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Monumento a Leopoldo II. Un simbolo della politica lorenese.

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Academic year: 2021

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Monumento a Leopoldo II

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Indice generale

Introduzione...4

1.Pietrasanta e la Restaurazione...8

1.1 Gli Asburgo-Lorena, Granduchi di Toscana...8

1.2 Vivere nel Vicariato di Pietrasanta nel XIX secolo...18

1.3 Pietrasanta: territorio conteso...23

1.4 Il legame di Leopoldo II con Pietrasanta...25

1.5 Il Trattato di Firenze...32

2. Monumento a Leopoldo II...35

2.1 La scultura celebrativa...35

2.2 Lo scultore Vincenzo Santini...44

2.3 La commissione del monumento...46

2.4 L'incidente e le sue conseguenze...47

2.5 Inaugurazione del monumento...50

3 I Bassorilievi...54

3.1 I bassorilievi: la politica granducale allo specchio...54

3.2 “La fondazione della Scuola di Belle Arti di Pietrasanta”...55

3.2.1 Analisi artistica del bassorilievo...55

3.2.2 Motivazione storica del bassorilievo...56

3.3 “Il discoprimento delle cave”...59

3.3.1 Analisi artistica del bassorilievo...59

3.3.2 Motivazione storica del bassorilievo...60

3.4 “Il libero commercio”...65

3.4.1 Analisi artistica del bassorilievo...65

3.4.2 Motivazione storica del bassorilievo...67

3.5 “Il bonificamento dell'agro pietrasantese”...70

3.5.1 Analisi artistica del bassorilievo...70

3.5.2 Motivazione storica del bassorilievo...72

4. Lo Spedale di Pietrasanta ...78

4.1 Un ospedale per il Granduca...78

4.2 Un bisogno cittadino: l'ospedale...79

4.3 La visita del Granduca ...85

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5. La dissoluzione del Granducato di Toscana...91

5.1 Sentimenti rivoluzionari ...91

5.2 Proteste politico-sociali a Pietrasanta...91

5.3 I tumulti del 1848-1849...95

5.4 La caduta dei Lorena...107

5.5 Il monumento di Leopoldo II oltre il '48...111

Appendice A...115

Appendice B...124

Bibliografia...133

Fonti bibliografiche...133

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Introduzione

L'oggetto centrale di questa tesi è la statua raffigurante il sovrano asburgico Leopoldo II di Lorena, che si erge nella piazza principale della città di Pietrasanta.

Ad attirare la mia attenzione potrei dire che è stata l'invisibilità di questa statua, causata principalmente dalle mostre d'arte contemporanea che si susseguono periodicamente nella piazza e che ne oscurano la vista.

Noi cittadini non reputiamo la statua del “Canapone”, soprannome attribuito a Leopoldo II per le sue basette color canapa, come un monumento da osservare, studiare, valorizzare ed eventualmente criticare, ma la reputiamo parte integrante della piazza, senza attribuirgli nessun valore specifico.

Anzi, è tutt'oggi il divertimento di molti bambini durante gli acquazzoni: per un gioco di scanalature e panneggi, per la posizione del braccio destro e la mano che stringe un rotolo di pergamena, quando piove forte, dal pube della statua si stacca un getto d'acqua che cade alla base del piedistallo, dando così la sensazione che Canapone si metta a urinare sornione alla faccia dei pietrasantini che non lo prendono in considerazione.

Partendo dalla premessa che non sono un'appassionata di arte contemporanea, circa un anno fa, mentre camminavo nella piazza di Pietrasanta, dove erano esposte sculture di un artista odierno, rimasi perplessa da come le persone fossero attratte da elementi cilindrici poggiati a terra dentro i quali potevano far entrare i loro bambini o animali, piuttosto che da una maestosa scultura in marmo risalente ad oltre un secolo e mezzo fa. Così decisi di soffermarmi su quella statua che mai in venticinque anni avevo cercato di capire e mi resi conto di non riuscire a decifrare tutti i messaggi che essa avrebbe potuto mandarmi, in quanto non conoscevo la storia locale durante il periodo lorenese.

Partendo dunque dalla statua, sul cui basamento si trovano quattro bassorilievi esplicativi riguardo alla politica territoriale adottata da Leopoldo II, ho iniziato a fare ricerca nell'archivio comunale della mia città, rendendomi conto di come la sua erezione fosse intrecciata con altri aspetti della storia cittadina, con i quali non l'avrei certo messa in correlazione.

Significativo, ritengo, possa essere considerato il fatto che per erigere la statua sia stata fatta una colletta di denaro città; ciò sottolinea come nel corso del tempo siano mutati i sentimenti civici collettivi: da un impegno personale per il bene della comunità siamo giunti, in generale, ad un disinteresse verso tutto ciò che esula dalla nostra sfera privata.

La cosa che più mi ha colpito all'inizio delle mie ricerche, e che mi ha motivato nel proseguirle, è stata il fatto che non sia una notizia di dominio pubblico che lo scultore del monumento è stato

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Vincenzo Santini, personaggio noto in quanto scrittore dei “Commentari storici della Versilia”: sei volumi, pubblicati tra il 1858 e il 1862, densi di notizie per quanto riguarda la storia locale.

Nello scolpire la statua raffigurante Leopoldo II Vincenzo Santini ebbe un incidente che lo portò all'amputazione di una gamba e dunque alla cessazione del suo lavoro da scultore, così fu deciso di aprire a Pietrasanta una scuola d'arte in cui egli avrebbe potuto insegnare il suo mestiere. Mancava infatti sul territorio una scuola in cui si insegnasse a lavorare il marmo, potenziale fonte di ricchezza locale sulla quale nel XIX secolo si tornò ad investire.

La Scuola di Belle Arti pietrasantina permise così il decollo della lavorazione artistica e industriale del marmo, attività su cui ancora oggi fa perno l'economia locale.

A partire da un monumento celebrativo è pertanto possibile snocciolare non solo la storia del personaggio raffigurato, ma di tutto ciò che gli orbita attorno.

Affinché ciò accada è però necessaria la presenza di un sentimento di curiosità: è il porsi delle domande, e di conseguenza cercare delle risposte, che permettere alle fonti di non smarrire il loro potenziale comunicativo.

Dunque una fonte come il monumento di Leopoldo II è riuscita a comunicarmi molte informazioni sulla storia della mia città, a cui probabilmente non mi sarei interessata se non mi avesse incuriosita l'unica statua permanente presente nella piazza di Pietrasanta e forse anche per questo poco considerata: del resto non è una novità, le cose che sappiamo di possedere inesauribilmente sono quelle che spesso trascuriamo.

Ciò che ha permesso di pormi interrogativi su questa statua è stato sicuramente il filone di ricerca sul Nation-building, nel quale autori come Mosse1, Banti2, Fiorino3, Brice4 e Tobia5, si interrogano sul ruolo svolto dai monumenti pubblici durante il cosiddetto periodo di nazionalizzazione delle masse.

Nel XIX secolo i governi degli Stati-nazione europei adottarono un insieme di politiche pubbliche al fine di diffondere la consapevolezza dell'identità nazionale all'interno di popolazioni formate in larga parte da contadini che possedevano rapporti saltuari con le istituzioni: l'obiettivo era dunque quello di trasformare popolazioni prive di ogni idea di appartenenza nazionale in

1 Cfr. G. L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania dalle guerre napoleoniche al Terzo Reich, Società editrice il Mulino, Bologna, 1974.

2 Cfr. A. M. Banti, Sublime madre nostra,. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Editori Laterza, Bari, 2011; A. M. Banti, Nel nome dell'Italia. Il Risorgimento nelle testimonianze, nei documenti e nelle immagini, Editori Laterza, Bari, 2010.

3 Cfr. V. Fiorino, S. Renzoni, La patria in marmo. I monumenti nazionali a Pisa, ETS, 2006.

4 Cfr. C. Brice, Il Vittoriano. Monumentalità pubblica e politica a Roma, Archivio Guido Izzi, Roma, 2005. 5 Cfr B. Tobia, Una patria per gli italiani, Laterza, Bari, 1991.

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cittadini tedeschi, italiani, francesi ecc.

Dagli anni Ottanta dell'Ottocento in Italia dilagò così con questo scopo quello che fu definito il fenomeno della “monumentomania”: in un breve spazio di tempo fecero la loro comparsa, in tutta la penisola, numerosissimi monumenti pubblici, busti e statue dedicati ai nostri eroi nazionali a cui fu attribuito un vero e proprio significato pedagogico, ossia quello di radicare il sentimento dell'amor di patria.

Partendo da queste premesse mi sono potuta accorgere di come una statua scolpita pochi decenni prima avesse invece un significato del tutto differente.

Innanzitutto non fu il governo a commissionare l'erezione del monumento per infondere un sentimento di riverenza tra la popolazione, ma furono gli stessi abitanti della città di Pietrasanta a volerlo edificare in un momento di incertezza politica.

A causa di accordi internazionali presi durante il Congresso di Vienna, alla morte della Duchessa di Parma Maria Luigia, il Vicariato di Pietrasanta sarebbe dovuto entrare a far parte del ducato di Modena retto dal sovrano Francesco IV d'Este, ma essendo i cittadini contrari a questo cambiamento politico decisero di lusingare il proprio Granduca con un monumento in suo onore. Gli abitanti di Pietrasnata pensarono che tributare ossequi al proprio sovrano potesse essere un modo per far sì che Leopoldo II si battesse con maggiore energia per conservarli toscani.

