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Pasta secca e identità nazionale. Note di storia dell'alimentazione

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Academic year: 2021

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(1)ALMA MATER STUDIORUM UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BOLOGNA DIPARTIMENTO DI DISCIPLINE STORICHE. Dottorato di ricerca in Storia d'Europa: identità collettive, cittadinanza e territorio (età moderna e contemporanea) Ciclo XX. Settore scientifico disciplinare di afferenza: M/STO-04. titolo della tesi PASTA SECCA E IDENTITÀ NAZIONALE NOTE DI STORIA DELL'ALIMENTAZIONE. presentata da. coordinatore Prof. Maria Malatesta. Agnese Portincasa direttore di tesi Prof. Alberto De Bernardi. Esame finale anno 2008.

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(252) INTRODUZIONE PER UN'INTERPRETAZIONE STORIOGRAFICA DI UN MITO ALIMENTARE ITALIANO. Questa tesi evidenzia le dinamiche - sociali e culturali soprattutto – che fanno della pasta secca di produzione industriale il prodotto-simbolo della cucina italiana novecentesca. La riflessione si propone di chiarire, inoltre, come le connessioni fra consumo di pasta e modello di cucina italiana unificata siano riusciti a permeare alcuni aspetti del processo di nation-building compiutosi nel corso del XX secolo. Nell’ampio spettro di dati che il tema alimentare offre all’osservazione, la nostra attenzione si focalizzerà attorno ad una delle funzioni che il cibo assolve nel contesto della socialità: quella dell’individuazione culturale delle appartenenze. Si tratta di un processo diffuso e riconoscibile: gli usi alimentari, in tempi e luoghi specifici, contraddistinguono le abitudini di una comunità. In alcuni casi la correlazione fra società e sue abitudini evidenzia livelli di identificazione simbolica potente, tanto da rappresentare paradigma strutturale dell’organizzazione stessa. Quando e se tali uniformità sono esportate al di fuori dei contesti territoriali di origine, il nesso di consuetudine si carica di ulteriori significati identitari, fino a farsi in luogo comune. Secondo il quadro tracciato, e passando dalla «regola generale» al caso particolare, si può affermare che gli italiani siano riconoscibili - rimandiamo di poche battute una più puntuale periodizzazione del fenomeno – come mangiamaccheroni1. Si può, cioè, stabilire che la cucina italiana intesse con il prodotto-pasta un rapporto di affezione 2 che ne caratterizza l’immagine, anche oltre i confini geografici della nazione. Per il momento assumiamo tale asserzione così come deriva dal luogo comune che l’ha prodotta. Prima di esplicare impostazioni e intenti della nostra ricerca, infatti, è necessario definirne nel dettaglio l’oggetto. Nel titolo compare un termine spurio - «pasta secca» - che per non essere troppo generico (pasta), finisce per esserlo due volte, in quanto non identifica con nettezza il tema. La scelta di usarlo, nonostante una latente ambiguità, deriva dal dover rimarcare una peculiarità, che ora chiariremo con l’ausilio del testo di legge attualmente vigente sulla Disciplina per la lavorazione e il commercio dei cereali, degli sfarinati e delle paste alimentari:. 1 Applichiamo qui il termine utilizzato da Emilio Sereni per i napoletani del XVII secolo. Termine che non ha solo il vantaggio di essere suggestivo e immediatamente riconoscibile ma che ci permette di richiamare un’opera nei confronti fonte di continua ispirazione. Si veda SERENI E., Note di storia dell’alimentazione nel Mezzogiorno: i napoletani da “mangiafoglia” a “mangiamaccheroni”, (già in Cronache Meridionali, 1958) poi in Terra nuova e buoi rossi, Torino, Einaudi 1981. 2 Un altro esempio dell’utilizzo di una termine, fortemente evocativo, estrapolato da una fonte (Stefano Jacini, Relazione finale agli Atti della Giunta per l’Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola). Si veda Parte prima, capitolo primo, nota 109 del presente lavoro.. I.

