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La Straniera di Maria Kuncewiczowa e altre madri aliene

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Academic year: 2021

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Figure del distacco e altre solitudini

nelle letterature dell’europa centro-orientale

a cura di

Ljiljana Banjanin, Krystyna Jaworska,

Massimo Maurizio

testi di

Alessandro Amenta Natka Badurina Ljiljana Banjanin Giulia Baselica Etami Borjan Duccio Colombo Guido Franzinetti Andrea Gullotta Krystyna Jaworska Aleksandar Jerkov P. Lazarević Di Giacomo Massimo Maurizio Roberto Merlo Claudia Olivieri Laura Piccolo Donatella Possamai Dario Prola Svetlana Šeatović Dimitrijević Roberta Sala Sylwia Szarejko

stilo editrice

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ComitatosCientifiCointernazionale

Mariella Basile (Univ. degli studi di Bari) Marco Caratozzolo (Univ. degli studi di Bari) Yannick Gouchan (Univ. di aix-Marseille, Francia)

domenico Lassandro (Univ. degli studi di Bari) Ferdinando pappalardo (Univ. degli studi di Bari)

domenico ribatti (Univ. degli studi di Bari) Ludmila sproge (Univ. di riga, Lettonia)

il presente volume è stato realizzato grazie ai contributi per la ricerca (progetto 2014, ex 60%) assegnati dal dipartimento di Lingue e Letterature straniere e Culture Moderne dell’Università di torino.

isBn 978-88-6479-165-4 © stilo editriCe

www.stiloeditrice.it

stampato nel mese di aprile 2016

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Presentazione 7

thedefeatofeasterneuroPeanemigrésafter 1989

di Guido Franzinetti 11

CheCosaèrimastodellasolitudine

di Aleksandar Jerkov. Trad.it. di Olja Perišić Arsić 19

intelligenCija 2.0. ilwebela tvorčeskajaintelligenCija

di Andrea Gullotta 35

ildoloredeglialtri: daldistaCCoallaParteCiPazione

(igor Štiks, Mentre AlmAdorme)

di Natka Badurina 63

«nonsololei, stirlitz, soffredinostalgia». lanostalgia dell’estdell’agenteinfiltratoelanostalgiadell’ovest dellettorenelromanzodisPionaggiodi julian semenov

di Duccio Colombo 85

lavisionedisénellaPoesiarussaContemPoranea:

‘liquefazione’ eannullamento

di Massimo Maurizio 107

lola montez

donnafataleefiguraindomitanellaletteraturaserba

di Ljiljana Banjanin 127

lastranieradi maria kunCewiCzowa ealtremadrialiene

di Krystyna Jaworska 149

unaletteraturafluidainunavitafluida?

di Donatella Possamai 175

leisoledeisolitari, ovverogliimmigratiPolaCChi nell’arCiPelagobritanniCoinalCuneoPeredella letteraturaPolaCCaContemPoranea

di Sylwia Szarejko 189

unaferoCetenerezza

figuredella ‘disaPPartenenza’ nellaPoesia di marta Petreu

(5)

di Svetlana Šeatović Dimitrijević

Trad.it. di Olja Perišić Arsić 243

ilsignoredellesolitudini.

i disPaCCidi borislav Pekić

di Persida Lazarević Di Giacomo 267

Genteruthenus, nAtionepolonus.

laPoesiadiConfinedi eugeniusz tkaCzyszyn-dyCki

di Alessandro Amenta 283

formedidisaPPartenenzanellaletteraturarussa Post-sovietiCa:

Petrovičoun ‘eroe’ delnostrotemPo

di Laura Piccolo 303

BógzaPłaCz! di włodzimierz kowalewski: variazionisulmodellodistoPiCo

di Dario Prola 331

il sognodellaragionenella storia:

lavisioneControfattualenelromanzo rommat di vjačeslav P’eCuCh

di Giulia Baselica 349

distaCCoe (dis)aPPartenenza nelteatrorussoContemPoraneo.

a ProPositodičeChov

di Claudia Olivieri 369

rinunCiaverbaleComemutadilatazione dellosPaziovisivo.

lesequenzefotografiChedi «m.a.n.i.»

di Roberta Sala 393

laterradinessuno: identitàememoria nelCinemaPost-jugoslavo

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l

a stranieradi

m

aria

k

unCewiCzowa ealtremadrialiene

Krystyna Jaworska

abstraCt

the paper focuses on how the representations of alienated women is connected with a conflictual mother – daughter bond in selected literary works written by polish female contemporary authors. in order to show the paradigmatic changes which have occurred during the last hundred years in the stereotypical figure of the polish mother, it summons up some images of female heroines as depicted in XiX Century literature. the reader’s attention is drawn to two emblematic texts: Maria Kuncewiczowa’s The Stranger (1936) and Bożena Keff’s Mother,

Country (2008). a short comparison of the two texts points

out the specific features which are highlighted as a result of the authors’ different backgrounds and personalities, as well as the different historical contexts in which they were created.

keywords

alienated women, Mother and daughter Bond, polish Female Writers, Maria Kuncewiczowa, Bożena Keff.

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Ma tu straniero al mio pianto rimani.

Lalla romano

1. Disappartenenze

in un racconto illustrato inglese per bambini si vede un piccolo drago che vaga smarrito, chiedendo ai vari animali che incontra: «do i belong here?», ma tutti gli rispondono negativamente, e la sua disperazione cresce, finché infine non ritrova la propria mamma con gran sollievo suo, della genitrice e di chi legge la favola. in essa si evidenzia uno dei bisogni più profondi dell’uo-mo, quello dell’appartenenza, nell’infanzia soddisfatto dai ge-nitori e dalla famiglia per poi estendersi a cerchie più ampie. sentirsi rifiutati è scavare una ferita viscerale, che incide profon-damente sulla psiche.

se ciò deriva il più delle volte dall’essersi allontanati e dal mancato inserimento in un nuovo contesto, ci si può sentire soli, estranei, anche nei confronti di chi ci è vicino. penso ai bellissi-mi versi di Lalla romano: «e tu straniero al bellissi-mio pianto rimani» che con la scelta lessicale di utilizzare il termine ‘straniero’ al posto di ‘indifferente’ o ‘estraneo’ connota con ben maggiore potenza il senso di isolamento del soggetto.