Sicuramente il sentimento di gratitudine nei confronti del sovrano asburgico era realmente diffuso tra l'élite pietrasantina, che decise di raffigurare nel piedistallo del monumento le opere positive che il Granduca realizzò nel territorio versiliese; tuttavia, il non rendere la statua il fulcro di riti sacri, ha reso presto questo monumento privo di visibilità.

Il monumento dedicato a Leopoldo II risulta così essere un simbolo dell'ancora vigente ancien régime, ovvero un mero contrassegno del potere, privo di quella che Chaterine Brice definirà come «ricarica sacrale»: un'energia che sarà invece presente nei monumenti risorgimentali grazie alla loro utilizzazione nelle manifestazioni politiche, la quale permetterà di evitare la cosiddetta esperienza dell'invisibilità.

A conferma di ciò possiamo riscontrare il metodo di raffigurazione del sovrano, il quale viene immortalato “togato”, cioè vestito con la toga, e in una posa maestosa, tanto da richiamare la statuaria classica. Successivamente, ovvero negli anni del Nation-building, gli eroi innalzati a simboli della nuova nazione saranno invece rappresentati in armi, non di rado a cavallo, in modo da amplificare la percezione di questi personaggi come dei martiri pronti a sacrificare la propria vita per la patria.

È possibile dunque concludere che a Pietrasanta la statua fu eretta sì con scopo celebrativo, vale a dire per rendere omaggio ad un sovrano che, seppur influenzato ancora dai metodi di governo

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dell'ancien régime, si impegnò a fondo per permettere a questa terra di crescere e svilupparsi; ma sicuramente non mancò la finalità di ottenere un tornaconto politico, ovvero restare all'interno del Granducato di Toscana.

Tuttavia, nonostante questo obiettivo sembrasse essere unanime, come vedremo, anche la città di Pietrasanta fu investita da sentimenti rivoluzionari durante i fermenti del 1830-31 e del 1848-49. Pertanto il clima vigente a Pietrasanta negli anni dell'erezione del monumento a Leopoldo II, che risulta essere il periodo di transizione che condurrà dall'ancien régime al Nation-building, non può far altro che dimostrarci come i tempi fossero ormai maturi per un mutamento politico generale riguardante l'intera penisola.

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1.Pietrasanta e la Restaurazione

1.1 Gli Asburgo-Lorena, Granduchi di Toscana

Il principio di legittimismo che fu alla base del Congresso di Vienna restituì agli Asburgo-Lorena il Granducato di Toscana, territorio sul quale governavano dal 1737, ovvero dall'anno in cui morì l'ultimo erede legittimo della dinastia dei Medici. In questo modo fu ristabilita la situazione amministrativa, politica e territoriale antecedente alla discesa dei francesi, che permise a Ferdinando III, prima, e al figlio Leopoldo II, poi, di porsi alla guida del Granducato.

Entrambi i sovrani proseguirono l'opera riformatrice messa in atto dall'avo Pietro Leopoldo con l'intento di cambiar volto alla Toscana, la cui condizione, al momento dell'insediamento della Reggenza dei Lorena era apparsa “desolante”6.

A causa del clima generale della Restaurazione, il governo toscano, nonostante fosse composto da uomini quasi tutti formatisi nell'epoca leopoldina, sia per l'indirizzo dato all'amministrazione e alla legislazione, non ebbe più quella spinta innovatrice che aveva caratterizzato l'assolutismo illuminato di Pietro Leopoldo. A capo del governo fu posto Vittorio Fossombroni, grande ingegnere idraulico, espertissimo bonificatore, e al tempo stesso abile politico, moderato e tollerante, animato però da un profondo scetticismo, quindi intimamente conservatore. Vittorio Fossombroni, che fu anche ministro degli esteri, diresse praticamente la politica della Toscana per trent'anni, fino alla morte avvenuta nel 1844, cioè durante il regno del granduca Leopoldo II, succeduto al padre nel 1824.

La legislazione napoleonica fu abolita in Toscana fin dal 1814 e fu restaurata la legislazione leopoldina; essendo quest'ultima piuttosto progressista per la sua epoca, permise alla Toscana di non compiere un regresso dal punto di vista legislativo. Il sistema amministrativo si discostò invece da quello leopoldino e si avvicinò molto a quello napoleonico con l'editto del 16 settembre 1816, che aboliva praticamente l'autonomia comunale, stabilendo che nei comuni i gonfalonieri (sindaci) fossero non più elettivi ma nominati per tre anni dal governo e che anche il consiglio dei priori fosse per metà di nomina governativa; vennero inoltre create cinque Sopraintendenze comunitative a Firenze, Pisa, Siena, Grosseto e Arezzo. Quest'ultime erano delle specie di prefetture con funzioni di tutela delle comunità a esso collegate, ovvero: controllo dei bilanci, sovrintendenza sui lavori delle strade regie, dei fiumi e dei ponti, controllo sulle attività degli ospedali e enti assistenziali,

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riscossione di alcune imposte

In campo economico il governo toscano riconfermò la fiducia nel liberismo economico, per il quale nel Settecento i Lorenesi si erano caratterizzati in Europa. Al ritorno di Ferdinando III fu abolito il sistema dei calmieri per il controllo del prezzo del grano, e furono stabiliti dazi di importazione ed esportazione molto bassi su pochi generi. La Toscana, attraversata dall'Appennino centrale, aveva grande estensione di terre montuose e collinose, quasi tutte produttive, perché ricche di boschi, castagneti, pascoli, colture specializzate (vite e olivo); la pianura dava cereali, in misura insufficiente per il fabbisogno interno.

La Toscana doveva importare grano, e ciò provocò alcuni problemi durante la carestia del 1816-17; successivamente il ribasso dei prezzi internazionali mise in crisi i proprietari locali, che avevano costi più alti. Si levarono voci in difesa dei produttori, e il problema della convenienza di un passaggio al protezionismo fu discusso tra il 1824 ed il 1827. La tesi del liberismo fu sostenuta validamente in seno all'Accademia dei Georgofili e il governo non modificò la sua impostazione7.

In effetti non si vedeva l'opportunità di alterare l'equilibrio raggiunto dall'insieme delle attività economiche. L'agricoltura, fonte di ricchezza, aveva caratteri di stabilità per la prevalenza della mezzadria. Vanto del Granducato, perché assicurava la pace sociale per i buoni rapporti tra proprietari e contadini, essa non invogliava alla trasformazione capitalistica dell'azienda agricola. La produzione era rivolta soprattutto al consumo interno. Continuò ad avere importanza la pastorizia, praticata con i metodi tradizionali. Con l'acquisto dell'Elba e dello Stato dei Presidi la Toscana era diventata produttrice di ferro. Miniere e impianti siderurgici, gestiti dallo Stato, furono protetti col divieto di importazione del ferro, poi con un alto dazio e alimentarono una consistente esportazione.

All'esportazione contribuivano l'industria della paglia e dei cappelli di paglia, le cartiere, le porcellane, le manifatture della lana e della seta, a prevalenza artigianale. Il commercio interno e con gli Stati vicini fu agevolato da una fitta rete di strade, costruita in questi anni, con l'attivo dei

7 L’Accademia dei Georgofili fu fondata a Firenze nel 1753 per iniziativa di Ubaldo Montelatici, Canonico

Lateranense, che propose gli orizzonti nuovi della ricerca agronomica e invitò i proprietari e gli studiosi ad unirsi per perseguirli. L'Accademia conobbe i primi fasti grazie a Pietro Leopoldo di Lorena, che, assunto nel 1765 lo scettro del Granducato di Toscana, gli conferì presto carattere di Istituzione pubblica. L'Accademia divenne così uno degli interlocutori preferiti nel varo del programma di riforme e di conseguenza furono affidati ad essa importanti incarichi. Con l’Unità d’Italia, l’Accademia dei Georgofili, che già di fatto aveva una dimensione extra-toscana, divenne anche formalmente nazionale. Nel 1897 fu riconosciuta come Istituzione Statale. Nel 1932 fu eretta in “Ente morale” e, sempre nello stesso anno, ottenne la concessione in uso gratuito dell’attuale sede demaniale. L’Accademia dei

Georgofili è al mondo la più antica Istituzione del genere ad occuparsi di agricoltura, ambiente, alimenti, e promuove il progresso delle conoscenze, lo sviluppo delle attività tecnico economiche e la crescita sociale.

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bilanci dello Stato, fatto unico nella penisola.

A Livorno, impoverita nell'età napoleonica dal blocco continentale, fu restituito nel '14 il porto franco, ma il commercio di transito non tornò ai livelli del Settecento; per questo si dovette cercare una diversa prosperità in un maggiore collegamento col retroterra. Tuttavia il Granducato incrementò le costruzioni navali e si dotò di una marina mercantile8.