(253) «Sono «pasta di semola di grano duro» e «pasta di semolato di grano duro» i prodotti ottenuti dalla trafilazione, laminazione e conseguente essiccamento di impasti preparati con: a) semola di grano duro ed acqua; b) con semolato di grano duro ed acqua.» 3. La normativa descrive con esattezza le caratteristiche dell’alimento al centro dell’analisi. È bene sottolineare che rimangono fuori dall’ambito indicato le paste prodotte con farina di grano tenero, quelle con aggiunta di uova e quelle per le quali non si renda necessario il protocollo produttivo che include le tre fasi citate nella normativa (trafilazione, laminazione ed essiccazione). Questa esclusione ha conseguenze significative: pur chiamate nello stesso modo, le «altre paste» sono confezionate artigianalmente, spesso in luoghi domestici (solo di recente sono. comparse. sul. mercato. paste. fresche. industriali).. Ne. deriva. che. produzione,. approvvigionamento e fruizione obbediscono a regole antitetiche rispetto a quelle rilevabili per la nostra pasta che, grazie all’essiccazione, assume particolari specificità: è difficilmente deperibile, facilmente trasportabile e stoccabile, di semplice e veloce preparazione. Il livello minimo di standardizzazione produttiva ammesso nell’ambito del nostro lavoro è quello delle piccole attività semi-industriali4. Ciò permette di includervi le paste prodotte fin dal XIX secolo, quando l’industria di settore, pur lontana dalle dimensioni novecentesche, produceva già per un mercato non solo locale. Il milieu pastario, però, non esaurisce da solo il tema della ricerca. La pasta secca entrerà in stretta connessione con le codificazioni della cucina nazionale che assumiamo con la funzione di «contenitore identitario». A tale proposito è necessaria una puntualizzazione, indispensabile a stabilire i termini dell’analisi. Nel presente lavoro incontreremo alcune fonti in cui la pasta risulterà carente o quasi assente: ma non sarà motivo tale per tralasciare il documento. Non ci interessa, infatti, isolare una pratica alimentare sganciata dalla struttura nella quale l’abbiamo incardinata. Se la cucina italiana novecentesca è l’assetto di un ordine costituito da elementi ricorrenti5, il rilievo di eccessi, lacune o sostituzioni dei suoi componenti sono parte integrante del lavoro di analisi. Il quadro fin qui delineato chiarisce i confini temporali. È nel corso del Novecento che la pasta è l’oggetto di cui abbiamo definito i parametri. E lo è in forza di concause che concorrono a cristallizzarlo nello schema di una forzatura che la nostra ricerca, come ogni ricerca storica, comporta. In ragione della stessa forzatura va letta la selezione operata riguardo le cause del fenomeno. Il taglio interpretativo, infatti, impone di attribuire peso diverso ai diversi moventi del processo, e ciò in forza sia del valore euristico che assumono sul piano dell’analisi, sia per l’impianto metodologico seguito. 3 4. 5. Disciplina per la lavorazione ed il commercio dei cereali, degli sfarinati del pane e delle paste alimentari, Legge 04/07/1967, n. 580, articolo 29, in «Gazzetta Ufficiale», 29 luglio 1967, n. 189. Possiamo stabilire tre caratteristiche che contraddistinguono tali attività: presenza di macchinari semplici azionati a mano, quote produttive di poco superiori all’impianto artigianale, e – ma ciò solo se in presenza di alcune proprietà climatiche tipiche del sud della nostra penisola - fase di essiccazione all’aria. Per uno schema dei cibi ricorrenti, riconoscibili quali elementi del modo di Mangiare all’italiana, si veda A. CAPATTI, M. MONTANARI, La cucina italiana. Storia di una cultura, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 42-98.. II.