Julia Kristeva (1990: 42) ebbe a sottolineare come i primi stra-nieri che compaiono nella storia della cultura occidentale fos-sero donne, riferendosi al mito cruento e minaccioso delle da-naidi. nella critica di impostazione femminista la donna come ‘altro’, come ‘diverso’, è un tema centrale, che si affianca al tema del rapporto madre-figlia, soprattutto in chiave conflittuale, e che desta, a partire dagli anni Ottanta, crescente interesse quale oggetto di numerosi studi1.

i testi di scrittrici polacche che andremo a esaminare si fo-calizzano sulla duplice estraneità risultante dall’essere figlie di

1. tra i più recenti in italia si veda: a. Chemitti, L’ inchiostro bianco. Madri e figlie nella narrativa italiana contemporanea, il poligrafo, padova, 2009.

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donne aliene (o che si considerano tali) e dalla proiezione man-cata con la propria madre, vista al tempo stesso come simile e come altra da sé. L’analisi si sofferma su come questa mancata proiezione possa portare a una destrutturazione del soggetto, lasciando spazio a sentimenti reattivi, ma anche su come tale duplice estraneità gravi sulla madre.

2. L’eredità del passato

prima di addentrarci nel XX secolo, è opportuno accennare bre-vemente a come si siano andati consolidando nell’immaginario collettivo polacco alcuni modelli femminili emblematici a partire dall’Ottocento, un periodo in cui la problematica della perdita dell’indipendenza nazionale influì notevolmente sulla produzio-ne letteraria. Un ruolo importante in questo processo è rivestito da adam Mickiewicz, poeta che, dopo aver creato personaggi di eroine combattenti come Grażyna, delinea in una lirica profonda-mente amara il destino della «madre polacca», la quale, educando all’amor di patria il figlio, lo condanna di fatto a «una morte senza resurrezione» (e di conseguenza se stessa al dolore). È degno di nota che lo stesso autore, in uno dei testi più importanti della letteratura polacca, Dziady (Gli avi, 1832), abbia posto fra i trat-ti significatrat-tivi del misterioso futuro salvatore della patria il fatto di avere una madre straniera. ritengo che così facendo volesse sottolineare come l’idea di appartenenza nazionale non debba es-sere legata al sangue, ma anzi, contro ogni xenofobia, ribadisse il valore dell’ibridazione per accrescere la propria identità. spesso si è voluto vedere in questo passo un riferimento a una presun-ta ascendenza ebraica, nel qual caso l’elemento chiave della sua visione messianica della storia sarebbe l’unione tra ebraismo e cristianesimo. in tutti i casi, nella prospettiva proposta, la madre straniera è un attributo positivo e fondante.

L’essere di madre straniera può essere un elemento che arric-chisce, ma può anche avere valenze distruttive, alimentando un senso di disappartenenza fisica e culturale. e le madri straniere,

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fuori da una idealizzazione mitopoietica, spesso sono presenze difficili.

diversi ritratti di donna scaturiscono in quest’epoca dalla penna di rappresentanti del ‘gentil sesso’, e si può rilevare come ne risulti un quadro ben più articolato di quello dovuto all’immaginario ma-schile. accanto ad autrici che ribadiscono il ruolo convenzionale della donna, integrata all’interno della società, che assolve al suo ruolo di moglie e madre (e, data la situazione politica del paese, spesso anche di patriota), altre si contrappongono a esso propo-nendo personaggi che agiscono in contrasto con le norme sociali.

tra quante propugnano il modello tradizionale vi è Klementyna tańska-Hoffmanowa (1798-1845), coetanea di adam Mickiewicz, prima scrittrice polacca che si dedica quasi esclusivamente alla letteratura con finalità pedagogiche e una delle prime che si mantengono con il proprio mestiere. in Pamiątka po dobrej

matce, czyli ostatnie jej rady dla córki. Przez Młodą Polkę (Ricordo lasciato da una buona madre, ovvero i suoi ultimi consigli alla figlia. Scritto da una giovane polacca, 1819), edito quando l’autrice aveva

appena ventun anni, la protagonista scrive in punto di morte alla figlia quattordicenne tutta una serie di raccomandazioni sul comportamento da tenere, affinché le possano servire da guida per il futuro2. La giovinetta dovrà in primo luogo prepararsi a

dedicarsi alla famiglia e trasmettere ai figli l’amore per la propria patria3. in questo modo potrà assicurare la continuità di ideali da

2. nello scrivere quest’opera l’autrice prese in parte spunto, come specifica tańska (1819: 4), da Rosaliens Vermächtniss an ihre Tochter Amanda (1808) di Jakob Glatz.

3. Considerato che il libro esce nel regno di polonia soggetto allo zar, e quindi è sottoposto alla censura zarista, tali riferimenti devono essere molto discreti. per sottolineare l’importanza della letteratura patria tańska introduce i capitoli della sua opera con epigrafi tratte dalla poesia polacca. nel capitolo intitolato O miłosci ku rodzicom, rodzeństwu, krewnym, ojczyźnie i o wdzięczności (sull’amore verso i genitori, i fratelli, i parenti, la patria e sulla riconoscenza), dopo aver fatto l’elogio di rito della fortuna che almeno in una parte della patria sia consentito l’uso del polacco, sottolinea l’importanza di coltivare e preservare l’uso della lingua.

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una generazione all’altra, rafforzata dai legami affettivi, per cui i sentimenti patri sono tutt’uno con i sentimenti più intimi: lo stesso amore che si prova verso i genitori si estende alla patria, intesa appunto come madre. dovrebbe inoltre servirsi del polacco e non del francese, com’era allora in voga tra i ceti aristocratici in tutta europa, per non indebolire il senso di identità nazionale. su quest’aspetto l’autrice tornerà anche nel Diario di Francesca

Krasinska (tańska 1941: 15) ambientato nella seconda metà del

settecento, che fu tradotto anche in italiano4. il modello che

confina la donna nello spazio domestico si difende bene per tutto il secolo, tant’è che nel 1893 un’altra autrice di racconti per signorinelle, Jadwiga Łuszczewska, che si firmava sotto lo pseudonimo di deotyma, descriverà con spirito analogo una patriottica storia d’amore à la Dumas, ambientandola nel seicento a danzica: Panienka z okienka (La fanciulla della finestrella).

il ruolo tradizionale si complica comunque per la particolare situazione politica del paese, per cui anche la donna, se patriota, si trova a essere contro il dominatore straniero e a prendere parte ad azioni volte a sovvertire l’ordine costituito: si avranno quindi eroine insorte come emilia plater, idealizzata dallo stesso Mickiewicz nella poesia Śmierć półkownika (La morte del

Colonnello, 1832).

sarebbe però errato appiattire l’immagine della donna sulla figura della patriota. La molteplicità e l’ambiguità di scelte e comportamenti perseguibili viene evidenziata in un romanzo di narcyza Żmichowska, Poganka (La pagana, 1846), che rifugge dall’esaltare facili stereotipi (Graczyk 2013, 25-63). aspazja (il nome allude alla colta e libera donna straniera, in quanto non ateniese, che sedusse pericle e fu maestra di retorica di socrate) è rappresentata come un’estranea (obca), in quanto diversa e non rispettosa delle norme morali vigenti. personaggio ai confini

4. È significativo che l’opera sia stata tradotta in italiano durante la seconda guerra mondiale e dedicata dalla traduttrice, Maria Bersano Begey, a Maria pia e Maria Gabriella di savoia, per ricordare che nella casa regnante italiana scorre sangue polacco, essendo Francesca Krasińska bisavola di Carlo alberto di savoia.