In politica estera il Granducato rimase nell'orbita austriaca, perché il Granduca era fratello dell'imperatore e soprattutto perché non disponeva di ampie forze militari. Ferdinando III e il Fossombroni cercarono tuttavia di svolgere una politica di effettiva neutralità e di non legarsi troppo alla politica austriaca di repressione e di intervento negli affari interni degli altri Stati italiani. Dopo il '21 e più ancora dopo il '31 la politica estera toscana divenne però via via meno indipendente dall'Austria9.

Prosperità, stabilità economica (alla fine degli anni Venti il bilancio statale contava un avanzo di più di trenta milioni di lire toscane), assenza di tensioni sociali, popolarità della casa regnante, cooperarono a mantenere tranquilla la Toscana. Le società segrete vi ebbero poca diffusione. Vigeva un clima di tolleranza: si poteva mormorare, potevano circolare anche libri e giornali stranieri proibiti negli altri stati italiani10.

A dimostrazione di ciò vi sono i soprannomi che i fiorentini attribuirono a Leopoldo II: “Canapone”, per i basettoni color canapa che gli incorniciavano il volto; “i' Babbo”11, in riconoscimento della spiccata bontà del Principe e dell'inconsueto attaccamento al suo popolo; oltreché “Broncio” o “Ciondolo” per la sua alta statura (misurava circa due metri) che lo portò ad incurvarsi precocemente nelle spalle facendo ciondolare la grossa testa dal labbro inferiore pendente e dalla folta capigliatura a zazzera.

Questi gratuiti epiteti, che mostrano come il rapporto tra il sovrano e i suoi sudditi fosse limitato a tali forme, furono attribuiti non dal popolo, ma da quella borghesia liberale che ringraziava in tal modo il Granduca per il suo carattere mite e per la sua umanità12.

Leopoldo II di Lorena fu un sovrano colto in quanto cresciuto con un padre che scelse per lui maestri capaci di appassionarlo alla filosofia, alle leggi, alle arti, alle scienze, ma soprattutto tutori

8 A. Scirocco, L'Italia del Risorgimento 1800-1860. Storia d'Italia dall'Unità alla Repubblica, il Mulino, Bologna, 1990, pp.131-132.

9 G. Candeloro, Storia dell'Italia Moderna. Dalla Restaurazione alla rivoluzione nazionale 1815-1846, Volume secondo, Universale Economica Feltrinelli, Milano, 1978, pp.53-56.

10 D. Orlandi , Pietrasanta tra Granducato e Risorgimento: Cronache della prima metà del XIX secolo,, Carpena - Sarzana, 1965, pp.7-8.

11 Arcaismo che sta per “il Babbo”.

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italiani che seppero fargli amare la lingua, la letteratura italiana e la terra di Toscana. Terra che, benché fosse un Asburgo, lui sentì sempre come la sua casa.

Non si stancò mai di studiare, di informarsi, di conoscere: persuase il padre ad acquistare scritti di Galileo per la Biblioteca Palatina Lorenese che aveva sede a Palazzo Pitti; inoltre raccolse scritti su Lorenzo il Magnifico, sovrano grande in politica ma anche protettore delle arti, la cui figura appassionò Leopoldo II al periodo rinascimentale. Portò a Firenze l'arte della litografia, disegni, strumenti astronomici, macchine idrauliche perché sempre interessato alle nuove scoperte.

Della tendenza alla tolleranza si giovarono gli intellettuali: molti esponenti della cultura italiana del tempo, perseguitati o che non trovavano l'ambiente ideale nei luoghi natii, poterono trovare asilo in Toscana, come accadde a Giacomo Leopardi, Alessandro Manzoni, Guglielmo Pepe, Niccolò Tommaseo. Alcuni scrittori e intellettuali toscani come Francesco Domenico Guerrazzi, Giampiero Visseux e Giuseppe Giusti, che in altri stati italiani avrebbero sicuramente passato dei guai, poterono invece operare in tranquillità. Lo stesso Tommaseo giunse ad affermare che in un ambiente simile si “sbadigliava”: «Sbadigliavasi con Leopoldo II, sbadigliavasi con Ferdinando, buona persona»13.

Le università (Pisa, Siena) ebbero modesta rilevanza culturale. L'istruzione elementare e media, non regolata dal governo, furono impartite la prima in scuole comunali per lo più gratuite tenute da ecclesiastici, la seconda prevalentemente da ordini religiosi. Dal 1818 sede di dibattiti ed iniziative fu l'Accademia dei Georgofili.

Il governo, però, non spingeva la tolleranza fino a permettere la discussione di argomenti politici. Nei primi anni della Restaurazione, il giornalismo ebbe carattere esclusivamente letterario e scientifico. Il salto di qualità fu determinato da Giampiero Visseaux, che si propose anni Venti dell'Ottocento di fare di Firenze il punto di riferimento del movimento culturale liberal-moderato italiano14.

Leopoldo II non vedeva pericoli nello svolgersi di riunioni per lo scambio di idee, e per questo, la vasta cerchia di intellettuali che si trovava all'epoca a Firenze, guidata dal liberal moderato Gino Capponi, si riunì con una certa regolarità nel gabinetto scientifico-letterario che lo scrittore Vieusseux fece funzionare fin dal 1819. Questo fu dapprincipio soltanto un gabinetto di lettura di giornali e di riviste, ma ben presto divenne, grazie ad un'intensa attività di conferenze e di riunioni, anche un centro di incontro tra gli uomini di cultura di tutta Italia. Con lo stesso scopo prevalentemente informativo il Vieusseux fondò nel gennaio 1821 una rivista intitolata “Antologia”

13 D. Orlandi, Pietrasanta tra Granducato e Risorgimento, cit., p.8. 14 A. Scirocco, L'Italia del Risorgimento, cit., p.132.

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nella quale pubblicò dapprima quasi soltanto traduzioni di articoli francesi e inglesi, ma dal gennaio 1822 gli diede un carattere nuovo e cominciò a pubblicare, accanto ad accurate rassegne bibliografiche, quasi soltanto articoli originali. La rivista divenne quindi in poco tempo la principale d'Italia e tale rimase fino alla sua soppressione, imposta dall'Austria al governo toscano nel marzo 183315.

L' interessamento che Leopoldo II dimostrò per lo sviluppo scientifico-culturale fu quindi

dovuto sia all'ambiente in cui crebbe, in quanto Firenze per ciò che concerneva le arti era una delle città più prestigiose a livello mondiale, sia all'educazione familiare, che gli permise di sviluppare un amore per gli studi fin da giovane.

A Pisa, nell'ottobre del 1839, fu tenuto per la prima volta in Italia un Congresso degli scienziati italiani. L'idea di riunire periodicamente gli scienziati di tutta l'Italia, analogamente a quanto da qualche tempo si era cominciato a fare in altri paesi , poté realizzarsi per l'iniziativa di Carlo Luciano Bonaparte, principe di Canino, che era figlio di Luciano, fratello di Napoleone I. Scienziato di fama, stabilitosi a Roma fin dal 1804 persuase il granduca Leopoldo II affinché si svolgesse in Toscana la riunione di un Congresso degli scienziati italiani, suscitando così grande entusiasmo negli ambienti liberali di tutta Italia16.

Dall'1 al 15 ottobre 1839 si tenne così a Pisa il I Congresso degli scienziati italiani: un avvenimento di vasta portata nazionale e internazionale, sia per i traguardi scientifici allora raggiunti, sia per la temperie storica in cui si svolse, avvicinando ed accomunando per la prima volta i cultori delle scienze, provenienti dalle regioni di un'Italia ancora disunita. Dalla lista pervenutaci dei 421 scienziati che intervennero al Congresso emerge un quadro delle biografie abbastanza variegato. Accanto a scienziati famosi, stranieri e italiani, vi era una grande maggioranza di personalità della cultura locale: docenti universitari e di liceo, medici, farmacisti, ingegneri, nobili e proprietari terrieri, cultori e appassionati di scienza17.

Dopo quello di Pisa, altri otto Congressi furono svolti nelle principali città d'Italia: il II a Torino nel '40, il III a Firenze nel '41, il IV a Padova nel '42,, il V a Lucca nel '43, il VI a Milano nel'44, il VII a Napoli nel '45, l'VIII a Genova nel '46, il IX a Venezia nel '47. Grazie a tali Congressi centinaia di intellettuali delle varie parti d'Italia poterono incontrarsi, conoscersi, discutere sia apertamente che privatamente problemi di ogni genere18.

15 G. Candeloro, Storia dell'Italia Moderna, cit., p.138. 16 Ibidem, p.347.

17 B. Bergagna, N. Crevani, E. Moscatelli, A. Pesante, R. Tamburrini, La prima riunione degli scienziati italiani (Pisa, 1839). Notizie biografiche e bibliografiche, Giardini, Pisa, 1989, pp.9-14.

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Quella descritta era dunque l'aria che si respirava nella Toscana granducale almeno fino al 1848, anno a partire dal quale si ebbero mutamenti del clima politico a livello europeo, al punto tale che per Leopoldo II fu difficile tener fede alle promesse fatte al padre, il quale sul letto di morte si raccomandò al figlio di preservare con tutte le sue forza lo status quo, ovvero di condurre una politica conservatrice.