(254) Nella presente ricerca intendiamo incentrare la riflessione intorno alle modalità attraverso cui una pratica alimentare, già dotata di valenze simboliche ed identitarie ma agenti su scala locale, è giunta a fungere da catalizzatore e moltiplicatore delle logiche di identificazione nazionale. E ciò a partire dai decenni successivi all’unificazione politica e all’interno dei confini geografici della nazione. Prima di approdare ad una sintesi dello schema di lavoro e delle fonti prescelte sono ancora da spiegare le motivazioni della direzione intrapresa. In tal modo risulteranno ancor più evidenti i nostri obiettivi. Per quanto riguarda le motivazioni si è trattato soprattutto di un ragionamento a levare. Come spesso accade nelle fasi iniziali di un lavoro di ricerca ci siamo chiesti se esistevano spazi poco esplorati ai quali rivolgere l’attenzione. È ciò non per elaborare teorie laddove non ne esistono, in virtù di una moltiplicazione degli approcci che genera una più vasta specializzazione disciplinare; ma, piuttosto, per il motivo contrario. Isolando i temi della ricerca (un prodotto alimentare fortemente identitario ed una cucina nazionale) si nota immediatamente quanto siano carichi di significazioni simboliche. Nel trattare oggetti simili è necessario tenere conto di come appropriazioni ed identificazioni reiterate nel tempo abbiano agito sulla percezione stessa della dimensione temporale. Che, a volte, pare appiattita su un orizzonte quasi immobile. Braudel ci ha insegnato a riconoscere e gestire questa «lunga durata» che agisce soprattutto in contesti, e l’alimentazione è fra questi, che si svolgono con lentezza. Ma non siamo certi che l’orizzonte quasi immobile di cui parla lo storico francese sia lo stesso al quale possiamo qui riferirci. Studiare il cibo come prodotto derivato da grano, riso, mais: «piante di civiltà, che hanno organizzato la vita materiale e talvolta psichica degli uomini, a grande profondità, fino a diventare strutture quasi irreversibili» 6, non è la stessa cosa che analizzarlo come la fase finale di un processo che non attiene direttamente alla sfera della necessità, ma che nasce da una scelta di gusto o identitaria 7. Si tratta di attribuire il giusto peso alle reiterazioni cui abbiamo fatto menzione e che, nel caso delle scelte e del gusto, sono motivate da una forte accezione ideologica. Vorremmo, quindi, definire il tempo reale dell’evoluzione del fenomeno: scandire la durata in segmenti significativi. Nessuno storico potrebbe sostenere che l’estensione ideologica delle cose sia altro che quelle cose stesse. Ma, a volte, la tentazione di distogliere lo sguardo dalle mitologie che permeano l’essenza dell’oggetto è forte. Soprattutto quando quelle mitologie paiono imporre un tracciato già delineato. Resta da chiedersi se sia possibile studiare la pasta a “prescindere” da un «protocollo» interpretativo costituito da temi ricorrenti (la «vocazione originaria» del grano nel 6 7. F. BRAUDEL, Civiltà materiale, economia e capitalismo. Le strutture del quotidiano (secoli XV-XVIII), Torino, Einaudi, 1993 [Paris, Librairie Armand Colin, 1979], p. 83. Lo stesso Braudel distingue nettamente. In Civiltà materiale, economia e capitalismo , separa la sua ricognizione sul cibo in due distinti capitoli. Il primo dal titolo Il pane quotidiano cui segue Il superfluo e il necessario: alimenti e bevande, Ibidem, pp. 81-244.. III.

