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IPOOL: un caso di Open Innovation Business

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Academic year: 2021

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311ModFTPW00

Master Universitario di II livello Management of Innovation – MAINS

Anno Accademico

2018/2019

IPOOL: un caso di Open Innovation

Business

Autore

Tommaso Salvadori

Tutor Scientifico

Prof. Andrea Piccaluga

Tutor Aziendale –

IPOOL SRL

(2)

Indice:

Introduzione

1. CAP: Introduzione alla “Service Science” 2. CAP: Il paradigma dell’Open Innovation 2.1 Definizione

2.2 Il processo d’innovazione 2.3 Il contesto dell’Open Innovation 2.4 Open vs Closed Innovation

2.5 Gli stakeholders dell’innovazione aperta 3. CAP: IPOOL e l’Open Innovation 3.1 Il Business Model Canvas

3.2 Value proposition

3.3 Analisi e targettizzazione clienti 4. Conclusioni

(3)

Introduzione

Il seguente elaborato nasce all’interno della cornice del master MAINS, un master di II livello fornito dalla Scuola Superiore Sant’Anna a cui ho partecipato. Dopo aver svolto il periodo di studio teorico ho iniziato quello di stage presso IPOOL SRL.

Il project work (PW) nasce quindi dalle attività che ho svolto in fase di stage presso questa azienda e si pone l’obiettivo di riuscire a delineare sia teoricamente che pragmaticamente il business model di IPOOL e conseguentemente fornire delle indicazioni e degli spunti di riflessione sulle eventuali scelte manageriali future che coinvolgono il management dell’azienda.

Nello specifico questo PW si suddivide in tre capitoli, il primo servirà ad introdurre la service science come cornice di riferimento per lo studio di IPOOL.

Nel secondo tratterò il tema dell’Open Innovation visto che IPOOL opera sul mercato come un laboratorio di R&D in ambito chimico esterno ed indipendente dalle aziende con le quali opera, risulta quindi essere un caso interessante di come poter far nascere nuovi business paralleli ad attività di Open Innovation portate avanti da aziende più strutturate. In questo secondo capitolo la trattazione sarà teorica, l’obiettivo è quello di delineare cosa sia nello specifico l’Open Innovatio, le sue peculiarità e come mai risulta di interesse per l’analisi portata avanti in questo PW.

Infine, nel terzo capitolo tratterò di IPOOL, entrerò nel merito del business che viene portato avanti, metterò su carta quello che è il loro business model e farò un’analisi sui clienti cercando di delineare così l’identikit del tipo di cliente più remunerativo o che quantomeno acquista di più.

La conclusione servirà per delineare punti di forza e di criticità di IPOOL e per offrire degli spunti sulle possibili scelte future da parte del management dell’azienda.

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CAP 1: La Service Science

In questo primo capitolo si farà una breve introduzione al concetto della Service Science, a cosa ci si riferisce quando ne parliamo, quando è nato e perché.

È utile in questa sede trattare ed introdurre la Service Science perché è sotto il suo “ombrello” che nasce e si sviluppa il paradigma dell’Open Innovation, che è in questo elaborato l’ancoraggio teorico a cui si fa riferimento.

La Service Science, Management, Engineering, and Design (SSMED) abbreviata appunto in Scienza dei Servizi è nata per rispondere all’esigenza di studiare da più punti di vista l’emergere dell’economia dei servizi, l’emergere cioè di nuovi business e/o business model basati sull’erogazione di servizi, siano essi accessori a beni già prodotti o siano il core business dell’azienda. Uno dei primi a definire servizio è stato Von Mises in un suo contributo del 1998 dove lo definisce come il valore crescente che scaturisce da forme di cooperazione sempre più complesse o da quelli che vengono definiti meccanismi di co-creazione1.

I servizi, il terziario in generale, ha rappresentato il settore di riferimento che dalla fine degli anni ’90 ha continuato ad aumentare sia per quanto riguarda il valore aggiunto complessivo sia per il numero di lavoratori impiegati sul totale dei lavoratori.

A confermarlo è uno studio condotto da Confcommercio nel 20182:

Fonte: “Il terziario di mercato”, Ufficio studi Confcommercio

1 L. von Mises, “Human Action: A Treatise on Economics (Scholars Edition)”, Ludwingn von Mises Institute, Auburn,

(1998)

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Come si può vedere dal grafico il terziario complessivamente è andato ad aumentare il suo peso nel tempo, arrivando oggi ad occupare circa il 70% sia dei lavoratori sia del valore aggiunto prodotto dalle aziende.

Oltre a questo, il settore dei servizi rimane tutt’ora il settore maggiormente in crescita, come rilevato dall’Istat nel suo “Annuario Statistico Italiano 2018”, al capitolo otto si può infatti leggere che “nel settore dei servizi, che assorbe oltre il 70 per cento dell’occupazione complessiva (l’84,8 per cento di quella femminile), prosegue a ritmi sostenuti la crescita del numero di occupati (236 mila in più, 1,5 per cento)”3.

Questi dati riguardano unicamente l’Italia ma il trend che viene descritto sopra può essere esteso a tutti i paesi che operano in un contesto economico moderno ed avanzato.

Questo trend ha generato quindi un’ondata di studi da un punto di vista macroeconomico, sociale ma anche dei singoli business sulle opportunità e sulle sfide entrambe nuove che le aziende che operano in tale contesto si sono trovate ad affrontare.

Tra questi ci sono stati degli studi che hanno sottolineato come questo trend abbia portato al cambiamento della logica di misurazione del valore passando da una product-dominant logic ad una service-dominant logic. Vargo e Lush nei loro contributi definiscono poi il servizio come un’applicazione di competenza a beneficio di un'altra entità, la competenza può essere declinata come conoscenza e/o risorse cognitive o immateriali4.

In conclusione, dopo aver introdotto questa nuova disciplina e il concetto di servizio occorre esplicitare il motivo principale della sua formazione, per fare ciò prendo in prestito direttamente le parole di Spohrer e Kwan: “la crescità dei servizi ci fornisce una nuova lente attraverso cui osservare il mondo. La crescita del servizio, vista come l’evoluzione di meccanismi di co-creazione del valore tra entità di sistemi di servizi, diventa un modo per osservare la storia dell’umanità e comprendere il cambiamento futuro”5.

È per questo motivo che all’interno della SSMED ci sono concetti e teoremi afferenti a diverse discipline anche molto lontane tra loro come ad esempio l’antropologia, la psicologia, la finanza, il management e l’ingegneria organizzativa/gestionale. Tutti i concetti che vengono presi in considerazione vanno a formare un corpo coeso nel quale gli studiosi delle varie discipline attingono per approfondire e studiare i servizi ed i contesti in cui i servizi si sviluppano.

3 ISTAT, “Annuario Statistico Italiano 2018”, Istituto nazionale di statistica, Roma, (2018), p. 265

4 - S.L. Vargo, R.F. Lusch, “Evolving to a New Dominant Logic for Marketing”, Journal of Marketing, vol. 68, (2004), pp.

1-17

- S.L. Vargo, R.F. Lusch, “Service-Dominant Logic: What It Is, What It Is Not, What It Might Be”, in S.L. Vargo, R.F. Lusch,

The Service-Dominant Logic of Marketing: Dialog, Debate and Directions, M E Sharpe, Armonk, (2006)

5 J.C. Spohrer, S.K. Kwan, “Service Science, Management, Engineering, and Design (SSMED): una disciplina emergente.

Profilo e riferimenti”, in in Nuovi modelli di business e creazione di valore: la Scienza dei Servizi, a cura di L. Cinquini, A. Di Minin, R. Varaldo, (2011), Springer, Milano, p. 9

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In questo primo capitolo si è tentato di introdurre brevemente la più ampia cornice della Service Science, Management, Engineering, and Design (SSMED), al cui interno sono ricompresi gli studi sull’Open Innovation.

Sarà infatti quest’ultimo l’oggetto di studio e di analisi del seguente capitolo, infine il terzo ed ultimo capitolo verterà su IPOOL società presa in esame in questo elaborato, sul suo Business Model, sul perché è una realtà imprenditoriale interessante per chi studia l’Open Innovation mettendone in evidenza punti di forza e criticità.

