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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PISA
DIPARTIMENTO DI RICERCA TRASLAZIONALE E DELLE NUOVE TECNOLOGIE IN MEDICINA E CHIRURGIA
CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN
SCIENZE RIABILITATIVE DELLE PROFESSIONI
SANITARIE
Tesi di laurea
“Il burnout nei volontari del Servizio Civile”
Candidata: Sara Spaccavento
Relatore:
Prof. Alfonso Cristaudo
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Indice
1. Indice ... 2
2. INTRODUZIONE ... 4
3. IL FENOMENO DEL BURNOUT ... 6
o LO STRESS ... 6
o LA SINDROME GENERALE DI ADATTAMENTO ... 12
o STRESS E MALATTIE PSICOSOMATICHE ... 17
o IL BURN OUT ... 19
4. PREVENZIONE DEL LAVORO STRESS CORRELATO ... 26
5. MASLACH BURNOUT INVENTORY ... 37
6. IL SERVIZIO CIVILE ... 41
o IL SERVIZIO CIVILE UNIVERSALE ... 41
- Cosa è il Servizio Civile Universale ... 41
- Istituzione ... 42
- Cosa offre il Servizio Civile Universale ... 45
o IL SERVIZIO CIVILE REGIONALE ... 50
7. IL BURN OUT NEI VOLONTARI ... 52
8. LO STUDIO ... 55 o INTRODUZIONE ... 55 o MATERIALI E METODI ... 56 - Destinatari ... 56 - Campione ... 56 - Strumenti ... 61 - Procedure ... 62
- Analisi dei dati ... 62
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o DISCUSSIONE ... 76
o CONCLUSIONI... 78
9. INDICE DEI GRAFICI ... 83
10. INDICE DELLE TABELLE ... 84
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INTRODUZIONE
Il tema dello stress e del burnout è stato largamente approfondito in molte ricerche condotte sia in Europa sia in nord America (Payne, 1999). Anche in Italia sono diversi gli studi condotti in tale direzione, tra cui occorre ricordare quelli di Sirigatti e Stefanile (1992, 1993), di Valerio, Mecacci, Solimeno, Lucariello e Villani (1998) di Zani e Pietrantoni (2000). Queste ricerche, compiute su personale infermieristico e medico, hanno messo in luce come tali popolazioni possano essere soggette a burnout, ed hanno contribuito ad evidenziare quali siano le principali caratteristiche demografiche ed organizzative connesse a tale fenomeno. Tuttavia, il personale direttamente “dipendente” dalle organizzazioni è sempre più frequentemente affiancato, nello svolgimento delle sue funzioni, da altri lavoratori non dipendenti, cioè da volontari, che svolgono la loro opera mossi da ragioni non economiche e che costituiscono a volte una percentuale non trascurabile del personale presente in certe realtà. Anche in ambito sanitario, come accade in altri settori lavorativi e sociali, il volontariato sta diventando una realtà di lavoro sempre più diffusa che richiede una riflessione non solo su temi organizzativi “classici” (motivazione al lavoro, gestione degli operatori, coordinamento delle attività), ma anche di quelli relativi al “benessere” ed alla salute mentale dei volontari stessi. Appare quindi interessante, ed è lo scopo della ricerca qui presentata, verificare se anche presso i volontari del Servizio Civile Nazionale e Regionale siano riscontrabili elementi di burnout, quali siano le specifiche cause e le possibili azioni preventive che si possono intraprendere.
Lo studio di ricerca, svolto sui volontari del Servizio Civile Nazionale e Regionale, è stato condotto attraverso l’utilizzo del Maslach Burnout Inventory (MBI), questionario finalizzato alla valutazione del burnout nel personale che opera nei servizi
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sociosanitari e nelle istituzioni educative (medici, infermieri, educatori, assistenti sociali, insegnanti). Il questionario è composto da tre scale che misurano le tre dimensioni del burnout: 1) esaurimento emotivo (EE), 2) depersonalizzazione (DP), 3) realizzazione personale (RP). La sottoscala EE esamina quanto il soggetto sente di essere inaridito emotivamente ed esaurito nel proprio lavoro, la sottoscala DP valuta il comportamento del soggetto intervistato nei confronti dell’utente del servizio e la sottoscala RP misura la sensazione di competenza che avverte il soggetto e il desiderio di successo nel lavorare con gli altri. Questo lavoro di tesi si è focalizzato in particolare sull’individuazione di quale tra queste tre aree sia maggiormente compromessa nel volontario che si trova quotidianamente a contatto con la sofferenza e il disagio delle utenze.
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IL FENOMENO DEL BURNOUT
LO STRESS
Sempre di più con il passare degli anni, per entrare in contatto con l’utente ed espletare il mandato in modo soddisfacente, oltre alle elevate competenze tecnico professionali acquisite nel corso degli studi specifici, ai lavoratori sono richieste capacità personali di un certo rilievo, come le competenze trasversali e la gestione del proprio carico emotivo. Queste competenze rappresentano una parte di lavoro fondamentale, poiché le quotidiane interazioni con i clienti, pazienti, i parenti, i colleghi e i superiori molte volte diventano difficili da controllare e richiedono adeguati livelli di coinvolgimento emotivo ed empatia. L’assenza di queste competenze può dar luogo a perplessità e insicurezze nell’esercizio del proprio ruolo: a livello individuale sviluppando sintomatologie psicosomatiche; a livello relazionale attraverso il deterioramento dei rapporti con l’utenza e con i propri colleghi.
Come dimostrano alcuni studi, una condizione lavorativa molto complessa, può contribuire all’insorgere di disagi psico logici e fisiologici anche gravi a carico dei lavoratori, con conseguenze sul piano personale e professionale: gli esperti in materia ritengono che il 50-80% di tutte le malattie manifestate dai lavoratori siano strettamente collegate allo stress (Barbini et al., 2006), perciò questo viene considerato uno dei principali problemi sociali e sanitari.
Negli ultimi anni, la parola “stress” è diventata un luogo comune, una moda, ma il termine stress non si definisce con l’accezione negativa come lo intendiamo noi oggi. Infatti, secondo la definizione generale di Selye (1974), il quale parlava di Sindrome
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Generale da Adattamento (SGA), indica “una risposta generale e aspecifica1 a qualsiasi
richiesta proveniente dall’ambiente”. Lo stress può generarsi, quindi, non solo da eventi straordinari ma anche da richieste ambientali quotidiane, accentuate e percepite soggettivamente come intense, per cui anche una forte emozione positiva come una grande gioia, può attivare una risposta di stress.
Lo stress è, dunque, uno stato fisiologico normale2 e per questo non deve essere evitato: infatti, se affrontato in maniera efficace, apprendendone i meccanismi, induce a una maggiore funzionalità d’azione e al vantaggio da parte del soggetto (Selye).
Le cause del disagio lavorativo, non si possono attribuire esclusivamente all’individuo o all’organizzazione, ma sono l’espressione di una continua e reciproca adattabilità e accomodamento di mezzi e prestazioni che scaturiscono in itinere dalla loro interazione: l’individuo cerca di adattarsi alla situazione che provoca stress, attraverso una sua modalità personale di gestire le situazioni psicologicamente pressanti, un insieme di strategie di coping, che non sempre possono essere vincenti.
Quello che noi chiamiamo stress, nella sua accezione negativa, è il distress (il prefisso dys- significa cattivo, che va male) ovvero, il fallimento adattativo alla risposta psicofisiologica di stress, che instaura un progressivo logorio fino alla rottura delle difese psicofisiche; questo può succedere quando le condizioni di stress permangano inalterate anche in assenza di eventi stressanti, così come quando l’organismo reagisce sproporzionalmente anche in presenza di stimoli di lieve entità.
1 In particolare, i termini “generale” e “aspecifica” in questa definizione indicano che può essere coinvolto ogni sistema dell’organismo (ma è ad alta variabilità individuale) e che l’effetto, la medesima risposta psicofisiologica (stress), non può essere ricondotta a una causa unica ma ad a una serie eterogenea di stimoli fisici, biologici o psicosociali, interni o esterni all’organismo.
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Pertanto, il termine “stress occupazionale” indica, nel suo complesso, la risposta all’esperienza emozionale negativa (con le concomitanze biochimiche, comportamentali e cognitive) che la persona percepisce sul luogo di lavoro, come conseguenza della difficoltà a fronteggiare le richieste, interne o esterne, valutate come gravose (Baum 1990).
