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Afghanistan: terra di guerre e aquiloni

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PISA DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE

Corso di laurea magistrale in Studi Internazionali

Tesi di Laurea

AFGHANISTAN: TERRA DI GUERRE E DI AQUILONI

STORIA DEGLI INTERVENTI MILITARI E CIVILI STRANIERI NEL “PAESE

DEI PAPAVERI” DA ALESSANDRO MAGNO A DONALD TRUMP.

Candidato: Relatore: Felicioni Lorenzo Paoli Simone

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INDICE

INTRODUZIONE ... 2

I. L’AFGHANISTAN E L’INVASIONE SOVIETICA ... 5

1.1 Storia dell’Afghanistan... 5

1.2 Dall’ingresso nel paese al ritiro dell’Armata Rossa ... 10

1.3 Dal ritiro dell’Armata Rossa all’invasione statunitense ... 27

II. L’INVASIONE STATUNITENSE ... 32

2.1 L’Afghanistan con l’amministrazione J. W. Bush ... 32

2.2 L’Afghanistan con l’amministrazione B. Obama ... 42

2.3 L’Afghanistan sotto l’amministrazione D. Trump ... 54

III. LA NATO E L’ONU IN AFGHANISTAN ... 64

3.1 ISAF e UNAMA ... 64

3.2 Resolute Support... 79

IV. L’UNIONE EUROPEA IN AFGHANISTAN ... 94

4.1 PSCD e PESC ... 94

4.2 EUPOL AFGHANISTAN ... 104

CONCLUSIONI... 123

BIBLIOGRAFIA ... 127

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INTRODUZIONE

Oggetto di questa tesi è l’analisi del percorso storico compiuto dall’Afghanistan dal punto di vista politico, sociale, economico e militare negli ultimi quaranta anni circa, dall’inizio dell’occupazione sovietica fino al giorno d’oggi. Questo paese è stato scelto come oggetto di studio per la peculiarità e la particolare complessità del panorama politico e culturale locale, nonché per la molteplicità di attori esteri coinvolti nelle vicissitudini del paese. L’Afghanistan rappresenta un caso di studio molto stimolante in quanto permette di comprendere meglio non solo la storia del paese e della regione, ma anche e soprattutto la politica estera e militare adottata negli ultimi anni da molti paesi, occidentali e non. Per comprendere le ragioni della drammatica situazione in cui attualmente versa il paese, è quanto mai necessario ripercorrere le tappe fondamentali della storia, soprattutto quella moderna e contemporanea. Nell’analisi della storia dell’Afghanistan, sarà posta particolare attenzione alle dinamiche geopolitiche e militari che hanno coinvolto il paese, inclusi gli armamenti e le caratteristiche degli eserciti coinvolti durante le campagne militari condotte dall’ex Unione Sovietica e dagli Stati Uniti. Sarà inoltre analizzato il processo di evoluzione politica del paese in seguito all’occupazione militare statunitense, passando attraverso le tappe più importanti come la creazione del governo Karzai, il governo Ghani e le delle trattative tra la diplomazia americana e i leader talebani attualmente in corso. L’obbiettivo di questo lavoro sarà quindi quello di tracciare un quadro della storia e dell’attualità dell’Afghanistan, valorizzando il ruolo delle forze esterne al paese. La tesi è strutturata in quattro capitoli dedicati, rispettivamente, alle occupazioni sovietica e statunitense, alla missione militare della NATO, alla missione civile delle Nazioni Unite e alla missione civile dell’Unione Europea. Il primo capitolo, a sua volta, è suddiviso in tre paragrafi. Il primo è dedicato a un veloce riepilogo delle tappe storiche più importanti dell’Afghanistan, analizzando con particolare attenzione il periodo della dominazione britannica e le relative guerre d’indipendenza. Il secondo paragrafo affronta le dinamiche e gli avvenimenti più importanti dell’occupazione militare del paese da parte dell’Unione Sovietica. Questo paragrafo, in particolare, attribuisce rilevanza alle caratteristiche tecniche degli armamenti leggeri e pesanti utilizzati sia dalle truppe sovietiche sia dai ribelli durante le ostilità, fattore determinante ai fini della comprensione delle motivazioni e delle modalità con cui l’Unione Sovietica venne, di fatto, sconfitta. Il terzo paragrafo, infine, si concentra sull’analisi del periodo intercorso tra la ritirata dell’Armata Rossa e l’invasione statunitense, in particolare sulla guerra civile scoppiata tra le fazioni vincitrici della campagna contro l’Unione Sovietica e sulla successiva instaurazione dell’Emirato islamico dell’Afghanistan. Il secondo capitolo espone le vicende relative all’occupazione statunitense dell’Afghanistan, ancora in corso. In questo

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caso è stata applicata la suddivisione cronologica sulla base dei mandati presidenziali statunitensi, spiegando i relativi contributi dei vari presidenti alla campagna militare, alle intese diplomatiche e agli aiuti economici impiegati nella gestione della questione afghana. Il capitolo si apre con la narrazione degli eventi dell’11 settembre, prestando particolare attenzione alle conseguenze geopolitiche internazionali scaturite da tale evento e, soprattutto all’inizio delle ostilità in Afghanistan. Il primo mandato analizzato è quello relativo a George W. Bush. Viene, in particolare, analizzata la prima fase delle operazioni militari e la conseguente caduta del regime talebano; sono discusse, inoltre, la prima elezione presidenziale e le prime elezioni parlamentari. La seconda fase presa in esame si concentra sull’operato di Barack Obama e, in particolare, sulle motivazioni dell’iniziale, massiccio aumento delle truppe impiegate sul territorio e sul successivo cambio di rotta, mirante all’accordo e al raggiungimento di un compromesso politico più che a uno scontro frontale. Il terzo e ultimo mandato analizzato è quello di Donald Trump, il quale, nonostante le forti critiche espresse all’operato di Obama soprattutto in campo militare, sta sostanzialmente continuando a perseguire la strategia del compromesso e dell’accordo politico inaugurata dal predecessore. Il terzo capitolo presenta invece l’attività svolta dalla comunità internazionale sotto l’egida della NATO e delle Nazioni Unite, cominciando con l’esame delle missioni ISAF/UNAMA e Resolute Support. La missione ISAF viene analizzata dal punto di vista delle dinamiche belliche e politiche che l’hanno caratterizzata, prestando particolare attenzione alla gestione delle truppe e dei contingenti militari nazionali dislocati sul territorio; viene inoltre posta attenzione all’analisi degli strumenti utilizzati per il finanziamento delle operazioni e delle procedure di ricostruzione infrastrutturale del paese. L’operato delle Nazioni Unite, invece, viene analizzato attraverso lo studio della missione UNAMA Afghanistan, di cui vengono spiegati caratteristiche e risultati. La missione Resolute Support viene, invece, analizzata dal punto di vista dell’efficienza economica e progettuale; natura, provenienza e utilizzo dei fondi di sostegno all’Afghanistan sono, infatti, aspetti molto importanti di questo lavoro di ricerca. Il quarto e ultimo capitolo si focalizza, infine, sull’attività dell’Unione Europea nel panorama afghano attraverso la missione EUPOL Afghanistan. Il primo argomento trattato riguarda la contestualizzazione e la presentazione della cornice giuridica su cui l’Unione Europea ha potuto lavorare ai fini dell’istituzione della missione. Viene analizzato, in particolare, il quadro giuridico della PESC (Politica estera e sicurezza comune) e della PSDC (Politica di sicurezza e difesa comune), elementi necessari ai fini della comprensione del mandato e dell’operato della missione europea. La missione civile EUPOL Afghanistan viene analizzata nei suoi dettagli operativi ed economici, permettendo così una valutazione sull’efficacia o meno della missione. L’ultima parte del quarto capitolo presenta, invece, i rapporti economici e politici tra l’Unione Europea e l’Afghanistan a seguito della recente conclusione della missione EUPOL, andando ad analizzare gli ultimi documenti

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d’intesa commerciale e politica su cui si baseranno i rapporti bilaterali futuri tra le due realtà politica. Per quanto riguarda le fonti utilizzate nella ricerca si è ricorsi alla consultazione di testi e documenti reperiti nei siti ufficiali online e negli archivi digitali delle istituzioni e degli organismi analizzati nella tesi. Sono state, inoltre, studiate monografie e testi di riferimento sull’argomento redatti da esperti in campo militare e geopolitico.

