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Academic year: 2021

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ISSN 2036-2293 DOI (in attesa di assegnazione) pp. 1-14 (21: 2020)

Trauma e racconto

Stefano Calabrese

Università degli studi di Modena e Reggio Emilia (stefano.calabrese@unimore.it)

1.

Tutto nasce laggiù. Atene, IV secolo a. C.

La catarsi o purificazione (gr. κάϑαρσις) si riferisce in origine per i pitagorici a un rito magico, mentre già per Platone costituisce da un lato la liberazione dai piaceri e dalle paure del corpo (Fedone 67 a, 69 b-c), dall’altro la morte come separazione definitiva dell’anima dalle scorie del corpo (Fedone 67 c-d). Se già in questa fase si attiva un campo metaforico di profilassi e igiene, poiché purificarsi dai vizi interiori è come immergersi nel tepore dell’acqua o spalmarsi sulla pelle un unguento medicamentoso (Sofista 226 d-228 e), solo con Aristotele la condizione fisica si lega alla ricezione di un testo estetico, di fatto fondando quella che oggi chiamiamo narrative medicine. Sia nella Politica (VIII, 7, 1342 a) che nella Poetica (6, 1449 b 25-30) egli osserva come la partecipazione emotiva che si attiva negli spettatori di un dramma non sia semplicemente passiva, ma rappresenti un processo attivo di simulazione, incorporamento ed empatia in grado di produrre benefici chiaramente verificabili sull’umore e la condizione fisica. Non diversamente dalla musica, per Aristotele coloro che sono scossi da passioni quali la pietà, la paura, l’entusiasmo ne traggono un effetto terapeutico, soprattutto perché cessano di essere se stessi e vivono le emozioni di un altro.

Definendo la tragedia come «mimesi di un’azione seria e compiuta in se stessa, la quale mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore ha per effetto di sollevare e purificare l’animo da siffatte passioni», egli per la prima volta identificò quel potere farmacologico e liberatorio che solo le narrazioni possiederebbero. Intuizione fortunata e di grande successo nei secoli seguenti almeno fino alla psicoanalisi di Joseph Breuer, che per affrontare l’isteria sviluppò un trattamento definito appunto catartico, in base al quale si sarebbe dovuto far ricordare ai pazienti un evento traumatico sotto ipnosi, cioè di nuovo in una condizione di autospossessamento che una sua celebre paziente definiva “effetto spazzacamino”. Ma altresì nello studio portato a termine dalla statunitense Caroline Shrodes nel secondo dopoguerra, dove la catarsi svolge un ruolo centrale nel metodo biblioterapeutico che a suo avviso si sarebbe dovuto articolare nelle tre fasi della

identificazione (il lettore si incarna in un personaggio finzionale), della catarsi vera e propria (il lettore

prova le emozioni del personaggio) e dell’introspezione (il lettore torna al proprio Self e riesce infine a prenderne possesso) (Shrodes 1955).

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Ma siamo certi che il concetto di catarsi sia stato compreso fino in fondo? Nella rivisitazione che gli psicologi cognitivisti e dell’età evolutiva hanno ultimamente compiuto della teoria aristotelica della catarsi, intesa come vero e proprio principio di educazione emotiva, si è compreso che nella Poetica ci si riferisce prioritariamente alle due emozioni della paura e della pietas: ma mentre la prima è sperimentabile sia in modalità self-centered (paura per me stesso), sia in modalità

other-centered (paura per altri individui), la pietas può attivarsi solo in modalità other-other-centered, ossia essere

indiretta o vicaria (Ferrari 1999: 181-198). Ora, anche la paura provata dagli spettatori di una tragedia non è la paura per se stessi, ma al contrario la paura indiretta per dei personaggi finzionali: lo spettatore prova sì per loro un sentimento di paura, ma riconoscendosi in un luogo sicuro e sapendo che nulla potrà accadergli. Ecco da dove trae origine la catarsi: la percezione di un’emozione forte come la paura (alti livelli di adrenalina, abbassamento della temperatura corporea, respiro affannoso ecc.) (Manini et al. 2013) o coinvolgente come la pietas potendo contare nondimeno sul potere immunizzante della finzione: libero da ogni pericolo, lo spettatore aristotelico conta sul fatto che le emozioni provate non avranno alcuna conseguenza reale e nel contesto ambientale esterno, mentre potranno mutare radicalmente lo status interiore (Lear 1988: 297-326).