Di fronte a ogni stimolo ambientale l’individuo cerca di adottare una risposta adattiva che può divenire una fonte di stress (stressor). Il valore “stressante” di ogni stimolo è stabilito dalla valutazione individuale assegnata alla situazione stessa, confrontata con l’esperienza e le competenze che egli sente di possedere per affrontarla. La risposta viene determinata da una serie di fattori personali (ad esempio la motivazione, l’autostima e l’autoefficacia), indubbiamente legati alla condizione e allo stato d’animo in cui l’individuo viene a trovarsi in quel particolare momento.
La valutazione cognitiva definisce il livello di strain, ovvero, quanto la situazione potenzialmente stressante può incidere sull’individuo in maniera negativa ed esprimere il disagio psico logico e/o la malattia (Ragazzoni et al., 2004). Più è alto il livello di strain, più sarà negativo l’impatto sull’individuo.
In generale il distress viene favorito da particolari condizioni, ovvero quando: la sua fonte è ambigua; la situazione stressante si protrae per un lungo periodo di tempo; la concomitanza di diversi eventi stressanti; l’individuo ritiene di non avere controllo su ciò che accade e non riesce a individuare strategie di coping alternative alle sue tentate soluzioni.
Il termine eustress, invece, (il prefisso eu- significa buono) indica la soddisfazione e la percezione personale di riuscita del compito (autostima, autorealizzazione,
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autoefficacia) e la conseguente energia positiva che ne deriva. L’individuo ha bisogno dell’eustress per apprendere, avere padronanza dell’ambiente e del compito stesso. Il grado ottimale di stimolazione, che per mette il rendimento nelle situazioni stressogene, varia in base al particolare momento che la persona sta vivendo, alle sue valutazioni rispetto al compito e alle strategie di coping che vuole o che sente di mettere in atto. La medesima situazione, vissuta in diversi momenti della vita di ogni individuo, può generare una risposta diversa.
Selye, come altri studiosi che si sono occupati di stress dopo di lui, sosteneva che a determinare eustress o distress fosse l’intensità del bisogno di adattamento che gli stimoli attivano nell’individuo, a prescindere dalla natura positiva o negativa di questi (Caprara e Borgogni, 1988).
Levi (1968; 1972) ha descritto, attraverso una curva a U rovesciata, il rapporto tra numero di eventi esterni e risposta di stress: si avverte maggiore distress ad entrambi gli estremi della curva, per cui l’eccesso o la carenza di stimoli sono in grado di provocare distress, riflettendosi sulla vita futura del soggetto: i binomi silenzio e rumore assordante, isolamento sociale e alta densità, carenza alimentare e nutrizione eccessiva e tanti altri ancora, vanno tenuti in considerazione. Peraltro, anche un lavoro monotono, ripetitivo e troppo strutturato, poco gratificante, può essere fortemente demotivante e provocare nell’individuo riduzione di autostima e senso di nullità, favorendo ugualmente una situazione di distress così come il suo estremo opposto, un periodo di impegno eccessivo, protratto nel tempo, potrebbe sviluppare uno stato d’ ansia oltre limite e portare a un aumento incontrollato degli effetti negativi dello stress. In particolari circostanze, quando l’attività che si svolge è gratificante, lavorare molto diventa un’esperienza euforizzante: ci si stanca ma si è soddisfatti.
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In letteratura è noto che un grado ottimale di stress migliori lo stato di salute individuale poiché esso aiuta a sviluppare e perfezionare la concentrazione, l’attenzione, la memoria, l’apprendimento e la capacità di risoluzione dei problemi, rendendo i soggetti meno sensibili alla monotonia (Farné M., 1999 p.20).
Per quanto riguarda la relazione tra attenzione e stress, è possibile ottenere prestazioni migliori sul piano cognitivo con una moderata attivazione dell’organismo, mentre una eccessiva attivazione può avere effetti disastrosi. Un grado ottimale di stress percepito, ossia contenuto entro certi limiti, risulta utile e adattivo durante la performance in compiti che richiedono particolare attenzione, sia in termini di prontezza alla risposta che di efficienza. Contrariamente, livelli di stress auto-percepiti come troppo elevati, compromettono la prestazione cognitiva: una scarsa risposta cognitiva (ad esempio, non focalizzare correttamente l’attenzione o non riuscire a spostarla quando è necessario), può incidere sulle emozioni in maniera negativa, provocando interferenze di tipo stressogeno spesso verificate sul piano clinico (Di Nuovo S. 2006). Palesemente diventa fondamentale favorire una corretta percezione degli stimoli e degli eventi potenzialmente stressanti, ampliando le capacità di adattamento individuale, per conseguire miglioramenti nelle prestazioni sul piano cognitivo e attentivo (Di Nuovo S. 2006).
Yerkes e Dodson sostengono che all’aumentare dell’impegno della persona aumenterebbe il rendimento. Esiste però un punto in cui ad ogni ulteriore aumento dell’impegno c’è un peggiora mento e una diminuzione del rendimento. Ad esempio, quando una persona ha un sovraccarico eccessivo di lavoro, nonostante il suo impegno e la sua volontà di riuscire a portarlo a termine nella maniera dovuta, può commettere errori e pregiudicare la performance. Questo, specialmente se prolungato nel tempo,
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può portare frustrazione, perdita dell’autostima e dell’autoefficacia, anche nel caso si tratti di un lavoratore che nel tempo ha accumulato l’esperienza e la sicurezza nel suo ruolo.
Alcune ricerche dimostrano che la perdita di risorse umane, può essere imputabile alla cattiva gestione da parte dell’autorità del team di lavoro (leadership) in presenza di eccessivi carichi di lavoro, all’ambiguità di ruolo, ai conflitti, e alla scarsa e/o cattiva comunicazione (Yukl 2006; George et al. 1996).
A questo proposito è importante che il lavoratore lavori su di sé, sul proprio vissuto interiore, sia perché il tipo di lavoro lo richiede, sia per non cadere nel disagio davanti alle avversità. Dare un senso al proprio ruolo ed esserne fieri può portare grossi vantaggi sia a livello personale che professionale. Il “sapere”, cioè le conoscenze
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professionali3 e le abilità, il “saper fare”4, non precludono il “saper essere” ovvero il saper assumere degli atteggiamenti flessibili in merito al contesto in quel particolare momento. Sono indispensabili competenze trasversali e relazionali, intelligenza emotiva attraverso cui si canalizzano le emozioni (che possono prendere il sopravvento in determinati momenti) in energia positiva equilibrata, capacità di organizzare e riorganizzare con parsimonia.
LA SINDROME GENERALE DI ADATTAMENTO
In generale, i principali correlati fisiologici dello stress sono due tipi di ormoni: le catecolamine (adrenalina e noradrenalina) e i corticosteroidi (cortisolo), dai quali conseguono una serie di reazioni fisiologiche; oltre alla loro diretta relazione con la SGA (“Sindrome Generale da Adattamento” di Selye), essi sono fattori coinvolti nella genesi delle malattie cronico-degenerative o polieziologiche, come sostenuto dalla letteratura medica in merito (menzionate nel progredire del capitolo).
La fisiologia dello stress, come disciplina, deve le sue radici ad Hans Selye che introdusse la Sindrome Generale da Adattamento (SGA) e descrisse lo stress come la reazione biologica, aspecifica, volta a ristabilire l’omeostasi nei confronti di un agente stressante5 in grado di modificare l’equilibrio complessivo dell’organismo. In questo processo vengono coinvolti il sistema nervoso, il sistema immunitario, il sistema
3 Ad esempio, obiettivi, teorie, informazioni, funzionamenti, processi ecc. 4 Saper agire utilizzando le giuste procedure (pratiche e strumentali).
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ormonale, l’ipofisi e il surrene che ne ricoprono una funzione fondamentale. Le suddette strutture sono in grado di stimolare o inibire la secrezione di numerosi ormoni che vengono impegnati al governo dello stress e nell’influenzamento di funzioni di base come il sonno, la veglia, la libido. In pratica, il meccanismo entra in funzione nel momento in cui l’organismo viene allertato da una nuova situazione: se, nonostante il dispendio energetico, non riesce a gestire tale circostanza, le capacità di difesa si riducono e subentra una situazione di disagio che può dar luogo a seri disturbi fisici e psichici.