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I. L’AFGHANISTAN E L’INVASIONE SOVIETICA

1.1 Storia dell’Afghanistan

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Situato nel cuore dell’Asia, l’Afghanistan sin dai tempi più remoti ha rappresentato l’oggetto dei desideri per i popoli occidentali; la sua posizione strategica infatti, risulta necessaria ai fini del controllo geopolitico della regione. Con i suoi 814.000 chilometri quadrati circa di superficie, di cui la maggior parte ricoperti da catene montuose, l’Afghanistan rappresenta uno dei maggiori stati per

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estensione territoriale nella regione2. La mancanza di risorse naturali, tra cui la scarsità di corsi d’acqua di ampia portata e la rocciosità del territorio, fanno dell’Afghanistan uno dei luoghi più ostili all’insediamento umano all’interno del panorama morfologico regionale3; tuttavia, la centralità del

territorio in questione rispetto ai paesi confinanti, rende il paese uno snodo strategico per il controllo geopolitico e commerciale della regione4. La forbice climatica è molto ampia, si passa da temperature torride nelle zone pianeggianti, con minime di 20 e massime di 45 gradi, a climi glaciali nelle zone montuose, creando così una serie di micro-ecosistemi che dividono il paese in due zone climaticamente opposte. Fornire una iniziale presentazione delle caratteristiche morfologiche del territorio è fondamentale per spiegare le cause dell’esito dei successivi eventi bellici, la presenza di catene montuose pressoché inaccessibili proprio all’altezza del confine con il Pakistan, ha permesso ai ribelli afghani di sconfiggere prima i sovietici, poi gli statunitensi e infine la comunità dei paesi NATO. Iniziando il nostro percorso a ritroso nella storia di questo paese è necessario iniziare da Alessandro Magno, il quale, arrivò nel territorio dell’odierno Afghanistan nel 330 A.C alla testa di un esercito di 40.000 uomini composto sia da greci sia da barbari, spinto dalla sete di conquista e dalla necessità di arrivare velocemente all’Oceano Indiano per riportare il più agevolmente possibile l’esercito, ormai stremato, in patria5. Qui non solo ribattezzò numerose città che presero il suo nome,

come ad esempio Artacoana che venne rinominata Alessandria dell’Ariana6 o come Kandahar che

venne ribattezzata Alessandria d’Aracosia, ma vi prese addirittura la sua prima moglie, Rossanae7,

figlia di un capo tribù locale da cui ebbe un figlio maschio8. Compiendo un salto temporale di ben quindici secoli circa, si arriva al 1219 D.C, anno dell’annessione del territorio afghano all’interno dell’impero mongolo, fondato e guidato da Gengis Khan9. La dominazione mongola, a differenza di

quella greca, che rispettò gli usi e i costumi locali, si tradusse in massacri sistematici e indiscriminati della popolazione, nella distruzione completa di grandi città, tra cui Herat e Balkh, e nella devastazione di fertili aree agricole con lo scopo di sfamare le truppe mongole a danno delle popolazioni locali. Dopo la morte del “Gran Khan”, avvenuta nel 1227, una successione di piccoli capi e leader tribali lottarono per il potere finché, alla fine del XIV secolo, uno dei suoi discendenti,

2 La catena montuosa più importante del paese è l’Hindo Kush, con cime che raggiungono mediamente i 6.000 m sul

livello del mare.

3 L’unico corso d’acqua di grandi dimensioni è il fiume Kabul che va a confluire nell’Indo sul territorio del Pakistan. 4 L’Afghanistan confina a nord con il Turkmenistan, il Tagikistan e l’Uzbekistan, ad est con la Cina e il Pakistan mentre

a sud e ad ovest con l’Iran.

5 Le conoscenze geografiche dell’epoca sostenevano che arrivando all’Oceano Indiano, posto poco lontano dai confini

orientali dell’Afghanistan, il ritorno delle truppe in patria sarebbe stato molto più veloce rispetto ad una marcia terrestre di ritorno.

6 L’odierna Herat.

7 Rossanae era figlia del satrapo Ossiarte di Battriana.

8 Il bambino prese il nome di Alessandro IV. L’altro figlio si chiamò Eracle di Macedonia.

9 Il nome di battesimo era Temujin. “Gengis Khan” fu il titolo che le tribù mongole gli attribuirono in qualità di “capo

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Tamerlano10, incorporò l’odierno Afghanistan nel proprio vasto territorio. Tamerlano, riprendendo esplicitamente il modello di governo introdotto da Alessandro Magno, si fece garante della pace e del benessere dei popoli che componevano il proprio impero; mecenate e amante dei filosofi occidentali, dimostrò il proprio genio militare valorizzando i punti di forza dei vari reparti che componevano il proprio esercito11. Dopo la morte di Tamerlano, e successivamente del suo erede Babur, il territorio afghano rimase diviso per molti anni in tre aree distinte, una sotto l’autorità persiana, una sotto il controllo dell’impero Moghul12 e una sotto la gestione degli uzbeki, fino al XVIII secolo quando le tribù pashtun afghane, riunite sotto il comando di Ahmed Shah Durrani, si ribellarono all’oppressione persiana sancendo la nascita dell’attuale Afghanistan. Durrani consolidò in un'unica nazione tribù, piccoli principati e province frammentate. Con l'eccezione di un periodo di nove mesi nel 1929, fino al colpo di stato marxista del 1978, tutti i governanti dell’ Afghanistan sono provenuti dalla confederazione tribale pashtun dei Durrani, e a partire dal 1818 furono tutti membri del clan Mohammadzai di quella tribù. L’Afghanistan divenne in seguito il motivo di contesa tra le due grandi potenze imperiali uscite vincitrici dallo scontro con la Francia napoleonica, ovvero l’impero britannico e quello russo13. Indiscusse protagoniste del panorama geopolitico dell’epoca, l’Inghilterra

della regina Vittoria I e la Russia dello zar Alessandro II, si contesero aspramente l’Afghanistan e di conseguenza la leadership nella regione14; da una parte, la Russia zarista voleva aumentare la propria influenza nella zona utilizzando il territorio afghano come possibile corridoio per uno sbocco all’Oceano Indiano, dall’altra l’Inghilterra voleva proteggere in tutti i modi l’India. Per questi motivi, nel 1838 gli inglesi decisero di inviare le proprie truppe di stanza in India e in Malesia nel territorio afghano, riuscendo a prendere Kabul nel giro di poco tempo e con perdite relativamente contenute. L’ostilità della popolazione e la mala gestione dell’economia locale, tuttavia, portarono le truppe britanniche a dover affrontare qualche anno dopo, precisamente nel 1842, una grande rivolta popolare. Nell’ottobre del 1842, le truppe inglesi composte da 4.500 soldati e 12.000 aiutanti di campo, ormai in ritirata disordinata dalla città di Kabul, furono sterminate dai soldati afghani, i quali su 16.500 soldati inglesi incontrati lasciarono vivo un solo superstite, con il compito di tornare in patria e raccontare quello che era successo, quest’uomo era l’assistente chirurgo dell’esercito del Bengala William Brydon15. Nel 1878 scoppiò la seconda guerra anglo-afghana, causata questa volta dal rifiuto dell’allora Emiro Sher Alì di accettare un contingente militare diplomatico che gli inglesi

10Timur Lang, italianizzato in Tamerlano (lo zoppo), fu il fondatore dell’impero timuride.

11 Erano presenti arcieri a cavallo provenienti dalla Mongolia e soldati su elefanti provenienti dall’India. 12 Di cui era stato fondatore Babur, erede di Tamerlano.

13 La disputa per l’Afghanistan tra Russia e Regno Unito venne definita dal deputato britannico Arthur Connelly “il grande

gioco”.

14 Un ruolo fondamentale nella gestione del conflitto lo ebbero le rispettive diplomazie e i rispettivi servizi segreti. 15 Il dipinto, un olio su tela, della pittrice Elizabeth Thompson, è conservato nella Tate Britain a Londra.

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volevano inviare sul territorio afghano, in risposta ad una visita di stato ufficiale di diplomatici russi avvenuta qualche giorno prima16. Lo stesso Primo Ministro inglese Benjamin Disraeli, chiese alla regina Vittoria in persona il permesso di inviare i dragoni rossi in Afghanistan con lo scopo di contenere la crescente ingerenza zarista sul territorio, così da ribadire la salda leadership britannica nella regione. Entrarono così in Afghanistan circa 40.000 soldati inglesi, provenienti sia dalla madre patria sia dalle varie colonie; nel giro di poco tempo la guerra fu vinta, l’Emiro Alì deposto e insediato al suo posto Abdul Raman, il quale assicurò agli inglesi la gestione totale della politica estera afghana. L’ultimo intervento britannico in Afghanistan avvenne nel 1919, quando gli inglesi tornarono per la terza volta in armi nel territorio asiatico; questa volta però, furono costretti al ritirata e alla concessione dell’indipendenza al popolo afghano, che sotto il regno del re Amanullah Kahn raggiunse formalmente l’indipendenza nel 191917. Con l’ascesa del nuovo sovrano, il paese riprese il pieno