Se da un lato, la rigida educazione ricevuta, basata sui valori tradizionalisti e cattolici della Restaurazione, permise a Leopoldo di seguire agevolmente tale indicazione paterna, dall'altro, però, questo immobilismo si trasformò nel suo punto debole: per il Granduca risultò arduo seguire le tendenze del suo tempo non avendo preso atto che sin dalla sua ascesa al trono la situazione politica sia all'interno che all'esterno del Granducato era ormai in trasformazione.

La vita di Leopoldo II infatti coincise con quella del Risorgimento italiano. Egli nacque nel 1797, e fu intorno a questa data che vennero poste le premesse per la formazione del movimento risorgimentale: all'ascesa al trono di Leopoldo, questi aveva già alle spalle i tentativi falliti di Napoli e di Torino del 1820-21. Dopo una breve pausa, e dopo aver svolto attività di propaganda, nel 1848-49 il movimento dovette subire una nuova sconfitta. A quel punto, però, passarono dieci anni di preparazione prima di lanciarsi in una nuova, grossa battaglia, quella del 1859, con la quale venne ottenuta la prima grande vittoria e aperta la prima grande breccia; in quell'anno, con il forzato commiato di Leopoldo II, la Casa di Asburgo-Lorena avrebbe cessato di regnare sulla Toscana. Nel 1870, anno di morte del Granduca abdicatario, Roma venne annessa allo Stato italiano. Il Risorgimento, con le eccezioni di Trento e Trieste, avrà raggiunto allora i propri obiettivi19.

Da parte sua, Leopoldo II si impegnò nel mantenere immutate le forme di governo e dell'amministrazione dello Stato così come le aveva assunte dal padre, e come questi, a sua volta, le assunse dal suo predecessore Pietro Leopoldo perché convinto che conservare, vigilare e perfezionare l’esistente fosse onesto e fruttuoso. Annotava tutto e particolarmente gli errori commessi perché riteneva che si potesse imparare più dagli errori che dalle fortune. Per governare sosteneva infatti che servisse soprattutto l’esperienza pratica e che governare fosse arte più che scienza.

Il metodo di governo adottato da Leopoldo II risaliva dunque all'epoca dell'assolutismo illuminato, a quell'assolutismo che pur sentendosi profondamente obbligato nei confronti del popolo, non lasciava però che niente venisse provocato dal popolo o attraverso il popolo.

Inoltre, Leopoldo II dal nonno Pietro Leopoldo ereditò la volontà di percorre in lungo e in largo il suo Paese per accertarsi, di persona, che ogni cosa fosse in ordine, costruendo strade e prosciugando

19 F. Pesendorfer, La Toscana dei Lorena. Un secolo di governo granducale, Sansoni editore, Firenze, 1987, pp.146 147.

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terreni paludosi di vaste dimensioni.

È possibile riscontare in lui la volontà di essere sempre presente sul territorio per conoscere in prima persona ogni necessità. Durante le epidemie di tifo, malaria e di colera, durante le inondazioni e i terremoti si recava, infaticabile, sul posto per capire dove servivano ospedali, medici, cibo e ripari.

Incurante del pericolo visitava gli ammalati e nel 1855 si ammalò lui stesso di colera, ma in maniera lieve e guarì dicendo di essersi curato con l'acqua di una fonte benedetta. Così, dopo aver ringraziato Dio, poté tornare ad occuparsi dei suoi sudditi. Certo egli non poteva evitare malattie e carestie, ma si adoperava con tutto sé stesso per diminuirne le conseguenze.

Riceveva le persone, ne ascoltava i bisogni e cercava di aiutarle: il suo era l'atteggiamento paternalistico di un principe regnante per grazia divina. Dio gli aveva affidato i suoi sudditi e per lui prendersene cura era il dovere che veniva prima di ogni altra cosa e Leopoldo se ne prese cura come un padre si prende cura della propria famiglia e lo fece con prudenza e con amore forte e sincero.

Un cambiamento, avvenuto già sotto il governo di Ferdinando III, può essere invece rilevato riguardo allo stile di vita della corte fiorentina: se a partire da Cosimo I, era divenuto uno dei principali centri politico-culturali a livello europeo, dopo la Restaurazione, col tumulto delle guerre, e con la temporanea perdita dello Stato, molto di ciò che prima appariva tanto sfavillante si era fatto più opaco e con Leopoldo II le cose continuarono quasi inevitabilmente a seguire tale corso. A Vienna, il Biedermier20 aveva fatto il suo ingresso, e non soltanto negli ambienti della borghesia. Piaceva, infatti, anche all'imperatore Francesco II questo modo di vita tranquillo e, se si vuole, anche melenso; indice, per molti, dell'inizio di una nuova era.

Nel 1983 furono ritrovate casualmente dallo studioso Franz Pesendorfer le memorie di Leopoldo II, situate al Ministero dell'Agricoltura cecoslovacco, dove attualmente trova alloggio il Fondo Lorena, l'archivio di famiglia dei granduchi di Toscana che, dopo esser stato trasferito da Leopoldo II (ultimo granduca regnante) nei propri possedimenti di Boemia, passò all'Archivio di Stato di Praga. Da tale autobiografia emerge infatti come principale elemento connotativo una caratteristica inusuale per un sovrano, ovvero l'ordinarietà, il sentirsi un uomo comune.

Leopoldo II con grande umiltà non prendeva mai una decisione importante senza prima avvalersi del parere dei migliori esperti in ogni campo del sapere. Non quindi senza giustificazione intitolò le

20 Movimento artistico sviluppatosi nel periodo storico che intercorre tra il 1815 ed il 1848. Molto in voga tra la borghesia tedesca e austriaca viene spesso definito di genere romantico. Il termine stesso si diffuse attorno al 1850 come dispregiativo, preso in prestito da un personaggio creato dagli scrittori Adolf Kussmaule e Ludwig Eichrodt, e stava ad indicare il piccolo borghese apolitico e conservatore, interessato solo alla propria vita familiare. È composto da due parole, cioè l'aggettivo semplice, sempliciotto (bieder, ma che significa anche integro, onesto) unito a uno dei cognomi tedeschi più diffusi Meier (o Maier).

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proprie memorie Il governo di famiglia, in quanto riteneva appropriato amministrare il proprio Stato come avrebbe fatto qualsiasi padre con i propri figli nonché possedimenti:

Una cosa mi diceva il cuore, che il mio paese, la Toscana, amavo assai, quanto la propria famiglia amar si possa, senza limite cioè e senza misura, ed altra cosa mi pareva certa per sentimento e più che per scienza: che uno Stato altro non era che una grande famiglia composta di uomini sotto un padre o un patriarca, o un sovrano, che erano vicendevoli doveri. E temevo per fermo che l'estendere i doveri che ha il padre di famiglia di vigilare, guardare dai danni e pericoli la famiglia sua, procurare il suo ben essere e lo sviluppo d'ogni sua fortuna, avrebbe dato nel governare uno Stato una qualche regola e guida che non andasse lontano dal vero, perché vera la base onde si faceva partenza21.

Leopoldo II, per quanto fosse un Asburgo, sentiva come propria casa la Toscana, dove del resto nacque. Questa posizione che lo vedeva a metà tra tricolore e aquila bicipite provocherà in lui un conflitto interno che lo accompagnerà per tutta la vita.

Tuttavia, Leopoldo aveva appena un anno e mezzo, quando, a seguito dell'invasione napoleonica, dovette lasciare Firenze e seguire il padre in esilio, dapprima a Vienna, poi, dal 1803, a Salisburgo.

Nel 1805 venne costretto ad abbandonare anche quest'ultima città per l'incalzare della nuova guerra tra Austria e Francia rivoluzionaria e per questo si trasferì a Würzburg, in Germania, dove la famiglia si stabilì in quello che era l'antico palazzo vescovile.

Durante questi tormentati anni, Leopoldo riuscì a studiare molto con tutori tedeschi ed italiani, mostrando una particolare predilezione per la lingua e la letteratura italiana22.

I Lorena rientreranno a Firenze nel settembre del 1814, dopo la prima abdicazione di Napoleone, bene accolti dai sudditi anche per la politica del nuovamente granduca Ferdinando, che non effettuò epurazioni o vendette verso coloro che avevano collaborato col governo francese. Tale spirito di grande tolleranza, come già ricordato, verrà poi ereditato dal figlio Leopoldo.

In seguito lo status quo del Granducato non fu messo in discussione dai moti che scossero l'Europa nel 1820-21 e nel 1830-31. In Toscana vigeva, per l'appunto, un rigido apparato poliziesco che riuscì ad ovviare avvenimenti che destassero scalpore o rinfocolassero le passioni politiche23.

Di processi politici ne vennero istituiti ben pochi di fronte ai tribunali; se ciò avvenne fu per lo più quando la pressione di Vienna non lasciò altra scelta. E, anche in questi casi, i giudici

21 F. Pesendorfer, Il governo di famiglia in Toscana. Le memorie del granduca Leopoldo II di Lorena (1824 – 1859), Sansoni Editore, Firenze, 1987, p.56.

22 F. Pesendorfer, Leopoldo II di Lorena. La vita dell'ultimo granduca di Toscana, Sansoni Editore, Firenze, 1989, pp.19-20.

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pronunciarono ben poche condanne a morte; condanne che per grazia del Granduca vennero poi convertite in pene detentive o nell'espulsione dal Paese.