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tra reale e fantastico (vive in un misterioso castello sui monti Carpazi), la sua descrizione non è priva di tratti inquietanti: è una donna che si distingue per il suo edonismo, che distrugge la vita degli uomini che ammalia. La leggenda della principessa vampiro che succhia il sangue del pescatore che si era innamorato di lei, narrata all’interno della vicenda principale da Beniamin, un suo amante che dopo essere stato abbandonato da lei si macchierà di omicidio5, assume valenze simboliche: aspazja

infatti, sebbene non succhi il sangue, succhia l’anima. nel romanzo la sua figura è contrapposta ai personaggi femminili positivi della famiglia di origine di Beniamin e di suo fratello Cyprian, un artista che aveva ritratto aspazja, facendo nascere l’interesse di Beniamin per la donna. L’autrice, nel delineare il conflitto tra la brama di soddisfare i propri capricci e perseguire le proprie ambizioni e una vita dedicata agli affetti familiari e alla comunità, si astiene dal tranciare giudizi. in effetti come è stato rilevato (phillips, 2008: 362-363), si tratta piuttosto di un bipolarismo tra due preconcetti: la donna vestale del focolare domestico e la femme fatale. all’autrice pare più prossima una visione maggiormente articolata fatta di donne indipendenti, libere e al tempo stesso responsabili delle proprie azioni, attive nel sociale, ma fuori dagli schemi, raffigurata nei personaggi della parte introduttiva del romanzo.

se in diverse opere Żmichowska sottolinea l’importanza delle madri nella formazione dell’equilibrio psichico delle figlie, nelle opere di eliza Orzeszkowa, pur non mancando modelli positivi, predominano quelli negativi (Borkowska, 1996: 172-176), quali le madri tiranniche in Rodzina

Brochwiczów (La famiglia Brochwicz, 1876) o in Jędza (La megera, 1891), o genitrici deboli come l’isterica emilia in Nad Niemnem (Sulle rive del Niemen, 1888). in quest’ultimo

romanzo, ambientato in una residenza nobiliare in Lituania,

5. Questo brano si trova tradotto in italiano nell’antologia di Marina Bersano Begey, Le più belle pagine della letteratura polacca, nuova accademia, Milano 1965, pp. 126-127.

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la protagonista, Justyna, a differenza della zia Marta che a suo tempo aveva rinunciato all’amore per paura di infrangere le convenzioni, decide di sposare il giovane che ama nonostante sia di ceto inferiore, incurante del declassamento sociale che tale scelta comporta. si noti che la protagonista ciò facendo mantiene il ruolo patriottico, anzi lo assume più pienamente, felice di insegnare ai bambini del villaggio, trasmettendo in tal modo elementi della cultura nazionale a quanti altrimenti ne sarebbero stati esclusi. Nad Niemnem fu giustamente ritenuto il corrispettivo in prosa del poema Pan

Tadeusz di Mickiewicz, anche in quanto a costruzione di una

identità nazionale inclusiva, che mira a rafforzare il senso di appartenenza nella comunità nazionale.

Ben diverso è l’epilogo che la stessa scrittrice appronta a Franka, la protagonista di Cham (Il pescatore del Niemen, 1888). nel romanzo predomina la dimensione esistenziale e la contrapposizione tra città e campagna, mentre è assente la questione nazionale, che era in primo piano in Nad Niemnem. Franka è una donna vittima di un’infanzia infelice, con una madre che, come ci tiene a sottolineare, era di ceto alto in quanto suonava il pianoforte, che l’aveva però abbandonata a un padre ubriacone. La fanciulla vive un’adolescenza di umiliazione e declassamenti, costretta per campare a fare la cameriera presso varie famiglie. più volte sedotta e abbandonata, a un certo punto rivolge la propria attenzione a un pescatore incontrato per caso, un uomo semplice e di una fede profonda. Questi ritiene che ad averla traviata sia stata la città e si pone il compito di salvare lei e la sua anima sposandola. nonostante la dedizione del marito, Franka si sente soffocare nel ristretto ambiente campagnolo in cui è finita, si sente frustrata, non riesce ad adattarsi, e all’affascinazione subentra il disprezzo. La fortissima attrazione reciproca della coppia non basta per superare la profonda differenza di orizzonti ideali che porta all’impossibilità di vedere l’altro oltre l’immagine preconcetta che ci si è fatti. il pescatore sacrifica tutto per la donna, ma non la capisce e lei, sentendosi incompresa, si vendica rovinandolo.

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natura all’orlo dello squilibrio mentale, è violenta con gli altri e alla fine con se stessa. Unica via d’uscita le pare essere, dopo un tentativo fallito di uccidere il marito, uccidere se stessa. È un romanzo amaro: anche il granitico protagonista maschile, che pure si sobbarca l’educazione del figlio che la moglie aveva avuto con un altro uomo, risulta incapace di uscire dal proprio schema mentale.

Mentre nella Pagana la pulsione sessuale è uno strumento di cui aspazja è ben consapevole e sa utilizzare a proprio vantaggio, nel Pescatore del Niemen è vista come una forza oscura che sfugge al controllo della protagonista. a distanza di pochi anni da quest’ultimo romanzo, nel mutato clima della letteratura di fine secolo, la potenza sessuale della donna verrà infine rivendicata con innumerevoli immagini di donne fatali, salottiere leonesse, che come ebbe a osservare Jan prokop (1990: 62-63), balzano alla gola degli uomini (si pensi alle poesie di Kazimierza zawistowska, basate per altro su modelli francesi).