Secondo Selye la SGA segue tre fasi caratterizzate dalla durata e dall’intensità percepita:
1. Fase di allarme: in seguito a un evento stressante, l’individuo entra in uno stato di attivazione caratterizzata da un’iniziale caduta al di sotto del livello fisiologico delle funzioni di base dell’organismo (shock) e una successiva reazione dell’organismo allo stimolo stressogeno (controshock). Il sistema nervoso simpatico agisce sul metabolismo e sulla circolazione sanguigna
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attivando la midollare del surrene per secernere le catecolamine (noradrenalina e da essa, adrenalina) che, a loro volta, producono l’aumento dell’energia di pronto impiego sotto forma di glucosio. Ciò permette un’immediata ma labile risposta all’evento, essendo le catecolamine rapidamente metabolizzate. Segue la fase di ripresa in cui l’attivazione del sistema nervoso simpatico decresce, riportando i valori fisiologici alla norma. Ad esempio, di fronte a un’emergenza, se l’evento è percepito come troppo pesante, l’individuo entra in crisi e abbandona; se invece si intravede anche una minima possibilità di successo, l’individuo si attiva per affrontare il problema e con calma analizza la situazione per mettere in atto le strategie ritenute appropriate.
2. Fase di resistenza: se nella prima fase l’agente stressante non viene neutralizzato in tempi brevi, si attiva la fase di resistenza che perdura tutto il tempo nel quale è presente lo stimolo stressante; alcuni neuroni situati nell’ipotalamo stabiliscono l’intensità dello stimolo stressante per il rilascio di corticotropina (CRH), la quale, nell’ipofisi anteriore, stimola la liberazione di ACTH (ormone adrenocorticotropo). L’ACTH stimola la corticale dei surreni a produrre cortisolo per mantenere alta l’attivazione del sistema nervoso simpatico, mantenere lo sforzo fisico in eccesso e consentire un adattamento massimo. L’azione del cortisolo influenza il metabolismo degli zuccheri, delle proteine e dei grassi aumentando l’energia disponibile per l’organismo; inibisce le reazioni infiammatorie e allergiche e aumenta le difese dell’organismo. Tuttavia, in un secondo momento, l’azione si capovolge e ne consegue, infatti, un abbassamento delle difese immunitarie, aumento acidità gastrica, ecc. Continuando con l’esempio al punto 1, in questa fase, se il lavoro
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porterà a un buon risultato, l’individuo sarà stanco ma contento (eustress), altrimenti si alimenterà la sensazione di stress e frustrazione (distress). 3. Fase di esaurimento: si attiva quando la seconda fase perdura troppo a lungo o
nel caso in cui l’organismo non sia in grado di mettere in atto risposte adeguate; essa è caratterizzata dalla secrezione di glucocorticoidi e dal potenziamento delle funzioni della corteccia surrenale; un vero e proprio sfiancamento delle risorse dell’organismo. La prolungata attivazione di tutte queste funzioni e del sistema immunitario, notevolmente provati, fanno sì che il corpo cominci a dare sintomi psicosomatici stress correlati che possono dar luogo a un esaurimento fisico e mentale. È possibile, infatti, andare incontro a squilibri di tipo funzionale (ad esempio del sistema cardiocircolatorio e del sistema endo-crino), a malattie psicosomatiche (come ad esempio malattie gastroenteriche ...) o a danni irreversibili (per esempio nel distretto coronarico), per l’accentuata vulnerabilità in cui l’organismo si viene a trovare in questo particolare momento.
Secondo Pancheri, quando l’evento ha a che fare con la perdita affettiva/relazionale, oltre all’asse surrenalico responsabile della produzione del cortisolo, si attiverebbe anche il meccanismo che coinvolge il metabolismo degli oppioidi endogeni (endorfine, encefaline, dinorfine). Infatti, la depressione e l’indebo-limento del funzionamento immunitario sono ricorrenti in caso di lutto o perdita di relazioni affettive importanti.
La reazione allo stress si manifesta con “sintomi” cognitivo-emotivi e fisici. I primi sono i pensieri e le emozioni, ai quali vi si aggregano le reazioni somatiche (sintomi fisici) quali ad esempio tachicardia, sudorazione, rossore al volto. Di fronte a
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un evento stressogeno, le informazioni provenienti dai sensi raggiungono in linea diretta l’amigdala, da cui ha origine l’emozione, l’impulso, la “reazione viscerale”6. L’amigdala entra subito in azione e invia messaggi chimici che innescano reazioni in tutto il corpo, stimolando le surrenali a secernere la noradrenalina e l’adrenalina: l’emozione diventa una molecola chimica (ormone) che, riversata nel sangue, raggiunge i vari organi lontani influenzandoli. Nel frattempo che l’amigdala ha attivato “la reazione viscerale”, la neocorteccia7 che è la parte pensante del cervello, sta ancora analizzando lo stimolo per valutare quanto accaduto (ciò viene influenzato dalla nostra esperienza e dal contesto sociale, culturale, educativo). Tale valutazione, dunque, è importante per l’elaborazione dell’evento stressante da cui scaturiscono le reazioni emotive-comportamentali e/o biologiche e che permettono di decidere se adeguarsi alla nuova situazione o arrendersi ad essa. Se la risposta non è armonica o se uno dei due sistemi reattivi resta cronicamente attivo per troppo tempo, si svilupperà un di-sagio psicosomatico che può evolversi in uno stato di malattia (fisica o psichica).
La reazione allo stress (fisiologica o patologica) è condizionata da caratteristiche soggettive, psicologiche e sociali, infatti, alcune persone sono più suscettibili di altre ad accumularlo, risentendo dei suoi danni perché esposte a fatica, fisica e/o cognitiva, superiori alle proprie capacità per cui non riescono a mettere in atto adeguate strategie di adattamento.
6 Le Doux scoprì che, oltre alla via che dal talamo va alla neocorteccia, come sostenuto dalle vecchie teorie neuroscientifiche, esiste un fascio più sottile di fibre nervose che arrivano in linea diretta e veloce all’amigdala, ciò permette all’amigdala di ricevere alcuni input direttamente dagli organi di senso, rispondendo prima che questi input siano stati registrati dalla neocorteccia. In pratica, l’amigdala può spingere all’azione, mentre la neocorteccia sta ancora elaborando le informazioni per arrivare a un piano d’azione.
7 Da rilevare che l’ippocampo e l’amigdala fanno parte del rinencefalo, il quale, nell’evoluzione della specie umana, ha dato origine alla corteccia primitiva e poi alla neocorteccia, la parte pensante del cervello.
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STRESS E MALATTIE PSICOSOMATICHE
Eventi che colpiscono la vita affettiva inducono modificazioni fisiologiche che possono dare sintomi fisici a carico di vari apparati o influenzare il decorso o la risposta alla terapia in varie malattie come: nell’ipertensione arteriosa, nel diabete, nella malattia coronarica, nel morbo di Crohn e nella colite ulcerosa. Nella pratica clinica del medico generale e in alcuni ambiti specialistici, vari pazienti presentano sintomi o disturbi che vengono definiti genericamente “psicosomatici”. Tali disturbi possono interessare organi e apparati, ad esempio gastroenterico, cardiocircolatorio (molto comuni), muscolare, osteoarticolare, cutaneo e respiratorio.
La medicina psicosomatica distingue i disturbi funzionali, in cui non si ha danno organico e disturbi psicosomatici maggiori, arrecanti danno organico.
A livello cardiovascolare, tra i disturbi funzionali, si possono riscontrare: tachicardia, battito irregolare, dolore al centro del petto …, associati ad ansia generalizzata, sintomi tendenti a peggiorare dopo eventi stressanti. Tra i disturbi psicosomatici maggiori si può manifestare ipertensione arteriosa (primo fattore di rischio per l’insorgenza di disturbi cardiovascolari) e cardiopatia ischemica (di cui le più importanti patologie sono: angina pectoris e infarto).
A livello gastrointestinale, tra i disturbi funzionali, sono molto ricorrenti: la dispepsia funzionale (dolore addominale o fastidio cronico ricorrente a livello addominale superiore senza alcuna evidenza che possa spiegare la malattia) e colon irritabile; tra i disturbi psicosomatici maggiori: ulcera gastro-duodenale (lo stress può determinare un aggravamento dei sintomi ulcerosi); Morbo di Chron e rettocolite
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ulcerosa (in persone particolarmente predisposte, gli eventi stressanti possono provocare una produzione di anticorpi contro le cellule del proprio organismo).