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CAP 2: Il paradigma dell’Open Innovation

a) Definizione

b) Il processo di innovazione c) Il contesto dell’open innovation d) Open vs Closed innovation

e) Gli stakeholders dell’innovazione aperta

L’open innovation è ancora oggi un tema ‘caldo’ in ambito accademico, a sottolinearlo è Huizingh che scrive al riguardo “A search in Google Scholar on open innovation provides over 2 million hits, Henry Chesbrough’s 2003 book has gathered more than 1,800 citations in just seven years (Google Scholar, July 2010), and surprisingly a wide range of disciplines, including economics, psychology, sociology, and even cultural anthropology (von Krogh and Spaeth, 2007) have shown interest in it”6.

Per questo e per i motivi che si evidenzieranno in seguito è utile introdurre il tema dell’Open Innovation e fare chiarezza sul suo contenuto e la sua evoluzione.

2.1 Definizione

Il paradigma dell’Open Innovation viene ideato da Henry Chesbrough nel 2003 a fronte della progressiva perdita di capacità di innovare delle imprese con i metodi/modelli tradizionali. Nella visione dello studioso statunitense non bastava più alle imprese dotarsi e finanziare, anche in modo cospicuo, laboratori ed uffici di R&D interni.

L’aumento della diffusione delle competenze, insieme ad una maggiore comprensione delle dinamiche di innovazione portano a delineare una sorta di deadline di un modello che possiamo definire “chiuso” o “closed” di innovazione.

Secondo Il paradigma dell’Open Innovation7 di Chesbrough le aziende, nel migliorare la propria

tecnologia ed i propri processi, potrebbero e dovrebbero utilizzare idee nate all’esterno tanto quanto quelle interne, tramite modalità̀ d’accesso al mercato sia interne che esterne. L’Open Innovation crea, combinando idee interne ed esterne, architetture e sistemi con caratteristiche definite dal modello di business.

6 E.K.R.E. Huinzingh, “Open innovation: State of the art and future perspective”, Technovation, Vol. 31, (2011), p. 2 7 H.W. Chesbrough, “Open Innovation: The New Imperative for Crating and Profiting from Technology”, Harvard

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Sempre secondo Chesbrough (2006) L’Open Innovation si sostanzia in quei flussi di conoscenza in entrata e in uscita, che hanno lo scopo di accelerare il processo d’innovazione interna e accrescere i mercati per l’utilizzo dell’innovazione all’esterno.

Questo paradigma prevede che le aziende sfruttino e si facciano influenzare da idee e tecnologie sviluppate all’esterno di quest’ultime ed al contempo condividano con stakeholders esterni quelle idee e tecnologie prodotte internamente ma che non vengono sfruttate.

Per far ciò le aziende dovrebbero iniziare ad adottare modelli di business aperti, nuovi, che consentano loro di creare valore per sé e per il network/ecosistema in cui operano.

Dopo la sua ideazione numerosi altri studiosi hanno fornito delle definizioni dell’Open Innovation, risulta in questa sede utile elencarne alcune per descrivere questo modello nelle sue varie sfaccettature.

West, Vanhaverbeke insieme a Chesbroug definiscono l’Open Innovation come un modello cognitivo che serve a creare, ricercare ed attuare ‘set’ di tool (strumenti) che servono ad incrementare il profitto dall’innovazione8.

In un loro studio del 2006 “Challenges od Open Innovation9” West e Gallagher evidenziano come

questo paradigma presupponga l’esplorazione di numerose fonti d’innovazione sia interne che esterne al fine di integrare questa attività con risorse e competenze dell’impresa. L’obiettivo dell’impresa è quello di riuscire a sfruttare quelle opportunità che si vengono a creare mixando le varie fonti d’innovazione con le competenze maturate al suo interno.

Nel suo contributo Henkel10 invece sottolinea come l’Open Innovation non si riferisca unicamente

alla compravendita di expertise e nuove tecnologie tra imprese, ma anche al fatto che le nuove tecnologie acquisite o formate in azienda possano essere rese disponibili ai clienti/consumatori o più in generale a tutti indistintamente al fine di ottenere collaborazione. A tal riguardo si segnala uno studio condotto da Sandulli, il case study da lui analizzato concerne un’impresa che “è riuscita a ridurre la viscosità delle informazioni aumentando il livello d’interazione con l’end-user, fornendogli inoltre alcuni strumenti per sviluppare proprie applicazioni”11.

In sintesi, quindi è possibile descrivere l’Open Innovation come un processo che ancor prima di essere applicativo è manageriale, con questo processo infatti si vuol intendere che la gestione dell’innovazione all’interno delle aziende non viene più pensata e veicolata da laboratori di R&D ma 8 J. West, W. Wim, H. Chesbrough, “Open Innovation, Researching a New Paradigm”, Oxford University Press, (2006) 9 J. West, S. Gallagher, “Challenges of Open Innovation: the Paradox of Firms’Investment in Open Source Software”,

R&D Management, (2006), Vol. 36, n. 3, pp. 319-31

10 J. Henkel, “Selective revealing on Open Innovation Process: The Case of Embededd Linux”, Research Policy, (2006),

Vol. 35, pp. 953-969

11 F.D. Sandulli, “Innovazione User-Led. Il coinvolgimento degli utilizzatori finali nella co-creazione di valore nel settore

dei servizi”, in Nuovi modelli di business e creazione di valore: la Scienza dei Servizi, a cura di L. Cinquini, A. Di Minin, R. Varaldo, (2011), Springer, Milano, pp. 117- 130

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che anzi è il network e la contaminazione/relazione con stakeholder esterni a portare a quelle innovazioni disruptive o più generalmente profittevoli a cui mirano le corporation.

Entrando poi nello specifico è possibile distinguere due modalità di attuare pratiche e/o processi di open innovation cioè l’inbound e l’outbound open innovation.

Per fare chiarezza vengono esposte di seguito le parole di Huizingh che scrive “Inbound open innovation refers to internal use of external knowledge, while outbound open innovation refers to external exploitation of internal knowledge”12.

Quindi l’inbound fa riferimento a tutte quelle pratiche che consentono di usufruire e sfruttare conoscenza prodotta esternamente all’interno dell’azienda, ad esempio tramite l’acquisto di un brevetto o la commissione di uno studio specifico all’università.

L’uotbound invece fa riferimento alle pratiche di exploitation, cioè di sfruttamento e valorizzazione, di conoscenza e tecnologia prodotta internamente, ad esempio nel caso di IPOOL, una volta scoperta una proprietà provare a vedere se questo tipo di informazione può essere attrattiva anche per business diversi da quelli in cui opera normalmente.

Queste due dinamiche fanno comunque riferimento ai processi di conoscenza: dell’esplorazione, dello sfruttamento e della conservazione, i quali possono essere eseguiti sia all’interno che all’esterno dell’azienda, per approfondimenti si rimanda ad uno studio di Lichtenthaler, U. e di Lichtenthaler, E. del 2009.

Come sottolineato nello studio di Huizingh, gli studi empirici hanno comunque dimostrato che le aziende attuino in misura maggiore attività di inbound open innovvation13.

Da ciò quindi si può dedurre che le aziende tendenzialmente falliscano nel catturare benefici potenziali, anche di grosse dimensioni, prodotti dalle conoscenze interne, a confermarlo si riporta il fatto che ad esempio Procter & Gamble utilizza solo il 10 percento delle tecnologie sviluppate internamente14.

Una prima causa di questo comportamento, cioè di un basso uso dell’exploitation esterno, può essere rinvenuta nella paura da parte delle aziende nel condividere e diffondere conoscenze strategiche e rilevanti da una parte mentre dall’altra sta nel consolidare relazioni commerciali ormai avviate e consolidate. Su questa tematica si segnalano due studi di Kline, uno del 2000 concentrato sull’aspetto del licensing15 e l’altro del 2003 sulla condivisione di quelli che lui chiama i "gioielli della corona"16.

12 E.K.R.E. Huinzingh, “Open innovation: State of the art and future perspective”, Technovation, Vol. 31, (2011), p. 4 13 D. Chiaroni, V. Chiesa, F. Frattini, “The Open Innovation Journey: how firms dynamically implement the emerging

management paradigm”, Technovation, (2011), Vol. 21, n. 1, pp. 34-43

14 L. Huston, N. Sakkab, “Connect and develop: inside Procter & Gamble’s new model for innovation”, Harvard

Business Review, Vol. 84, (2006), pp. 58-66

15 K.G. Rivette, D. Kline, “Rembrandts in the Attic: Unlocking the Hidden Value of Patents”, Harvard Business School

Press, Boston, (2000)

(10)

Questo è lo stato dell’arte come descritto da Huizingh nel suo studio, da quanto ne esce si può dedurre che un tema per le future ricerche sarà quindi quello di dimostrare se questa tendenza persista ed in caso indagare in modo più approfondito le motivazioni che si celano dietro a questo comportamento, se ad esempio una scelta manageriale ponderata o se invece persiste una non capacità di sfruttare tecnologie prodotte internamente.

