano arrestati i riformatori che in altri Stati, come in Lombardia o in Piemonte, stavano pur cercando di applicare quegli stessi principi ai rispettivi territori.

Prima della riforma di Leopoldo, la Toscana granducale contava un numero di comunità che non è facile per noi oggi quantificare: e ciò anzi-tutto proprio perché molte di quelle che esteriormente ci possono sembra-re come delle unità amministrative coese, erano in sembra-realtà, al loro interno, altrettante micro-federazioni di comunità più piccole, spesso coincidenti con le parrocchie (cioè con l’aggregato sociale più piccolo che esistesse) e dotate quasi sempre di beni collettivi propri, di un estimo fiscale autono-mo e talvolta anche di statuti scritti. Diciaautono-mo comunque che, a seconda dei criteri che si vogliano adottare, si oscilla, tra Stato fiorentino e Stato senese, da un minimo di 780 unità circa (corrispondenti a quelli che allora si chiamavano «Comuni generali» o «Comunità» tout court) a un massimo di 2000-2500 micro-entità amministrative di base, peraltro incredibilmente disomogenee, in quanto ogni area del territorio era figlia, fin dal medioevo, di una sua storia e quindi portatrice di una ‘pezzatura’ spaziale sua propria. Ebbene, la riforma, al momento in cui si concluse, aveva rimpiazzato que-sto frastagliatissimo ordito con un compatto tessuto formato da sole 201 grandi comunità, tendenzialmente coincidenti con le Podesterie (cioè con le circoscrizioni giudiziarie di primo livello, che erano già state ridisegnate nei loro limiti e nelle loro funzioni da una precedente riforma, quella co-siddetta dei governi provinciali, del 1772). Come l’establishment leopoldino sia riuscito a realizzare in così poco tempo questa operazione veramente stupefacente (basti pensare alla difficoltà insuperabile che in seguito lo Sta-to italiano ha incontraSta-to e che incontra anche oggi a ridurre la frammen-tazione comunale) non è a tutt’oggi ancora chiaro sul piano storiografico; anche perché la documentazione archivistica ad oggi conosciuta di questa importantissima riforma è, purtroppo, pressoché inesistente. Certo è che, se la Toscana conta oggi 279 comuni, e – per proseguire il confronto con

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altre aree interessate, a questa altezza, da importanti riforme territoriali – il Piemonte 1202 e la Lombardia 1527, questo lo dobbiamo a Pietro Leopol-do. Il quale seppe gestire con molto pragmatismo un disegno di riforma certamente non facile da far accettare ai suoi sudditi, e in primo luogo a quei potentissimi patriziati cittadini che da secoli gestivano, attraverso po-che centinaia di famiglie, i centri urbani più ricchi e popolosi dello Stato. A livello urbano, in effetti, la riforma riuscì ad essere attuata per mezzo di una serie di compromessi con le classi dirigenti locali: cioè riservando una parte dei posti delle maggiori amministrazioni cittadine a quei patrizi che le avevano rette fin dal medioevo, a condizione naturalmente che anch’essi fossero titolari di una quota sufficiente di proprietà.

Alla metà degli anni 80, quindi, lo Stato aveva radicalmente mutato la propria forma politica, lasciandosi alle spalle la sua vecchia costituzione consociativa e trasformandosi invece in una struttura territorialmente uni-forme e fortemente «pianificata», costituita da grandi comunità ammini-strate dai rispettivi proprietari e dotate tutte più o meno di una medesima organizzazione – un Consiglio generale in cui sedevano tutti i proprietari capofamiglia, indipendentemente dal loro reddito, e un «Magistrato» col-legiale (corrispondente a ciò che è oggi la Giunta del Comune) al quale potevano accedere invece solo i contribuenti più ricchi, in base al principio per cui chi fosse più esposto a ripianare il disavanzo di ogni ente sarebbe stato anche maggiormente stimolato ad assicurarne la buona e corretta amministrazione. In astratto, si trattava di un sistema che, nei voti di Pietro Leopoldo, di Gianni, di Tavanti, di Mormorai e degli altri consiglieri che lo avevano supportato in questa grande operazione, avrebbe dovuto permet-tere alla società toscana di auto-governarsi quasi completamente da sola, lasciando allo Stato solo pochissime competenze residuali (come quelle per le strade consolari o i grandi lavori pubblici) nonché una funzione di con-trollo generale consistente in una pura e semplice verifica di legalità degli atti delle amministrazioni comunali.