A livello respiratorio, tra i disturbi ricorrenti sono: la sindrome da iperventilazione (respiro troppo rapido e superficiale con incapacità di effettuare una inspirazione pienamente soddisfacente, respirazione toracica esagerata)8 e l’asma bronchiale (un’infiammazione cronica delle vie respiratorie che si accompagna a episodi ricorrenti di difficoltà di respirazione, oppressione toracica, respiro sibilante, tosse).
A livello dermatologico: prurito psicogeno (la tendenza a grattarsi ripetutamente, senza causa fisica, al punto da provocare escoriazioni e lesioni cutanee); iperidrosi (la sudorazione eccessiva in genere nelle mani e piedi che può dare avvio a un circolo vizioso stress > sudorazione > ansia sociale); tricotillomania (l’abitudine di tirarsi le ciocche di capelli, ciglia, sopracciglia, e altri peli del corpo, può essere associata al disturbo ossessivo compulsivo); acne (ne sono affetti maggiormente gli adolescenti per via della produzione di alcuni ormoni che facilitano l’insorgenza dell’acne, può innescare un circolo vizioso acne >stress >aumento ormoni >aumento acne ).
Diversi studi hanno dimostrato che, a livello endocrino, lo stress possa influenzare i livelli di glicemia e l’insorgenza del diabete.
Si possono riscontrare anche sindromi dolorose, senza base organica, come ad esempio le cefalee di tipo tensivo (CTT) dovuto al perdurare inconsapevole della contrazione della muscolatura cranica e di muscoli accessori. La sindrome dolorosa temporo-mandibolare (SDTM) è strettamente associata al bruxismo, indotto o
8 L’iperventilazione cronica aumenta la quantità di anidride carbonica che esce dal corpo con l’espirazione; di conseguenza lo stimolo per l’emoglobina a rilasciare l’ossigeno ai tessuti si riduce e l’emoglobina, pur carica di ossigeno, non lo cede, lasciando i tessuti in una condizione di ipossia cronica.
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peggiorato dallo stress emozionale che il soggetto talvolta affronta stringendo i denti in maniera involontaria e automatica (se protratto nel tempo può portare danno strutturale a carico delle superfici masticatorie dentali e della articolazione temporo-mandibolare). Anche il dolore lombare cronico, senza base organica riscontrabile, è associato a stress emozionale e, sebbene spesso esista un’alterazione organica risolta, il paziente mantiene molti segni della patologia dolorosa.
I fattori psicologici condizionano anche il metabolismo dei lipidi, alterando i livelli di colesterolo e delle lipoproteine nel sangue. Molte ricerche rilevano un aumento del colesterolo dall’8% al 65% in seguito a un cambiamento di tipo psicologico; l’aumento percentuale dei livelli di colesterolo è maggiore quando gli stessi soggetti riconoscono la presenza di distress psicologico. È necessario un maggior numero di ricerche per stabilire se lo stress e il cortisolo possano, da soli (a prescindere dalle predisposizioni particolari dei singoli individui), provocare lesioni al cervello o facilitare gli effetti deleteri di processi patologici.
IL BURN OUT
Il termine burnout significa bruciato, esaurito, fuso. Designa la condizione di cedimento psicofisico dell’operatore che lentamente viene logorato dai continui tentativi di far fronte alle difficoltà insite nel quotidiano confronto con la propria attività professionale (Pellegrino, 2009).
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Il termine compare per la prima volta nel gergo dell’atletica professionale, nel 1930. Veniva usato per indicare lo stato dell’atleta che, dopo anni di successi, sente di avere irrimediabilmente perso le energie per affrontare nuove competizioni.
Dopo l’iniziale entusiasmo e i primi traguardi raggiunti, l’atleta appare come svuotato della motivazione e della capacità di ottenere ulteriori risultati. Dagli anni ’60, il termine burnout viene utilizzato per descrivere la condizione dei tossicodipendenti che si sentono bruciati dall’abuso di stupefacenti (Baiocco et al., 2004; Cifiello, 2004; Gabassi, 2008; Santinello & Negrisolo, 2009). Nel 1974, lo stesso termine viene riproposto in ambito sociosanitario dallo psichiatra Herbert J. Freudenberger con la pubblicazione Staff burnout (Baiocco et al., 2004; Gabassi, 2008; Santinello & Negrisolo, 2009). Freudenberger è stato il primo a mettere in relazione il burnout con lo stress lavorativo. Descrive il fenomeno come la condizione di esaurimento in cui tipicamente versano gli operatori sociosanitari, costantemente impegnati in situazioni che richiedono un forte sforzo sotto il profilo emotivo.
Fa specifico riferimento ai professionisti dell’aiuto che, a causa dell’eccessivo coinvolgimento emotivo in un’attività lavorativa che implica il prendersi cura di un’utenza disagiata, adottano atteggiamenti di rigidità e intolleranza verso gli assistiti (Baiocco et al., 2004). Se inizialmente prestare assistenza ai pazienti è gratificante, con l’andar del tempo, il confronto continuo con la sofferenza dell’utente diventa intollerabile. L’operatore inizia a sentirsi affaticato, sopraffatto ed esaurito dalle eccessive richieste di energie emotive e manifesta una forma di malessere globale che si ripercuote inevitabilmente sulla sfera lavorativa e privata (Gabassi, 2008; Santinello & Negrisolo, 2009). In questa prima accezione, il costrutto di burnout indica un quadro sintomatologico caratterizzato da fenomeni di logoramento psicofisico e sensazione di
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fallimento, dovuti alla disattesa delle aspettative professionali di riuscire a corrispondere alle continue richieste dell’utenza (Baiocco et al., 2004).
Il concetto proposto da Freudenberger viene ripreso da Christina Maslach, alla quale è riconosciuto il merito di avere concettualizzato in termini operativi il fenomeno (Gabassi, 2008). Nel 1977, in una relazione al Convegno annuale di S. Francisco dell’APA, Maslach introduce l’espressione burnout syndrome. Con questo concetto si riferisce a una reazione alla tensione emotiva cronica dovuta all’interazione continua tra l’operatore e il destinatario dell’aiuto (Baiocco et al. 2004). Secondo Maslach, il burnout è un tipo di stress occupazionale causato dal continuo contatto con utenti che presentano problemi di sofferenza. Più precisamente, descrive il burnout come “la sindrome di esaurimento emotivo, di depersonalizzazione, di ridotta realizzazione personale, che può insorgere in operatori che lavorano a contatto con la gente” (Gabassi, 2008, p. 251). Infatti, dopo un periodo lavorativo caratterizzato da un sincero interesse per le problematiche degli utenti, l’operatore inizia a manifestare segnali di insofferenza come nervosismo, irrequietezza, indifferenza e cinismo nei confronti delle persone cui presta assistenza (Baiocco et al., 2004). È la prima volta che il burnout viene presentato come una vera e propria sindrome, a carico di una particolare categoria di lavoratori: gli operatori che svolgono una professione d’aiuto (Baiocco et al., 2004; Gabassi, 2008; Santinello & Negrisolo, 2009). Le professioni d’aiuto, o helping professions, sono caratterizzate da un’elevata implicazione relazionale che, a lungo andare, logora l’operatore. Subentrano sentimenti di profonda insoddisfazione e irrequietezza quotidiana. L’operatore si sente svuotato delle proprie energie psicofisiche e avverte che la spinta motivazionale che ha inizialmente guidato la sua ascesa professionale si sta affievolendo a poco a poco. Nel 1979, Maslach e Jackson
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propongono uno strumento per la misurazione del costrutto, il Maslach Burnout Inventory (MBI). I contributi sperimentali di Maslach e la costruzione dell’MBI stimolano una modalità di ricerca più sistematica ed empirica, che intende definire gli aspetti comuni del fenomeno attraverso il coinvolgimento di campioni sempre più ampi ed eterogenei. Lo spostamento verso un maggior empirismo, affiancato all’interesse mostrato dalla psicologia del lavoro, sociale e clinica, ha contribuito a rafforzare le ricerche sull’argomento, utilizzando una metodologia più precisa e strumenti standardizzati empiricamente validati (Santinello & Negrisolo, 2009). Contessa, nel 1982, spiega il fenomeno attraverso la cosiddetta metafora elettrica e definisce l’operatore in burnout come cortocircuitato. L’autore suggerisce che il lavoratore, dopo un periodo di intenso contatto emotivo con gli utenti, matura il desiderio di evadere da una serie di situazioni lavorative divenute ingestibili (Baiocco et al., 2004; Cifiello, 2004; Gabassi,2008). Nel 1980, Edelwich e Brodsky descrivono il burnout come il graduale abbandono degli ideali e dell’entusiasmo che in principio permettevano all’operatore di corrispondere, in modo più attento e disponibile, alle richieste dei suoi assistiti. Gli autori spiegano come, in conseguenza di tale progressiva perdita motivazionale, l’operatore assuma atteggiamenti di indifferenza e di distacco emotivo nei confronti dell’utenza (Baiocco et al., 2004; Gabassi, 2008). Cherniss definisce il burnout come “una malattia da eccesso di impegno” (Baiocco et al., 2004, p. 38) che porta il soggetto a ritirarsi emotivamente dal lavoro, perdendo l’entusiasmo e la passione iniziale. Descrive il fenomeno come una reazione di distacco psicologico dal lavoro, indotta da situazioni lavorative talmente stressanti da essere considerate inaccettabili. Se l’operatore percepisce le richieste provenienti dall’ambiente come superiori rispetto alle risorse che ha a disposizione per farvi fronte, tende ad avvertire