Il Granducato di Toscana fu nel 1786 il primo Stato al mondo ad abolire legalmente la pena di morte attraverso l'emanazione del nuovo codice penale toscano da parte di Pietro Leopoldo, il quale fu influenzato dalle idee illuministiche del filosofo Cesare Beccaria.24 Tuttavia sarà lo stesso

Granduca nel 1790 a reintrodurre la pena di morte per i cosiddetti crimini eccezionali.

L'obiettivo perseguito negli anni della Restaurazione era quello di togliere tempestivamente, a quei toscani o a quegli stranieri che propendevano verso un'opinione propria e osavano darle voce, il coraggio di farlo.

Servirono a tale scopo centinaia di processi economici di polizia. Questi venivano celebrati senza i vantaggi per l'imputato di un procedimento giudiziario e principalmente senza la possibilità di un confronto con i testimoni dell'accusa (procedura per direttissima), e si concludevano con la condanna al pagamento di ammende pecuniarie, raramente con il carcere.

Si riuscì in questo modo ad intimidire quei toscani che cominciavano a volgersi verso le riforme, quando non addirittura verso la rivolta, distogliendoli da questa pericolosa via prima che altri cittadini potessero essere contagiati dalle loro idee. Ebbe origine una tranquillità di un genere particolarissimo, una mescolanza di indifferenza vera e di simulato disinteresse verso le faccende della politica25.

Grazie a tale clima, nell'ambito del processo riformatore suscitato in Italia dall'elezione del Papa liberale Pio IX, anche in Toscana prese il via l'era delle riforme. Così, nel 1847, il granduca Leopoldo II si distinse per l'impegno riformatore: concesse la libertà di stampa, codificò il diritto

24 Nel 1764 il milanese Cesare Beccaria pubblica l’opera dei delitti e delle pene. Il filosofo Lombardo esprime una profonda critica condannando la prassi giudiziaria del suo tempo. Attacca in particolare l’uso della tortura e della pena di morte. Il punto di partenza è individuato nell’errore di valutazione spesso riguardante la misura delle pene. Il fine delle pene non dev’essere quello di annichilire il reo bensì quello di impedirgli di poter ancora nuocere individui e stato. La morte e la tortura son dunque discreditate. Beccaria propone in loro sostituzione l’ergastolo e i lavori forzati. Il principio di pena è accompagnato dall’etica della rieducazione. Esistono però delle eccezioni: “io non veggo

necessità alcuna di distruggere un cittadino, se non quando la di lui morte fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti, secondo motivo per cui può credersi giusta e necessaria la pena di morte”. L’opera, letta da Voltaire e dalla cerchia dei philosophes illuministi Francesi è considerata un capolavoro. Non pochi sovrani tardo settecenteschi applicano in parte o integralmente i consigli del Beccaria modificando i codici penali. Tra questi Pietro Leopoldo d’Asburgo Lorena, il quale emana un codice legislativo illuminato. Il futuro imperatore Austro Ungarico abolisce tortura, mutilazioni, confische arbitrarie di beni e, per primo in Europa, la pena di morte. Il codice leopoldino contiene una legge di riforma criminale emanata a Pisa il 30 Novembre 1786.

“Siamo venuti nella determinazione di non più lungamente differire la riforma della Legislazione Criminale, con la quale abolita per massima costante la pena di Morte, come non necessaria per il fine propostosi dalla Società nella punizione dei Rei, eliminato affatto l'uso della Tortura, la Confiscazione dei beni dei Delinquenti, come tendente per la massima parte al danno delle loro innocenti famiglie che non hanno complicità nel delitto”. L’atto di enorme rilevanza giuridica, storica ed etica di Pietro Leopoldo inaugura un epoca di riforme giudiziarie mai vista in passato. La

rivoluzione francese e la conquista dell’Italia da parte di Napoleone porteranno a un’abolizione del codice penale leopoldino, rimesso in vigore solo un decennio dopo.

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penale e civile, ampliò la libertà dei comuni, trasformò la Consulta in organo consultivo del governo e autorizzò la formazione della Guardia Civica26.

Ma evidentemente ciò non fu abbastanza: a seguito dei tumulti del 1848, sull'esempio di Ferdinando II delle due Sicilie e Carlo Alberto di Savoia, il Granduca di Toscana si trovò costretto a concedere una Costituzione liberale.

Festeggiamenti solenni si ebbero a Firenze, mentre manifestazioni di giubilo si ebbero in tutte le città della Toscana.

Per l'appunto, sul monumento di cui mi appresterò a parlare, che fu dedicato a Leopoldo II e posto nella principale piazza cittadina di Pietrasanta, verrà incisa la data 1848, con l'intento di onorare l'anno in cui Leopoldo II concesse lo Statuto liberale27.

26 F. Pesendorfer, La Toscana dei Lorena, cit., pp.171-172. 27 Cfr. Appendice A.

Illustrazione I: Vincenzo Santini, Basamento monumento a Leopoldo II, 1848-1849, Pietrasanta, Piazza Duomo.

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1.2 Vivere nel Vicariato di Pietrasanta nel XIX secolo

Illustrazione II: A. Digerini, Veduta della Piazza di Pietrasanta dalla Rocchetta, 1829, Collezione Comune di Pietrasanta.

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Questa scena raffigurante la Piazza Maggiore di Pietrasanta fu fissata dal pittore Antonio Digerini nel 1829.

Sul fondo della piazza non c'è ancora la statua di Leopoldo II, ma la fontana del Marzocco, la cui acqua, secondo la tradizione locale, aveva il potere di indurre i forestieri che la bevevano a stabilire fissa dimora nel paese. L'animazione del luogo non è molta. In lontananza possiamo notare una carrozza signorile, mentre sulla destra sono raffigurate diverse donne attorno ad una bancarella, che probabilmente stanno discutendo il prezzo e la qualità della merce, senza tralasciare l'occasione di scambiarsi le novità della mattina.

Le facciate del Duomo e della Chiesa di Sant'Agostino sono i pezzi nobili sui quali veglia il campanile di mattoni. Al di sopra del muro della Rocca, il colle verde di Capezzano apporta una nota di riposo.

Sul marciapiede lungo l'edificio della locanda un'altra donna cammina in solitudine. Indossa una gonna rossa, uno scialle bianco e si para il sole con un ombrello, il quale, nemmeno a dirlo, è verde. Vicino ad essa due gendarmi che, sulla piazza, fanno parte a sé, quasi fingendo di non vedere. Nelle uniformi dai pantaloni azzurri a bande rosse, la giacca blu e l'alto cappello nero, confabulano tra loro con un'aria non propriamente marziale. Appare, comunque, il simbolo concreto di un'epoca: la Restaurazione.

Questo quadro, tuttora collocato nel Palazzo Municipale della città, ci offre una raffigurazione, verosimilmente vicino al reale, della vita di Pietrasanta nell'anno in cui fu dipinto28.

Nell'Atlante geografico, fisico e storico del Granducato di Toscana stampato nel 1832, Attilio Zuccagni Orlandini, Segretario delle corrispondenze dell'Imperiale e Reale Accademia Economico-agraria dei Georgofili, scrisse: «Pietrasanta è la più bella Terra del Granducato». Ne elogiò i fabbricati «di decente e bell'aspetto», le strade rettilinee e piane, il Duomo, il tempio di Sant'Agostino, le altre chiese e i conventi.

Questa «terra», come definita da Orlandini, ovvero un luogo abitato inferiore alla città, ma particolarmente cospicuo e popolato, dal 1772 era capoluogo dell'omonimo Vicariato Regio, il quale veniva incluso nel gruppo dei «territori staccati» perché, come altri luoghi granducali, si trovava isolato dal resto dello Stato, dal quale lo separava il Ducato di Lucca.

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A livello amministrativo il Vicariato si trovava sotto il Compartimento di Pisa e comprendeva tre comunità, Pietrasanta, Seravezza e Stazzema.

Ogni comunità era amministrata da un Consiglio Generale e da un Magistrato, composti rispettivamente da dodici consiglieri e da cinque priori più il gonfaloniere. Oggi chiameremmo tali figure rispettivamente consiglieri comunali, assessori e sindaco.

Ad amministrare la comunità potevano essere chiamati i cittadini maschi possidenti che avessero compiuto 25 anni. La carica di priore e quella di consigliere venivano assegnate mediante estrazione a sorte, mentre il gonfaloniere veniva designato direttamente dal Granduca e restava in carica tre anni, al termine dei quali poteva essere riconfermato.

A Pietrasanta, come capoluogo di Vicariato, vi era sia un tribunale a cui presiedeva il Vicario Regio, che una cancelleria; vi aveva inoltre il suo ufficio anche un ingegnere di circondario, con il compito di sorvegliare l'esecuzione di lavori di strade ed acque per conto regio e di strade, acque e fabbriche della comunità29.

Nel 1831 nel Vicariato si contavano 18943 abitanti, di cui 7601 risedevano a Pietrasanta, 5871 a Seravezza e 5471 a Stazzema.