controllo della propria politica interna ed estera, staccandosi definitivamente dalla sferza d’influenza britannica. Il re si adoperò per mettere fine al tradizionale isolamento internazionale che il paese aveva mantenuto negli anni delle guerre contro il Regno Unito. Cercò di stringere nuovi rapporti diplomatici e di rinforzare quelli già esistenti, in particolare con l’Iran e la Turchia, e fu proprio a seguito di un viaggio prima in Europa e poi in Turchia18, che Amanullah Kahn si rese conto della necessità di intraprendere radicali politiche di modernizzazione del paese. Questa spinta modernizzatrice però gli costò il trono. Nel gennaio del 1929, infatti, in seguito ad un colpo di stato organizzato da Habibullah Kalakani e conclusosi con la presa della capitale Kabul, il re fu costretto ad abdicare. Il governo di Kalakani, tuttavia, ebbe vita breve, tanto che già nell’ottobre dello stesso anno, il principe Mohammed Nadir Shah, cugino di Amanullah, con l’appoggio delle tribù pashtun19

riprese il potere e fu incoronato re. Il nuovo sovrano abbandonò le riforme del predecessore, giudicate troppo radicali e progressiste, preferendo intraprendere un percorso più cauto e graduale verso la modernità; tuttavia, anche questo sovrano non morì di morte naturale, ma fu bensì assassinato da uno studente a Kabul nel 1933. Gli succedette al trono il figlio diciannovenne Mohammed Zahir Shah, il quale regnò fino al 1973; sotto il suo regno l'Afghanistan visse uno dei periodi di stabilità e pace più lunghi della propria storia. Durante questo periodo, il paese mantenne una posizione di neutralità sia durante la seconda guerra mondiale sia durante la guerra fredda, non allineandosi né con il blocco occidentale né con quello sovietico. Il 17 luglio del 1973, mentre il re si trovava in Italia, il cugino nonché ex Primo Ministro Mohammed Daud Khan, organizzò un golpe incruento mettendo così la

16 M. Guerrini, Afghanistàn. Profilo storico di una cultura, Jouvence editore, Roma, 2006, p. 31. 17 http://www.raistoria.rai.it/articoli-programma-puntate/afghanistan/24059/default.aspx

18 Proprio in Turchia ebbe modo di confrontarsi con l’operato di Mustafa Kemal, detto “Ataturk” padre dei turchi, il quale

si era posto l’obbiettivo di una maggiore secolarizzazione e modernizzazione della società turca.

19I pashtun sono un gruppo etnico-linguistico indoeuropeo insediato prevalentemente nella parte orientale

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parola fine all’esperienza monarchica nel paese. Neanche il regime di Daud, però, ebbe vita lunga; infatti, pochi anni dopo, precisamente il 27 aprile del 1978, il governo venne rovesciato da un nuovo colpo di stato organizzato ed eseguito dal Partito Popolare dell’Afganistan. Questo passaggio di mano, ribattezzato “rivoluzione d’aprile”, ebbe come dei ex machina il giornalista e politico Nur Muhammad Taraki e il suo vice Hafizullah Amin, i quali divennero rispettivamente i nuovi Presidente e Vicepresidente dell’Afghanistan20. Il governo, di stampo marxista-leninista, dette l’avvio a nuove politiche di statalizzazione delle imprese e dei terreni agricoli e ad una spietata repressione dell’opposizione; l’uso indiscriminato e scriteriato della forza da parte del governo centrale fu la causa della nascita di un primordiale embrione di ribelli, i quali ritirandosi sulle zone montuose del paese cominciarono una serrata lotta contro l’amministrazione centrale. Il governo di Taraki, messo in seria difficoltà dall’organizzazione e dal coraggio delle truppe ribelli, chiese ripetutamente l’intervento armato dell’Unione Sovietica che, pur avendo accolto con un iniziale favore l’insediamento del nuovo esecutivo, si rifiutò sempre di aderire alla richiesta21. A complicare

ulteriormente la situazione ci fu l’intervento nel paese degli Stati Uniti, i quali con il consenso ufficiale dell’allora Presidente Carter, stanziarono una serie di ingenti aiuti economici e logistici a favore dei ribelli in lotta contro il Presidente Taraki; l’obbiettivo ufficioso dell’amministrazione Carter era quello di costringere l’Unione Sovietica ad un intervento armato in Afghanistan, che si sarebbe prevedibilmente rivelato un fallimento, così da distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale dal disastro ancora maggiore della loro sconfitta in Vietnam22. Nel settembre del 1979 Amin fece uccidere Taraki e con lui circa 10.000 oppositori politici, costringendo involontariamente in questo mondo l’Unione Sovietica ad intervenire. In piena Guerra fredda anche il controllo anche di una piccola parte del globo da parte di uno dei due maggior contendenti appariva di rilevanza cruciale. Nel "grande gioco" della Guerra fredda la pedina afghana consentiva infatti l'avvicinamento al Mare Arabico e al Golfo Persico. A trasformare l'Afghanistan da stato clientelare a vero e proprio satellite dell'URSS avevano contribuito non solo lo spettro dell'effetto domino della vittoriosa Rivoluzione Islamica guidata dall'Ayatollah Ruhollah Mustafa Mosavi Khomeyni in Iran, ma anche il crescente interesse sovietico per il petrolio del Medio Oriente e la minaccia rappresentata da un Pakistan "cliente" degli USA. La CIA, del resto, era già da tempo che tendeva la sua longa

manus verso quest'area e con la perdita dell'Iran gli USA erano rimasti privi di un punto strategico in

cui schierare, contro l'URSS, i missili a lungo raggio: l'Afghanistan poteva essere un'ottima soluzione alternativa. A questo va aggiunto che l'Afghanistan era stato individuato dalla Casa Bianca anche

20 G. Battisti e F. Fasanotti, Storia militare dell'Afghanistan: dall'impero dei Durrānī alla Resolute support mission,

Mursia editore, Milano, 2014, pp. 52-53.

21 Il governo Taraki chiese l’intervento sovietico ben dodici volte, tutte in via ufficiale. 22 http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/cerca.aspx?s=afghanistan

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come sito idoneo per la costruzione di un oleodotto per il trasporto del petrolio dal Kazajstan e dal Turkmenistan fino all'Oceano Indiano.

1.2 Dall’ingresso nel paese al ritiro dell’Armata Rossa

Il 26 settembre del 1979 trentotto soldati scelti all’interno delle forze speciali SPECNAZ, tutti membri del gruppo d’assalto ALPHA23, furono contattati e informati che di lì a qualche ora si sarebbero dovuti

imbarcare su un aereo cargo militare verso una destinazione ancora ignota per eseguire una missione ancora sconosciuta; solamente due giorni dopo avrebbero saputo che la destinazione del loro viaggio era l’Afghanistan e che il target della loro missione sarebbe stato il Presidente Amin24. In una

situazione ormai assolutamente fuori controllo, in cui il Presidente afghano esercitava un reale controllo ormai sulla sola capitale, in cui le defezioni di massa nell’esercito regolare erano all’ordine del giorno e in cui per le strade ormai regnava l’anarchia, il governo sovietico decise di eliminare fisicamente il Presidente afghano sostituendolo con una figura più malleabile, per scaricare poi la responsabilità politica dell’accaduto sulle truppe ribelli. Pochi giorni prima dell’evento, Amin si era ritirato nella residenza presidenziale di Tajbeg convinto che fosse una posizione più facilmente difendibile, rispetto al palazzo dove risiedeva abitualmente nella capitale, in caso di un attacco armato da parte delle truppe ribelli25; a difesa della residenza furono messe circa centocinquanta guardie

armate. Gli uomini del gruppo ALPHA arrivati sul territorio furono prontamente informati dai propri superiori riguardo agli ordini da eseguire e alle modalità con cui si intendeva portare a termine l’operazione; fu deciso di iniziare la missione con dei giri di perlustrazione intorno alla residenza presidenziale, mantenendo abiti civili, così da passare inosservati mentre veniva presa nota delle tempistiche dei cambi di guardia. Dopo due giorni di pattugliamento, in cui i membri delle forze speciali russe avevano annotato tutti i minimi particolari relativi al servizio di sicurezza della villa, fu deciso di stabilire l’inizio dell’iniziativa per il giorno successivo. Alle 18:15 del 29 dicembre del 1979 iniziò la manovra26. In un primo momento i sovietici, volendo condurre l’operazione sottotraccia in modo da non destare il panico tra i presenti nel palazzo, decisero di usare il veleno per eliminare Amin. Un agente infiltrato tra il personale delle cucine servì al Presidente durante una cena di gala una pietanza avvelenata; ciò sarebbe bastato per raggiungere lo scopo desiderato. Tuttavia, il caso volle che in sala fosse presente un medico russo, il quale, ignaro dell’operazione, intervenne prontamente salvando la vita ad Amin. I trentasette agenti all’esterno dell’edificio, informati del fallimento dell’operazione, decisero, dopo aver tolto la corrente al palazzo, di fare irruzione.

23 Gruppi speciali d’élite, specializzati in operazioni antiterrorismo e salvataggio/estrazione ostaggi. 24 http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/cerca.aspx?s=afghanistan2

25 La residenza è posta su un’altura da cui è possibile vedere tutto il territorio circostante ed ha solamente un ingresso

facilmente difendibile in caso di attacco frontale.