3. Straniera? Esule? Una sofferta dis-identità

nel periodo tra le due guerre, quando nella narrativa polacca le scrittrici occupano un ruolo di primo piano, troviamo diverse figure femminili dalla personalità complessa, difficile, che non esitano a criticare l’ambiente circostante o si ribellano al pro-prio destino, quali róża in Cudzoziemka (La straniera, 1936) di Maria Kuncewiczowa o Barbara in Noce in dnie (notti e giorni, 1932-34) di Maria dąbrowska, Bronka in Dziewczęta z

Nowo-lipek (Le ragazze della Novolipki, 1935, tradotto in italiano nel

1947) di pola Gojawiczyńska, Justyna in Granica (La frontiera, 1935) di zofia nałkowska, tant’è che il topos della sofferta di-versità femminile è considerato tra i prevalenti nella letteratu-ra femminile del periodo interbellico (Kletteratu-raskowska 1999: 209). tale problematica non era estranea neppure alla letteratura ‘ma-schile’, anche se in essa resta spesso volutamente confinata tra le maglie del grottesco: si pensi a Matka (Commedia ripugnante di

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una madre, 1924) di Witkiewicz e tradotta nel 1970 in italiano

da dacia Maraini6.

ai fini del nostro discorso, particolarmente significativo è il romanzo La straniera di Maria Kuncewiczowa, edito nel 1936, quando l’autrice aveva circa quarant’anni, e tradotto in italia-no tre anni dopo. Kuncewiczowa crea un personaggio alquan-to ostico e spinoso, che rifiuta il modello martirologico della madre-polacca, presente nella famiglia della nuora, come pure il modello convenzionale di madre e moglie, e che ha un rap-porto conflittuale sia con la patria sia con il proprio ruolo di madre, impersonificando diversi livelli di estraneità: nazionale, culturale, esistenziale. tutta la narrazione si dipana nell’arco di un giorno, l’ultimo della protagonista. il romanzo si distingue anche per la maestria della costruzione, che svela gradualmente la storia di róża (rosa), la quale ripercorre episodi della propria esistenza in un flusso di coscienza in cui passato e presente si mescolano fluidamente, il tutto scandito da un ritmo serrato, dettato, si direbbe, dalla musica. La trama sembra un sogno (o un incubo) a occhi aperti che dispiega un ritratto molto artico-lato, composto soprattutto dal mosaico dei sentimenti interiori di róża, fanciulla abbandonata, rifiutata dall’unico uomo di cui si era innamorata, artista non realizzata, moglie infelice, madre dittatoriale.

nata in russia, figlia di una gentildonna un po’ strampalata, che poco si era dedicata alla sua educazione, e di un padre al-quanto assente, róża a un certo punto viene mandata a studia-re violino a Varsavia, città che le appastudia-re estranea, e dove viene recepita come una straniera, per via del suo aspetto e del suo accento russo. Qui subisce un amore infelice cui si accompagna la frustrazione di non essere divenuta una grande artista a causa dell’insegnamento errato impartitole da un maestro rivelatosi mediocre. Vedrà infrangersi i suoi sogni. per lei è l’inizio di una

6. dacia Maraini tra le antenate aveva anche una bisnonna polacca, emilia pawłowska, ma non conosceva la lingua e, come è stato notato (Ceccherelli 2012: 35), nel suo lavoro si basò soprattutto sulla versione inglese.

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«lenta morte dell’anima» (Kuncewiczowa 1984: 38). nutre astio nei confronti di tutti e di tutto. tale senso di risentimento, de-rivato dalla delusione amorosa, da quella verso la sua patria e verso le sue ambizioni artistiche, trasforma passioni positive nel loro opposto. «rosa aveva deciso di vendicarsi. avrebbe comin-ciato a vendicarsi sulla polonia, dove aveva conosciuto l’infelici-tà, e sopra gli uomini» (1984: 27). e in effetti sceglie per marito un uomo buono ma insignificante, che domina completamente e non omette occasione per umiliarlo. L’ammirazione inizialmen-te provata da costui verso quella splendida, ma distaninizialmen-te, crea-tura che aveva accettato di sposarlo si trasforma in paura. róża aveva trasformato il suo mondo «in una giungla piena di spettri e di agguati» (1984: 42). «superba e inaccessibile», «estranea a tutti, aliena da ogni intimità» (1984: 18), trascura la famiglia per passare il suo tempo a suonare il violino, talora in modo «alluci-nato e morboso». La convivenza familiare è un incubo e anche la maternità è vista con toni ambigui. solo nella musica róża trova sfogo e questa svolge un ruolo centrale nella narrazione, a cominciare dall’epigrafe, un Lieder di Heine, Ich grolle nicht (omessa nella traduzione italiana, nonostante la funzione chiave che svolge) musicato da schumann7.

nel decimo anniversario della morte del figlio minore, cau-sata da un’infezione, róża, colta da raptus, vuole uccidere il maggiore, ma, quando già ha la rivoltella in mano, le pare di udire le foglie suonare l’Allegro ma non troppo del Concerto in

re maggiore di Brahms, opera che in lei suscitava «una gioia

in-comparabile, superiore perfino a quella suscitata dalla Sonata a

Kreutzer, per la sua perfetta armonia» (1984: 171) e,

infantici-da mancata8, posa l’arma per suonare il violino. È allora che il

7. si veda anche a questo proposito sokalska (2014: 23-41).

8. rosa possiede tratti che ricordano Medea. su quest’aspetto si era soffermata Katarzyna sokołowska-nadana dell’iBL pan di Varsavia in una lezione tenuta nel 2012 all’Università di torino nell’ambito del progetto di mobilità erasmus. si noti che il mito di Medea, infanticida e straniera, riaffiora, seppur discretamente, nel corso dei secoli in diverse opere letterarie polacche: lo possiamo vedere nel rinascimento in

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marito la costringe a smettere di suonare e subire un rapporto sessuale. Quella notte, l’ultima in comune, viene concepita la figlia Marta, mai amata perché simile al padre. róża predilige il figlio (che stava per uccidere quand’era bambino), il quale però, soprattutto in età adulta, susciterà in lei principalmente orrore (1984: 62). Quando però scopre che la figlia ha una bella voce comincia a interessarsi a lei insegnandole canto. e in effetti sotto la sua guida la figlia diventa una cantante rinomata, che però con la madre ha un rapporto difficile: «Quella persona che le aveva fatto versare tante lacrime d’odio, di vergogna e d’umilia-zione» (1984: 201).