29 D. Orlandi, La Versilia nel Risorgomento, Edizioni Monte Altissimo di Pietrasanta, 2011, pp.11-15.

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Nel centro urbano di Pietrasanta erano presenti 2496 abitanti, ed abbiamo visto come esso riuscisse a colpire favorevolmente l'occhio dell'osservatore. Tuttavia, qualche riserva sulle condizioni della nettezza urbana sembra doveroso avanzarla, in quanto si rimproverava agli abitanti di gettare dalle abitazioni e dalle botteghe acque luride nelle strade e nelle piazze. Molte case, infatti, mancavano di acquai, di bottini e di pozzi neri. Inoltre si lasciavano al sole pelli fresche di animali macellati, e rimanevano esposti sulle strade depositi di concime destinato ai numerosi orti esistenti all'interno delle mura castellane.

Tutto ciò accadeva malgrado il fatto che, fin dai tempi della Restaurazione, ci fosse stato un impegno continuo per tenere in ordine l'abitato e la campagna.

Nell'ultimo periodo dell'amministrazione francese ed in quello iniziale del ritorno del Granducato lorenese, nella crisi di trapasso, strade e fossi erano andati in dissesto, mentre nei campi e negli uliveti le ruberie e le usurpazioni dei raccolti da parte di gente che non aveva altri mezzi di sussistenza erano venute all'ordine del giorno.

Così nel 1815, anche per dare lavoro ai braccianti che in quell'inverno si trovavano disoccupati, venne dichiarato urgente il restauro delle vie interne all'abitato: fu l'inizio della ripresa di una regolare manutenzione delle strade e delle piazze del centro urbano, che venne poi eseguita in modo costante.

Non mancarono, peraltro, diverse iniziative per eseguire opere ornamentali che conferissero alla terra maggiore dignità esteriore.

È noto che l'epoca della Restaurazione fu caratterizzata da un clima di ripresa dello spirito religioso: Pietrasanta non si sottrasse a questa atmosfera e s'impegnò subito in un'opera di abbellimento e di restauro del Duomo di San Martino, concessa dal Granduca con rescritto del 3 settembre 1819.

Dal canto loro, nel settembre 1822, gli amministratori civici deliberarono di adornare con una scultura la sala maggiore del palazzo della Cancelleria, collocandovi, su un tronco di colonna di marmo, un busto del Granduca Ferdinando III, in segno di gratitudine per la munificenza che quel sovrano aveva mostrato verso Pietrasanta. L'opera fu scolpita a Seravezza dallo scultore fiorentino Gaetano Grazzini, nello studio di scultura aperto in quell'anno da Marco Borrini30 e costò lire 346,13,4, prezzo molto elevato considerando che un operaio guadagnava in media una lira al giorno31.

30 Abile imprenditore locale che ebbe un ruolo determinante nello sviluppo delle attività marmifere nella Versilia dell'Ottocento. Ricoprì inoltre diverse cariche pubbliche di primaria importanza (Direttore delle Contribuzioni, Camerlengo, Priore, Gonfaloniere) ed era ben introdotto negli ambienti politici e artistico-culturali di Firenze. 31 D. Orlandi, La Versilia nel Risorgimento, cit., pp.26-30.

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Nel frattempo nel Vicariato andava sviluppandosi con apprezzabile incremento anche la produzione agricola, principale fonte di sussistenza degli abitanti. Le colture tradizionali annoveravano cereali, ortaggi e agrumi. Diffusa era la coltivazione della canapa e dei gelsi, piantati ai margini dei campi, lungo le strade e i fossi, nelle immediate adiacenze delle mura castellane e negli orti all'interno dell'abitato. Questa piantagione è indice dell'allevamento dei bachi da seta, che, però, erano venduti ai forestieri. Nel 1813, sotto la sollecitazione del governo del tempo, che concesse premi ai coltivatori, c'era stato un tentativo senza successo d'introdurre la coltivazione del cotone. Esito favorevole, invece, aveva avuto, sin dai primi anni della Restaurazione, la coltura della patata.

Primaria importanza era assegnata alla coltura dell'olivo, praticata principalmente sulle pendici delle colline. L'olio che se ne produceva era di qualità eccellente e rappresentava la vera ricchezza della terra. Gli abitanti del Pietrasantese vedevano dipendere la loro tranquillità economica dal raccolto delle olive: se mancava o se scarseggiava andavano incontro a notevoli disagi.

Nelle annate di ordinaria produzione, tutti i braccianti della zona s'impiegavano, d'inverno, in quel lavoro. Anzi non bastavano a soddisfare la richiesta di manodopera, così si poteva osservare perfino un'immigrazione stagionale di lavoranti dalla Garfagnana e dall'Appennino modenese, reggiano e parmense32.

In generale la Toscana non presentava condizioni fisiche molto favorevoli ad una trasformazione radicale e ad un forte slancio produttivo dell'agricoltura: era caratterizzata in prevalenza da grandi proprietà e dalla conduzione a mezzadria. Le grandi proprietà, appartenenti in larga misura al patriziato cittadino, non erano però di tipo latifondistico poiché si suddividevano per lo più in poderi, coltivati in genere a cereali, vigneti, oliveti e frutteti. La produzione quindi era abbastanza varia, ma unitariamente poco elevata; i metodi di coltivazione erano tradizionali e nel complesso piuttosto arretrati; il reddito dei coloni scarso, sicché la maggior parte di essi erano indebitati verso i padroni. L'incremento complessivo della produzione fu ottenuto assai più con un aumento della superficie coltivata che con un accrescimento del prodotto unitario. Il sistema mezzadrile infatti poco si prestava all'introduzione di colture nuove e al miglioramento qualitativo di quelle esistenti. La media e piccola proprietà, quasi tutta nelle mani della borghesia mercantile e professionistica, si accrebbe un poco in alcune zone; sembra però che in generale questo accrescimento avvenisse per effetto di suddivisioni ereditarie e di nuove alienazioni di beni demaniali, ecclesiastici e comunali, non a scapito della grande proprietà aristocratica. I grandi proprietari nobili dominarono la vita economica e sociale del Granducato e nei momenti politicamente decisivi riuscirono a trascinare

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dietro di sé la grande maggioranza dei proprietari medi e piccoli.

Si può affermare che la struttura agraria della Toscana rimase relativamente statica, perché la classe dominante riuscì per parecchi decenni a limitare le ripercussioni delle crisi agrarie, da un lato sviluppando quanto più possibile la produzione nell'ambito del vecchio sistema, dall'altro impedendo l'instaurazione di nuovi rapporti di lavoro che avrebbero inevitabilmente determinato un'immediata accentuazione della lotta di classe.

Pietrasanta, inoltre, poteva vantare un'importanza commerciale notevole grazie alla sua posizione geografica: essendo situata tra gli itinerari di Sarzana, Pisa e Lucca era stazione di posta; ed in quanto città costiera vi si svolgeva un traffico marittimo di vario genere. Per le esigenze dei traffici funzionavano adeguati servizi ed esistevano le dovute attrezzature, in primo luogo alberghi e locande. Senza contare quelli di minore importanza ne esistevano sei qualificati: tre all'interno delle mura castellane e altrettanti nella zona suburbana. Numerosi erano gli altri esercizi pubblici: bettole, caffè, botteghe di commestibili, pizzicagnoli, macellai, sarti, orefici, orologiai, fabbri e armaioli. La Comunità pagava due medici, un chirurgo ed una levatrice33.

Luogo ricco di potenzialità, il Vicariato di Pietrasanta si trovò così al centro di una disputa territoriale tra il Ducato di Modena e il Granducato di Toscana.

1.3 Pietrasanta: territorio conteso

Il Congresso di Vienna assegnò alla ex-Imperatrice dei Francesi, Maria Luisa d'Asburgo-Lorena, il Ducato di Parma. L'articolo 102 però decretava che alla sua morte sarebbero stati reinsediati sull'avito trono i Borboni che nel mentre avevano ricevuto la sovranità su Lucca. Una volta che Carlo Lodovico di Borbone fosse tornato sul trono di Parma il Ducato di Lucca sarebbe stato ceduto al Granducato di Toscana. A quel punto il Vicariato di Pietrasanta, che dal 1513, attraverso il lodo di papa Leone X era stato legato a Firenze34, doveva essere trasferito sotto il Ducato di Modena, e lo stesso sarebbe valso per il Vicariato di Barga e Fivizzano.

Tuttavia, gli elaboratori dell'atto finale del Congresso di Vienna conferirono la possibilità alle parti in causa di trovare accordi alternativi secondo le reciproche convenienze.

Sin dai primi di ottobre del 1815 si diffuse nel Vicariato di Pietrasanta il timore di passare sotto Francesco IV d'Este, sovrano non certo noto, a differenza dei granduchi lorenesi, per le sue doti

33 Ibid., p.125.

34 Il 29 settembre 1513 Papa Leone X sancì con un proprio Lodo il passaggio di Pietrasanta e del suo circondario dal dominio lucchese a quello fiorentino. Fu un atto che determinò la nascita di una nuova entità territoriale, di una comunità che resterà legata a Firenze sino al compimento dell’unità d’Italia.