Non solo: ma, mentre questo disegno andava grado a grado attuandosi nelle varie parti dello Stato, Leopoldo iniziò a maturare la convinzione che la riforma comunitativa non fosse che una specie di primo gradino di un edi-ficio costituzionale molto più vasto ed ambizioso: ediedi-ficio di cui lui stesso, a partire dalla fine degli anni 70, in quasi completa solitudine e nel più asso-luto riserbo, iniziò a progettare le linee. Si trattava, in sostanza, di innestare su questo nuovo basamento di comunità autonome, ormai affrancate quasi completamente da ogni legame con la vecchia società di ceti, qualcosa di molto simile ad una costituzione rappresentativa – una costituzione simile per un verso a quelle che, dal 1776, stavano nascendo nelle colonie inglesi d’oltre Oceano e per un altro vicina a quei progetti di riforma dello Stato

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che stavano circolando in quegli stessi anni anche in Francia, per opera soprattutto di personaggi come Turgot, Le Trosne o Dupont de Nemours. L’idea che il principe cominciò a accarezzare a partire dal 1779 fu in effetti quella di completare il nuovo assetto territoriale dello Stato chiamando i consigli comunali ad eleggere una serie di assemblee provinciali incaricate di curare gli interessi della propria circoscrizione e incaricando a loro volta queste ultime di eleggere una assemblea generale «rappresentante lo Stato intero di Toscana». Tale assemblea avrebbe dovuto affiancare il principe nella sua attività di governo, manifestandogli unitariamente i bisogni della “nazione” (è proprio con Pietro Leopoldo che il termine inizia a affacciarsi nel linguaggio politico toscano) ed esercitando varie forme di controllo sui suoi atti più rilevanti, come la redazione del bilancio dello Stato e la pre-parazione delle leggi. Su questo progetto costituzionale, corrispondente all’episodio forse più noto di tutta la vicenda delle riforme leopoldine ed i cui atti preparatori sono oggi consultabili per intero sul sito del Centro in-terunivesitario per la storia delle città toscane richiamato nella bibliografia, si è scritto moltissimo; per essere presentato e commentato quindi in modo non assolutamente banale, esso richiederebbe un tempo ed una attenzione che travalicano di molto i limiti della presente occasione. Mi limito solo a rilevare che, per quanto questo episodio presenti per un verso un profilo certamente senza esempio in tutta l’Europa settecentesca – quello di un sovrano di diritto divino che sceglie del tutto spontaneamente di autolimi-tare il proprio potere per ciò che egli stesso considerava un vero e proprio contratto politico col suo popolo – per un altro esso costituì lo sbocco del processo avviato con la riforma comunitativa. Lo Stato che Leopoldo si trova di fronte negli anni ’80 è un soggetto che ha ormai perso la sua antica costituzione plurisoggettiva, di origine medievale, e che se ha cominciato, sì, a trasformarsi in una collettività politicamente omogenea, non sa anco-ra bene dove ancoanco-rare questa sua nuova e così inedita identità ‘nazionale’. Il progetto costituzionale leopoldino è appunto il mezzo immaginato dal Granduca per superare il senso di fragilità e di precarietà che egli avvertiva contemplando il suo piccolo capolavoro politico. Per consolidare quell’e-dificio, attribuendogli una stabilità che lo ponesse in grado di affrontare le difficili sfide che già cominciavano a profilarsi all’orizzonte, occorreva un “sigillo”, un fondamento, una garanzia generale, che ne facesse una acqui-sizione definitiva proprio grazie all’appoggio di quel ‘popolo’ toscano che fin lì era del tutto mancato e a cui lui stesso era convinto di aver cominciato a dar vita.