Kuncewiczowa sa descrivere le tensioni, i sentimenti di odio e d’ira che si scatenano all’interno dei meccanismi di coppia e tra le mura domestiche con sottile precisione, portando le situazioni quasi al culmine per poi lasciarle svuotare nuova-mente nella disperazione astiosa dei coniugi. La narrazione si dipana lungo quattro generazioni. anche verso il nipote, figlio di sua figlia, róża è sgradevole. e parimenti è odiosa verso la propria madre.

in tutto questo si inserisce un rapporto ambivalente con la propria patria, ma anche verso le altre nazioni. ai russi si di-chiara polacca, rivendicando altezzosa il patriottismo dei pro-pri antenati. nei confronti dei polacchi deride il loro patriot-tismo, offende i sentimenti della nuora commentando male-volmente i costumi polacchi della sua famiglia e lodando il bel mondo di san pietroburgo. non va meglio nei confronti dei tedeschi e degli italiani. Ovunque si presenta si crea attorno a lei il gelo per l’ostilità che emana da ogni suo gesto. È come uno spettro, un vampiro, dirà la nuora. dovunque è percepita e si percepisce come aliena. a Berlino, quando i passanti la definiscono ‘eine Fremde’ commenta: «È il mio destino. […]

Kochanowski Pieśń Świętojańska o sobótce (anche qui, come in euripide, la figlicida alla fine sfugge trasformata in uccello), e in forma meno diretta nel romanticismo in Balladyna di słowacki. Ovviamente a livello europeo nel novecento di grande pregnanza furono le riprese del mito da parte di pierpaolo pasolini e di Christa Wolf.

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dunque così? Basta che io mi muova per sentirmi dire. ‘stra-niera’!» (1984: 78).

d’un tratto però, proprio nel giorno della sua morte, róża cambia completamente indole e chiede scusa alla famiglia per la mancanza d’amore. dirà al marito: «io ero selvaggia e non m’occupavo della gente, m’occupavo soltanto della musica e del mio dolore, della mia nostalgia e dei miei misteri. dovunque tu ti stabilissi, riuscivi subito a farti un focolare; io ero sempre tormentata dalla voglia di andare altrove. […] io vengo da una famiglia d’esiliati, di nomadi» (1984: 214-215). Ovunque, anche in polonia, si sente in esilio (1984: 211) e ovunque l’accompagna la musica, che come ebbe a scrivere anni dopo zagajewski, «è stata creata per chi non ha una casa, dato che di tutte le arti è la meno legata a un luogo» (2007: 16). Una lirica dello stesso poeta, Nella bellezza altrui, pare chiosare perfettamente la tra-sformazione interiore di róża: «solo nella bellezza altrui / vi è consolazione, nella musica / altrui e in versi stranieri. solo negli altri vi è salvezza, anche se la solitudine avesse sapore d’oppio […]» (zagajewski 2012: 59).

in effetti a trasformare la terribile protagonista sarà l’incontro con un medico tedesco, in quanto «lui solo non ha avuto paura di me. […] Lui solo ha saputo vedere l’infanzia nel fondo della mia anima decrepita» (1984: 234). si convince così di non essere mai riuscita a suonare Brahms non per mancanza di tecnica, ma «per quel vuoto crudele nel cuore». si può rilevare come an-che qui la pazzia sia dovuta, come per la protagonista di Cham, all’incapacità di amare, a un infantilismo di fondo, a un vuoto nel cuore, che non le permettono di comprendere né di provare empatia per chi le è accanto.

se per altro la Kuncewiczowa già in un racconto preceden-te, pubblicato sulla rivista femminile «Bluszcz», Przymierze z

dzieckiem (L’alleanza con il bambino, 1926), scritto dopo aver

avuto un figlio, cerca di sfatare il mito della maternità come un fatto naturale, qui il tema assume dimensioni ben più ampie, non è solo la maternità a non essere un fatto naturale, ma tutta la vita.

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solo a distanza di molti anni l’autrice ammetterà che i rappor-ti tra róża e Marta sono una trasposizione letteraria dei suoi con la propria genitrice, una violinista nata in russia, che si sentì per tutta la propria vita straniera nel paese d’origine degli antenati, e che nel personaggio di Marta si rispecchiano tratti del suo ca-rattere, avendo anch’ella studiato da cantante lirica.

La condizione di straniera connoterà la biografia dell’autri-ce più di quanto essa avrebbe potuto immaginarsi all’epoca del romanzo. scrittrice affermata, membro dell’associazione degli scrittori, con l’invasione della polonia nel settembre del 1939 la-scia il paese e attraverso la romania raggiunge la Francia e di lì l’inghilterra. prende parte attiva alla vita degli esuli, funge da presidente pro tempore del pen Club polacco allora costituitosi a Londra. scrive Klucze (Le chiavi, 1943), narrazione del suo per-corso di profuga (‘le chiavi’ sono le chiavi dei vari alloggi da cui è transitata) e Zmowa nieobecnych (Il complotto degli assenti, 1946). in questo romanzo la distanza non solo geografica ma soprattutto di esperienze, che separa gli esuli a Londra da quanti si trovano sotto l’occupazione in polonia, li fa sentire come degli spettri. La protagonista è una nota cantante profuga a Londra (e nuovamen-te si ritrovano tratti autobiografici) e le letnuovamen-tere dei familiari dalla polonia le fanno percepire l’incommensurabile differenza fra le loro situazioni. «dica a loro di dimenticare» raccomanda all’e-missario che parte per la polonia.

nel 1948 Kuncewiczowa promuove un appello di intellettuali alle nazioni Unite affinché sia creato per i profughi lo status di ‘cittadini del mondo’, con relativi diritti in modo che non siano costretti per motivi di lavoro ad assumere altre cittadinanze, ap-pello purtroppo che raccolse poche firme ed ebbe poco ascolto presso i destinatari (szałagan: 91-94). negli stessi anni si attiva affinché si formi il Centro del pen Club degli scrittori in esilio: questa volta i suoi sforzi furono coronati da successo nel 1951. nel 1955 emigra negli stati Uniti, dove si trovava l’unico figlio. nel 1959 si stabilisce a new York e negli anni 1962-’68 insegna letteratura polacca a Chicago. nel 1970 si trasferisce in polonia. resta fedele alla sua problematica di fondo, come si può anche

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vedere nel magistrale racconto breve Próba innej formy. Ja – on (Prova di un’altra forma: Io – lui, 1988). Commentando la sua produzione saggistica, Janion rileva come l’aspetto autobiogra-fico fosse centrale per il suo modo di fare letteratura, «sospeso tra la Madre e il padre, tra la straniera e l’Uomo che si sente ovunque a casa» (Janion, 2000: 425).