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progressiste e tolleranti. Il Gonfaloniere allora indirizzò immediatamente una lettera a Ferdinando III per impedire il distacco dal Granducato:

Le popolazioni della comunità di Pietrasanta sono sempre state delle più fedeli, delle più devote alla sacra persona e alla dinastia di Vostra Altezza Imperiale e Reale. Esse non ebbero e non avranno mai più lieto giorno di quello che ricondusse sul trono toscano l'augusto figlio dell'immortal Leopoldo, di quel genio tutelare e benefico che dallo squallore della più miserabile provincia la trasse, con i privilegi e provvedimenti di ogni sorta, ad aver luogo fra le più prospere e ubertose; ma la bella sorte, di cui godono, e le belle speranze sull'avvenire, alle quali si abbandonarono, vengono ora turbate, e sparse d'inquietudine e di timori, da poi che è comparsa in campo la voce di potere essere smembrate dal Granducato; quindi è che si fanno elleno un debito di portare queste inquietudini e questi timori innanzi al trono dell'A.V. I. e R. congiunti ai più fervidi sentimenti di amore e di fedeltà. Accolga V. A. I. e R. i voti di questa non spregevole porzione della sua famiglia, che ama di vivere all'ombra delle sue leggi e del suo governo e voglia impiegare la sua politica, le sue paterne sollecitudini per conservarci una sì bramata sorte35.

Il Principe, ricevuta la memoria ed accettati gli omaggi di devozione e fedele sudditanza delle popolazioni, aveva accolto con favore la supplica ed ordinò:

che sia alle medesime contestato il sovrano suo gradimento per tali sentimenti, facendoli nel tempo stesso sentire che standoli sommamente a cuore il loro particolare interesse, non sarà omesso di far valere i titoli dai quali sono assistiti, onde non siano smembrate dal restante del Granducato36.

Le premure continuarono anche alla morte di Ferdinando: nel 1839 i pietrasantini decisero di innalzare un pubblico monumento al Granduca Leopoldo II. Si trattava di una statua colossale da innalzare nella loro piazza e conferirono tale compito ad un loro concittadino, Vincenzo Santini, che, in quel momento, si trovava a Roma nello studio di Pietro Tenerani37. Il cosiddetto monumento al Canapone è la sola statua di governante mai eretta a Pietrasanta, non ve ne sono altri né

35 Archivio Comunale di Pietrasanta (ACP), Deliberazioni del Magistrato, fondo Partiti H48, pp. 433-434. 36 Ibid., p.445.

37 Pietro Tenerani (1789-1869), scultore carrarese che dopo aver studiato all'Accademia di Belle Arti di Carrara, nel 1814 si trasferì a Roma dove rimarrà tutta la vita e dove fu allievo del celebre scultore danese Bertel Thorvaldsen. Con il passare degli anni consolida la propria fama e acquisisce onori e ricchezze fino a diventare artista di rinomanza internazionale. Nel 1856 divenne presidente dell'Accademia di San Luca a Roma, nel 1858 presidente dei Musei Capitolini e dal 1860 direttore dei Musei Vaticani. Le maggiori personalità dell'epoca richiedono di essere ritratte dallo scultore: ne sono esempio la statua di Pellegrino Rossi, il monumento a Simon Bolivar e a Pio VIII in S. Pietro. Morì al colmo della celebrità e della stima generale, tuttavia i numerosi allievi del suo atelier e la prolungata docenza

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granduchi, né vescovi, né capipopolo e ciò può denotare il cosiddetto spirito anarcoide dei pietrasantini38. Questo fu infatti eretto con un intento ben preciso: tributare onori a Leopoldo II, che una volta lusingato, probabilmente, si sarebbe battuto con maggiore interesse per conservare Toscano il Vicariato di Pietrasanta.

Solo negli anni Ottanta dell'Ottocento verranno collocati sulla facciata principale di Palazzo Moroni, anch'esso situato in piazza Duomo non lontano della statua di Leopoldo II, due medaglioni in marmo con all'interno bassorilievi raffiguranti Garibaldi e Vittorio Emanuele II. Entrambe queste due raffigurazioni furono inserite con con l'intento di trasmettere e definire il nuovo senso di italianità che al termine del XIX secolo necessitava di diffondersi.

1.4 Il legame di Leopoldo II con Pietrasanta

Oltre all'erezione della statua, a favore dei pietrasantini giocò il fatto che allo stesso Granduca non piacesse la clausola della dovuta cessione di Pietrasanta e Barga che avrebbe fatto perdere continuità territoriale ai suoi domini. Una volta annesso il Ducato di Lucca di fatto gli sarebbe rimasta la sovranità sulla Lunigiana senza le terre di mezzo di Pietrasanta e Barga. Una visione futura del Granducato che per niente lo affascinava, così maturò l'idea di attuare uno scambio dell'enclaves da cedere a Modena.

Pietrasanta, in quanto territorio di confine, aveva inoltre una grande utilità commerciale e militare, e proprio in quegli anni stava conoscendo un fiorente sviluppo.

Così si espresse il granduca Leopoldo II nelle sue “Memorie”, in un resoconto di viaggio fatto nella terra di Versilia nel 1838:

Visitai ancora Pietrasanta a conoscer dall'estensione che prendeva l'industria dei marmi; salii alle cave dell'Altissimo, che lungamente guarda il sole che tramonta, una massa sola, candida e preziosa. Vidi le molte segherie, li spianatori che lavoravano per l'edificii d'America, la basilica di Pietroburgo. Marco Borrini aveva fatto principio a tanto sviluppo. Vidi le incominciate imprese minerarie di Val Castello, dell'Argentiera, di Ripa; studiai l'industre coltura dell'olivi nei poggi, la fertile, irrigua pianura. Pietrasanta precario possesso, che tutto sentiva l'amor della toscana famiglia39.

Questa memoria ci mette anche a conoscenza che non era la prima volta che il Granduca si recava in questa terra: nel gennaio del 1825 il granduca Leopoldo II, visitò istituti, opifici

38 F. Fontanini, La fantastica storia di Pietrasanta, Petrarteedizioni, Pietrasanta, 2005 p.22. 39 F. Pesendorfen, Il governo di famiglia in Toscana, cit., p.204.

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industriali, e lavori stradali nel territorio di Pietrasanta40; non mancò di compiere un tentativo di recarsi alle cave dell'Altissimo, ma per l'inclemenza della stagione invernale dovette abbandonare tale progetto41, che infatti ripeterà nel soggiorno successivo.

Entrambi questi passaggi del Granduca sono stati ricordati attraverso l'affissione di lapidi nell'albergo pietrasantino in cui dimorò, ad oggi adibito ad abitazioni private (numeri civici 23 e 24 di piazza Matteotti), sulle quali era inciso:

S. A. I. R l'Augusto Leopoldo II Granduca di Toscana onorò quest'albergo avendovi pernottato dal XIX al XX gennaio MDCCCXXV .

A Leopoldo II che questa abitazione dal XII al XV marzo MDCCCXXXVIII di sua augusta presenza onorò.

40 Ibidem pp.57-58

41 D. Orlandi, La Versilia nel Risorgimento, cit., pp.203-204.

Illustrazione IV: Targa commemorativa in ricordo del soggiorno di Leopoldo II, 1838, Piazza Matteotti, Pietrasanta.

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Tuttavia una lettera inviata da Marco Borrini allo scultore Vincenzo Santini ci informa anche che il Granduca era dedito fare soggiorni di riposo assieme alla famiglia nella Villa Medicea che i granduchi possedevano nella vicina località di Seravezza, facente sempre parte del Vicariato Regio di Pietrasanta:

Seravezza, 15 ottobre 1833 Caro Santini,

La cara vostra del 24 agosto mi è pervenuta e mi avete fatto molto piacere a scrivermi interessandomi molto le vostre nuove. Vedo con piacere che voi pure interessano le cose patrie, di cui state in giorno, sembrandomi che siate al fatto di quanto ha avuto luogo in occasione del soggiorno della Corte a Seravezza. Questa circostanza è stata molto favorevole per questo paese ed i vantaggi sono stati non pochi. Seravezza ci ha guadagnato l'istituzione di un tribunale qui residente, grazia fatta dal granduca, si può dire nell'essere qui colla sua famiglia. Il soggiorno è stato quanto poteva mai desiderarsi piacevole alle reali persone; l'aria favorevolissima alla loro salute, che trovò qui gran miglioramento. Onde è fissato il ritorno per l'estate avvenire42.

Nell'estate del 1833 i Lorena si portarono in villeggiatura a Seravezza. Vi si recò la Granduchessa, vedova di Ferdinando III, con le due nipoti arciduchesse, figlie di Leopoldo II. Esse dal Palazzo Mediceo si recavano ai bagni di Forte dei Marmi, che, in tal modo, ebbe i suoi primi bagnanti illustri, e, a causa dei viaggi quotidiani che dovevano compiere per andare al mare, furono eseguiti lavori stradali che facilitassero il transito delle carrozze granducali. Il 7, 8 e 9 agosto fu a Seravezza anche Leopoldo II. Tale soggiorno è ricordato da una targa affissa a Stazzema sul muro esterno dell'abitazione dell'allora Gonfaloniere che il Granduca visitò, sulla quale possiamo leggere:

In memoria ai posteri perché nel di VIII agosto MDCCCXXXIII Leopoldo II unito alle sue figlie e cognata visitare degnavasi questa casa ed in essa la refezione offerta accettando intera fiducia mostrava a coloro che la porgevano i presenti al ricevuto onore Iacopo Antonio Viviani in tal epoca fortunata Gonfaloniere. Consorte e figli posero il presente.