Chesbrough e Crowther osservano che ogni sforzo in entrata da parte di un'organizzazione per definizione genera uno sforzo reciproco in uscita da un'altra organizzazione17. Secondo Huizingh stesso una delle possibili spiegazioni è che mentre molte organizzazioni utilizzano la conoscenza esterna, solo poche la forniscono, altre potenziali spiegazioni sono che le scale di misurazione, i rispondenti o i campioni in questi studi sono distorti.

In questo primo sottoparagrafo si è tentato di evidenziare gli assunti teorici che stanno alla base del paradigma di Open Innovation, quest’ultimo però è ancora un concetto relativamente ‘nuovo’ e come evidenziato inizialmente ancora in fase espansiva.

Date queste premesse non sorprende quindi che la ricerca condotta da Dahlander and Gann18 nel 2010

su 150 paper riguardanti l’Open Innovation abbia evidenziato come gli studiosi usino differenti definizioni e si concentrino su aspetti diversi tra loro (vedi sopra le varie definizioni citate) rendendo così complesso costruire un corpo di conoscenze coerente riguardo a questo concetto.

Sulla questione del concetto dell’Open Innovation in teoria ed accademia si rimanda ad uno studio di Di Benedetto del 2010: “Comment on ‘Is open innovation a field of study or a communication barrier to theory development?”19.

2.2 Il Processo di Innovazione

In questa sezione il focus sarà sul processo aziendale e più specificatamente manageriale che fa da driver all’innovazione all’interno di un’azienda, ovviamente nell’ottica dell’Open Innovation. La prima dinamica da evidenziare è il cambiamento nel processo innovativo dei laboratori di R&D che da un modello lineare sono passati a quello che possiamo definire un modello a ‘spirale’.

17 H.W. Chesbrough, A.K. Crowther, “Beyond high-tech: early adopters of Open Innovation in other industries”, R&D

Management, Vol. 36, n. 3, (2006), pp. 229-236

18 L. Dahlander, D.M. Gann, “How open innovation is?”, Research Policy, Vol. 39, (2010), pp. 699-709 19 A. Di Benedetto, “Comment on ‘Is open innovation a field of study or a communication barrier to theory

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Quest’ultimo può essere rappresentato come segue:

FIG 2.1

Fonte: “L’evoluzione della ricerca industriale in Italia”, in Caratteri peculiari e prospettive, Petroni G., Verbano C, 2000

Il processo innovativo a spirale idealizzato da Petroni e Verbano vuole rappresentare come i vari stadi del processo innovativo tendano a sovrapporsi rendendo difficile separarli e distinguerli l’uno dall’altro (a differenza di come avveniva nel modello lineare tipico della Closed Innovation, tornerò poi su questa differenza), inoltre queste interazioni avvengono sia all’interno dell’azienda sia all’esterno di essa, cioè con stakeholders esterni20, in un’ottica appunto di Open Innovation.

Il cambiamento dei processi innovativi, per come viene descritto da Petroni e Verbano, ma in generale anche da Chesbough, serve ad evitare il cosidetto “technology paradox”: “un fenomeno per cui tanto più sono le teconologie che adottiamo nella nostra azienda, tanto più il loro utilizzo diventa complicato e costoso, tanto più complicata e costosa la gestione di progetti innovativi e soprattuto elevati i rischi che le tecnologie diventino obsolete”21.

L’open innovation quindi da un punto di vista strategico può essere riassunto in due azioni fondamentali:

a) “Acquisizione di conoscenza dall’esterno”, questo va inteso sia all’inizio del processo di innovazione che nelle sue fasi più a valle.

20 G. Petroni, C. Verbano, “L’evoluzione della ricerca industriale in Italia”, in Caratteri peculiari e prospettive, (2000),

p.182

21 H. Chesbrough, A. Di Minin, A. Piccaluga, “Percorsi di innovazione nei modelli di business”, in Nuovi modelli di

business e creazione di valore: la Scienza dei Servizi, a cura di L. Cinquini, A. Di Minin, R. Varaldo, (2011), Springer,

(12)

b) “Commercializzazione della propria tecnologia da parte di terzi”, si affida ad altri stakeholders la responsabilità di valorizzare i risultati innovativi prodotti internamente sul mercato delle teconologie22.

Il processo innovativo come descritto da Chesbrough viene rappresentato come di seguito:

FIG 2.2

Fonte:23 H.W. Chesbrough, “The era of open innovation”, MIT Sloan Management Review, Vol. 44, n. 3, (2003)

Lo schema serve a dare una rappresentazione grafica di quanto scritto prima, si può notare infatti come l’apertura a idee e/o stakeholders esterni accompagni l’intero processo, nello specifico qui vengono evidenziate anche le diverse modalità con le quali è possibile acquisire conoscenza esterna, come ad esempio le licenze o le joint venture.

Nella FIG 2.2 viene rappresentato anche la seconda azione principale scritta sopra, quella cioè della commercializzazione della tecnologia sviluppata in conto terzi, si può notare infatti come oltra ai canali di distribuzione diretta dell’azienda esistano altri modi come ad esempio le spin-off o l’out-licensing24.

In conclusione, quindi è possibile affermare che l’Open Innovation si applica e/o contempli tutte e

22 Ivi, p. 76

23 H.W. Chesbrough, “The era of open innovation”, MIT Sloan Management Review, Vol. 44, n. 3, (2003), pp. 35-41 24 H.W. Chesbrough, “Open Innovation: The New Imperative for Crating and Profiting from Technology”, Harvard

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tre le fasi del processo di innovazione:

1. “Front end of innovation”, in questa fase l’azienda cerca le soluzioni alle criticità interne esternamente, entrando quindi in contatto con il mondo della ricerca universitaria o con start-up, con tutte quelle che possono divenire fonti di innovazione interna.

2. “Idea realization and developement”, in questa seconda fase l’azienda può sia vendere che acquistare innovazioni che sono già state commercializzate ma che hanno il potenziale per offrire nuove opportunità, l’esempio classico è quello dei brevetti IP.

3. “Commercialization”, in questa terza ed ultima fase l’azienda ha la possibilità di vendere le tecnologie sviluppate (magari anche già commercializzate) attraverso i canali distributivi di aziende terze.

2.3 Il contesto dell’open innovation

Fino ad ora si è tentato di definire l’open innovation, elencando degli studi al riguardo, e si è esposto il processo innovativo e come questo viene declinato all’interno di questo paradigma.

Qui verrà invece affrontato il tema del contesto, quale cioè, l’environment nel quale l’open innovation si sviluppa e prolifera, riuscendo così a produrre dei risultati in grado di fornire un vantaggio competitivo per l’azienda che decide di attuare strategie all’interno di questo paradigma.

L’open innovation come qualsiasi altra strategia di management non può produrre risultati ed essere efficace in tutti i contesti applicativi, per questo il tema del contesto e dell’ambiente nel quale opera assume rilevanza, perché è un fattore sia indogeno che esogeno in grado di condizionare l’applicazione di strategie di open innovation e quindi i loro conseguenti risultati.

La prima considerazione da fare al riguardo è che possiamo distinguere ed analizzare le caratteristiche del contesto interno da quelle del contesto esterno.

c.1) Il contesto Interno

Per quanto concerne il contesto interno le caratteristiche possono tendenzialmente essere divise in ‘demografiche’ e ‘strategiche’.

1) Le ‘caratteristiche demografiche’ includono il numero di dipendenti, le vendite, i profitti, la maturità di un’impresa, il tipo di mercato in cui opera e il tipo di forma societaria.

2) Le ‘caratteristiche strategiche’ invece includono l’orientamento strategico aziendale, aspetti ed obbiettivi delle strategie innovative, la cultura organizzativa ed in generale tutti gli aspetti

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strategico/manageriali che inficiano sulla performance e sull’attuazione di strategie di open innovation all’interno dell’azienda25.

Queste due tipologie di caratteristiche si influenzano vicendevolmente, infatti come mostrato da Harison e Koski nel 201026, l’adozione di strategie basate su software open source all’interno di

“software company” è più alta nelle aziende in cui gli impiegati sono altamente educati.

Un altro esempio di questa relazione riguarda la dimensione delle aziende, quest’ultima infatti va a plasmare le strategie che poi il board management prenderà.