È stato rilevato a proposito di Kuncewiczowa: «her bold trespassing onto foreign territories and literally living on oth-er cultures and languages – makes the writoth-er into a strangoth-er to herself» (zaborowska 1995: 210). analogamente molti dei suoi personaggi sono donne che, in quanto provenienti da un altro-ve, vivono sapendo di essere percepite come aliene e la mancata identificazione è per loro fonte di disagio. Oscillano tra estranei-tà e familiariestranei-tà. sentono la propria alteriestranei-tà come una condanna e un privilegio, in quanto essere in qualche modo estranee per-mette loro di osservare la società in cui vivono in una duplice prospettiva, interna ed esterna al tempo stesso, e di rapportarsi a essa con ambivalenti sentimenti di appartenenza e disappar-tenenza.

4. Prigioniere del passato, vittime destrutturate o finalmente libere?

È significativo che nella letteratura del periodo comunista le problematiche di genere (al pari di altre tematiche ritenute ob-solete o inopportune) non trovassero spazio nella pianificazio-ne della vita culturale del paese e che tra gli esordi letterari di quegli anni si possa notare un calo di scrittrici di primo piano. evidentemente in un sistema che riteneva di aver superato le differenze di sesso vi era minore interesse per voci che le riba-dissero (tale spazio ‘privato’ rimane comunque preservato nella poesia, in cui continuano a farsi sentire importanti autrici).

La rilevanza del rapporto madre-figlia è ben presente nelle opere delle scrittrici che scelsero dopo la seconda guerra mon-diale, come Kuncewiczowa, la strada dell’esilio. sui nessi tra

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identità nazionale e il rapporto madre e figlia è incentrato il romanzo di zofia romanowiczowa Baska i Barbara (1956), che si colloca all’interno della tendenza ‘tradizionalista’, in cui non subentra un conflitto tra madre e figlia, ma riprende inattesa attualità il modello ottocentesco dell’importante ruolo della madre nella trasmissione della lingua e dell’identità nazionale e del sentimento di continuità generazionale rafforzata dal senso di appartenenza all’interno della famiglia, in quanto straniero risulta piuttosto lo spazio pubblico, non la madre. su come il ruolo della madre polacca si riproponga negli ambienti dell’e-migrazione postbellica è stato recentemente oggetto di studi di Karwowska.

La prospettiva specificamente femminile torna in primo piano in polonia di fatto solo dopo il crollo del comunismo e la piena riconquista della sovranità nazionale. Fanno allora ingresso sulla scena letteraria scrittrici per le quali l’ottica di genere è centrale. il sentimento di estraneità femminile è ben presente, per limitarsi ai nomi più noti, nelle opere di Manuela Gretkowska, Olga to-karczuk e izabela Filipiak. per quest’ultima la scrittura è lo spazio in cui le donne paiono cercare e ritrovare un equilibrio. il suo

Ab-solutna amnezja (Amnesia assoluta, 1995) è un romanzo di

forma-zione in cui la protagonista, Marianna, singolare ifigenia polacca, come la definì Maria Janion (1996: 336), è vittima dei genitori – con un padre funzionario comunista e una madre, significativamente soprannominata ‘L’immacolata’, attivista e vestale dell’opposizio-ne – che non hanno mai tempo per lei e che ritengono che la figlia dovrebbe immolarsi per la patria. La soluzione scelta da Marianna, novella aracne, è emigrare, fuggire sul filo di ragno da lei stessa tessuto, e con il quale scrive metaforicamente la propria storia.

L’opera in cui assume la sua manifestazione più radicale e as-solutizzante il conflitto madre e figlia, unito a un senso di disa-gio nei confronti della propria appartenenza e identità naziona-le, è indubbiamente Utwór o matce i ojczyźnie (Madre, Patria, 2008) di Bożena Keff-Umińska, autrice nata a Varsavia nel 1948 che acquista un ruolo significativo sulla scena letteraria in età matura, solo dopo i cambiamenti del 1989.

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Madre, Patria è un’opera singolare, micidiale miscela di

riferi-menti presi da orizzonti disparati per esprimere, o meglio urlare, espellere, un disagio profondo. scritto in una forma ibrida, è un poema che assume valenza dialogica, drammaturgica, riprenden-do quindi la poetica romantica in chiave postmoderna. Unisce elementi della tragedia, del melodramma e dell’oratorio, come ri-levò, lodandone la maestria, przemysław Czapliński. nel dramma i due personaggi principali assumono simbolicamente i nomi di demetra/Metra e Cora/Coruccia/Uccia (Kora/Korusia/Usia in polacco) per esprimere la dimensione archetipica del rapporto madre e figlia, ma rivissuto in toni oppressivi, di coercizione e rifiuto allo stesso tempo. La madre è come una matrice da cui comunque è difficile distaccarsi, radice dolorosa. La madre, ebrea di Leopoli sopravvissuta alla seconda guerra mondiale, è convin-ta che per le traversie esperite dovrebbe essere al centro dell’at-tenzione, al tempo stesso è prigioniera del proprio trauma che però ritiene sia inaccessibile a chiunque, ivi compresa la figlia. La figlia si sente rifiutata dalla madre, considerata da lei un semplice «grande orecchio» che dovrebbe limitarsi ad ascoltare.

a sua volta la figlia riversa, vomita sui lettori (o sul pubblico a teatro) il suo trauma anche attraverso l’uso di offensivi volgari-smi, brutali e taglienti come lame. per rappresentare il suo ma-lessere l’autrice crea una sequenza di quadri, di scene, introduce echi diversi che si richiamano rispecchiandosi in lenti deforma-te, come un incubo onirico in cui dalle viscere attorcigliate della storia riaffiorano e si scontrano accozzaglie residuali del pas-sato – come in Recycling di różewicz e in molte opere dell’ar-te condell’ar-temporanea – personaggi della storia, della letdell’ar-teratura e della cultura di massa, di vari periodi e continenti, oppressi e oppressori. Mescolanza destrutturata, come nei frammenti di uno specchio frantumato in cui la vita si rimacina in una di-mensione che non rispetta l’ordine temporale o spaziale, ma in cui tutto pare convivere e intrecciarsi: i miti greci, Babilonia, le rivolte dei neri, il periodo comunista, solidarność, Lara Croft, Kora, Kronos, polański, alien, ripley, adolf Hitler, nosferatu, Werner Herzog, Klaus Kinsky.