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Contemporaneamente alla presa della residenza presidenziale, fu stabilito di prendere il controllo di alcuni punti nevralgici della capitale, così da impedire un eventuale contrattacco da parte delle truppe regolari afghane27. Furono impiegati in queste operazioni circa cinquecento soldati, tutti provenienti dalle province meridionali del territorio sovietico28. Gli uomini della SPECNAZ, piano dopo piano, eliminarono ogni ostacolo, sia civile sia miliare, che si frapponeva tra loro e l’obbiettivo; nel giro di cinquanta minuti l’operazione si era conclusa con un successo totale: tutti i centri di potere della capitale erano sotto il controllo russo e il Presidente Amin era stato eliminato29. Fino all’ultimo momento il Presidente afghano fu convinto del totale sostegno del governo sovietico; anche quando si rese conto dell’irruzione di uomini armati nella propria residenza, egli attribuì la responsabilità dell’operazione alle truppe ribelli. Solamente quando si trovò davanti le forze speciali sovietiche si rese conto dello stato delle cose30. Al suo posto venne insediato Babrak Karmal, esule fino a quel momento in Cecoslovacchia, il quale, facendo una richiesta ufficiale al governo sovietico, chiese l’intervento militare dell’armata rossa sul territorio afghano per ristabilire la pace e l’ordine. Con l'invasione, l'obiettivo primario era quello di occupare i centri nevralgici del paese e stabilizzare il governo attraverso la lotta senza quartiere alla guerriglia fondamentalista31. Tuttavia, la situazione

apparve subito più complessa del previsto: la debolezza delle forze armate regolari afghane portò l'URSS a impegnarsi direttamente nelle operazioni di controguerriglia con un esercito certamente poco preparato a tali operazioni e, soprattutto, poco adatto a un teatro di guerra montuoso. Il piano d’attacco sovietico aveva previsto un impiego temporale sul territorio afghano relativamente breve; era stato stimato, in particolare, un intervento che non avrebbe superato i sei mesi. Una volta risolta la questione, il fronte sovietico si sarebbe dovuto spostare in due direzioni distinte: verso occidente, puntando verso Iran, Iraq e Siria32, e verso oriente, in direzione del Pakistan33. Terminata questa serie di operazioni militari, l’Unione Sovietica avrebbe allargato il proprio cordone di stati cuscinetto non solo per la protezione dei propri confini meridionali ma anche in un’ottica di egemonia regionale. L'Iraq, la Giordania e l'Egitto, dove già erano presenti commissari politici sovietici, sarebbero entrati successivamente e completamente nella sfera d'influenza sovietica intravvedendo la via al

27 Furono occupati contemporaneamente il Palazzo del Ministero dell’Interno, quello della Sicurezza Interna e quello

dello Stato Maggiore.

28 Il personale militare, impiegato per l’operazione, atterrò alla base militare di Bagram.

29 L’operazione fu certamente un successo dal punto di vista strategico-militare ma anche una carneficina dal punto di

vista delle vittime afghane, infatti non solo morirono Amin e le guardie di sicurezza ma anche il figlio undicenne del presidente e tutti i civili presenti al momento nella residenza.

30 Il racconto così dettagliato degli aventi venne fornito in un’intervista esclusiva alla RAI dal Colonello Oleg

Balasciov, membro all’epoca dei fatti, proprio dell’operazione in questione.

31 E. Giunchi, Afghanistan. Storia e società nel cuore dell’Asia, Carocci editore, Roma, 2007, p.70.

32 Questi paesi erano tutti alleati dell’URSS e grandi produttori di petrolio, risorse necessaria alle truppe sovietiche per

spostare i mezzi militari.

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nazionalismo pan-arabo, ovvero quel desiderio di costituzione di entità arabe autonome legate saldamente tra loro da sentimenti e culture comuni, mentre l'Arabia Saudita avrebbe approfittato della situazione per svincolarsi dalle compagnie petrolifere occidentali trovando nei Paesi del blocco comunista un ottimo cliente. Gli altri Stati del Golfo, Kuwait, Oman, Qatar, Emirati Arabi, seppur filoamericani, sotto la nuova pressione geo-strategica si sarebbero, nelle intenzioni sovietiche, rinchiusi in una equidistante neutralità, senza più fornire petrolio agli Stati Uniti e a Israele. Mosca aveva anche previsto le reazioni del mondo all'invasione militare dell'Afghanistan. Il Cremlino non era preoccupato di una ritorsione militare da parte dell'Occidente, poiché riteneva che non vi era il rischio di un confronto diretto con gli Stati Uniti. Con l'invasione del paese i Sovietici avevano sicuramente messo in conto che si sarebbe verificata una forte protesta sia da parte del Terzo Mondo sia da parte dell'Occidente, tuttavia ritennero che la condanna sarebbe stata solo verbale e di breve durata a causa degli interessi contrapposti e delle differenze di opinione tra le altre potenze. Come è noto le cose non andarono secondo i piani. A capo dell’operazione fu messo il generale Sergei Sokolov34. Il generale Sokolov, che pochi anni dopo l’inizio della campagna afghana venne nominato

Ministro della Difesa dell’Unione Sovietica, rappresentò forse il vero valore aggiunto dell’esercito sovietico. La tecnica militare standard dell’epoca infatti prevedeva che, in caso di dispiegamento di più fronti, il fronte più forte soccorresse sempre quello più debole, minimizzando in questo modo sì le perdite di uomini e mezzi ma anche le possibilità di vittoria. Sokolov ribaltò questa teoria concentrando, in caso di diversificazione del fronte di battaglia, tutti i mezzi e le risorse a sostegno del fronte più forte massimizzando in questo modo le possibilità di vittoria anche a costo di un alto numero di perdite. L’abbondanza di uomini durante gli assalti e la loro totale noncuranza nei confronti della morte sono da sempre considerati elementi caratterizzanti gli eserciti russi. Già Napoleone durante la Campagna di Russia, dopo la battaglia di Borodino in cui erano morti quattro russi per ogni francese, arrivò a dire che: «con tali orde barbariche, avrei vinto la guerra in un giorno»35. Questa tecnica di conduzione delle operazioni militari è stata riconosciuta come vincente anche dai generali delle forze armate dei paesi membri della NATO durante le numerose simulazioni di invasione sovietica del continente europeo effettuate nelle varie esercitazioni congiunte. Questa strategia operativa avrebbe permesso, secondo i generali dei paesi NATO, alle truppe sovietiche, in caso di eventuale invasione, di invadere e occupare tutti i paesi del blocco europeo orientale al massimo in trentasei ore, senza subire perdite rilevanti36. Tutt’oggi, anche se ormai l’importanza della dimensione dell’esercito è molto ridotta e si predilige investire sull’avanguardia tecnologica delle armi d’attacco

34 Sergej Leonidovic Sokolov ricoprì il ruolo di Ministro della Difesa dell’Unione Sovietica dal 1984 al 1987. 35 Emmanuel De Las Cases, Il memoriale di Sant’Elena, Rizzoli Editore, Roma, 2004, p. 289.

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e di difesa, la grande quantità di truppe russe potrebbe rappresentare un fattore determinante per stabilire un vincitore in caso di eventuale conflitto armato; si parla infatti della possibilità da parte della Russia, in caso di conflitto armato, di poter occupare interamente l’Estonia e la Lettonia al massimo in 36 ore. Gli Stati Uniti stessi ammetterebbero questa possibilità, criticando aspramente l’organizzazione delle truppe terrestri della NATO presenti sul suolo europeo37 38. Superiore sotto

ogni punto di vista, l’armata rossa rappresentava all’epoca la più importante forza militare terrestre a livello globale; con risorse di mezzi e soprattutto di uomini potenzialmente inesauribili, l’Unione Sovietica rappresentava, almeno sulla carta, un avversario fuori dalla portata per le truppe afghane. Il piano di attacco fu preparato nel giro di un mese con la collaborazione di tutto lo stato maggiore della difesa, dei servizi segreti e di tutti i più alti dirigenti del partito; tutto fu organizzato per affrontare quella che avrebbe dovuto essere una campagna di breve durata e poco impegnativa sia dal punto di vista operativo sul campo sia dal punto di vista economico per il mantenimento delle truppe. La mappa che segue rappresenta graficamente il piano adottato.