Naturalmente, si trattava di una scommessa incerta; come fecero pre-sente a Leopoldo gli stessi, pochissimi consiglieri di corte messi a parte del suo disegno, i quali si affrettarono a segnalargli come questo popolo

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chiamato ad essere coinvolto nell’attività di governo e addirittura a garanti-re, con il proprio intervento, la stabilizzazione dell’edificio statale, fosse in realtà ancora del tutto insensibile al richiamo di questa ipotetica coscienza comune e capace tutt’al più di manifestare esigenze e interessi di carattere locale, quando non proprio particolaristico. E tuttavia, fino al momento in cui lascerà la Toscana, nel 1790, Leopoldo continua a accarezzare questa idea di “costituzionalizzare” il Paese, anzi di trasformarlo proprio da «Paese» in «Nazione», attribuendogli la possibilità di esprimersi attraverso una propria voce unitaria: elemento, quest’ultimo, di discontinuità veramente radicale rispetto a tutta la storia precedente della regione, la quale non solo, com’è ovvio, non aveva mai conosciuto una costituzione di tipo moderno, ma neppure quelle forme generali di rappresentanza territoriale che fin dal medioevo avevano caratterizzato parecchie altre esperienze statali eu-ropee, come gli Stati generali francesi, le Cortes castigliane o aragonesi, le Diete dei principati tedeschi e così via. Pur avendo maturato, in effetti, fin dall’età comunale, una cultura dell’autogoverno eccezionalmente evoluta, la Toscana non era mai riuscita a proiettarne lo spettro al di là delle mura urbane: sì che, se per un verso quella cultura le era servita ad elaborare una pratica della convivenza per certi versi molto avanzata, per altri essa stessa aveva costituito un ostacolo insuperabile a mettere in forma un senso di identità condivisa di livello sovralocale.

Nonostante, però, l’impegno sicuramente sincero del principe di veder realizzato il proprio sogno segreto, esso non uscì mai dai cassetti della sua scrivania. A impedirne l’attuazione furono, secondo la lettura tradizionale, prima l’incertezza circa il destino dinastico della Toscana (che per parecchi anni parve destinata ad essere riunita all’Impero asburgico), poi lo scop-pio della Rivoluzione francese e infine la chiamata di Leopoldo stesso al trono di Vienna, nel 1790  –  cioè un susseguirsi di vicende politiche che poco avrebbero avuto a che fare col contenuto del progetto e con le sue condizioni obbiettive di realizzabilità. In parte questa lettura è sicuramente fondata. In parte però essa sconta una certa deformazione prospettica, ori-ginata dal modo con cui si è per lo più guardato un po’ a tutto il processo delle riforme leopoldine. Oggetto privilegiato di studio – com’è peraltro ovvio – degli storici settecentisti, esse sono state di regola affrontate come l’ultimo e il più avanzato capitolo del «Settecento riformatore»: ponendo il massimo dell’attenzione a coglierne la dinamica interna ed a misurarne gli effetti rispetto al ‘prima’, ma poco curandosi di testarne la resa effettiva in relazione alle tappe istituzionali successive. La loro stessa grande risonanza a livello europeo ha portato a considerarle unicamente nella prospettiva di un grande laboratorio della cultura dei lumi ed a valutarne la resa più in rapporto alla loro progettualità che ai loro risultati effettivi. Ma la storia

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della Toscana non si interrompe col 1790; e l’edificio eretto da Leopoldo costituì la base di un ordinamento destinato a sopravvivergli, sotto molti profili, fino al 1859. È quindi possibile, ed anzi doveroso, porsi il proble-ma di come abbia funzionato il grande castello istituzionale costruito dal secondo Granduca di Lorena e cercare magari in quella storia successiva una possibile, diversa risposta (che sul piano documentale non esiste, o che comunque ancora nessuno ha trovato) alla ibernazione di un progetto co-stituzionale a cui pure, evidentemente, il principe teneva moltissimo.