(255) continente euroasiatico, le abitudini secolari che ne sono scaturite, i flussi commerciali che ne hanno tratto alimento, i vincoli identitari e rituali che ne sono diventati compendio). Nel proporre la nostra risposta vorremmo evitare i pericoli che possano scaturire da una lettura tradizionale del tema storiografico in oggetto. Nelle dissertazioni che, in varia misura, vertono sull’argomento-pasta non manca mai un capitolo o una nota dedicata all’annosa questione terminologica 8: che si tratti di spaghetti o di maccheroni sembra non si possa fare a meno di menzionarne i progenitori (itriya e maccus)9. La perplessità non nasce dalla, più che legittima, attenzione alle ascendenze, ma dal fatto che il dato delle ascendenze sia considerato imprescindibile. Il rischio è che la «vocazione originaria» si trasformi in «metafisica delle origini» 10 e che il nesso terminologico che lega il manufatto arabo agli spaghetti Barilla diventi sostanziale. «Scegliere l’equivalente significa presupporre una rassomiglianza» 11 scriveva Marc Bloch per mettere in guardia dai pericoli di una tale proiezione. Per noi accogliere questo insegnamento coincide con la scelta di isolare l'unità di tempo che ci pare più consona alla natura del problema. La pasta novecentesca, che pure approda al XX secolo lungo una storia non breve, verrà inquadrata nel tempo che la identifica, in relazione con le esigenze cui risponde. Resta inteso che la cucina italiana del secolo appena trascorso ha stretti legami con la triade mediterranea o i fasti dei banchetti rinascimentali. Ma ci imponiamo di distogliere lo sguardo dalle ottiche di lungo periodo e di universalità12. Ciò non significherà affrancarsi dalla letteratura attinente gli argomenti trattati, di cui resterà traccia nelle parti di corredo alla tesi.. La presente ricerca analizza un arco temporale di circa cento anni (dagli anni ottanta del XIX secolo allo stesso decennio del secolo successivo) ed è organizzata in due parti, distinte in funzione di un ordine cronologico. La prima è costituita da due capitoli dedicati all’analisi di. 8 Quello terminologico rimane, comunque, un problema aperto ed ineludibile. Le digressioni di Emilio Sereni sull’argomento, alcune puntualizzazioni di Piero Camporesi su determinati usi lessicali, testimoniano di una difficoltà costante per l’analisi storica. Difficoltà il cui impatto tende a diminuire nel corso del novecento quando alcuni usi linguistici tendono a cristallizzarsi. Non ci pare utile affrontare una volta per tutte il discorso generale sulla materia in quanto stabilire parametri validi per l'intero lasso di tempo analizzato non risponde al fine di seguire un mutamento che, nel caso del consumo alimentare, si muove sui tre differenti ambiti della variabilità temporale, di quella spazio-territoriale e di quella dell' “uso” sociale. La nostra scelta è, dunque, quella di trattare delle questioni terminologiche che soggiacciono ai temi affrontati nel momento in cui se ne manifesti la necessità. 9 Al tema sono dedicati anche specifici approfondimenti. L'esempio di un approccio scientifico al tema è in: ALESSIO G., Storia linguistica di un antico cibo rituale: I Maccheroni, in «Atti dell’Accademia Pontoniana», n.s. Vol. VIII, Napoli 1960, pp. 261-280. Non mancano anche varianti identificabili come divertissement colto. Un esempio di primo Novecento è: M. F.CHIRONNA, Trastullo maccheronico, ossia raccolta di notizie etimologiche e varie intorno alla parola “maccheroni”, Bari, Tipografia Petruzzelli, 1900. 10 Il termine «metafisica delle origini» volutamente richiama una riflessione di Emilio Sereni che in I napoletani da «mangiafoglia» a «mangiamaccheroni»: note di storia di alimentazione nel Mezzogiorno, cit., accusa Prezzolini e Consiglio di avere studiato la storia dei maccheroni lasciandosi influenzare da «una pregiudizievole metafisica dei costumi napoletani», p. 292. Segnale questo, di una costante difficoltà che la storiografia sull'argomento incontra nello sgombrare il campo da presupposti pericolosi per la lettura del fenomeno. 11 M. BLOCH, Apologia della storia o mestiere di storico, Torino, Einaudi, 1969, p. 141. Sulla questione della «Nomenclatura» negli usi della storia si veda Ivi, pp. 136-160. 12 L'universalità del maccherone è tema centrale nello stereotipo che lo accompagna. Per avere un esempio della dinamica di fissazione del luogo comune e dei temi chiamati in causa si veda: G. A RTIERI, Universalità del maccherone, in «L’alimentazione italiana»,novembre 1958.. IV.