In generale, le ‘piccole e medie imprese’ possono guadagnare molto da strategie di open innovation questo perché sia le loro risorse sia la loro capacità di raggiungere ed aggredire il mercato sono limitate. Per questo i loro sforzi innovativi hanno già un focus esterno e l’open innovation (almeno per quanto riguarda il mindset e la cultura organizzativa e manageriale) non gli è nuovo27. In generale

però, date le risorse ridotte le SMEs riscontrano maggiori difficoltà a costruire e mantenere network collaborativi e per far rispettare i diritti di licensing e lo sfruttamente dei patents sviluppati. Comunque, nonostante tutto il numero di piccole e medie imprese che applica strategie di OI è in continuo aumento28.

A sostegno della tesi per cui la maggior parte delle aziende a mettere in pratica strategie di OI (questo riguarda sia attività di inbound che di outbound) siano aziende di grandi dimensioni ci sono studi empirici condotti in diversi paesi, trai quali si segnala il contributo di Chesbrough del 200329, quello

di Bianchi30, quello di Keupp e Gassmann31 e di Lichtenthaler e Ernest32 entrambi del 2009.

Questo è lo stato attuale della situazione, saranno le ricerche future a confermare o a evidenziare dei cambiamenti di questa dinamica, legata magari alle tempistiche di adozione e presa di cognizione delle strategie di OI.

25 E.K.R.E. Huinzingh, “Open innovation: State of the art and future perspective”, Technovation, Vol. 31, (2011), p. 5 26 E. Harison, H. Koski, “Applying open innovation in business strategies. Evidence from Finnish Software Firms”,

Research Policy, Vol. 39, (2010), pp. 351-359

27 S. Lee, G. Park, B. Yoon, J. Park, “Open innovation in SMEs – an intermediated network model”, Research Policy, Vol.

39, (2010), pp. 290-300

28 V. Van de Vrande, J.P.J. de Jong, W. Vanhaverbeke, M. de Rochemont, “Open innovation in SMEs: trends, motives

and management challenges”, Technovation, Vol. 29, (2009), pp. 423-437

29 H.W. Chesbrough, “Open Innovation: The New Imperative for Crating and Profiting from Technology”, Harvard

Business School Press, Boston, (2003)

30 M. Bianchi, A. Cavaliere, D. Chiaroni, F. Frattini, V. Chiesa, “Organisational models for open innovation in the

bio-pharmaceutical industry: an exploratory analysis”, Technovation, Vol. 31, n. 1, (2011), pp. 22-33

31 M.M. Keupp, O. Gassmann, “Determinants and archetype users of open innovation”, R&D Management, Vol. 39, n.

4, (2009), pp. 331-341

32 U. Lichtenthaler, H. Ernst, “Opening up the innovation process: the role of technology aggressiveness”, R&D

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Ovviamente è l’orientamento strategico delle singole aziende a fare la differenza tra l’adozione o no di strategie di OI, in aziende con un orientamento strategico esterno e con un orientamento verso il mercato sarà quindi più facile attuare forme di OI, a differenza invece delle aziende che focalizzano la loro attenzione internamente.

Un’ulteriore differenza tra l’adozione di strategie di OI tra SME e grandi aziende sta nella fase del processo di innovazioni nelle quali quest’ultime si innescano.

In uno studio del 2010 Lee et al.33 evidenziano che le pratiche di OI nelle SME si concentrano

prevalentemente nelle fasi a valle del processo innovativo, in particolare nella fase della ‘commercializzazione’. Alla luce di ciò si può evincere che le attività in uscita sono solitamente attuate nelle fasi finali del processo di innovazione quando l’azienda ha qualcosa di concreto (servizio/prodotto) da offrire come merce di scambio.

Lo studio di Laursen e Salter34 del 2006 invece si concentra sull’ampiezza della ricerca esterna, nel

loro contributo gli autori hanno scoperto che il maggior grado di profondità e di complessità della conoscenza e/o della tecnologia cercata esternamente è massima all’inizio del ciclo di vita del prodotto da sviluppare, mentre nella sua ultima fase le imprese innovative tendono a scansionare un elevato numero di ‘canali’ commercializzazione della propria innovazione.

Quanto evidenziato ora fa riferimento all’influenza del contesto interno nell’adozione di strategie di OI all’interno delle aziende.

c.2) Il contesto Esterno

Con contesto esterno si fa solitamente riferimento al settore nel quale un’azienda opera, come ad esempio il settore delle telecomunicazioni, della moda, delle macchine o di servizi finanziari. Infatti, molti degli studi effettuati sull’OI riguardano settori specifici, come ad esempio i servizi finanziari appunto, l’automotive e il settore dell’elettronica.

Alcuni studi però non settoriali, ma che si concentrano unicamente, ad esempio, sulla transizione tecnologica attuata tramite pratiche/strategie di OI hanno evidenziato che il tasso di adozione di strategie di OI tra settori non è così diversificato, cioè che il settore non è un fattore rilevante per l’adozione o meno di pratiche di OI35.

33 S. Lee, G. Park, B. Yoon, J. Park, “Open innovation in SMEs – an intermediated network model”, Research Policy, Vol.

39, (2010), pp. 290-300

34 K. Laursen, A. Salter, “Open for innovation: the role of openness in explaining innovation performance among UK

manufacturing firms”, Strategic Management Journal, Vol. 27, n. 2, (2006), pp. 131-150

35 U. Lichtenthaler, “Open innovation in practice: an analysis of strategic approaches to technology transactions”, IEEE

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In un suo studio del 2006 invece Gassman36 suggerisce che sia le industrie nucleari che quelle militari

siano degli esempi tipici di settori/industrie chiuse per l’innovazione, dove quindi strategie di OI difficilmente trovino una cultura organizzativa e manageriale improntata a questo tipo di innovazione. Altri studi invece hanno osservato come ci sia una tendenza generale a tutti i settori nell’attuare strategie e pratiche di innovazione aperta ma che questa tendenza non è continua ma anzi che è comporta da ‘shock’ e che sia il tempo tra uno ‘shock’ e l’altro a differenziarsi tra settore e settore37.

In conclusione, la dottrina e gli studi effettuati finora non hanno dimostrato con certezza né che il contesto esterno sia un fattore rilevante né che non lo sia nell’adozione di strategie e/o pratiche di OI.

c.3) Il contesto in conclusione

In conclusione, l’incidenza sull’applicazione di pratiche di OI risulta essere quindi più rilevante per quanto riguarda le strategie aziendali che non il settore di appartenenza dell’azienda38, da ciò si può

dedurre quindi che a spiegare e condizionare l’OI sia più il contesto interno aziendale che non quello esterno.

In generale quello che si può evidenziare è che i fattori contestuali (sia interni che esterni) possono e devono essere studiati in diversi modi. Huinzigh evidenzia tre aspetti da approfondire in futuro, in relazione all’incidenza del contesto sull’applicazione dell’OI:

1) I contesti con un alto grado di globalizzazione, è probabile che in contesi del genere le aziende tendano ad utilizzare startegie di OI.

2) I contesti con un’alta intensità tecnologica, in questo caso l’inbound OI è una pratica diffusa ma non è necessariamente anche il caso dell’outbound OI.

3) Il contesto può moderare il rapporto tra OI e prestazioni, il presupposto in questo caso è che le pratiche di OI siano più efficaci in un contesto che in un altro. Ad esempio, l’outbound OI è una strategia più redditizia in contesti in cui la protezione della proprietà intellettuale è relativamente semplice 39.

36 O. Gassmann, “Opening up the innovation process: towards an agenda”, R&D Management, Vol. 36, n. 3, (2006),

pp. 223-228

37 T. Poot, D. Faems, W. Vanhaverbeke, “Toward a dynamic perspective on open innovation: a longitudinal assessment

of the adoption of internal and external innovation strategies in Netherlands”, International Journal of Innovation

Management, Vol. 13, n. 2, (2009), pp. 177-200

38 M.M. Keupp, O. Gassmann, “Determinants and archetype users of open innovation”, R&D Management, Vol. 39, n.

4, (2009), pp. 331-341

(17)

2.4 Open vs Closed innovation

L’obbiettivo principale di questo sottopragrafo è quello di riassumere e schematizzare quanto già evidenziato sopra in modo da mettere a confronto l’open e la closed innovation sulla base di alcune caratteristiche fondamentali di un’azienda.