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sentimenti di ansia, affaticamento, impotenza, fallimento e insoddisfazione. Per evitare l’esaurimento, è costretto a ritirarsi psicologicamente dal lavoro. Il disimpegno emotivo si traduce nell’assunzione di atteggiamenti rigidi e distruttivi e nell’adozione di comportamenti di rifiuto nei confronti del lavoro e degli ideali professionali. In questi termini, la ritirata psicologica rappresenta una forma di difesa che trasforma la vocazione iniziale in semplice onere professionale (Baiocco et al., 2004; Marini & Mondo, 2008). Nonostante il burnout possa insorgere in qualunque momento della carriera lavorativa, Cherniss ritiene che i primi anni siano i più critici per la comparsa del disagio. L’autore spiega come il periodo iniziale di ascesa professionale sia il più importante per il consolidamento del sistema di valori che il soggetto ha acquisito precedentemente. La constatazione dei limiti e degli aspetti realistici della propria professione potrebbe facilitare, in questo periodo, una frammentazione degli ideali professionali con conseguente perdita della motivazione e dell’entusiasmo (Marini & Mondo, 2008). Pines, Aronson e Kafry, nel 1981, spiegano il burnout come una condizione di malessere psicofisico che suscita un intenso senso di insoddisfazione nella ricerca dei propri ideali professionali. In altri termini, gli autori sostengono che i sentimenti di impotenza e vuoto emotivo provati dall’operatore, a lungo andare, si traducano in un senso di fallimento rispetto alle sue iniziali aspettative professionali. Il soggetto, a poco a poco, matura un negativo concetto di sé e del lavoro e sviluppa attitudini professionali e relazionali negative; l’esisto più verosimile è rappresentato dall’esaurimento psicofisico del lavoratore. Perlman e Hartman, nel 1982, definiscono il burnout come la reazione a una condizione di stress emozionale cronico. Gli autori individuano tre dimensioni del burnout: l’esaurimento emotivo, il ridotto rendimento lavorativo e il deterioramento delle relazioni con l’utenza (Baiocco et al., 2004;
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Gabassi, 2008). Del Rio, nel 1990, descrive il burnout come una condizione di usura a cui è sottoposto l’operatore coinvolto in un rapporto emotivamente significativo con l’utenza (Cifiello, 2004). Spiega come il fenomeno non sia connesso tanto al contatto diretto con gli assistiti, quanto alla relazione affettivamente connotata che si instaura con essi e che si riflette sullo stato emotivo dell’operatore (Baiocco et al., 2004).
Dalle diverse definizioni esposte è possibile cogliere un legame tra stress e burnout. Alla base del burnout, infatti, agisce lo stesso meccanismo che regola lo stress lavorativo: l’eccesso delle richieste ambientali, che incide negativamente sulle capacità adattive del soggetto. Tuttavia, mentre lo stress è lo squilibrio tra le risorse disponibili e le richieste interne ed esterne, il burnout rappresenta il fallimento del processo di adattamento, accompagnato da un malfunzionamento cronico (Baiocco et al., 2004). Il burnout può insorgere in concomitanza con lo stress, ma quest’ultimo non ne rappresenta una causa diretta. In presenza di situazioni stressanti, infatti, non necessariamente si manifesta il burnout: ci può essere stress senza burnout (Baiocco et al., 2004; De Cesare, 2013). In altri termini, il burnout è l’esito di una inefficace risposta adattiva allo stress lavorativo. Più precisamente, rappresenta il meccanismo attraverso il quale lo stress si converte in strategia di difesa, attraverso la quale l’individuo cerca di far fronte alle tensioni emotive legate alla propria professione di aiuto. Questa barriera difensiva induce il soggetto a adottare comportamenti e atteggiamenti negativi verso sé stesso, verso i colleghi e verso l’utenza, nella speranza di evitare l’esaurimento che il continuo rapporto con utenti problematici comporterebbe (Baiocco et al., 2004). Sebbene dall’analisi delle numerose descrizioni presenti in letteratura emerga un quadro piuttosto articolato, è possibile rintracciare caratteristiche comuni alle diverse spiegazioni del fenomeno. Tutte le definizioni
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fornite dai ricercatori fanno riferimento a una condizione di disadattamento emozionale, scaturita da un inadeguato processo transazionale che l’operatore ha cercato di attuare per far fronte a una situazione lavorativa non altrimenti gestibile. Tale condizione rappresenta l’esito di fallimentari tentativi di accomodamento a una situazione di eccessivo stress (Pellegrino, 2009). Il burnout è, quindi, il risultato di un incessante sforzo di adattamento che comporta una profonda alterazione intrapsichica come reazione difensiva a uno stato di malessere trascurato (Cifiello, 2004). Rappresenta, dunque, una strategia difensiva accompagnata dalla perdita della spinta motivazionale dell’operatore. Questi, per proteggersi da una rapporto professionale di assistenza emotivamente connotato, reagisce attraverso un atteggiamento distaccato e di indifferenza nei confronti dell’utente (Santinello & Negrisolo, 2009).
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PREVENZIONE DEL LAVORO STRESS CORRELATO
In passato, le patologie inerenti al mondo del lavoro erano attribuite a un unico fattore solitamente legato all’ambiente specifico in cui l’individuo si trovava a operare, mentre solo di recente9, si tende a prendere in considerazione un’eziologia mul-tifattoriale, aspecifica, correlata allo stress da lavoro.
Il 7 aprile del 1948, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS - WHO) fece il primo importante passo, integrando il concetto di salute: oltre alla vecchia definizione di “assenza di malattia” in termini biomedici, vennero inseriti anche quegli aspetti legati alla sfera personale e relazionale. A partire da questo evento, la salute viene intesa come uno stato generale di benessere fisico, psichico e sociale della persona. Il concetto di “benessere totale” diventa oggi fondamentale anche all’interno delle organizzazioni e, con l’entrata in vigore del D.lgs. 81/08 in Italia, oltre all’analisi classica dei fattori negativi di natura fisica, viene introdotta la valutazione dei rischi psicosociali.
È maturata nel tempo la consapevolezza che lo stress correlato al lavoro possa provocare problemi sia di tipo fisico che psichico. Viene riconosciuto, inoltre, il fatto che un’esposizione prolungata allo stress, da parte dei lavoratori, possa compromettere la salute organizzativa dell’azienda e la riduzione dell’efficienza lavorativa nella sua globalità, determinando conseguenze inevitabili anche in termini economici.
In determinate condizioni di precarietà, il lavoro, può diventare fonte di frustrazione e motivo di sofferenza per gli individui, causa di errori e di distrazioni
9 In Italia, da un punto di vista legislativo, con il D.Lgs. 81/08, in seguito all’accordo Europeo del 2004.
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gravi, che possono compromettere la qualità della vita. Si parla, in questo caso, di lavori stressanti che logorano fisicamente e psicologicamente l’individuo. Le pratiche di lavoro non sicure, elevati livelli di stress e condizioni di lavoro rigide, o al contrario, un’eccessiva flessibilità, possono rappresentare un fattore negativo per la salute psicofisica dei dipendenti; un disagio che si riflette nell’ organizzazione e sul clima aziendale, ma anche sul benessere familiare, della stessa comunità e società in cui si vive.