(256) alcune dinamiche tardo ottocentesche; la seconda, suddivisa in tre capitoli, prende in esame temi novecenteschi (con rari riferimenti alle fasi temporali precedenti). Per meglio definire le ragioni della struttura esplicheremo, per ogni singolo capitolo, genesi e formulazione delle finalità stabilite, insieme all’indicazione delle fonti impiegate. La Prima parte, dal titolo Regimi alimentari diffusi e canoni gastronomici borghesi. Lo spazio della pasta nell'alimentazione degli italiani all’indomani dell’unificazione politica (1881-1891), si propone di stabilire la fase storica nella quale si possa constatare l’avvenuta diffusione del consumo di pasta nell’intero territorio nazionale. A tale proposito un chiarimento dovuto: quando parliamo di diffusione di pasta sul territorio nazionale intendiamo del prodotto che, ancora oggi, svolge il ruolo consueto di primo piatto o piatto unico: impianto rituale di almeno uno dei due pasti giornalieri. In forme più sporadiche e localizzate, infatti, la pasta già da lungo tempo veniva consumata in alcune zone della penisola. Una breve digressione per stabilire i termini della questione: la pasta svolse per lungo tempo funzione di supplenza ed opulenza rispetto all’alimento «basico»: si pastificava solo la farina avanzata dalla lavorazione del pane. L’eccedenza, destinata a deteriorarsi per l’azione dei parassiti, veniva, così, impiegata per prodotti «di lusso»13. Sullo scorcio del XVII secolo, grazie all’utilizzo di macchinari semplici e non particolarmente costosi14, a Napoli e nel circondario il prezzo della pasta calò a tal punto da renderla accessibile ai meno abbienti. È così che i viaggiatori del Gran Tour assisteranno, qualche decennio più tardi, al pasto quotidiano dei «lazzari» che, con le mani portano alla bocca i maccheroni conditi con il cacio 15. Da qui la diffusione dell’alimento procede attraverso due canali: la sempre più semplice ed economica produzione che si radica in un comparto manifatturiero proprio di alcune zone costiere della Campania, e la letteratura di viaggio e una certa memorialistica che promuovono e diffondono un immaginario del folclore partenopeo che molto influenzerà le matrici di valorizzazione del turismo otto-novecentesco. Una sintetica menzione alla storia della pasta per chiarire legami di continuità e discontinuità fra un consumo specifico, parziale e solo locale prima della fine dell’Ottocento ed il presunto, ancora tutto da verificare, consumo tardo ottocentesco. È necessaria una puntualizzazione circa l’esito finale del processo studiato: la volontà di accertare un “preciso” momento a partire quale si possa parlare di un’estensione del consumo del prodotto, non presuppone che tale informazione ci interessi anche per le fasi successive. Per le nostre finalità la presenza della 13. Un po’ come accadeva con i dolci. Anzi esattamente come i dolci, perché fino al Seicento la pasta veniva spesso servita con lo spezie dolci come riportato da molti famosi ricettari (fra cui quello di Bartolomeo Scappi o di Maestro Martino). Per una sintesi piuttosto esauriente delle varianti gastronomiche nell’uso della cucina italiana si veda A. CAPATTI A., M. MONTANARI., La cucina italiana. Storia di una cultura, Roma-Bari, Laterza 2002, pp. 59-67. 14 Primo responsabile di questa trasformazione è il torchio: mirabile «ngegno da maccaruni». 15 Gesto che non è poco importante nella storia dei maccheroni visto che lo stesso Pulcinella viene spesso raffigurato proprio mentre mangia i maccheroni nell’identico modo. In tal senso ci sarebbero interessanti approfondimenti iconografici da sviluppare.. V.

(257) pasta nella cultura gastronomica italiana è già prova di consumo diffuso che nessuna quantificazione, del resto rintracciabile con relativa facilità16, potrebbe attestare con maggior rigore scientifico. Il primo capitolo prende in esame i dati sull’alimentazione di tre inchieste ministeriali (Inchiesta Jacini, Inchiesta Bertani, Inchiesta sulle condizioni igieniche e sanitarie dei Comuni del Regno) svolte all’indomani dell’unificazione nazionale; fonti che sono state interrogate per chiarire in che misura la pasta entrasse fra le abitudini alimentari delle classi popolari (rurali soprattutto, ma anche urbane). Se ne desume un quadro che contribuisce a delineare la congiuntura vittuaria nel periodo che va dal 1861 agli albori del nuovo secolo. La particolare struttura del documento ha permesso, inoltre, di ricostruire uno schema della geografia alimentare del paese, i cui dettagli sono stati definiti con maggiore precisione nel capitolo successivo. Il secondo capitolo ricostruisce il ruolo della pasta, e delle ricette di cui è ingrediente principale, nella struttura generale de La Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, opera unanimemente riconosciuta come il primo ricettario nazionale italiano. Proprio la posizione di «precedente assoluto» riconosce la centralità del trattato nella comprensione dei canoni fondativi del modello di cucina italiana. La consapevolezza dell’autore nella propria funzione nazionalizzante, così come la fama e la diffusione dell’opera, ne fanno una sorta di summa di un codice in fieri. Affermazione contraddittoria solo in apparenza, che ben esprime la discrasia fra la volontà sistemica di Pellegrino Artusi e l'episodicità dei termini sui quali elaborò la grammatica della cucina nazionale. Le particolari scelte stilistiche artusiane, numerosi gli aneddoti e le notazioni in calce alle ricette, permettono di estendere l’indagine alla mentalità borghese vera base di tale codificazione e alle proiezioni identitarie che ne furono sostrato. Nella seconda parte, dal titolo Cucina scritta, cucina codificata: ricettari, menù di pranzi ufficiali e guide gastronomiche. Ruolo e spazio della pasta nel modello di cucina italiana novecentesca, abbiamo ordinato i termini del rapporto fra pasta e cucina italiana attraverso tre diversi generi di scrittura gastronomica. Due convenzionalmente letterari (ricettari e guide gastronomiche) ed uno atipico (menù di pranzi ufficiali). L’assemblaggio di tali fonti in un’unica, consistente, sezione ha consentito di inserire i temi affrontati nell'ampio ambito di cultura gastronomica agente entro i confini della nazione, così che i legami di produzione, assimilazione, ricezione e divulgazione del modello affiorassero nel quadro delle stesse strutture che hanno contribuito a codificarne i contenuti. Tale cammino ha reso possibile una forma di conoscenza storica della gastronomia novecentesca e delle pratiche ad essa soggiacenti. Nel primo capitolo vengono presi in esame un certo numero di ricettari ed opere dedicate alla cucina. Diviso in tre parti costituisce la sezione più lunga e strutturata della tesi. La ricerca di un. 16 Un'immediata ricognizione, specifica per il prodotto pasta, può essere compiuta sul sito dell'Unione Industriale Pastai Italiani in cui sono rintracciabili sia i dati sulle vendite negli ultimi anni, sia la diffusione del prodotto nel corso del Novecento, in Italia e nel resto del mondo. Si veda http://www.unipi-pasta.it.. VI.