Fonte: mia elaborazione

2.5 Gli stakeholders dell’innovazione aperta

In questo ultimo sottoparagrafo verranno messi in evidenza quelli che possiamo definire gli attori dell’innovazione. All’interno del paradigma dell’OI come scritto sopra l’innovazione viene declinata non unicamente come un processo interno ma vede la co-partecipazione di altri attori esterni all’azienda.

(18)

Prima di entrare nello specifico sulla tipologia di stakeholders è utile ai fini di comprendere in maniera più approfondita le relazioni che si vengono poi a creare tra i diversi attori, esporre la classificazione sulle modalità dell’OI ideata da Manzini e Lazzarotti.

Fonte: V. Lanzarotti, R. Manzini, “Differen Modes of Open Innovation: a Theoretical Framework and an Empirical Study”, International Journal of

Innovation Management, Vol. 13, n. 4, (2009)

Questi studiosi usando due variabili, da una parte il numero ed il tipo di partners con cui un’azienda collabora (partners variety) e dall’altra il grado di apertura all’esterno delle fasi del processo innovativo (innovation funnel openness), individuano quattro tipologie di relazioni tra l’azienda e gli stakeholders esterni ad essa. Nello specifico la variabile ‘innovation funnel openness’ viene misurata attraverso il numero e la tipologia delle fasi del processo innovativo per le quali l’azienda si rivolge e si relaziona con l’esterno.

I quattro tipi sono:

1) ‘Closed Innovators’, si relazionano con pochi stakeholders esterni e in una singola fase del processo d’innovazione.

2) ‘Specialized Collaborators’, anche queste aziende aprono una singola fase del processo d’innovazione ma collaborano con molti stakeholders diversi.

3) ‘Integrated Collaborators’, aprono il processo innovativo in tutte le sue fasi ma si relazionano soltanto con alcuni tipi di stakeholders specifici.

(19)

4) ‘Open Innovators’, aprono interamente il processo d’innovazione ed intrattengono relazioni commerciali o scientifiche con molti stakeholders diversi40.

Il lavoro svolto da Lanzarotti e Manzini è utile ad introdurre la tematica degli attori dell’innovazione perché per riuscire a fornire quattro tipi di OI, lega il grado di apertura del processo innovativo alla quantità ed alla tipologia degli stakeholders esterni con i quali hanno delle relazioni.

Uno dei primi contributi nell’elencare le fonti esterne di conoscenza per quanto riguarda le aziende è quello di Von Hippel, nel suo studio infatti egli elenca vari attori che possono portare nuova conoscenza e che quindi possono essere classificati come attori dell’innovazione, di seguito ne elenchiamo i principali:

1) I Fornitori e i clienti

2) Università, Governo, Istituzioni, laboratori di R&D esterni e privati 3) I concorrenti

4) Altri tipi di organizzazione41

L’analisi degli stakeholders all’interno del paradigma dell’OI però porta ad un’evoluzione e un cambio di mindset nei confronti degli attori esterni all’azienda per come li ha descritti Porter.

Fonte dello schema: M.E. Porter, “The five competitive forces that shape strategy”, Harvard Business Review, Vol. 86, n.1, (2008), pp. 25-40

40 V. Lanzarotti, R. Manzini, “Differen Modes of Open Innovation: a Theoretical Framework and an Empirical Study”,

International Journal of Innovation Management, Vol. 13, n. 4, (2009), pp. 615-636

(20)

Come si può notare dallo schema delle cinque forze di Porter l’azienda al centro entra in competizione con le altre quattro forze esterne: i fornitori, i nuovi entranti, i clienti e i beni che sostituiscono quello prodotto dall’azienda42.

Chesbrough cambia questo approccio agli stakeholders esterni, nell’ottica dell’OI infatti l’obiettivo non è quello di costruire delle barriere intorno all’azienda ma di creare un network virtuoso per tutti gli attori che ne fanno parte, in modo da creare una ‘win-win situation’. Quanto evidenziato finora è un’analisi di come gli stakeholders esterni (sia per numero che per tipologia) vanno ad impattare sulle strategie di OI che le aziende attuano.

Da quanto scritto sopra, anche nella classificazione di Von Hippel, si deduce che le relazioni tra i produttori della conoscenza/innovazione e chi la distribuisce al mercato sia diretta, Chesbrough nel suo studio del 2006 però introduce la categoria degli ‘intermediari dell’innovazione’43.

Questi intermediari fanno sostanzialmente azione di brokeraggio della conoscenza, cioè acquisiscono la conoscenza sotto varie forme, come ad esempio l’acquisto di IP o contratti di fornitura, e poi la redistribuiscono nel mercato. Questo meccanismo facilita ed amplifica la circolazione di innovazione inserendo accanto agli attori che sono stati evidenziati finora anche gli ‘innovation broker’, detto questo l’attività di per sé di brokeraggio però può essere effettuata anche da chi produce la conoscenza.

Per chiarire cosa tipo di soggetti siano i broker della conoscenza usiamo la definizione di Meyer: “Knowledge brokers are people or organizations that move knowledge around and create connections between researchers and their various audiences”44, questa è una definizione generic ache

ricomprende al suo interno le varie attività che l’azione di brokeraggio comporta. È rilevante sottolineare come nella definizione si faccia riferimento alla creazione di connessioni/relazioni come attività dei broker.

IPOOL, nonostante sia un laboratorio di R&D attua anche forme di brokeraggio della conoscenza/innovazione, anche di conoscenza/innovazione non direttamente prodotta internamente ma acquisita o fatta propria a vario titolo e si pone l’obiettivo di creare un network virtuoso per tutti gli attori coinvolti al suo interno (entrerò più nel dettaglio nell’apposito capitolo dedicato al business model di IPOOL).

42 M.E. Porter, “The five competitive forces that shape strategy”, Harvard Business Review, Vol. 86, n. 1, (2008), pp.

25-40

43 J. West, W. Wim, H. Chesbrough, “Open Innovation, Researching a New Paradigm”, Oxford University Press, (2006) 44 M.Meyer, “The Rise of the Knowledge Broker”, Science Communication, SAGE Pubblication, Vol. 32, n. 1, (2010) p.

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CAP 3: IPOOL e l’Open Innovation 3.1 Il Business Model Canvas 3.2 Value proposition

3.3 Analisi e targhettizzazione clienti (analisi fatta anche su excell)

Questo capitolo sarà interamente dedicato ad analizzare il business di IPOOL e come quest’ultimo si inneschi all’interno del più ampio paradigma dell’Open Innovation illustrato nel capitolo precedente. Direttamente dal sito specifichiamo che “iPOOL srl è una società spin-off dell'Istituto per i Processi Chimico Fisici del CNR di Pisa, fondata nel 2011. Basa la propria attività su un team di ricercatori, professionisti, aziende ed enti partner e lavora allo sviluppo di applicazioni e competenze nel settore della chimica e dell'acustica su materiali, strumentazioni e processi di interesse industriale e ambientale”45.

Sempre il sito ci da le prime indicazioni pratiche sul tipo di attività svolta da questa attività: “iPOOL srl fornisce consulenza tecnica alla progettazione, industrializzazione e commercializzazione di prodotti ad elevate prestazioni e offre servizi altamente qualificati per la ricerca e lo sviluppo di tecnologie analitiche e strumentali per monitoraggio e modifica di processi industriali e ambientali.”46.

Prima di entrare nel dettaglio delle attività compiute da IPOOL e da come queste si inseriscano in un’ottica di Open Innovation è giusto fare una precisazione, all’interno di quest’azienda vivono in parallelo due anime. Una è composta essenzialmente da fisici e svolge attività di monitoraggio acustico e affinamento di strumentazione e modelli descrittivi della diffusione e attenuazione del rumore, l’altra parte invece è comporta da chimici ed opera nel settore dei materiali innovativi ad alte prestazioni e riciclati.

La componente formata da chimici è definita aziendalmente dei “materiali” e si occupa principalmente di fornire assistenza, ricerca e supporto per lo sviluppo, la caratterizzazione e la produzione di compound polimerici.

In questa disamina mi occuperò solo della sezione aziendale “Materiali” per cui le considerazioni, i numeri e le analisi non faranno direttamente riferimento alla totalità di IPOOL ma solo alla parte composta da personale chimico (da qui in avanti con la dizione IPOOL si fa riferimento solo alla parte “Materiali”).

Nella sua descrizione IPOOL pone l’accento sul fatto che il proprio team è in primis composto da ricercatori, la provenienza accademica è un elemento fondante e distintivo dell’azienda, non solo per

45 https://www.ipoolsrl.com 46 Ibidem

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essere nata nel 2011 come spin-off del CNR ma per il continuo rapporto che vige tra azienda e il mondo universitario, in particolar modo quello pisano.