c. Eccoci quindi al nostro terzo interrogativo, riguardante appunto gli esiti delle riforme territoriali che abbiamo appena finito di evocare. E qui va detto subito con chiarezza che, nonostante l’apertura mentale certa-mente straordinaria che aveva caratterizzato lo sforzo leopoldino, l’eredità del nostro Granduca si rivelò anche su questo, come su altri piani, assai difficile da gestire per chi ne raccolse il testimone. In effetti, già ben pri-ma che Leopoldo si congedasse dalla Toscana era cominciato ad emergere come il principio fondamentale su cui si era retta tutta la sua riprogramma-zione del territorio – quello, in sostanza, che collegava proprietà, capacità fiscale e rappresentanza – fosse ben lontano dal garantire in automatico quell’autogoverno che avrebbe dovuto permettere una piena soddisfazione delle esigenze collettive ed insieme una radicale minimizzazione dei com-piti statali. Fin dalla metà degli anni Ottanta, in particolare, si era registrata una fortissima tendenza, da parte dell’amministrazione centrale, a ripren-dere il controllo di quelle comunità che in teoria avrebbero dovuto invece costituire altrettante unità autonome capaci di saturare ogni possibile bi-sogno del territorio. Nell’immediato, il fenomeno fu letto nella chiave di una “deviazione” dallo spirito della riforma ascrivibile alle vecchia abitudini centralistiche dei maggiori uffici del Granducato, i cui dirigenti non avreb-bero ancora assimilato a dovere il nuovo spirito della riforma. Il perpetuarsi di queste tendenze negli anni successivi, però, condusse ad individuarne più correttamente le ragioni in una autoamministrazione locale assolutamente inefficiente e tale, quindi, da richiedere una continua opera di supplenza da parte degli organi statali. Già a metà degli anni Novanta, in particolare, si cominciò a capire che il sinallagma tributario non era assolutamente in grado di garantire, di per sé, quella oculatezza e quella efficienza ammi-nistrativa che ci si era attesi da lui vent’anni prima. Tanto il modello della rappresentanza proprietaria, quindi, quanto il principio dell’autonomia co-munitativa furono fatti oggetto di un serio ripensamento: il quale, se non riuscì a produrre nell’immediato alcun risultato significativo a causa degli eventi politici che fino al ’14 squassarono la vita istituzionale del Granduca-to, fu però alla base della nuova politica inaugurata sotto questo profilo dal

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governo di Ferdinando III al momento del suo ritorno in Toscana, dopo la caduta di Napoleone. Quel governo, com’è noto, pur ribadendo in pieno, in dichiarata polemica con l’accentramento napoleonico, la propria fedeltà for-male ai principi dell’autonomismo comunale leopoldino, si trovò a prendere atto che il sistema avrebbe potuto sostenersi solo a patto di appoggiarsi ad un robusto apparecchio ortopedico, che trasferisse al centro una gran par-te di quelle responsabilità che Leopoldo aveva voluto dislocare in periferia. Di qui, una politica lorenese sempre più accentratrice – anche se sempre attenta a conservare una continuità di principio col modello settecentesco, costituente la risorsa legittimante più preziosa a disposizione della dinastia.