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L’Armata Rossa, attraversando il corridoio della Repubblica Turkmena, sfondò il confine occidentale entrando in territorio afghano senza incontrare alcuna resistenza dato che tutti i centri di smistamento

37 Tali critiche sono state avanzate dal Comandante delle forza terrestri statunitensi in Europa Ben Hodges. 38 http://www.today.it/rassegna/attacco-militare-russia-europa.html

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delle truppe regolari afghane erano già stati occupati in precedenza. Occupata Kabul e gli altri principali centri del paese, l'Armata Rossa si diresse verso Passo Khyber, il valico montuoso strategico fra Pakistan e Afghanistan, con l'intento di rendere impenetrabile la frontiera. Il tentativo, però, si rivelò un fallimento anche perché molti soldati sovietici erano di religione musulmana e si rifiutavano di sparare sui loro correligionari: un problema che Breznev non aveva messo in conto40. A guardia dei passi, in attesa dell'arrivo di truppe fresche dall'Unione Sovietica, furono posti soldati afghani, contro i quali la guerriglia ebbe spesso facilmente la meglio. Il corpo di spedizione sovietico che nel dicembre del 1979 invase dal fronte nord-occidentale il territorio afghano era composto da ottocento carri armati T62 provenienti dal Turkmenistan, ottantamila uomini, duemila blindati e decine di elicotteri da guerra MIL-MI 8 e aerei da combattimento Sukhoi SU 25414243; la superiorità militare delle truppe di terra fu garantita anche dall’uso dei lanciagranate AGS-1744. Collaboravano

con i sovietici anche soldati «fratelli» giunti un po' da ogni latitudine della sfera d’influenza dell’UNRSS: cubani, tedeschi dell'Est, bulgari, vietnamiti, siriani. Nonostante fosse risultata chiara a tutti gli osservatori internazionali dell’epoca, sin dalle prime battute, l’asimmetria delle forze in campo delle due fazioni sia dal punto di vista degli armamenti sia dal punto di vista degli uomini impiegati nelle operazioni, pochi avrebbero potuto indovinare l’esito finale della guerra. I sovietici, infatti, abituati a guerre campali, in cui l’uso massiccio della fanteria e di armi pesanti a supporto di essa, assicuravano generalmente la vittoria, si trovarono in grandi difficoltà durante i primi anni di guerra. La particolare conformazione morfologica del territorio, prevalentemente montuosa, ricca di vallate, insenature, gole profonde migliaia di metri e cime quasi inaccessibili, rendeva difficoltoso l’utilizzo di armi pesanti e impossibile il dispiegamento di intere compagnie di soldati. Le colonne di blindati sovietici, che ogni giorno percorrevano le pochissime vie di comunicazione che attraversavano il paese per arrivare alla capitale, venivano attaccate quotidianamente dai ribelli che attraverso imboscate rapide e fulminee, metodi di battaglia tipici della guerriglia45, ogni giorno conseguivano risultati sempre migliori. Caratteristiche tipiche di questo metodo di battaglia sono la rapidità di azione e la capacità di coordinamento tra gli attori in campo; questa strategia viene

40 G. Breccia, Le guerre afghane, Il Mulino editore, Roma, 2014, pp. 170-171.

41 Uno tra i migliori carri armati mai realizzati, il modello T62 di fabbricazione sovietica era dotato di cannone ad anima

liscia U-5TS (2A20) da 115 mm, mitragliatrice LBA2 da 7,62 mm coassiale e mitragliatrice DSHKM da 12,7 mm per difesa antiaerea; offriva inoltre grandi prestazioni dal punto di vista della facilità di movimento (650 km di autonomia in strada e 450 km in fuoristrada).

42 Il MIL MI-8 rappresentava all’epoca la risposta sovietica all’Apache americano. Con capacità di trasporto di 34

persone e con un peso massimo al decollo di 13 tonnellate, questo tipo di elicottero veniva impiegato sostanzialmente per il trasporto rapido di truppe e mezzi dal Turkmenistan all’Afghanistan.

43 Può trasportare 8 razziere da 32 colpi ciascuna dotate di razzi UV-32-57 da 57 mm.

44 Con cartucce da 30 mm e con una velocità di fuoco di 400 colpi al secondo, questo tipo arma assicurò ai sovietici la

supremazia di fuoco nei confronti terrestri.

45 La guerriglia ha rappresentato in ogni tempo e in ogni paese, il metodo di battaglia migliore quando la disparità delle

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prevalentemente usata quando la disparità delle forze che si contrappongono risulta talmente evidente da rendere insostenibile uno scontro campale diretto46. Per citare solo alcuni tra gli esempi di guerriglia più famosi, possiamo parlare degli scontri che hanno portato alla rivoluzione castrista a Cuba, il tentativo di rivoluzione portato avanti da Ernesto Guevara in Bolivia, le battaglie sostenute dai Vietcong contro gli statunitensi in Vietnam, i conflitti sostenuti dai partigiani italiani e spagnoli durante la resistenza al fascismo e al franchismo e ultimo, ma non per importanza, proprio il caso della resistenza dei mujahidin contro le forze di invasione prima sovietiche e poi statunitensi47. L’abbattimento dei blindati russi in viaggio verso le capitale fu un danno molto rilevante in termini economici per l’Unione Sovietica; la perdita di migliaia di galloni di benzina, trasportata nei blindati, impediva il corretto approvvigionamento ai mezzi di trasporto per le truppe e l’impossibilità di far muovere velocemente i mezzi corazzati. L’esempio forse più lampante della disparità delle forze che si fronteggiarono fu il fatto che i ribelli afghani nei primi sei mesi del conflitto, colti di sorpresa dalla velocità della operazioni sovietiche, si trovarono a combattere con i fucili a moschetto che erano rimasti dalla guerra d’indipendenza combattuta quasi cento anni prima contro le truppe britanniche; questa situazione andò migliorando progressivamente nel corso degli anni grazie agli ingenti aiuti economici e logistici che gli afghani ricevettero dagli Stati Uniti, attraverso l’intervento della CIA. Già un anno e mezzo dopo l’inizio del conflitto, i ribelli cominciarono a comprare mensilmente partite di Kalashnikov da 30.000 pezzi l’una48. Gli Stati Uniti attuarono non solo l’embargo immediato

all’Afghanistan ma offrirono anche ufficialmente al Pakistan aiuti militari per contrastare l'avanzata sovietica. A ciò si aggiunse il gesto simbolico di boicottare le Olimpiadi del 1980 a Mosca49. Ovviamente prima di muoversi ufficialmente gli Stati Uniti chiamarono a raccolta i loro alleati e i primi a rispondere positivamente furono i governi di Canada e Gran Bretagna. La posizione del governo britannico non coincise, però, con quella del suo Comitato Olimpico Nazionale il quale, in accordo con la posizione sostenuta dal CIO, secondo cui le Olimpiadi appartenevano al Comitato Olimpico e non alla nazione ospitante, optò per l’invio degli atleti britannici a Mosca. Una simile scelta, condivisa da molti altri paesi del blocco occidentale, tra cui l’Italia, scatenò in Gran Bretagna uno scontro politico ben superiore rispetto alle altre nazioni coinvolte; infatti, il Ministro degli Esteri britannico, Lord Peter Carrington, dichiarò durante una conferenza stampa ufficiale che gli atleti che si fossero recati a Mosca per prendere parte alle competizioni avrebbero fatto gli interessi dell’Unione

46 G. Ernesto, La guerra di guerriglia, Bolivia, 1960.

47 Il termine mujahidin significa “combattente impiegato nel jihad” per estensione “combattente santo”.

48 Il Kalashnikov, di fabbricazione sovietica, risulta essere l’arma più impiegata non solo nella campagna afghana ma in

tutte le realtà di conflitto sul pianeta. Di facile utilizzo e di grande affidabilità, garantisce una cadenza di fuoco, indispensabile nei conflitti a fuoco ravvicinati.

49 Le Olimpiadi, grazie alla propria dimensione planetaria, sono sempre state terreno non solo di confronto atletico tra le

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Sovietica e sarebbero andati contro la stessa Gran Bretagna; aggiunse poi che un ipotetico successo delle Olimpiadi di Mosca avrebbe permesso all’URSS di dimostrare che l’opinione pubblica internazionale aveva ormai dimenticato la crisi in Afghanistan50. L'Assemblea generale delle Nazioni Unite condannò l'invasione e, attraverso la risoluzione 35, chiese l'immediato ritiro di tutte le truppe straniere dall'Afghanistan. Il nuovo presidente statunitense, Ronald Reagan, subentrato a Carter, aumentò gli aiuti ai combattenti antisovietici, con l’obiettivo di trasformare la guerra in un lenta agonia per l’URSS, come era accaduto agli stessi americani in Vietnam qualche anno prima. Peraltro, i mujahidin, appoggiati ora anche dai pasdaran iraniani51, le guardie della rivoluzione, e dall’Arabia Saudita, continuavano a mostrarsi ottimi combattenti, e la loro resistenza diventava sempre più efficace. Con l'Operazione “Cyclone”, così venne ribattezzata, la CIA tentò di creare una rete internazionale che coinvolgeva tutti i Paesi arabi per rifornire i ribelli afghani di soldi, armi e volontari per la guerra. USA, Arabia Saudita e altri Paesi sostenitori spesero oltre quaranta miliardi di dollari per sostenere i ribelli, ai quali si unirono nel corso dei dieci anni di guerra centomila musulmani fondamentalisti provenienti da Pakistan, Arabia Saudita, Iran e Algeria, armati e addestrati dalla CIA52. Osama bin Laden fu uno dei mujahidin che affiancò la guerriglia locale dei Taliban armati53.