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Dopo la partenza del Granduca fu annunciato che la località di Seravezza era stata elevata a sede di podesteria, la più bassa delle giurisdizioni politico-giudiziarie a cui gli abitanti aspiravano da anni43.

Inoltre per cercare di legare a sé questa terra, il 22 marzo 1841, Leopoldo II dichiarò con sovrano motuproprio la Terra di Pietrasanta Città Nobile:

Valutando Noi il rango distinto che fra le terre della Toscana occupa Pietrasanta, ed avuto riguardo alla sua antichità, alla quantità della sua popolazione, all'ampiezza e decenza dei suoi fabbricati pubblici e privati, agli utili Stabilimenti Religiosi, Industriali e di Beneficenza che possiede, non meno che alle molte famiglie illustri e doviziose ascritte già alla nobiltà Toscana o Estera associate a cospicue parentele che vi hanno dimora, con la pienezza della Nostra Potestà abbiamo dichiarato e dichiariamo la detta Terra di Pietrasanta Città Nobile, e tale vogliamo che sia da tutti riconosciuta44.

43 D. Orlandi, La Versilia nel Risorgimento, cit., pp.138-140.

(30)

Illustrazione VI:Dichiarazione della Terra di Pietrasanta a Città Nobile. Notificazione del motuproprio granducale, 1841.Archivio privato Enrico Botti, Pietrasanta.

(31)

Testo illustrazione VI

NOTIFICAZIONE

La reale consulta inerendo ai Comandi contenuti nel Biglietto dell'Imp. e R. Segreteria di Stato de'22. Marzo prossimo perduto rende pubblicamente noto l'appresso Sovrano Veneratissimo.

MOTUPROPRIO

LEOPOLDO SECONDO PER LA GRAZIA DI DIO

PRINCIPE IMPERIALE D'AUSTRIA

PRINCIPE REALE D'UNGHERIA E DI BOEMIA ARCIDUCA D'AUSTRIA

GRANDUCA DI TOSCANA EC. EC. EC.

Valutando Noi il rango distinto, che fra le terre di Toscana occupa Pietrasanta, ed avuto riguardo alla sua antichità, alla qualità della sua popolazione, all'ampiezza e decenza dei suoi fabbricati pubblici e privati, agli utili Stabilimenti Religiosi, Industriali, e di Beneficenza che possiede, non meno che alle molte Famiglie illustri e doviziose ascritte già alla nobiltà Toscana o Estera associate a cospicue parentele, che vi hanno dimora, con la pienezza della Nostra Potestà abbiamo dichiarato e dichiariamo la detta Terra di Pietrasanta Città Nobile, e tale vogliamo, che sia da tutti riconosciuta.

Ed ordiniamo che dall'Archivio della Deputazione sulla Nobiltà e Cittadinanza si dia avviso a tutti i Magistrati ed a chiunque spetti, di questa Nostra Sovrana Determinazione.

Dato il ventidue Marzo mille ottocento quarantuno.

LEOPOLDO

Per il consigliere Segretario di Stato V. N. CORSINI

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Resa nota la notizia, il Gonfaloniere di Pietrasanta ordinò che il Motuproprio venisse scolpito su marmo, a lettere d'oro per essere collocato nella sede del Palazzo Civico, a perpetua memoria di sì lieto avvenimento. Per festeggiare vennero organizzate delle manifestazioni: una distribuzione di pane alle famiglie povere, una solenne funzione nel duomo di San Martino e l'incendio, sulla piazza principale, di un castello di fuochi artificiali.45

1.5 Il Trattato di Firenze

Il Granduca infine intavolò lunghe e complesse trattative con i duchi di Lucca e di Modena. Il 28 Novembre 1844 giunsero alla firma di un accordo, il cosiddetto Trattato di Firenze, alla presenza anche dell'ambasciatore sabaudo, in quanto si ritenne necessario l'intervento alle sedute di un rappresentante del Regno di Sardegna, comportando il progetto in discussione un cambiamento di stati limitrofi al territorio piemontese, e di quello asburgico, sia perché l'imperatore Ferdinando I accettò di intervenire alla conferenza per conciliare le pretese dei vari duca membri della famiglia imperiale ed inoltre perché i diritti dell'Austria non subissero lesioni.

Per volontà della corte di Vienna tale accordo fu mantenuto segreto: la segretezza assoluta dei negoziati e del trattato che ne sarebbe derivato, anzitutto doveva esserci per un doveroso riguardo alla Duchessa di Parma Maria Luigia, sorella dell'imperatore d'Austria, la quale sicuramente avrebbe sofferto di vedere trattare una questione che era intimamente connessa alla sua esistenza.

L'art.99 del Congresso di Vienna sanzionava infatti l'assoluta sovranità dell'imperatrice Maria Luigia vedova di Napoleone, sui Ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, esclusi alcuni distretti sulla sinistra del Po. Tuttavia, in virtù dell'art.3 del Trattato di Parigi del 10 giugno 1817, dopo la morte dell'Arciduchessa Maria Luigia i Ducati di Parma, Piacenza e Guastalla sarebbero passati all'infante di Spagna Don Carlo ed ai suoi discendenti in linea diretta e mascolina.

Inoltre Vienna decise di non rendere noto l'accordo per non suscitare false interpretazioni del corpo diplomatico di Firenze, sede delle conferenze46.

Si giunse ad uno scambio di territori. Nella lettera che la Camera di Soprintendenza Comunicativa di Pisa spedì al cancelliere di Pietrasanta, in data 30 ottobre 1847 possiamo leggere:

che i Vicariati di Pietrasanta e di Barga, ad eccezione di piccole frazioni di territorio per una più congrua configurazione debbano restare a far parte del Granducato di Toscana, nonostante le

45 ACP, Deliberazioni del Magistrato, fondo Partiti, registro H53, c.252v.-253v.

46 L. Marchetti, Il trattato di Firenze del 1844, in «Annali di Scienze politiche», Vol.10, n.1/2, Marzo-Giugno 1937, pp.1-56.

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disposizioni contenute nel più antico Trattato di Vienna47.

La Toscana riuscì così a conservare Pietrasanta e Barga ma dovette sacrificare la Lunigiana, cedendo Fivizzano nonché le quattro enclaves lucchesi di Gallicano, Minucciano, Montignoso e del Lago di Porta a Modena. Pontremoli fu annessa a Parma, che a sua volta avrebbe ceduto i territori del Ducato di Guastalla e le terre poste a destra del fiume Enza ai modenesi.Tutto ciò doveva avvenire nel momento in cui Carlo Ludovico rientrasse a Parma e Lucca venisse annessa alla Toscana.

Il territorio lucchese fu annesso il 4 ottobre 1847 e Pietrasanta vide esaudito il suo desiderio di conservarsi Toscana, se pur l'articolo 4 del trattato di Firenze così recitava:

che una strada carreggiabile venga aperta e conservata a spese della Toscana a traverso del Vicariato di Pietrasanta dalla postale sino al confine con la Garfagnana in prossimità della petroniana, e sia essa perpetuamente libera al transito degli estensi e delle loro merci, come quella comunicazione che è più comoda tra Massa e la Garfagnana48.

Vi era inoltre subbuglio per aver dovuto cedere al Duca estense i forti a difesa del territorio, ovvero quello del Cinquale e di Porta, essendo Pietrasanta un paese di frontiera molto importante dal punto di vista strategico ed essendosi creata una situazione di attrito tra i governi di Modena e di Firenze al momento di attuazione del trattato del 1844.

Le truppe estensi, infatti, avevano occupato con la forza Fivizzano prima del giorno stabilito e si erano poi ammassate minacciosamente in quel di Massa, presso la frontiera del Granducato. Con ciò avevano provocato l'accorrere a Pietrasanta di gran parte dell'esercito toscano49. Per tali motivi il Gonfaloniere di Pietrasanta, cavalier Amadeo Digerini Nuti, sin dai primi mesi del 1847, richiamò l'attenzione della magistratura cittadina sull'urgenza di armare la neocostituita Guardia Civica della Comunità. Per meglio contribuire allo scopo preavvertito, Nuti riteneva opportuno che l'erario comunitativo elargisse sovvenzioni a favore di tale istituzione, da lui definita santissima e ricca di speranze per la patria50.

Immediatamente il capitano della Guardia Civica, Francesco Carli, inviò una missiva al Gonfaloniere, col quale condivideva le preoccupazioni e contribuiva a sostenere l'iniziativa:

Illustrissimo Signore. (…) Pietrasanta è la frontiera che più facilmente di ogni altra può essere attaccata da forze nemiche, e Dio volesse se fossero solamente straniere! E Pietrasanta deve

47 ACP, Ministeriali della Regia Camera di Pisa, filza C80 c.624. 48 L. Marchetti, Il trattato di Firenze, cit., pp.47- 48.

49 D. Orlandi, Pietrsanta tra granducato e risorgimento, cit., pp.21-22. 50 ACP, Deliberazioni del Magistrato, fondo Partiti, registro H54, p.243.

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