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Come è stato osservato, l’autrice si serve nel testo di una poe-tica del mostruoso, a più livelli, non solo contaminando i generi letterari, ma anche creando un ritratto orripilante della madre e il linguaggio rivoltante della figlia:

the monstrous manifests itself in two aspects of the piece. On the one hand, the mother is depicted by Usia as an oppressive monster incessantly controlling her life. On the other hand, Keff’s work itself may be perceived as a monsterpiece due to recycling strategies employed by the author intermingling different genres (e.g. ancient tragedy and oratorio) and cultural images (e.g. ridley scott’s ripley and nat turner). through the monstrous language, Usia attempts at creating her own story against both the traumatised past of her mother and the dominant polish patriarchal narratives about the War (Chaberski 2014: 1). Luigi Marinelli vede nell’opera «una disperatissima preghiera. […] la sacralità della vita qui è ribadita più volte attraverso la bestemmia e il turpiloquio» (2011: 7); «è soprattutto un’opera sulla libertà, anche la libertà di soffrire e compatire (libertà che la Madre nega sempre alla Figlia)» (2011: 8). Quella che è rappre-sentata è una condizione universale, condivisa ovunque vi siano degli oppressi, non a caso in campo entrano immagini disparate e comunque tanto dolore, odio e conflittualità celano un amore profondo, una passione che non si può recidere.

allo stesso tempo, però, l’urlo, il grido di dolore della figlia, che pare richiamare quello di Munch, necessariamente separa il soggetto dagli altri. Quando si soffre si soffre sempre in soli-tudine, si crea una barriera tra il proprio malessere e il mondo esterno. La figlia si sente vittima di una madre che dissangua, svuota, da cui non si può sfuggire: è appunto la madre, patria. in questo suo sentire la figlia assolutizza sia la madre sia la patria, vista non come una collettività di persone brulicante di tenden-ze e pensieri diversi, ma come un monolitico insieme nutrito di pregiudizi astiosi. Oppressa dalla madre, ma anche dalla memo-ria, percepisce la società in cui vive con la categoria del

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razzi-smo di cui si sente vittima. nella Bozza di Manifesto posta prima dell’Epilogo, acutamente definita da Quercioli Mincer (2011: 106) «fintamente ingenua» e «autenticamente solare», auspica un mondo senza distinzioni fatte di «nomi individuali», senza altre qualifiche relative al sesso, al ruolo, alla razza. eppure Uc-cia, divenuta ormai persefone, attribuisce all’intera collettività pensieri manifestati solo da una sua parte, senza riuscire, senza volere distinguere le persone all’interno di una astratta e fanta-smagorica patria, su cui riversa il suo malessere.

terreno d’unione con la madre diventa infine la condivisio-ne del senso di estracondivisio-neità, in quanto la figlia si sente anch’essa estranea alla società in cui vive a causa dell’antisemitismo che vi percepisce. nonostante il rancore, l’acredine, la figlia in effetti si ricrea narrando la storia della madre e la sua attraverso il filtro della propria iper-soggettiva, lacerante prospettiva. dando voce alle proprie frantumate percezioni della realtà e ascrivendo loro valore universale, ritiene di affrancarsi e di realizzare la sua voca-zione artistica, come preannunciato all’inizio dell’opera, quando Uccia asserisce di essere poetessa.

nella sua postfazione Laura Quercioli Mincer, richiamandosi agli studi di Marianne Hirsch, osserva come l’opera si collochi all’interno della postmemory della shoah, raffigurandone la gre-ve eredità. in effetti Hirsch è qui presente anche per i suoi studi sui rapporti madre e figlia (si pensi al suo Mother-daughter plot), presumibilmente noti a Keff.

L’opera in polonia esce accompagnata da un’introduzione a fir-ma congiunta di Maria Janion (una delle fir-maggiori studiose del romanticismo polacco e dell’eredità romantica nella cultura nove-centesca, schieratasi dopo il 1989 sul fronte degli studi di genere) e izabela Filipiak, scrittrice che era stata allievadi Janion (checon i cicli di seminari tenuti a Varsavia e a danzica sulla trasgressione ha formato intere generazioni di letterati) e che rivendica aper-tamente l’influsso della propria Maestra sulle sue opere, influsso che è per altro evidente in più autori, tra cui la stessa Bożena Keff. Oltre ottant’anni separano La straniera da Madre, Patria. ep-pure numerosi sono gli aspetti che legano le due opere, come

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pure notevoli le differenze che risultano dalle diverse sensibilità delle autrici e dal mutato orizzonte storico, sociale e politico.

se da un punto di vista stilistico si può notare come in Kun-cewiczowa la costruzione estremamente compatta della narra-zione, nonostante il ricorso allo stream of consciousness, ricordi un’armonica composizione musicale in cui tutte le parti si ri-chiamano, in Keff la struttura spuria (poema, tragedia, dram-ma) porta a un effetto dodecafonico, con scaglie taglienti che si intersecano spezzando la narrazione.

Ben più rilevanti sono però le differenze di esperienze vissute e prospettive. ruolo centrale nella Straniera è riservato alla ma-dre, protagonista indiscussa, mentre nell’opera di Keff lo è invece indubbiamente la figlia, seppure oppressa dalla madre: «il figlio è sempre il Figlio di sua Madre. / La madre invece è Madre» (Keff 2011:17). entrambe le madri sono comunque dominatrici e prevaricatrici: «la madre patriarcale professa il Mito della Madre – quando le fa comodo», scrive Keff (2011: 69).

Ciò che mette in relazione Kuncewiczowa e Keff è come l’e-straneità passi appunto attraverso il filtro del rapporto con la madre, seppure in proporzioni e modalità differenti. in Kun-cewiczowa la madre si sente straniera, ha problemi di identità nella patria di origine dei suoi antenati, patria in cui la figlia invece pare pienamente integrata. in Keff si ha l’impressione che sia soprattutto la figlia a sentirsi straniera, nonostante sia la madre che ha dovuto lasciare la sua città natale, occupata prima dai tedeschi e poi dai sovietici e dopo la guerra divenuta parte dell’Unione sovietica, per trasferirsi a Varsavia e vivere in un si-stema politico che nell’ottica dell’internazionalismo comunista negava le specificità culturali e religiose. La madre è una soprav-vissuta allo sterminio degli ebrei. La figlia si sente esclusa dalla madre, ma non riesce neanche a trovare le proprie radici in un paese in cui molta della sua storia è stata spazzata via. si noti che, mentre il trauma della seconda guerra mondiale in Madre,

Patria è centrale, nella Straniera la prima guerra mondiale è di

fatto assente, non avendo coinvolto direttamente la protagoni-sta. Ma sarebbe riduttivo storicizzare troppo la vicenda.