Base dell'operazione sarebbe stato il Pakistan, dove vennero costruiti campi di addestramento e centri di reclutamento. I sovietici si resero subito conto che assicurarsi il controllo delle vie di comunicazione e di accesso al paese, sarebbe stato indispensabile per la buona riuscita della campagna; in particolare, sarebbe stato di fondamentale importanza controllare il Passo del Salang e l’ingresso alla Vallata del Panjsher, due snodi strategici per il trasporto di merci e uomini su gomma. Il punto di forza che consentiva la sopravvivenza dei gruppi ribelli era la capacità di sfruttare la particolare conformazione montuosa del territorio, in particolare i valichi montani che mettevano in collegamento l’Afghanistan con il Pakistan; il centro operativo più importante dei ribelli afghani durante il conflitto sovietico fu quello di Peshawar. La vicinanza con il Pakistan permetteva ai mujahidin di spostare in maniera relativamente facile uomini e mezzi tra i due paesi, ripiegando velocemente in territorio pakistano in caso di attacco sovietico per poi tornare sul suolo afghano in caso di controffensiva. Le lotte intestine tra le varie tribù afghane compensarono ampiamente le difficoltà incontrate in un primo tempo dalle truppe sovietiche nel dispiegamento dei mezzi e nella

50 Le nazionali vennero fatte sfilare seguendo l'ordine alfabetico cirillico e non quello latino per evitare di far entrare per

prima nello stadio Lenin la delegazione dell'Afghanistan.

51 La rivoluzione iraniana, terminata con la cacciata della dinastia reale di Mohammad Reza Pahlavi e con

l’instaurazione di una teocrazia islamista, rappresentava per gli Stati Uniti un problema enorme per i propri interessi nella regione. L’Iran infatti non solo era uno dei maggiori produttori di petrolio della zona ma era anche uno snodo strategico fondamentale per il controllo della regione. L’ostentata ostilità nei confronti degli statunitensi manifestata dal regime degli Ayatollah non farà che intensificarsi nel corso degli anni fino ai giorni nostri.

52 A. Varsori, La storia internazionale. Dal 1919 ad oggi, Il Mulino editore, Roma, 2015, pp. 378-379. 53 Futuro capo della cellula terroristica di Al Qaida.

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decisione di passare dall’utilizzo massiccio di armi pesanti a quello di armi leggere; le divisioni interne minarono fortemente la capacità di organizzazione e reazione dei gruppi ribelli afghani. Storicamente eterogenea e frammentata in numerose realtà claniche, la società afghana condivide esclusivamente alcuni aspetti, in particolare la xenofobia, la visione patriarcale dell’unità familiare e il radicato sentimento religioso integralista di matrice islamica54. La Resistenza afghana, pur formata da ben sette partiti politici tra loro divisi in tradizionalisti e fondamentalisti, era tuttavia saldamente unita dall'odio per l'URSS e nella fede in Allah. La guerra contro i sovietici fu combattuta da formazioni molto variegate: dai bambini di dodici anni fino ai veterani della terza guerra d'indipendenza afghana, gli ultraottantenni che avevano affrontato e battuto gli inglesi nel lontano 191955. I russi, di conseguenza, seguendo il famoso adagio romano “divide et impera”, cercarono di fomentare l’uno contro l’altro i vari clan, rendendo in questo modo più frammentato e facile da sconfiggere il fronte della resistenza. La supremazia militare fu garantita per tutti i primi anni del conflitto dal controllo totale che i sovietici esercitarono sui cieli afghani; l’utilizzo di moderni velivoli da combattimento come i MIG e i Sukhoi SU, non ostacolati dall’utilizzo di alcun’arma contraerea, garantì un vantaggio strategico impareggiabile per le truppe sovietiche. Avendo una copertura aerea garantita potenzialmente in ogni momento di ogni operazione, le truppe terrestri poterono muoversi quasi indisturbate, dovendo fare attenzione solamente a possibili imboscate o eventuali conflitti a fuoco. Gli elicotteri sovietici che pattugliavano i territori di conflitto erano soliti sganciare mine antiuomo, la cui posizione era ovviamente nota ai comandanti russi, così da impedire gli spostamenti di mezzi e truppe ribelli. Anche per l'Unione Sovietica, come già per gli USA in Vietnam, la guerra in Afghanistan si trasformò ben presto, però, in un lungo, estenuante stillicidio. Gli eventi militari furono caratterizzati dalla disfatta nella battaglia di Paghman del 1981, venti chilometri a sud di Kabul, dal fallimento di due offensive lanciate dai sovietici a giugno e a settembre dello stesso anno, e dalle disastrose azioni militari fra i picchi dell'Hindu Kush. Piuttosto che un conflitto convenzionale fu quindi una guerra di resistenza contro la "resistenza". All'Armata Rossa non restò che copiare la strategia americana nel Vietnam: bombardamenti aerei e interi villaggi rasi al suolo. L’egemonia russa dei cieli venne messa in discussione soltanto quando ai “combattenti sacri” afghani venne fornito dal governo statunitense il primo lanciarazzi da contraerea, il FIM-92 Stinger. Questa arma, fino ad allora sconosciuta ai ribelli afghani, rappresentava l’unico mezzo in loro possesso per opporsi all’aviazione sovietica; generalmente, per l’utilizzo corretto di uno strumento del genere era previsto dai manuali militari standard di quasi tutti i paesi, un addestramento di circa due mesi e mezzo. I talebani impararono ad usarlo in meno di una settimana. Maneggevole, affidabile e versatile, il

54 M. Guerrini, Afghanistàn. Profilo storico di una cultura, cit., p. 78. 55 E. Giunchi, Afghanistan. Storia e società nel cuore dell’Asia, cit., p. 122.

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92 Stinger diventò una vera spina nel fianco per l’aviazione sovietica. Con un peso di appena 15,2 kg, questo potente lanciarazzi, con testata esplosiva da 2,25 kg, aggancio a infrarossi e otto chilometri di gittata, era facilmente imbracciabile sia dagli adulti sia dai ragazzi in età adolescenziale. Nonostante i sovietici avessero incontrato molte più difficoltà di quanto avessero pensato in precedenza, i rapporti di forza rimanevano comunque immutati. L’iniziale disorganizzazione dell’apparato militare sovietico era stata ampiamente compensata dalla frammentazione della resistenza; ancora peggiore era la situazione dell’esercito regolare afghano, che in pochi anni di conflitto aveva già subito decine di migliaia di perdite. La situazione dei ribelli afghani cambiò radicalmente con l’affermazione come unico comandante del fronte ribelle di Ahmed Shad Massud56,

detto «il leone di Panishir», dal nome della vallata nella quale, al comando dei suoi mujahidin, aveva respinto decine di offensive sovietiche. Capo popolare e carismatico, Massud apprese tutte le tecniche militari utilizzate nei vari combattimenti da autodidatta, attraverso la lettura di tutti i libri a carattere militare che riusciva a reperire sul territorio; non fu mai sconfitto durante le nove azioni militari che intraprese. Celebre fu l’attacco che nel 1984, solamente con cinquecento combattenti ribelli, Massud sferrò contro l’avamposto di Pechgur. Il campo, custodito da oltre cinquecento soldati sovietici e afghani dell’esercito regolare, circondato da un campo minato, recintato con del filo spinato e protetto da obici e mitragliatrici anticarro, fu attaccato al tramonto, per evitare l’intervento degli elicotteri, dalle truppe ribelli che dopo aver circondato il campo lo cominciarono ad attaccare contemporaneamente da ogni lato. Dopo una notte intera di scontri feroci, i soldati a protezione del campo si arresero alle truppe di Massoud, il quale, per sfidare il governo sovietico decise di non occupare a sua volta il campo base ma di distruggerlo. A questo punto i sovietici scatenarono la guerra chimica anche contro la popolazione che appoggiava i mujahidin, utilizzando gas tossici, gas nervini e micotossine; ci furono anche casi isolati di piogge di colore giallo dannose per l’uomo di cui fu attribuita la responsabilità ai sovietici57. Tuttavia, tutte le cancellerie occidentali, serrando i ranghi, si strinsero attorno agli Stati Uniti condannando la conduzione delle operazioni militari in Afghanistan.

56 Massoud nacque il 2 settembre del 1953 il un piccolo villaggio nell’alta valle del Panjshir, da un ufficiale della

polizia afghana e da una contadina del luogo, successivamente si trasferì prima a Herat e poi a Kabul. L’essere figlio di un alto ufficiale di polizia e la permanenza per molti anni nella capitale, permise a Massoud di ricevere un’istruzione completa; questo bagaglio culturale si aggiunse quindi al “naturale” insegnamento islamico del ragazzo. Negli anni della giovinezza, Massoud tentò numerosi atti insurrezionali contro il governo afghano, ma tutti, a causa della

disorganizzazione dovuta alla giovane età, terminarono ancora prima di iniziare. Questo costrinse il giovane e scappare prima nel proprio territorio natale, il Panjshir e poi successivamente in Pakistan, dove iniziò a costruire quella rete di amicizie e conoscenze che si rivelarono poi fondamentali nel corso della resistenza contro i sovietici. Anche dopo la ritirata sovietica, il “leone del Panjshir” ricoprì un ruolo di primo piano all’interno del proprio paese, prima diventando nel 1992 Ministro della Difesa e successivamente con la decennale opposizione al regime dei talebani. Proprio questo ultimo conflitto, ne provocò la morte il 9 settembre 2001 in un attentato a Kabul. Il 25 aprile del 2002, dopo una candidatura postuma come premio Nobel per la Pace, Massoud è stato dichiarato eroe nazionale.