All’interno di IPOOL infatti i dipendenti sono una piccola parte dei collaboratori e studenti che a vario titolo contribuiscono alle attività core. È possibile infatti affermare che IPOOL si posizioni in parallelo alle istituzioni universitarie mantenendo comunque uno spiccato spirito di ricerca, infatti all’interno delle attività aziendali vengono annoverate anche quelle propedeutiche alle pubblicazioni scientifiche, sintomo da una parte di elevata competenza del personale interno da una parte e di un tipo di attività collaterale tra ricerca e business dall’altra.

È questo infatti il tratto distintivo di IPOOL, quello cioè di porsi tra il mondo aziendale e quello universitario, riesce a mantenere un elevata competenza tecnica/scientifica ma al contempo ad avere la flessibilità giusta per operare attivamente nel mercato e rispondere alle sue esigenze.

Questo elaborato si pone come obiettivo quello di studiare il business model di IPOOL e di integrare questo studio all’apparato teorico dell’OI per come è stato trattato sopra.

IPOOL può essere descritto quindi come un laboratorio di R&D che opera sul mercato, ma non solo, infatti fa anche un’azione di brokeraggio della conoscenza.

Le attività principali d i IPOOL sono:

1) Studio e caratterizzazione di compound polimerici, con una specializzazione sui compound polimerici antifiamma, viene studiato infatti anche il comportamento al fuoco e la sicurezza dei materiali.

2) Supporto tecnico alla progettazione, certificazione, industrializzazione e commercializzazione di compound polimerici innovativi per applicazioni elettriche e costruttive.

3) Assistenza tecnica per il supporto in azioni legali in caso di reclami per danni attribuibili a difetti dei materiali.

4) Attività di produzione scientifica.

IPOOL quindi per via delle sue attività nasce e si sviluppa nello spazio creato dall’OI, nello specifico, adottare strategie di OI per le aziende significa aprirsi a stakeholders esterni per ampliare la capacità innovativa sia interna sia di prodotto (R&D). IPOOL quindi riesce a crescere grazie ad aziende, sia di piccole che di grandi dimensioni, sia nazionali che internazionali, che cercano un partner o dei servizi ausiliari di ricerca, test e sviluppo di prodotti.

IPOOL sfrutta quelle che sono le strategie di OI delle altre aziende andando non solo ad operare come un laboratorio di R&D esterno ma compiendo anche azione di brokeraggio della conoscenza e

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andando a creare un network tra i partner con cui collabora stabilmente e i clienti che via via gli chiedono servizi.

Questo è il motivo principale per cui IPOOL viene analizzata e studiata alla luce del paradigma ideato da Chersbrough, perché le sue attività core riguardano la competenza/conoscenza di laboratorio e l’attività di networking, entrambe attività che vanno nella direzione indicata da Chesbrough stesso della creazione di un network di imprese, enti, istituzioni, università che amplifica la portata delle innovazioni delle aziende che ne fanno parte.

IPOOL oltre alle attività core porta avanti anche attività di studi e pubblicazioni scientifiche, questo gli è possibile grazie all’elevata competenza del personale interno e allo stretto legame che ha con membri sia del CNR (Centro Nazionale di Ricerca) sia dell’Università degli studi di Pisa.

Nello specifico del business model entrerò nei prossimi paragrafi, qui era essenziale introdurre l’azienda e le sue attività per far comprendere come mai fosse di interesse per gli studi di OI.

3.1 Il Business Model Canvas

Business Model Canvas

Partner Chiave Attività Chiave

Risorse Chiave

Proposte

di Valore Relazioni con i Clienti

Canali

Segmenti di Clientela

Struttura dei Costi Flussi di Ricavi

c Nome Progettato da 1) Silma 2) Itastuc 3) Mixer Compound 4) CNR/ Università di Pisa

- Ricerca e sviluppo prodotti - Knowledge broker - pubblicazioni scientifiche - formazione tecnica dei clienti - macchinari, strumenti, labotatorio - competenze tecniche - network - Competenze tecnica specifica su materiali antifiamma - Risposte più veloci rispetto ai competitors - Capacità commerciale - Entrare a far parte di un newtork di settore

- Relazione diretta e personale con i clienti, face to face

- Principalmente il servizio è erogato direttamente - Fiere internazionali di settore, es: K Dusseldorf Germania

- Risorse umane e formazione - Attrezzature e strumenti del laboratorio

- Pagamento per attività di ricerca, test e sviluppo su prodotti - Fee su rivendità di terzi prodotti (entrata commerciale)

BMC di IPOOL Tommaso Salvadori

Mercato di nicchia, aziende che operano nei settori di: - compound polimerici - minerali

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Questo è il business model canvas attuale di IPOOL, cioè la schematizzazione grafica di come opera sul mercato e crea valore per i suoi clienti.

Nello specifico delle sezioni della Value Proposition e della Segmentazione dei clienti entrerò in dei paragrafi appositi perché richiedono un’analisi più approfondita e dettagliata.

Qui verranno quindi analizzate le altre parti del canvas, questo è un espediente per affrontare nel dettaglio la modalità con cui opera IPOOL e mostrare così come operi in sinergia alle strategie di OI sia di IPOOL stessa che delle altre aziende con le quali collabora.

Prima di entrare nel dettaglio del business model di IPOOL è giusto chiarire che il business model stesso non ha ancora una definizione unitamente accettata in ambito accademico, per cui alcune definizioni si escludono ed altre ancora possono essere incorporate le une nelle altre47.

Per cui abbiamo che le definizioni variano sia nel contenuto che nella struttura, ce ne sono di brevi come quella di Linder e di Cantrell che lo definiscono come “la logica fondamentale dell’azienda per creare valore”48 oppure ancor più sinteticamente “il modo in cui facciamo soldi”49, ce ne sono però

anche di articolate, come quella ad esempio di Timmers: “un'architettura per i flussi di prodotti, servizi e informazioni, compresi i vari business actors e i loro ruoli; una descrizione dei potenziali benefici per i vari attori e una descrizione delle fonti di entrate”50.

La definizione che però sarà il riferimento per il presente lavoro è quella di Osteralder, Pigneur e Tucci del 2005: “Un modello di business è uno strumento concettuale che contiene un insieme di elementi e le loro relazioni, consente inoltre di esprimere la logica di un'azienda di guadagnare denaro. È una descrizione del valore che un'azienda offre a uno o più segmenti di clienti e l'architettura dell'azienda e la sua rete di partner per la creazione, la commercializzazione e la fornitura di questo valore e capitale relazionale, al fine di generare flussi di reddito redditizi e sostenibili”51.

Il Canvas invece è uno strumento che tramite una rappresentazione grafica permette di mostrare il business model di un’azienda, è diviso in 9 parti: partner chiave, risorse chiave, attività chiave, costi, proposta di valore, relazione con i clienti, canali, segmenti di clientela e flussi di ricavi. La rappresentazione visuale diventa importante perché tramite il Business Model Canvas (BMC) si riesce a semplificare le organizzazioni complesse, in più la rappresentazione grafica aiuta a

47 A. D’Atri, A.M. Braccini, “Il Business Model come punto di contatto tra tecnologia e organizzazione”, in IX Workshop

dei Docenti e dei Ricercatori di Organizzazione Aziendale, Venezia, 7-8 Febbraio 2008

48 J.C. Linder, S. Cantrell, “Changing Business Models: Surveying the Landscape”, Institute for Strategic Change,

Accenture, (2000)

49 C.C. Bienstock, M.L. Gillenson, T.C. Sanders, “The complete taxonomy of web Business Models”, Quartely Journal of

Electronic Commerce, Vol. 3, n. 2, (2002), pp. 173-182

50 P. Timmers, “Busienss Models for Electronic Markets”, Journal on Electronic Markets, Vol. 8, n. 2, (1998), pp. 3-8 51 A. Ostewalder, Y. Pigneur, C.L. Tucci, “Clarifying Business Models: origins, present, and future of the concept”,

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trasformare presupposti, dati per scontati, in informazioni esplicite. E le informazioni esplicite aiutano a pensare e comunicare con più efficacia52.

Inoltre, il BMC può essere diviso in due: la parte sinistra fa riferimento all’ “efficienza” a come cioè si deve rendere l’azienda più economicamente efficiente, mentre la parte destra fa riferimento al “valore” a come cioè l’azienda crea valore sia per sé stessa che per i suoi clienti e in generale per tutti gli stakeholders con i quali si trova ad operare53.