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dato il rapporto conflittuale, entrambe le figlie, per la di-stanza che sentono nei confronti delle madri, sono immuni alla matrofobia (ovvero alla paura di diventare simili alla propria madre, intesa nel senso attribuito da adrienne rich al termine forgiato da Lynn sukenick in riferimento a doris Lessing). Le loro, per usare la terminologia di donald W. Winnicot, richia-mata nella postfazione da Quercioli Mincer, sono madri cattive, che non permettono il distacco. entrambi i testi inoltre solo al fondo assumono quello che è secondo gli studi femministi di derivazione psicoanalitica sull’identità femminile una caratteri-stica dominante del rapporto madre-figlia: la continuità di un io in movimento9. infatti, se per gli studi psicoanalitici tratto

essenziale della femminilita è la continuità, entrambe le madri (anche se indubbiamente róża in misura ancor maggiore) sono asserragliate in un ego maschile, che punta alla separazione.

e che la letteratura possa in qualche modo almeno permettere di esprimere, se non di superare i traumi, è magra consolazione. Certo non è così per róża, che anzi giunge alla conclusione che solo una vita pienamente vissuta possa permettere di raggiun-gere una piena espressione artistica. L’arte, da questo punto di vista, non salva la vita, ma è la vita che può salvare l’arte. Già Żmichowska metteva però in guardia i lettori contro facili ricet-te rispetto al significato della letricet-teratura e dell’arricet-te per la vita e

9. «in their analysis of female identity, Chodorow, Frax, dinnerstein, and Miller, in spite of their radically different methodology and discourse, find themselves in surprising agreement with irigaray, Kristeva, and Cixous. Womans’s being, because of the quality of the pre-oedipal mother-daughter relationship, is, according to both traditions, continuous, plural, in-process» (Hirsch 1981: 211). La stessa Hirsch al fondo del suo saggio sottolinea i limiti intrinseci di tale lettura, discussa già da a. rich in Compulsory Heterosexuality.

secondo Hirsch (1981: 212) «the usefulness of theoretical paradigms lies in their outline of general trends, which helps us to locate individual experiences and to relate them to each others». eppure spesso il fascino delle opere letterarie è proprio quello di non essere paradigmatiche, di sfuggire agli schemi ed è questo il caso della Straniera di Maria Kuncewiczowa.

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indicava come si debba rifuggire da posizioni esasperatamente passionali come pure da facili stereotipi. al grido di Uccia ri-sponderebbe probabilmente che, poiché vi sono diversi tipi di amore, l’amore affetto, l’amore passione e l’amore peccato, si deve mirare al primo, che è privo dei sentimenti reattivi provo-cati dalle passioni. Le passioni predominano però nel dramma di Keff e certo non permettono serenità di giudizio. e la scrit-tura in questo grido disperato resta registrazione del malesse-re, di uno specchio frantumato senza possibilità di ricomposi-zione. Cosa invece possibile per Kuncewiczowa. La differente prospettiva assiologica ed esistenziale porta infatti alla scelta di strumenti letterari e interpretazioni morali differenti e, se in Kuncewiczowa vi è in fondo una riconciliazione dovuta al rico-noscere la priorità degli affetti, alla mai completamente sopita religiosità di fondo, in Keff ciò avviene in misura notevolmente minore, domina il rifiuto (seppure con una presa di coscienza delle proprie radici) e permane il malessere, seppure anestetiz-zato e in parte esorcizanestetiz-zato dalla scrittura.

d’altro canto, nel suo suggestivo saggio, Kristeva sottolinea, al termine di un ampio excursus storico, come da un lato la paura, il rifiuto dello straniero si originano dal proiettare su di esso le paure inconsce e profonde che si vogliono esorcizzare senza riconoscere che invece ci sono proprie, appartengono alla no-stra psiche ovvero che siamo appunto no-stranieri a noi stessi. solo riconoscendo questa doppiezza che ci caratterizza possiamo ac-cettare lo straniero.

può però darsi che sia lo straniero, per rancore, risentimento, a rifiutare gli altri. il discorso dovrebbe essere reciproco, anch’egli dovrebbe accettare la frantumazione interna dell’io, come pure accettare i diversi che lo circondano. Ovvero il processo dovreb-be essere dialetticamente speculare. eppure esperienze trauma-tiche non permettono talvolta a chi si sente straniero di aprirsi neppure nei confronti di chi considera proprio simile, ai familiari, come risulta dai testi menzionati. nel primo testo l’accettazione arriva per aver capito emotivamente l’origine del proprio males-sere, nel secondo grazie a una elaborazione intellettuale.

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a differenza di Virginia Woolf, che in Three Guineas poteva asserire: «as woman, i have no country. as a woman i want no Country. as a woman my country is the whole world» (1993: 234), il rapporto con la patria nelle opere delle autrici polacche è molto più complesso e tormentato, per via della diversa situa-zione politica. nel suo testo Woolf (polemizzando con la legge per cui le donne che sposavano uno straniero perdevano la pro-pria cittadinanza), poteva rivendicare il suo pacifismo contro il nazionalismo e lo spirito bellico maschile a favore di una di-mensione in cui la nazionalità non conta, ma questo è semplice quando si appartiene a una nazione libera (e dominatrice), e se in Una stanza tutta per sé asseriva che l’esilio è condizione necessaria per la donna scrittrice, di nuovo completamente di-versa è la condizione esperita in un esilio volontario da quella subita in un esilio coatto o quasi. anche per questo per molti anni la visione delle scrittrici polacche è stata ben lontana dalla concezione del nomadismo come elemento positivo a cui fa rife-rimento nelle sue ricerche rosa Braidotti. il quadro cambia so-stanzialmente solo dopo il 1989, anche se pure allora si riscontra non di rado un rapporto tormentato con la propria, o, meglio, con le proprie identità. non è infine casuale che i modelli con-flittuali abbiano il sopravvento in periodi in cui la questione dell’identità nazionale non è prioritaria, cogente, solo allora al ‘patriottismo’ subentra la critica, e all’esigenza di continuità la frattura. anche se in alcune scrittrici si ha un superamento o un abbandono della problematica identitaria, in altre, come Keff, prevale il sentimento che non ci si possa comunque liberare del passato, anche se è possibile appropriarsene narrandolo.

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biografia

krystynajaworska professor of polish Language and Literature at

turin University. Main study areas: polish émigré literature in the XiX and XX centuries, polish-italian historical and cultural links, eodeporica, contemporary polish poetry. in 2012 published the book Poeti e patrioti polacchi nel Risorgimento italiano, Moncalieri, Cirvi.

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