Il lavoro impegna buona parte del tempo degli individui ed è fondamentale per la loro soddisfazione e il loro benessere. Ne migliora la vita sia sotto il profilo strettamente economico, sia come produzione di senso e fonte di autorealizzazione; implicitamente favorisce l’identità personale, lo sviluppo sociale, relazionale e cognitivo, permette il raggiungimento degli obiettivi e delle proprie competenze professionali.
Numerosi studi e ricerche hanno dimostrato che lo strumento più efficace, propulsore dello sviluppo individuale e quindi del benessere dei lavoratori, sia proprio la pratica della promozione della salute attraverso il miglioramento dell’ambiente, dell’organizzazione del lavoro e la promozione della partecipazione attiva dei lavoratori. Il vantaggio trova il suo riscontro proprio nella riduzione dell’indice di malattie, disagi e/o infortuni, assenteismo, costi assicurativi e degli oneri economici a carico dell’impresa, nella soddisfazione e nella conservazione della capacità di lavoro a favore dei lavoratori.
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In una ricerca dell’Agenzia Europea per la Sicurezza e Salute sul Lavoro (2000), è stato riscontrato che il 57% dei lavoratori dichiara che la propria salute sia influenzata dal lavoro e che il 28% delle cause siano dovute allo stress.
Lo stress è un fenomeno soggettivo, per cui ogni persona reagisce in maniera personale a possibili agenti o situazioni percepiti come potenzialmente stressanti (stressor), a seconda della propria personalità e della propria storia di vita (Avallone, Paplomatas, 2005).
Le conseguenze dello stress in ambito lavorativo riguardano:
• Il singolo individuo: gli effetti possono riguardare la salute fisica, ne sono un esempio ricorrente le somatizzazioni che interessano l’apparato digerente e cardiocircolatorio, o le carenze a carico del sistema immunitario; in termini di disagio psichico, con l’insorgenza di ansia, depressione, comportamenti violenti e conseguente impoverimento della vita familiare e sociale;
• L’organizzazione di appartenenza: con l’aumento dei costi economici dovuti, ad esempio, al calo del rendimento del lavoratore o a errori, all’assenteismo, al turnover, all’aumento della conflittualità che, a catena, evolve nei vari reparti, fino al deterioramento del clima organizzativo e degli standard produttivi aziendali;
• La società: nell’individuo disagiato possono insorgere emozioni, pensieri e comportamenti negativi (su di sé e/o sugli altri), compromettenti per la sfera relazionale. L’isolamento e l’emarginazione possono portare a rischi di dipendenze assai gravi come, ad esempio, l’abuso di alcool o di sostanze
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stupefacenti; i suoi effetti, oltre ai danni personali che ne derivano, si riflettono pesantemente sulla società.
Sebbene lo stress non sia considerato una malattia, per quanto riguarda i rischi psicosociali correlati al lavoro vale lo stesso concetto di prevenzione “classica”10,
come per la maggior parte delle malattie in sanità. Infatti, in ambito sanitario, attraverso l’analisi di specifici indicatori, è possibile individuare e prevedere, in modo più o meno certo, l’imminente manifestarsi di eventi nocivi, consentendo un tipo di intervento profilattico, protettivo e dissuasivo. La prassi, invece, diventa assai più problematica quando l’intervento è destinato ad aspetti psicosociali, come ad esempio il disagio in ambito organizzativo, poiché i fattori coinvolti nella definizione e nella previsione di possibili fonti di disagio sono molteplici e difficili da identificare, considerate le differenze individuali esistenti tra le persone coinvolte.
Luigi Regoliosi classifica la prevenzione nell’ambito sociale in maniera simile a Caplan, individuando:
• La prevenzione aspecifica, cosiddetta perché non si riferisce a nessun tipo di disagio e agisce prima che esso si possa manifestare al fine di evitarne la sua insorgenza. Si parla di prevenzione nel vero senso del termine, perché è volta a informare e sensibilizzare, fornire gli strumenti, i metodi e le strategie utili a potenziare le risorse individuali, sociali e organizzative, costruendo un network per affrontare e gestire le situazioni critiche responsabili dell’insorgere di un disagio.
10 Caplan (1964) distingue la prevenzione in primaria, secondaria e terziaria, simile alla classificazione di Regogliosi (1992).
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• La prevenzione specifica primaria, invece, si colloca in sincronia al disagio: è un intervento atto al monitoraggio e all’individuazione delle sue “prime avvisaglie”, per evitarne la sua radicazione. Operativamente, si tratta di progettazione e realizzazione di percorsi individuali per affrontare il disagio sul nascere.
• Infine, la prevenzione specifica secondaria agisce in presenza di un disagio già conclamato, attraverso percorsi di sostegno individualizzati e integrati. L’obiettivo è di sostenere e recuperare gli individui, evitandone la cronicizzazione11, e limitare la diffusione del malessere all’interno delle loro organizzazioni.
Spesso il posto di lavoro si identifica con un ambiente freddo, ostile ed esigente sia in termini economici che psicologici: alcune categorie di lavoratori, più di altre, manifestano maggiormente lo sforzo fisico ed emotivo al punto da percepire livelli massacranti e insostenibili che possono portare a disfunzioni nello svolgimento del lavoro stesso, fino alla perdita del suo controllo. Lo stress lavorativo può insorgere dai conflitti relazionali che possono nascere anche da un ruolo non abbastanza definito, ambiguo e incerto o da una responsabilità divenuta troppo pesante, ed ancora, dal non sentirsi partecipe e parte integrante del gruppo lavoro. Quando i rapporti tra colleghi sono conflittuali, viene a instaurarsi una negatività che si ripercuote sul senso di comunità all’interno dell’organizzazione; questo conflitto cronico e irrisolto, crea un clima di frustrazione, ansia, ambiguità e sospetto, lacerazioni nel tessuto delle relazioni informali, tali da rendere improbabile il reciproco aiuto tra colleghi nei momenti di
11 Le ricerche in merito evidenziano un decremento delle reazioni “acute” da stress occupazionale, ed un aumento delle reazioni croniche e passive (Schreurs, Winnubust, Cooper, 1996).
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criticità. Nelle interazioni interpersonali soprattutto in contesti eccezionalmente complessi, è fondamentale privilegiare un tipo di comunicazione orientata al confronto aperto, accettando il conflitto con l’obiettivo di risolvere le problematiche in maniera collaborativa e costruttiva, negoziando una soluzione ottimale per tutti, coerente con le aspettative del paziente e dell’azienda stessa. Livelli molto alti di conflittualità possono creare disagi e stress e influenzare il benessere del gruppo in maniera negativa, poiché indicano la presenza di una comunicazione non circolare12. In questo
caso il conflitto è distruttivo e non funzionale al cambiamento.
Nelle svariate cause concatenanti responsabili dello stress, rimane determinante la resistenza individuale e il suo grado di tollerabilità prima che vengano manifestati i cambiamenti negativi ad esso connessi. Tra il mondo interno e il mondo esterno di ogni individuo, le variabili che possono dare origine allo stress possono essere tante. Tra i fattori determinanti nell’attuare strategie di risposta alle situazioni problematiche, si possono menzionare: l’intelligenza emotiva, ovvero la capacità di riconoscere, valutare e gestire consapevolmente le emozioni proprie e altrui; la competenza relazionale; i contesti e la soggettività, ad esempio le ambizioni, la situazione psicologica emotiva relativa a quello specifico momento ecc.
Quando viene ad affievolirsi l’impegno nei riguardi del lavoro, destinato a diventare sempre più problematico, si diventa cinici nei suoi confronti, distaccati, quasi insensibili ai bisogni dell’utenza. Questo fenomeno, sintomo del burnout, è una battuta
12 Leavitt e Bavelas (1948-1951) hanno individuato quattro tipi di reti differenti di comunicazione che vanno da un minimo a un massimo di centralità da parte del soggetto: a cerchio (tutti i membri sono allo stesso livello e nessuno è più centrale di un altro), ad Y (si hanno quattro livelli), a catena (tre livelli), a stella (o ruota, si hanno due livelli la cui differenza è molto alta). Più un membro è centrale più entra in possesso di tutti i dati a disposizione del gruppo, più grande è il numero dei livelli più è grande il suo vantaggio nei confronti degli altri membri.