3.1.1 Il lato sinistro del BMC

Partendo quindi dal lato sinistro del BMC di IPOOL si nota che i partner chiave per quest’ultima sono essenzialmente quattro, con tutti e quattro il legame e la partnership sia strategiche che lavorative sono molto forti.

Infatti, questi partner comportano collaborano con IPOOL fornendogli un vantaggio in ambiti di: - Aumento della competenza

- Aumento del network

- Uso di macchinari di laboratorio che IPOOL non possiede - Fornisce personale competente

Quest’ultimo punto si presente come uno dei fattori critici per IPOOL, la capacità dell’impresa infatti nell’attrarre personale qualificato e le modalità sia di selezione che di retribuzione di quest’ultimo saranno una delle questioni principali che il management dovrà affrontare e chiarire al fine di stabilire una crescita costante nel tempo della società.

Le attività sono state introdotte nel paragrafo precedente, quindi qui occorre specificare come per IPOOL i partner, le attività, le risorse ed i costi siano strettamente legati tra loro, le attività svolte infatti non possono prescindere da personale altamente qualificato in ambito ‘chimico’ e quest’ultimo non può sfruttare la propria competenza senza un adeguato laboratorio.

Le risorse chiave infatti combaciano perfettamente con i costi, IPOOL non ha costi di ‘produzione’, i suoi costi fissi sono rappresentati dalla retribuzione dei dipendenti e dell’acquisto dei macchinari per il laboratorio ed il suo mantenimento giornaliero.

Le materie prime infatti vengono solitamente o fornite dai clienti o traslate come costi a quest’ultimi, per quanto riguarda i macchinari, questi sono o acquistati a titolo definitivo o concessi sotto forma di

52 T. Clark, A. Osterwalder, Y. Pigneur, “Business Model You”, a cura di L. Centenaro, Hoepli, Milano, (2018), pp. 31-33 53A. Osterwalder, Y. Pigneur, “Creare Modelli di Business”, Wiley, Milano, (2017), p. 49

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usocapione/usofrutto gratuito da parte di alcuni clienti che necessitano di una consulenza duratura nel tempo.

L’unica risorsa che non ha un costo corrispettivo è quella del network, IPOOL sfrutta, alimenta e sostiene un network ampio anche se è una società giovane. Questo è consentito grazie all’esperienza di uno dei soci fondatori dell’azienda, il dott. Camillo Cardelli che prima di fondare IPOOL ha svolto per anni attività di consulenza in ambito chimico (libera professione) e azione di brokeraggio della conoscenza.

IPOOL nelle sue attività quindi parte da una solida base di esperienza professionale e si pone l’obiettivo di crescere, stabilizzarsi ed aumentare il range di azione del dott. Cardelli e dei suoi collaboratori.

3.1.2 Il lato destro del BMC

Come annunciato precedentemente la ‘value proposition’ e ‘l’analisi dei segmenti di clientela’ verranno analizzati di seguito in appositi paragrafi, il focus quindi qui sarà sul tipo di relazione che si instaura tra IPOOL e i suoi clienti.

IPOOL stabilisce una relazione diretta con i clienti fatta da una comunicazione continua, questo è frutto del lavoro di tipo tecnico conoscitivo svolto dall’azienda. Svolgendo attività di R&D per conto terzi, la ‘fiducia’ e la ‘brand reputation’ sono due fattori essenziali per IPOOL che infatti rinsalda entrambe tramite una comunicazione continua e trasparente dei risultati delle ricerche e dei test maturati in laboratorio.

3.2 Value Proposition

La value proposition di IPOOL può essere sintetizzata dai punti mostrati dal BMC:

- Competenza tecnica specifica su materiale antifiamma

- Risposte più veloci, più efficaci e più economiche rispetto ai competitors - Capacità commerciale

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Come scritto sopra la brand reputation per IPOOL è un elemento cruciale per stabilire rapporti commerciali durevoli, visto che collabora con le aziende alla creazione, prototipazione e attività di test dei prodotti che poi commercializzano.

Il primo fattore che quindi va ad inficiare sulla reputazione dell’azienda è quello delle pubblicazioni scientifiche, IPOOL si presenta come un laboratorio di R&D che uscendo dall’università da una parte riesce a mantenere una produzione/ricerca scientifica (che ne prova la qualità e la competenza) e dall’altra acquista la flessibilità necessaria per operare sul mercato.

Nel secondo punto della lista infatti viene scritto che come proposta di valore IPOOL riesce a rispondere alle esigenze dei suoi clienti più veloci della concorrenza, qui occorre fare un chiarimento: ad oggi il tipo di servizio offerto di IPOOL, tramite un’azienda unicamente privata, non è stato riscontrato sul mercato, da questo ne deriva che i maggior competitors per IPOOL risultano essere i laboratori interni delle Università o dei centri di ricerca pubblici oltre che i consulenti/freelance, in genere ex-dipendenti di grandi aziende del settore, che sfruttano le loro conoscenze e relazioni acquisite nel precedente lavoro, ma, a differenza di IPOOL, non hanno la possibilità di continuare a “creare” conoscenza, rinnovarsi e spaziare in nuovi settori essendo singole persone tendono a rendersi verticali su alcuni specifici argomenti.

Il vantaggio di IPOOL quindi è quello di riuscire a rispondere in maniera più celere ai suoi clienti e ad un prezzo inferiore, infatti rispetto ai laboratori pubblici non ha spese (sia economiche che professionali) burocratiche da sostenere e non deve fornire ai clienti una risposta ai loro problemi che sia accademicamente valida, pubblicabile o rilevante. La risposta infatti viene fornita nei tempi congrui a portare avanti l’analisi o i test ma senza avere pretese scientifiche o senza l’obbligo di dover adempiere a iter accademici che ne comprometterebbero la velocità.

A quanto detto finora IPOOL accosta anche un’attività commerciale e di networking rilevante, infatti grazie alla precedente esperienza professionale del dott. Cardelli si aggiunge la costante presenza ai convegni e alle conferenze di settore in cui i dipendenti di IPOOL partecipano sia passivamente che attivamente, tramite attività di presentazione dei propri lavori.

La presenza costante alle fiere di settore e la presentazione dei lavori svolti serve da una parte ad accrescere il network e a far conoscere l’azienda e dall’altra ad aumentarne la brand reputation, entrando così in quello che può essere definito un circolo virtuoso.

Questo a reso IPOOL una realtà che anche se nata da poco ha saputo costruirsi una forte immagine aziendale che le ha consentito di essere un punto di riferimento per le persone che operano nel settore dell’antifiamma.

La sfida sarà quindi quella di crescere anche in altri settori, quella cioè di riuscire a sfruttare le competenze interne in settori ancora inesplorati ma che necessitano del solito expertise.

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3.3 Analisi e targetizzazione clienti

IPOOL si rivolge ad un mercato di nicchia, specialistico, i clienti dell’azienda infatti operano all’interno della filiera produttiva dei compound polimerici. L’immagine di seguito serve a schematizzare la value chain dei compound polimerici, al cui interno operano vari stakeholders, tra i quali ci sono i clienti di IPOOL.

La strategia manageriale infatti mira ad espandersi all’interno di tutta la value chain e di intraprendere quindi relazioni commerciali e non solo (ottica di OI – attività di networking) con tutti gli stakeholders che ne fanno parte.

Fonte: elaborazione propria

L’obbiettivo di IPOOL è quindi quello di rafforzare la propria posizione strategia all’interno di questa catena del valore, diventando un player centrale e strategico non solo per la sua capacità di fornire servizi altamente qualificati (analisi, test e sviluppo di prodotti in ambito chimico), ma anche grazie alla capacità di mettere in contatto i vari attori e di essere un driver dell’innovazione all’interno di questo mercato.

Dopo questa prima introduzione e chiarificazione in merito all’obiettivo strategico di IPOOL ed alla tipologia dei clienti che già ha e a cui mira, di seguito si esporrà un’analisi compiuta sui dati forniti dall’amministrazione di IPOOL in merito al periodo di riferimento 2014 fino al 30 settembre 2019. L’analisi servirà quindi per trovare evidenze che non sono ancora note e per provare a vedere se la strategia manageriale sta iniziando a riscuotere i risultati desiderati.

I grafici che seguiranno hanno l’obiettivo di mostrare la percentuale di fatturato delle classi di clienti sul totale fatturato annuo, per quest’analisi sono state individuate quattro classi di clienti: minerali, compound, polimeri/additivi e altro. La scelta di mettere insieme i produttori di polimeri con i produttori di additivi è semplicemente numerica, infatti come clienti sono ancora numericamente troppo poco numerosi per farne due categorie distinte.