57 Indagini postume hanno dimostrato trattarsi di un fenomeno naturale: le grandi migrazioni di sciami di api del sud-est

asiatico provocavano pioggia di polline ed escrementi contenenti un fungo del genere Fusaria che secerneva una tossina, causa degli avvelenamenti.

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L’Unione Sovietica si trovò quindi in una situazione di isolamento politico internazionale che di lì a poco avrebbe mostrato le sue conseguenze. Quella che, nei piani dei dirigenti sovietici, avrebbe dovuto essere una campagna veloce e relativamente facile da portare a termine, si stava trasformando ogni anno che trascorreva in una lotta di logoramento sempre più impegnativa; non solo lo sforzo economico e militare stava diventando sempre più difficile da sostenere per l’economia nazionale ma anche il costo umano tra le fila sovietiche stava aumentando sempre più rapidamente*.L’incapacità di portare a termine rapidamente la campagna militare in una situazione ritenuta relativamente facile indispettì notevolmente la classe dirigente dell’Unione Sovietica creando nuovi contrasti interni ai vertici dello stato e acuendo quelli già esistenti. La campagna militare sovietica a questo punto si era definitivamente trasformata da guerra lampo in guerra di logoramento; nel 1985, infatti, la situazione era ancora ben lontana da una soluzione definitiva. Gran parte del territorio afghano era ancora conteso tra le truppe ribelli e l’esercito sovietico, il quale di fatto, manteneva un controllo effettivo solamente sui centri urbani; circa l’ottanta per centro del territorio era sotto il controllo dei mujahidin58. All'inizio del 1985 i sovietici abbandonarono la tattica dei rastrellamenti su vasta scala

per concentrarsi invece su operazioni di portata più ridotta ma più frequenti, volte a cercare di soffocare le vie di approvvigionamento della guerriglia, di sigillare il confine pakistano e di distruggere le basi logistiche dei mujahidin approntate sulle montagne59: le colonne meccanizzate furono rimpiazzate da unità elitrasportate di SPETNAZ sovietici e commando afghani, inviati a occupare i picchi montuosi per isolare le bande di guerriglieri e aprire la strada alle truppe terrestri. Questa nuova tattica consentì alle forze comuniste di ottenere qualche successo sul campo, anche se non ebbe gli effetti sperati sull'andamento generale del conflitto. Proprio nel 1985, tuttavia, le sorti del conflitto cambiarono drasticamente non per merito di una delle due fazioni in guerra, bensì per i cambiamenti in politica interna che stavano avvenendo nell’Unione Sovietica. Nel 1982 alla morte di Leonid Il’ic Breznev, fautore di una politica estera molto aggressiva improntata sulla pretesa di Mosca di gestire la politica estera e militare dei propri paesi satelliti, era salito al potere Jurij Vladimirovic Andropov. Egli, però, rimase in carico per poco tempo; già l’anno successivo venne sostituito da Kostantin Ustinovic Cernenko, il quale a sua volta rimase al potere non più di un anno. Alla sua morte, avvenuta nel 1985, Cernenko venne sostituito con Michail Gorbacev. Il nuovo segretario segnò una svolta epocale nella gestione del potere nell’URSS, non solo in politica estera ma anche in politica interna60. Gorbacev si rese conto, sin dai primi mesi, della gravità della situazione in cui versava il paese: la stagnazione dell’economia, causata dalla depressione dei consumi interni, provocata a sua

58 E. Giunchi, Afghanistan. Storia e società nel cuore dell’Asia, cit., p. 111. 59 M. Charles, J. F. Charles, Massoud. Il Leone del Panjshir, cit., p. 57.

60 Questa volontà di rinnovamento, seppur necessario, fu il tassello che dette il via all’effetto domino che portò alla

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volta da una povertà dilagante tra i ceti medio bassi della società, metteva l’Unione Sovietica in una situazione economica molto precaria se paragonata con la situazione degli Stati Uniti. Tuttavia, tra tutti gli indicatori economici, quello più preoccupante era l’alto livello di indebitamento che l’Unione sovietica e tutti i paesi dell’Europa centro-orientale avevano contratto con investitori esteri pubblici e privati. La totale asimmetria tra investimenti in industria pesante e industria civile rendeva l’Unione Sovietica un paese apparentemente forte ma sostanzialmente debole. Le due parole d’ordine che Michail Gorbacev fece proprie per presentare il nuovo progetto politico di rinnovamento della società sovietica furono glasnost e perestrojka: il primo termine, che letteralmente significa “trasparenza”, indicava la necessità per l’amministrazione sovietica di avviare un nuovo percorso di gestione della cosa pubblica incentrato appunto su tale principio tra élite politica e società civile; il secondo termine, che si traduce con “ristrutturazione”, indicava invece la necessità di ristrutturare radicalmente l’apparato burocratico e politico sovietico, ormai ipertrofico e inadatto ai cambiamenti dell’economia globale. In questa ottica furono introdotte moltissime novità: furono cambiati molti dei vertici statali, fu istituita una commissione sui crimini commessi da Stalin, fu ammessa la responsabilità sovietica nel disastro nucleare di Chernobyl e furono resi pubblici alcuni bilanci dell’amministrazione statale. In particolare, fu proprio il presidente sovietico ad indicare nel maggio del 1988, per la prima volta, la cifra complessiva assorbita dalla macchina bellica dell' Urss: 77 miliardi e 300 milioni di rubli, circa 123 miliardi di dollari. Tuttavia, nonostante la decisione di Gorbacev di dare una nuova impronta di trasparenza alla propria amministrazione, non tutti i dati furono presentati integralmente e correttamente. Quando si parla di 20 miliardi di rubli per l' esercito e la flotta si parla infatti soltanto della spesa ordinaria, senza contare l' acquisto di armamenti e di sofisticati sistemi tecnici, la ricerca scientifica, le installazioni e le pensioni per i veterani a riposo. Con queste voci si arriva ai 77 miliardi e 300 milioni di rubli, ai quali bisognava aggiungere sei miliardi e 900 milioni di rubli per il programma spaziale; il totale superava gli 84 miliardi di rubli, cioè il 9% del prodotto interno lordo61. Fu in questo quadro che il debito estero giunse alla ragguardevole cifra di 34 miliardi di rubli, poco meno di 50 miliardi di dollari. Gorbacev decise di avviare un nuovo periodo di dialogo con gli Stati Uniti, mettendo di fatto fine alla dottrina Breznev e alla conseguente politica imperiale sovietica; i rapporti tra Stati Uniti e Unione Sovietica si riallacciarono rapidamente portando ad esempio alla firma tra i due rispettivi presidenti, Ronald Reagan e Michael Gorbaciov, di un trattato che pose fine al contenzioso degli euromissili62. La questione afghana fu un’arma a doppio taglio per l’Unione Sovietica: se da una parte la situazione economica, ormai sempre più compromessa, e i radicali

61 A. Graziosi, L’URSS dal trionfo al degrado: storia dell’Unione Sovietica 1945-1991, Il Mulino, Roma, 2008, pp.

520-521.