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d’arresto lungo la strada intrapresa per migliorare il benessere individuale e della vita lavorativa, per questo motivo occorrono interventi tempestivi, mirati al recupero. I danni derivati dallo stress e il burnout, a livello sanitario, date le complessità organizzative delle strutture e la particolarità dei servizi ad esse connessi, possono assumere dimensioni importanti. I costi, in termini di salute ed economici (pazienti, personale sanitario, ecc.), avranno ricadute sull’intero sistema nazionale in quanto va assumendo le proporzioni di un fenomeno globale, con costi crescenti per le aziende e per la società; una gestione non ben articolata nei sistemi e all’interno dei settori operativi locali, può dar luogo a disagi nello svolgimento delle normali prassi quoti-diane che mettono a dura prova la salute dei lavoratori, i quali non riusciranno più a svolgere il loro lavoro con efficienza. Le professioni sanitarie sono particolarmente soggette al problema dello stress occupazionale e ad altri disagi psico-sociali (tra cui il burnout), sia per le loro caratteristiche peculiari, sempre a stretto contatto con la sofferenza, sia a causa dei ritmi organizzativi del lavoro. L’operatore sanitario, con l’esercizio dell’azione terapeutica, costituisce lo “strumento tecnologico” per eccellenza nel ciclo produttivo sanitaria.
Il lavoro terapeutico ed assistenziale, come per le altre professioni di aiuto, è caratterizzato, principalmente da processi che riguardano aree profonde della soggettività umana, le emozioni e i sentimenti, che rendono maggiormente problematici i vissuti dolorosi con il timore della malattia e della morte. Per questo è fondamentale avere una formazione capace di riconoscere e governare le istanze emozionali ambivalenti che possono avere luogo a causa del continuo interfacciarsi con la sofferenza dell’altro, a volte anche in maniera frustrante, abilitandolo a gestire questi sentimenti per non esserne travolto. Un prerequisito significativo del percorso
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volto alla qualità del servizio sanitario riguarda la congruenza tra i modelli di riferimento (formativi e gestionali) e la complessità delle pratiche del “to care” e del “to cure”.
Per quanto riguarda le caratteristiche prettamente organizzative, un esempio dei principali fattori di rischio a carico degli operatori sanitari è rappresentato dai turni e dal lavoro notturno. Da qualche anno a questa parte, nel mondo del lavoro, si sta verificando una progressiva inclinazione di scelta organizzativa riguardanti la turnazione del personale, preferendo ai turni tradizionali a rotazione lenta o semilenta (quindicinale o settimanale), i turni a rotazione rapida (ogni due, tre o quattro giorni, otto ore di riposo tra un cambio di turno e l’altro), se non ultrarapidi (pomeriggio, mattina, notte, in pratica due turni nello stesso giorno), come risulta essere usato di frequente nel reparto sanitario.
I motivi possono essere riconducibili, soprattutto per quanto riguarda le donne, al tentativo di conciliare meglio il tempo libero con le esigenze familiari. Sebbene, queste motivazioni rivestano un ruolo di fondamentale importanza per gli equilibri di salute personale e familiare, nonché sociale, tuttavia è necessario rilevare i riflessi negativi che ne derivano. Un significativo aumento della fatica, in seguito alla considerevole deprivazione e sconvolgimento dei del ciclo sonno veglia e dei normali ritmi circadiani (a causa dell’esiguo intervallo che intercorre tra i turni, e dei due turni nello stesso giorno), incentiva le probabilità di errore e di infortunio lavorativo9 che, nel lungo periodo, determina maggiore usura psico-fisica nei soggetti interessati, pregiudicando la qualità della prestazione lavorativa.
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L’insorgenza di tali effetti, essendo questi condizionati da numerosi fattori interagenti, varia fra i lavoratori, per le caratteristiche individuali (ad es. età, genere, personalità, schemi comportamentali ecc.), condizioni di vita (ad es. stato civile, numero di figli, attività sociali, pendolarismo ecc.) e di lavoro (carichi di lavoro, relazioni interpersonali, motivazione, orari e schemi di turnazione) (Costa 2003).
Lo stress connesso alla professione può riflettersi negativamente sull’efficienza e sulla efficacia professionale, riducendo la qualità delle prestazioni e portando a problemi seri, ad esempio la tensione, l’ansia, la depressione e altri stati psichici che possono portare a errore medico, difficoltà nel rapporto con l’utente con diminuzione o aumento eccessivo di empatia e di sensibilità, difficoltà nel rapporto con i colleghi con ripercussioni nella comunicazione e nel lavoro in team ed altro ancora. Più le persone sono alienate dal loro lavoro, più certi disturbi o emozioni diventano patologici, al contrario, una maggiore motivazione al lavoro stimola la tolleranza e la resistenza a sopportare e a superare le difficoltà, si ha maggiore disponibilità e quindi maggiori capacità di fronteggiare i compiti.
Un’indagine condotta dalla sezione salernitana della Società Italiana di Medicina Psicosomatica, che ha coinvolto 2062 operatori della Sanità (tra cui medici, oncologi, anestesisti, psicologi ecc.), mette in evidenza gli aspetti psicologici che l’operatore sanitario affronta nel rapportarsi al paziente, quali: profondo coinvolgimento emotivo (37,7%) irritazione (36,4%), indecisione (31,8%), noia (25,1%), distacco emotivo (19,1%), forti sentimenti di aggressività (17%), intensa attrazione fisica (10%), reazioni somatiche (10%), impulso a fuggire (5,9%). Tali emozioni, se mal gestite dall’operatore, possono dar luogo ad incomprensioni nel rapporto di fiducia con il malato e difficoltà anche a livello di risposta terapeutica.
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La relazione d’aiuto è una relazione tipicamente asimmetrica che viene a costituirsi da un insieme differenziato di risorse interscambiabili, sulla base di un progetto comune.
In questo tipo di relazione, le implicazioni emozionali, positive o negative che siano, devono essere valutate, caso per caso e gestite con particolare abilità professionale, facendo leva sulle proprie capacità critiche e sull’autocontrollo, che devono essere sempre vigili in ogni situazione. Avere la situazione sempre sotto controllo significa evitare che gli stati emozionali negativi possano generare una sintomatologia psicosomatica, con disturbi comportamentali a carico dell’operatore, il quale viene sopraffatto dalle sofferenze e dai problemi altrui. Una situazione di malessere protratta nel tempo può favorire un vero e proprio stato di malattia e sviluppare meccanismi di difesa, consapevoli o meno, come il distacco emotivo (quali indifferenza, cinismo e ostilità) o un’eccessiva empatia nei confronti delle persone con cui si lavora, o degli assistiti, sfuggendo dalle situazioni stressanti o, al contrario, facendosene eccessivamente carico. Il distacco emotivo può produrre forte disagio e dar luogo ad interferenze, non solo sulla sfera personale ma anche su quella professionale, incidendo drasticamente sulla qualità del proprio operato e rendendo la relazione sempre meno significativa, con conseguente e notevole difficoltà ad apprendere appieno le vicissitudini del paziente, utili ad instaurare un’alleanza terapeutica di fiducia.
Secondo alcune ricerche l’85% degli errori in medicina sono imputabili a fattori organizzativi (struttura o tecnologie inadeguate, gruppo di lavoro conflittuale o mancanza di comunicazione tra le equipe), mentre il restante 15% al personale (disat-tenzione, scarsa motivazione, negligenza ...). Le cause a monte di questi ultimi sono
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molteplici: ambiente stressante con un carico di lavoro eccessivo, scarsa e/o inadeguata supervisione, scarsa definizione degli obiettivi, introduzione non pianificata e priva di un periodo di prova congruo di nuove procedure, di nuove regole organizzative, di nuove strategie ....
Questi ed altri motivi, compresi quelli più banali, possono dare inizio a episodi apparentemente insignificanti, ma altrettanto insidiosi e scatenanti se non gestiti tempestivamente, ad esempio, nei momenti di sovraccarico lavorativo spesso nascono le crisi relazionali e molti lavoratori possono non essere in grado di sopportarlo, specie dopo periodi molto lunghi di stress.
L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) nel 1992 mette in allerta sul fatto che lo stress non debba essere più ritenuto un problema occasionale e individuale, la cui soluzione sia affidata a rimedi palliativi, ma venga combattuto con strategie volte all’individuazione e alla rimozione delle cause con mezzi efficaci ed innovativi anziché intervenire sulle conseguenze. La prevenzione è dunque il mezzo più efficace e sicuro. Promuove il concetto e la cultura del benessere all’interno delle organiz-zazioni, mira a contenere e compensare il disagio, puntando a ridurre al minimo le probabilità di esiti autodistruttivi per l’operatore e/o etero-distruttivi nei confronti della struttura in cui opera tutto il sistema. Permette di creare una situazione ideale di benessere reciproco che determina il valore aggiunto dell’azienda, innescato da un circolo virtuoso di benessere psicofisico dei lavoratori da cui scaturisce un migliore adempimento delle prestazioni lavorative che va a riflettersi sul servizio erogato e sulla soddisfazione delle richieste dell’utente finale, il paziente.