Poco alla volta, quindi, prende forma in Toscana un vero e proprio Sta-to amministrativo, in parte inf luenzaSta-to dal pur deprecatissimo modello napoleonico, in parte dall’esempio della coeva monarchia asburgica met-ternichiana. Dal varo del grande catasto generale, completato nel 1832, alla trasformazione del gonfaloniere (il sindaco delle comunità, originalmente un semplice primus inter pares all’interno del Magistrato) in un ufficiale di nomina centrale, dalla radicale contrazione, su base rigidamente censitaria, della classe dirigente locale alla messa in opera di tutto un sistema di uffici di sorveglianza sull’amministrazione locale i cui compiti riproducono in gran parte quelli delle prefetture francesi, fino alla capillare riorganizzazio-ne, a livello territoriale, di un sistema centralizzato di polizia quasi del tutto assente nell’originario modello leopoldino, il Granducato tardo-lorenese imbocca una pista completamente diversa da quella battuta dal Settecento delle riforme. Tale pista, la cui direttrice di sviluppo si fa sempre più espli-citamente divergente man mano che ci si approssima al ’48, è stigmatizzata con toni via via più espliciti dalla cultura proto-liberale toscana (quella dei Capponi, dei Tommaseo e dei Vieusseux, ma anche dei Guerrazzi e dei Montanelli), che vi legge un palese tradimento dell’eredità leopoldina; e una simile lettura è stata condivisa da gran parte della storiografia succes-siva, pronta a considerare la svolta impressa dalla Restaurazione all’ordina-mento toscano come l’esito tutto ideologico di una cultura ormai irrime-diabilmente autoritaria.

In realtà, una interpretazione del genere trascura il fatto che fin dall’o-rigine il modello istituzionale di Leopoldo scontava una serie di limiti estre-mamente marcati. Giocato tutto sul rifiuto di una gestione burocratica del potere, esso si identificava con il profilo di uno Stato razionale, certo, ma anche estremamente ‘leggero’ che, una volta rimosse le incongruenze e le distorsioni proprie dell’antico regime, avrebbe dovuto assicurare una radi-cale riduzione della funzione di governo. La società stessa, in effetti, imma-ginata come una grande platea di proprietari contribuenti perfettamente razionali, si sarebbe fatta carico della cura di tutti quanti gli interessi sociali

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tramite i propri terminali naturali – le comunità locali, appunto –, con mi-nimi costi e minime intermediazioni da parte delle autorità centrali; e ciò è così vero che Leopoldo si lasciò convincere, negli anni Ottanta, a cancellare completamente l’imposta statale sulle terre a fronte della estinzione del de-bito pubblico, prefigurando così il quadro di uno Stato che avrebbe dovuto sussistere indefinitamente grazie ad un prelievo ordinario estremamente ridotto. Per forza di cose, quindi, lo Stato ottocentesco dovette provvedere a rettificare la rotta, inserendo gradualmente una serie di correttivi che, pur non negando in modo dichiarato la struttura costituzionale del sistema, ne risagomarono sostanzialmente il significato. E ciò non semplicemente in ossequio ad una ideologia illiberale, ma, ben prima, in nome di una mini-male esigenza di sostenibilità e di funzionalità amministrativa.

Il risultato di medio periodo di questa politica, d’altra parte, si ritorse in modo pesante sull’establishment della seconda età lorenese. Palesemente contraddittorio rispetto a un modello leopoldino in cui pure si voleva con-tinuare a riconoscere il quadro fondamentale dell’ordine politico, lo Stato amministrativo della Restaurazione divenne poco per volta il simbolo e il punto di coagulo di tutte le insoddisfazioni di una classe proprietaria che sempre più si andava volgendo verso il liberalismo. Ritornare a Leopol-do – a quel Leopoldo tradito dai suoi successori, di cui questi ultimi avevano usurpato il nome per erigervi sopra il loro Stato poliziesco – divenne, negli anni Quaranta, la parola d’ordine della classe di cui parliamo; e il recupero della costituzione leopoldina, pubblicamente conosciuta attraverso una ce-lebre memoria di Gianni, che venne data alle stampe per la prima volta nel 1829, iniziò a costituire la leva preziosa grazie alla quale risultò possibile sottoporre a critica il regime nel nome dei suoi stessi valori e principi. L’av-vento effettivo, dunque, dello ‘Stato moderno’, inteso come Stato centraliz-zato e funzionariale – questo avvento che la storia toscana aveva eluso per tanto tempo, prima procrastinando sine die la vigenza di una costituzione medievale, poi abbracciandone una basata sulla presunta autosufficienza degli interessi proprietari – questo avvento, dico, finì per coincidere con la crisi del regime, che si tradusse poi nella crisi stessa del Granducato come soggetto geopolitico autonomo. E l’aspetto da cogliere in questa sede è co-stituito proprio dal fatto che questa crisi si giocò tutta attorno al modo d’in-tendere e d’interpretare il mito istituzionale di Pietro Leopoldo – quello, in definitiva, di un ordine individualistico capace di reggersi da solo, grazie alla semplice razionalità dei suoi soggetti. Un mito, certo: ma un mito che ancor oggi ci affascina e che si ripropone continuamente alla nostra atten-zione come una sfida costante per il nostro presente.