62 Trattato INF. Firmato a Washington l’8 dicembre 1987 prevedeva una regolazione rigida e condivisa della gestione

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cambiamenti politici che stavano avvenendo nel paese, non potevano non avere ripercussioni importanti anche sulla campagna militare, dall’altra è anche vero che fu l’andamento stesso della campagna, disastroso per costi umani ed economici, a condizionare pesantemente il panorama politico sovietico. Gorbacev si rese conto la campagna militare in Afghanistan stava causando non solo uno sforzo economico difficilmente sostenibile a lungo termine per le casse dello stato, ma soprattutto una danno d’immagine importante per Mosca; l’incapacità di sconfiggere rapidamente un paese sulla carta nettamente inferiore, stava infatti compromettendo la reputazione dell’Unione Sovietica. Tutto ciò va contestualizzato nella cornice della competizione con gli Stati Uniti, un confronto non solo geopolitico e militare ma anche ideologico; l’Unione Sovietica, infatti, si presentava ai paesi non allineati come l’alternativa naturale all’imperialismo neoliberista statunitense, una società giusta ed equa, basata sulla fratellanza e l’uguaglianza dei popoli; la vicenda afghana mostrava quanto la realtà fosse diversa dalla propaganda di regime. Il 17 ottobre 1985, Gorbacev cominciò a progettare un graduale disimpegno delle truppe sovietiche nell’ottica di una ritirata lenta e ordinata, da presentare al mondo come un successo culminato con l’autosufficienza del popolo afghano. Proprio per questa decisione, gli ultimi quattro anni di guerra furono i più cruenti di tutto il conflitto. I sovietici, infatti, vollero assicurarsi di lasciare il paese in mano alle truppe regolari afghane solo dopo aver inferto un colpo definitivo alle truppe ribelli. Tra il gennaio e il febbraio del 1985 un'offensiva delle truppe afghane nella provincia di Konar si concluse con un netto fallimento, mentre attacchi dei mujahidin provenienti dalla valle del Panjshir tagliarono la strada del Passo del Salang in marzo63. In giugno un attacco sovietico-afghano devastò la provincia di Helmand seguito poco dopo da una nona e inconcludente offensiva nella valle del Panjshir, mentre pesanti combattimenti si ebbero nell'area di Herat e Kandahar tra luglio e agosto. L'anno si chiuse con un nuovo insuccesso per le forze della RDA, che tra agosto e settembre non riuscirono a espugnare l'importante base mujahidin di Zhawar, nella provincia di Paktia. A partire dai primi mesi del 1986, quindi, Gorbacev cominciò a trasferire maggiori responsabilità belliche alle truppe afghane per disimpegnare quelle sovietiche, progressivamente relegate a soli compiti di supporto alle prime; i sovietici curarono il rafforzamento e la modernizzazione delle forze armate afghane ma la mai completamente risolta piaga delle diserzioni comprometteva ancora la loro tenuta sul campo di battaglia64. Dal gennaio del 1987 le forze da combattimento sovietiche furono ritirate da qualsiasi tipo di operazione offensiva terrestre, ricevendo ordine di fare ricorso alla forza solo per autodifesa. I soldati sovietici si sistemarono quindi

63 Il controllo del Passo del Salang assicurava il controllo alla più importante via di accesso alla capitale Kabul. Il

controllo di tale snodo era necessario per garantire l’approvvigionamento di carburante per i mezzi e di viveri per le truppe.

64 Molti soggetti che inizialmente si erano arruolati nelle file dell’esercito regolare afghano in un secondo momento

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in alcune "bolle di sicurezza", basi pesantemente fortificate e sorvegliate dove trascorrere il loro restante periodo di servizio in Afghanistan. Se le perdite umane diminuirono il morale dei reparti crollò ai minimi livelli, con frequenti casi di nonnismo, insubordinazione, indisciplina e consumo di droghe. Per risolvere la situazione e arginare il malessere che ormai si era impossessato in modo endemico delle truppe sovietico-afghane, tra il novembre del 1987 e il gennaio del 1988, i generali dell’Armata Rossa decisero di organizzare un’ultima grande offensiva coordinata contro i ribelli nella provincia di Chost, per poi da lì sferrare un attacco decisivo contro il passo montano di Zhawar Furono impiegati per questa operazione, che fu battezzata “Operazione Magistral”, più di duemila soldati sovietici affiancati da oltre diecimila soldati delle truppe regolari afghane. . Le truppe di terra furono protette per la durata di tutta l’operazione dall’aviazione sovietica che, attraverso l’utilizzo dei già citati elicotteri da guerra MIL MI 8 e dei jet da combattimento Sukhoi SU 25, ne permise il felice esito. L'operazione terminò il 21 gennaio 1988 con un successo: la guarnigione di Khost fu liberata, i mujahidin vennero scacciati dalla strada per Gardez e venne stabilita una via di ritirata per le forze sovietiche stanziate nel sud-est del paese. Le truppe sovietiche ottennero il controllo della zona attraverso l’utilizzo anche di mezzi blindati e carri armati, che sfondarono le linee nemiche e permisero la penetrazione nel fronte avversario dei reparti di fanteria. Nonostante la sconfitta sul campo, la resistenza dei ribelli afghani fu eroica e le perdite umane di lieve entità; infatti, non appena l’Armata rossa ripiegò, le posizioni appena conquistate tornarono in mano ai guerriglieri. La maggior parte dei combattenti, infatti, sfuggì all’attacco sovietico ripiegando velocemente e ordinatamente in territorio pakistano, riuscendo anche a portare via gli armamenti e le suppellettili. Nonostante le truppe sovietiche avessero ottenuto solamente vittorie negli scontri sostenuti con i ribelli, i guerriglieri afghani, proprio grazie alla vicinanza e alla permeabilità del confine con il Pakistan, riuscirono sempre a riorganizzarsi e a prolungare nel tempo la resistenza, obbligando l’Unione Sovietica a un lento dissanguamento senza risultati. Il percorso che le colonne motorizzate sovietiche dovette affrontare per tornare a Kabul si trasformò in un’odissea65. Le truppe sovietiche furono oggetto di

imboscate e di agguati continui da parte dei guerriglieri, le strade sui cui viaggiavano i mezzi venivano minate così da far saltare in aria mezzi e uomini al solo passaggio, i carri armati vennero presi di mira dai lanciarazzi anticarro imbracciati dai mujahidin appostati sulle alture e i soldati che procedevano a piedi venivano spesso colpiti dal fuoco dei cecchini. La situazione fu arginata solamente quando, grazie all’impiego dell’aviazione, le truppe di terra del 40° corpo d’armata sovietico riuscirono ad assicurarsi il controllo delle alture che costeggiavano il percorso fino a Kabul66; il percorso che in

65 Circa 1/5 dei mezzi blindati delle colonne fu distrutto durante il tragitto.

66 Il 40° corpo d’armata dell’esercito sovietico fu quello che più si distinse durante la campagna afghana; al ritorno in

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tempi normali sarebbe stato percorso in pochi giorni fu completato in più di un mese. Gli anni passavano e il conflitto ormai propendeva decisamente a favore dei ribelli. Sul piano politico, formalmente, la guida dell’Afghanistan venne esercitata fino al 1986 da Babrak Karmal, uomo di fiducia del Cremlino, insediato per volontà di Mosca per garantirne gli interessi sul territorio; nel 1987, tuttavia, a causa della mancata stabilità del paese e della compromissione ormai definitiva delle operazioni belliche, Karmal venne destituito per volere del Cremlino e rimpiazzato prima con il suo Vicepresidente Haji Mohammad Chamkani e poi con Mohammad Najibullah. Benché la sua carica di ex capo del KHAD lo rendesse malvisto da molti degli oppositori67, Najibullah iniziò, sotto la pressione del Cremlino, una politica di riconciliazione nazionale per pacificare il paese: fu varata una nuova costituzione che apriva la competizione politica al multipartitismo, elementi estranei al PDPA furono ammessi alle funzioni di governo, fu proclamata un'amnistia generale nei confronti dei ribelli e furono introdotti strumenti giuridici per restituire agli esuli i propri beni mobili e immobili, invitandoli a tornare nel paese senza rischio di ritorsioni da parte delle autorità. Nonostante fosse riuscita ad attrarre alcuni degli elementi più moderati, la politica del nuovo Presidente non ebbe buon esito in buona parte dei suoi obbiettivi: non riuscì, infatti, né a rendere più popolare il governo di Kabul né a convincere gli insorti ad avviare trattative per la fine del conflitto. Anzi, essa spinse questi ultimi a intensificare le operazioni militari, nel timore che un allentamento della tensione spingesse i mujahidin a ritornare alle proprie occupazioni civili percependo un'imminente fine del conflitto. Contemporaneamente, cercando di sfruttare i migliori rapporti instaurati con gli Stati Uniti dopo la firma del trattato INF, Gorbacev iniziò i colloqui internazionali sotto l'egida delle Nazioni Unite per fissare il ritiro delle truppe sovietiche. Il 14 aprile 1988 Afghanistan e Pakistan, con URSS e Stati Uniti come rispettivi garanti, firmarono gli accordi di Ginevra, stabilendo la non ingerenza dei due paesi nelle questioni del vicino e fissando dei termini generali per il ritorno dei profughi afghani alle loro case. Il trattato stabiliva anche un calendario per il ritiro del contingente sovietico in due scaglioni distinti, tra il 15 maggio e il 16 agosto 1988 e tra il 15 novembre 1988 e il 15 febbraio 1989, con una missione di osservatori dell'ONU incaricata di monitorare il corretto ripiegamento dei reparti; rimase tuttavia aperto il problema dell'Iran, che si rifiutò di firmare gli accordi continuando a fornire assistenza ai mujahidin68. Il ritiro delle forze sovietiche iniziò come previsto: nonostante fossero state negoziate tregue e cessate il fuoco locali con i vari comandanti guerriglieri, la ritirata sovietica fu disturbata da alcune imboscate dei gruppi ribelli più estremisti, anche se in generale si svolse senza particolari inconvenienti. L'unica eccezione al ripiegamento pacifico dei reparti sovietici fu l'operazione Typhoon, eseguita tra il 23 e il 26 gennaio 1989: dietro esplicito ordine del ministro della

67 Il KHAD è il corpo dei servizi segreti afghani. 68 G. Breccia, Le guerre afghane, cit., p. 198.

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