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MASLACH BURNOUT INVENTORY
Christina Maslach (1976) definiva il burnout come una sindrome di esaurimento emotivo, di depersonalizzazione e di ridotta realizzazione personale, che può verificarsi tra individui che svolgono professioni di aiuto di qualche tipo. Si tratta di una risposta a quella tensione emotiva cronica legata al lavoro con altri esseri umani, specialmente quando questi siano disturbati o abbiano problemi. In particolare, l’esaurimento emotivo costituisce la risposta ad una situazione lavorativa che induce un eccessivo coinvolgimento emotivo, un sovraccarico emozionale, un depauperamento delle proprie risorse affettive. La depersonalizzazione si manifesta con un atteggiamento distaccato, talvolta decisamente negativo e ostile, nei confronti degli utenti. La ridotta realizzazione personale si sostanzia in una logorante sensazione di inadeguatezza a stabilire un efficace rapporto di aiuto con i propri utenti e implica caduta dell’autostima e attenuazione del desiderio di successo. Christina Maslach, insieme alla sua collega Susan Jackson (1981), ha conferito concretezza a questi concetti pubblicando “The Maslach Burnout Inventory” (MBI). Si tratta di un questionario di 22 item, in base ai quali il soggetto deve valutare la frequenza e l’intensità con cui sperimenta sintomi, effetti, stati emotivi connessi al suo lavoro.
Il Maslach Burnout Inventory (MBI) è un questionario self-report, sviluppato per misurare il burnout come una specifica tipologia di reazione allo stress per le professioni d’aiuto, sia dei servizi sociosanitari, sia delle istituzioni educative e di aiuto alla persona. MBI è composto da 22 item che misurano le tre dimensioni indipendenti della sindrome di burnout, ciascuna è individuata da una specifica sottoscala. La
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frequenza con cui il soggetto sottoposto al test prova le sensazioni relative a ciascuna sottoscala è indicata usando una modalità di risposta a sette punti:
• 0 = mai;
• 1 = qualche volta all’anno; • 2 = una volta al mese o meno; • 3 = qualche volta al mese; • 4 = una volta alla settimana; • 5 = qualche volta alla settimana; • 6 = ogni giorno.
Le scale che costituiscono il questionario sono:
• esaurimento emotivo (EE), che esamina la sensazione di essere inaridito emotivamente ed esaurito dal proprio lavoro;
• depersonalizzazione (DP), che misura una risposta fredda ed impersonale nei confronti degli utenti del proprio servizio;
• realizzazione Personale (RP), che valuta la sensazione relativa alla propria competenza e al proprio desiderio di successo nel lavorare con gli altri.
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La tabella mostra i diversi item raggruppati secondo le tre dimensioni:
Un alto grado di burnout si avrà se i punteggi nelle sottoscale EE e DP sono alti e sono bassi i punteggi della sottoscala RP. Un medio grado di burnout si avrà se i punteggi delle tre scale sono medi. Si avrà invece un basso grado di burnout se i punteggi delle sottoscale EE e DP sono bassi e sono alti i punteggi della sottoscala RP.
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La modalità di scoring utilizzata in questo studio è quella proposta da Christina Maslach. Si riportano gli items per ogni sezione:
• Esaurimento emotivo: Domande 1,2,3,6,8,13,14,16,20 - Totale inferiore a 14: basso
- Totale tra 15 e 23: moderato
- Totale uguale o superiore a 24: alto
• Depersonalizzazione: Domande 5,10,11,15,22 - Totale inferiore a 3: bassa
- Totale tra 4 e 8: moderata
- Totale uguale o superiore a 9: alta
• Gratificazione personale: Domande 4,7,9,12,17,18,19,21 - Totale uguale o superiore a 37: bassa
- Totale tra 30 e 36: moderata - Totale inferiore a 29: alta
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IL SERVIZIO CIVILE
IL SERVIZIO CIVILE UNIVERSALE
Cosa è il Servizio Civile Universale
Il Servizio civile universale è la scelta volontaria di dedicare alcuni mesi della propria vita al servizio di difesa, non armata e non violenta, della Patria, all’educazione, alla pace tra i popoli e alla promozione dei valori fondativi della Repubblica italiana, attraverso azioni per le comunità e per il territorio.
Il Servizio civile universale rappresenta una importante occasione di formazione e di crescita personale e professionale per i giovani, che sono un’indispensabile e vitale risorsa per il progresso culturale, sociale ed economico del Paese.
I settori di intervento in Italia e all’estero nei quali gli Enti propongono i progetti che vedono impegnati gli operatori volontari sono:
o assistenza o protezione civile
o patrimonio ambientale e riqualificazione urbana o patrimonio storico, artistico e culturale
o educazione e promozione culturale, paesaggistica, ambientale, dello sport, del turismo sostenibile e sociale
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o promozione della pace tra i popoli, della nonviolenza e della difesa non armata; promozione e tutela dei diritti umani; cooperazione allo sviluppo; promozione della cultura italiana all'estero e sostegno alle comunità di italiani all'estero. Con il Dlgs. 6 marzo 2017, n. 40, il servizio civile universale punta ad accogliere tutte le richieste di partecipazione da parte dei giovani che, per scelta volontaria, intendono fare un’esperienza di grande valore formativo e civile, in grado anche di dare loro competenze utili per l’immissione nel mondo del lavoro.
Istituzione
In data 3 aprile 2017 è stato pubblicato sulla G.U. n. 78 il decreto legislativo 6 marzo 2017, n. 40, concernente l’istituzione e la disciplina del servizio civile universale che - in attuazione dei principi e criteri di delega di cui all'articolo 8 della legge 6 giugno 2016, n. 106 - modifica il sistema del servizio civile nazionale, istituito dalla legge 6 marzo 2001, n. 64 e disciplinato dal decreto legislativo 5 aprile 2002 n.77.
Sulla G.U. n. 102 del 4 maggio 2018 è stato pubblicato il decreto legislativo 13 aprile 2018, n. 43 recante “Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 6 marzo 2017, n. 40, concernente istituzione e disciplina del servizio civile universale, a norma dell’articolo 8 della legge 6 giugno 2016, n. 106”
Si indicano, di seguito, i punti più rilevanti della riforma, che per quanto attiene alla natura dell’istituto ne ha rafforzato il carattere peculiare di strumento di difesa non armata della Patria, distinguendo la suddetta finalità dai settori d'intervento: assistenza; protezione civile; patrimonio storico artistico e culturale; patrimonio ambientale e
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riqualificazione urbana, educazione e promozione culturale, paesaggistica, ambientale, del turismo sostenibile e sociale, e dello sport; agricoltura in zona di montagna e agricoltura sociale e biodiversità; promozione della pace tra i popoli, della nonviolenza e della difesa non armata; promozione e tutela dei diritti umani; cooperazione allo sviluppo; promozione della cultura italiana all’estero e sostegno alle comunità di italiani all’estero che costituiscono gli ambiti delle materie in cui si attuano gli interventi del S.C.U.
Nel nuovo sistema si prevede l’attribuzione di un diverso ruolo ai soggetti che partecipano alla realizzazione del servizio civile universale. In particolare, lo Stato acquisisce un ruolo preminente mediante lo svolgimento delle attività di programmazione, che garantiscono, attraverso una puntuale analisi del contesto nazionale ed internazionale, la pianificazione degli interventi in materia di servizio civile universale in Italia e all’estero, nonché l’individuazione degli standard qualitativi degli interventi stessi.
L’attività di programmazione del servizio civile universale, infatti, ha la funzione di rilevare, nell’ambito del territorio, i prevalenti fabbisogni ed individuare gli interventi idonei a soddisfarli, in coerenza con le politiche settoriali realizzate dalle singole Amministrazioni, nonché con gli obiettivi stabiliti dal Governo. Detta attività si realizza mediante un Piano triennale, attuato per Piani annuali, a loro volta articolati in programmi di intervento.
Un’ulteriore competenza attribuita allo Stato è quella concernente la valutazione ex post degli interventi di servizio civile universale, che garantisce una verifica dell’impatto degli stessi sui territori e sulle comunità locali ed un’efficace gestione