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Bibliografia essenziale

A. Chiavistelli, Dallo Stato alla Nazione. Costituzione e sfera pubblica in Toscana dal 1814 al

1849, Roma, Carocci, 2006.

Il progetto di costituzione di Pietro Leopoldo per la Toscana, in testo unico.dochttp://www. circit.it/index.

G. La Rosa, Il sigillo delle riforme. La «Costituzione» di Pietro Leopoldo di Toscana, Milano, Vita e pensiero, 1997.

L. Mannori, Lo Stato del Granduca, 1530-1859. Le istituzioni della Toscana moderna in un

percorso di testi commentati, Pisa, Pacini, 2015.

B. Sordi, L’amministrazione illuminata. Riforma delle comunità e progetti di costituzione nella

Toscana leopoldina, Milano, Giuffrè, 1991.

M. Verga, Dal «Paese» alla «Nazione»: l’identità toscana nel XVIII secolo, in Nazioni d’Italia, a cura di A. De Benedictis, I. Fosi, L. Mannori, Roma, Viella, 2012, pp. 91-110.

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Anno LXII - n. 1 Gennaio-Giugno 2016

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S O M M A R I O

Pietro Leopoldo e la Toscana laboratorio dei lumi a duecentocinquant’anni dall’inizio del suo Governo (1765) – Atti del Convegno, Firenze Educandato della SS. Annunziata Villa di Poggio Imperiale, 30 novembre 2015

Necrologio, Luigi Lotti . . . pag. 5 Valerio Vagnoli, Introduzione . . . » 7 Giovanni Cipriani, La figura e l’opera di Pietro Leopoldo . . . » 13 Luca Mannori, La riforma comunitativa e il progetto costituzionale . . » 17 Vittoria Del Carlo, Il riformismo leopoldino tra economia, finanza e

Stato . . . » 29 Fabio Bertini, Il «principe filosofo» e il Risorgimento . . . » 51

Biblioteche

Giovanni Pestelli, Giuseppe Molini, Cesare Guasti e la questione delle

biblioteche fiorentine . . . » 73

Donne del Risorgimento

Aurora Savelli, Il primato della patria: Baldovina Vestri (1840-1931),

l’ultima garibaldina . . . » 93

Massoneria

Gianpiero Caglianone, La massoneria in Maremma: logge di rito

scozzese (1865-1900) . . . » 125

Recensioni

Helen Zimmern, Corriere di Londra 1884-1910, a cura di Caterina Del Vivo, di Maria Gra-zia Parri (p. 159); Carlo Bini, Tutti gli scritti, a cura di Roberto Antonini, PatriGra-zia Casci-nelli, Roberto Goracci, di Fabio Bertini (p. 161); Michel Ostenc, Le gendre de Mussolini, di Fabio Bertini (p. 163); Alessia Cecconi, Resistere per l’arte. Guerra e patrimonio artistico in

Toscana. Dieci storie di uomini e opere salvate, di Andrea Giaconi (p. 165); L’ammiraglio

Na-poleone, a cura di Maria Lia Papi, di Anna Rocchi (p. 167); Giovanni Cipriani, La via della

salute. Studi e ricerche di storia della Farmacia, di Duccio Vanni (p. 169).

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