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Per motivi di privacy non sarà possibile mostrare né la ragione sociale dei clienti né quanto ammonta il fatturato per singolo cliente ma solo i dati aggregati.

2% 4% 19% 75%

2014

altro additivi/polimeri compound minerali 3% 0% 25% 72%

2015

altro additivi/polimeri compound minerali 1% 9% 26% 64%

2016

altro additivi/polimeri compound minerali 1% 0% 31% 68%

2017

altro additivi/polimeri compound minerali 5% 15% 28% 52%

2018

altro additivi/polimeri compound minerali 9% 21% 25% 45%

2019

altro additivi/polimeri compound minerali

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Come si può notare dai grafici esposti sopra la classe di cliente che contribuisce di più al fatturato di IPOOL è quella dei produttori di minerali, si può infatti notare come nel solo 2019 (anno parziale) la percentuale scenda al di sotto del 50%.

Come scritto sopra la strategia manageriale è quella di estendere il portafoglio clienti all’intera supply chain, così facendo l’azienda vuole avere dei vantaggi in due aspetti specifici: il primo riguarda l’allargare la propria capacità di networking e la propria centralità all’interno dell’intera supply chain, l’altra invece fa riferimento alla volontà di diversificare il rischio, quest’ultimo vantaggio va ponderato dal fatto che tutti questi attori concorrono e ottengono benefici dal solito mercato.

Va comunque detto che aumentare il portafoglio cliente diversifica il rischio di una crisi congiunturale, di un eventuale calo fisiologico o di eventi inaspettati che possono colpire solo una parte della filiera.

Questa volontà è confermata come possiamo vedere dalla costante diminuzione della percentuale sul totale di fatturato dei produttori di minerali, inoltre va notato come dal 2018 (e con un 2019 che conferma questa tendenza) le classi di clienti additivi/polimeri e altri (che comprende gli altri attori in generale) hanno aumentato notevolmente il proprio peso sul fatturato generale.

Come si vede infatti se nel 2016 i produttori di additivi/polimeri pesavano per solo il 9% (record fino a quel momento) e nel 2017 addirittura non avevano prodotto fatturato, nel 2018 invece lo sforzo commerciale nel seguire la strategia impostata ha portato ad un peso di questa categoria del 15%. Se si guarda al dato parziale del 2019 (21%) si può notare come questa tendenza sia confermata.

La situazione nel periodo di riferimento 2014 – 30 settembre 2019 si presenta come di seguito: I produttori di minerali rappresentano complessivamente il 62% del fatturato prodotto da IPOOL nel periodo di riferimento.

Il dato più interessante però è quello relativo a i produttori di additivi/polimeri che conta un complessivo 9% ma che va analizzato alla luce di risultati iniziali veramente bassi, infatti come si nota nei grafici sopra per due anni non è stato proprio presente e in almeno due non ha superato proprio il 9%.

3% 9%

26% 62%

fatturato per classi cliente perioso

2014-19

altro

additivi/polimeri compound minerali

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Il tipo di analisi fatta finora però non può prescindere dall’essere messa in relazione all’andamento generale del fatturato, al fine di mettere in relazione la crescita/decrescita percentuale delle classi di clienti con l’andamento del fatturato.

Questo grafico mostra l’andamento del fatturato, nello specifico infatti ogni colonna mostra il fatturato in migliaia di euro per singolo anno. La prima cosa ad essere messa in evidenza è come da un iniziale fatturato di più di 200K € l’andamento sia andato lievemente a diminuire fino al 2017 per poi riprendersi decisamente e segnare il massimo di fatturato annuo per IPOOL nel 2018.

I motivi per questa inflessione possono essere stati diversi, tra i principali possiamo dire che c’è anche la nascita di MOPI, una società creata dai soci di IPOOL in collaborazione con altri due soci esterni e che opera nel mercato dell’economia circolare. Un altro motivo plausibile può essere riscontrato anche nelle modalità di pagamento che IPOOL propone ai suoi clienti, infatti spesso l’azienda sigla accordi pluriennali che si spalmano su più anni e che quindi non riescono a dare nota dell’attività svolta nell’anno in corso.

Un ulteriore tipo di analisi da portare avanti è quella che vuol vedere se una crescita/decrescita percentuale di classe di cliente corrisponde ad una simultanea crescita/decrescita numerica, cioè se per esempio la diminuzione costante nel tempo della percentuale di fatturato derivante dai produttori di minerali corrisponde ad una loro contestuale decrescita numerica, o se viceversa corrisponde ad un aumento di fatturato delle altre classi e se quest’ultimo corrisponde alla crescita/decrescita numerica delle classi di cliente di riferimento.

0,00 50000,00 100000,00 150000,00 200000,00 250000,00 300000,00 2014 2015 2016 2017 2018 2019

ANDAMENTO FATTURATO 2014-19

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In quest’ultimo grafico le le colonne mostrano il numero di clienti per anno e per classe di cliente, mentre la linea gialla rappresenta il totale di clienti annuo e mostra il trend nel periodo di riferimento. La prima cosa da notare è come l’andamento generale sul numero di clienti segua l’andamento del fatturato, infatti come successo per il fatturato, si parte da una situazione iniziale nel 2014 per poi passare ad una situazione peggiore nel triennio successivo fino al 2018 che segna il definitivo exploit diventando quindi l’anno in cui l’attività commerciale inizia a far vedere i risultati concreti.

Questa prima analisi quindi conferma che l’andamento di fatturato è direttamente proporzionale all’andamento del numero di clienti, indipendentemente dalla classe a cui appartengono.

Quello che però si nota è che, mettendo in relazione l’ultimo grafico con i grafici a torta riguardanti la percentuale di fatturato per classe di cliente, almeno inizialmente la differenza di fatturato tra le varie classi non derivava dalla differenza numerica dei clienti.

Se si prende come esempio il 2014 a fronte di un elevata differenza nella percentuale di fatturato in relazione al mercato di appartenenza (75% derivante dai produttori di minerali e solo il 25% dalle altri classi di clienti, con il 19% di fatturato derivante dai produttori di compound) questa differenza non si riscontra invece nel numero di clienti per classe di riferimento, come mostra l’ultimo grafico i clienti produttori di minerali sono quattro e i clienti produttori di compound sono tre.

Il 2014 è stato preso come esempio ma la stessa logica è confermata in tutti gli altri anni, da questo è possibile quindi dedurre che la differenza nella percentuale di fatturato per classe di cliente non è rispettata nella distribuzione numerica dei clienti.

0 2 4 6 8 10 12 14 16 18 2014 2015 2016 2017 2018 2019

nr clienti per classi di cliente

(33)

Da quanto mostrato finora i dati quindi ci mostrano che in linea generale i clienti più remunerativi siano i produttori di minerali. A riconferma di ciò se anche si prende il 2018, anno in cui la percentuale di fatturato dei produttori di minerali passa da un massimo di 75% del 2014 ad un 52% appunto del 2018, questo non comporti una diminuzione di clienti tra i produttori di minerali, ed anzi il 2018 mostra come i produttori di compound pur aumentando numericamente ed essere anche più del doppio dei produttori di minerali concorrano al totale di fatturato solo per un 28%.

Questo evidenzia come quindi tendenzialmente la nicchia di mercato più profittevole sia quella dei produttori di minerali, la strategia manageriale pur andando nella direzione delineata sopra deve tenere conto di quanto emerso da questa analisi. Questo comporta che a fronte di un costo di acquisizione dei clienti simile per classe di cliente risulta più profittevole per IPOOL acquisire come nuovi clienti i produttori di minerali, la scelta di non seguire sempre questa evidenza è quella di ripartire il rischio di avere la totalità dei clienti della stessa classe.

3.3.1 Analisi in riferimento alla nazionalità dei clienti

Un’ultima analisi da portare avanti sui clienti di IPOOL riguarda la loro nazionalità, i motivi di questo è analizzare l’impatto dell’attività commerciale ed ipotizzare i costi di acquisto e mantenimento dei clienti potenziali.

Di seguito si mostrano dei grafici a torta che rappresentano la percentuale di fatturato di clienti con sede legale in paesi dell’UE o fuori da quest’ultima, la situazione presa in esame è quella dal 2014 al 30 Settembre 2019, come per i grafici precedenti.

39% 61%

2014

UE NON UE 73% 27%

2015

UE NON UE

Riferimenti

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