(258) dato assai specifico – presenza di pasta nelle sezioni dedicate ai primi piatti - ha comportato alcune difficoltà di impostazione, risolte optando per una lettura capillare. Se ciò da una parte ha comportato lungaggini e ripetizioni schematiche, dall’altra ha consentito di restituire una descrizione esauriente che, grazie al lavoro analitico sul dato, si è costantemente relazionata a temi di inquadramento storico più generale. Nella prima sezione vengono esaminati undici ricettari pubblicati dal 1908 al 1931, nella terza altrettanti fra il 1932 ed il 1962. In entrambe vige un criterio unico di schedatura ed analisi, di cui diremo nell’introduzione al capitolo. I ventidue ricettari sono stati scelti per la loro rappresentatività sia rispetto del genere specifico (ricettario generale, di cucina regionale, di guerra, autarchico, femminile, ecc…), sia del particolare momento nel quale sono dati allo stampe. La seconda sezione, che funge da spartiacque non solo cronologico, tratta, dapprima, della «disputa sui maccheroni» originata dalla pubblicazione de La cucina futurista di Filippo Tommaso Marinetti e Fillia; prosegue prendendo in esame il ruolo di due intellettuali. -. Marinetti, appunto, e il suo amico Umberto Notari – nel corso dei primi anni trenta e del rilievo assunto dalle loro iniziative editoriali nel campo gastronomico. Nel secondo capitolo l’attenzione si sposta ai menù dei pranzi ufficiali del Quirinale dal 1886 al 1992. Documenti esaminati per ricostruire le dinamiche attraverso cui un modello elitario di rappresentanza si rapporta con i codici della cucina quotidiana e della pratica diffusa. Interrelazione complessa che ricostruiremo nelle sue alterne fasi di scambio, esclusione, ibridazione ed assimilazione. Le fonti - per il periodo monarchico le carte dell’Ufficio del Prefetto di Palazzo interne al fondo del Governo Interno della Real Casa, Servizio degli Uffici di Bocca, in ACS; per il periodo repubblicano le carte del Servizio di Intendenza dell'Archivio Storico del Quirinale – attestano, da un osservatorio inusuale, i processi di tipicizzazione ed identificazione della cucina nazionale, la legittimazione del modello presso i canoni dell'ufficialità. Il terzo capitolo prende in esame le tre edizioni (1931, 1969, 1984) della Guida Gastronomica d'Italia per comprendere in che modo la valorizzazione della «tipicità» alimentare venga presentata come naturale portato della vocazione turistica del paese. O, per meglio dire, di come la «tipicità», espressione diretta del genius loci che si radica in una tradizione parzialmente costruita, agisca da serbatoio di una semantica identitaria che inciderà profondamente sulla cultura nazionale. Pubblicate a cura del Touring Club Italiano, associazione di cui ricostruiremo il modus operandi nella consapevole valorizzazione delle potenzialità economiche italiane, le Guide delineano i parametri di un modello gastronomico unitario, capace, insieme, di preservare il tradizionale policentrismo italico. Il raffronto fra le tre edizioni permette, inoltre, di seguire i mutamenti intervenuti all'indomani del boom economico quando, a contatto con la. VII.

(259) più complessa società dei consumi, il legame diretto fra prodotto e territorio, ancora possibile negli anni trenta, risulta sempre più mediato da influssi economici dal forte impatto sui modelli consolidati.. VIII.

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