Nella sua teoria della catarsi Aristotele prevede dunque il coinvolgimento di emozioni soltanto vicarie o indirette, le uniche a produrre effetti di tangibile purificazione, escludendo dal corredo emozionale dell’estetica le passioni dirette. Qualcuno è andato ancora più a fondo, distinguendo la paura indiretta chiamata in causa dalla tragedia, che non prevede l’attribuzione di uno stato emotivo al personaggio finzionale (se infatti provo paura per un character che sta per essere aggredito da un orso, non gli attribuisco tuttavia uno stato emotivo, in quanto lui è all’oscuro di tutto) dalla cosiddetta paura immaginata (quasi-fear, come la chiamano gli psicologi), che consiste nella capacità di prevedere ciò che un personaggio può provare calandosi nella situazione immaginaria e attribuendo uno stato emotivo a tale personaggio. Il coinvolgimento emotivo per eccellenza si registrava all’altezza dell’explicit testuale, in quanto gli spettatori conoscono finalmente il destino dei protagonisti e lo confrontano con le proprie aspettative: se accade ciò che essi si aspettavano, il rilascio della tensione è immediato, mentre se l’epilogo è inaspettato e inconsueto essi impiegano qualche istante per comprendere ciò che realmente è accaduto. Oggi si parla di una crescente e indifferenziata “estensione della catarsi”, poiché nelle narrazioni attuali il coinvolgimento emotivo è incrementato dalla tendenza alla serializzazione, di fatto un dispositivo temporale che moltiplica i finali. Ad acquisire un ruolo fondamentale in questi casi è la suspense, che agisce sui destinatari delle narrazioni come un focalizzatore emotivo e cognitivo (Hutto 2016: 35).

Ecco: Aristotele, con la consueta eleganza, puntava tutte le sue carte sulle emozioni vicarie, fulcro del concetto di catarsi emotiva in quanto creano una situazione di asimmetria epistemica dove lo spettatore sa quello che sta per accadere, mentre il protagonista non sa nulla di nulla. È questa asimmetria la principale responsabile dell’impatto emotivo, l’abracadabra che farà della catarsi il luogo originario da cui evolverà la narrative medicine (Manini et al. 2013).

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Dopo il big bang aristotelico, le cose hanno proceduto lentamente, per conoscere una straordinaria accelerazione solo a partire dalla fine del Novecento, anche e soprattutto grazie a Rita Charon,

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docente alla Columbia University di New York (Charon 2006). Oggi si conoscono assai bene gli effetti benefici della cultura ‒ nel senso precipuo di alfabetizzazione, literacy ‒ sulle condizioni di salute degli individui almeno nel mondo occidentale, dove le ricerche, serie o esilaranti che esse siano, sono state molteplici. Secondo le stime del NALS (National Adult Literacy Study), che ha creato l’espressione health literacy per riferirsi a tali effetti, circa 90 milioni di americani adulti evidenziano una relazione tra bassi livelli di alfabetizzazione (difficoltà di interpretazione semantica, scarso riconoscimento del lessico, ricorso a testi elementari) e periodi di ricovero nelle strutture sanitarie (a parità di co-varianti quali l’età, il gender, l’etnia, l’assistenza sanitaria e finanziaria ecc.) (Weiss, Palmer 2004: 44). Non si tratta solo del fatto che gli individui altamente alfabetizzati hanno molte conoscenze in fatto di malattie, rischi di contagio, alimentazione, per cui evitano di ammalarsi perché esercitano una maggiore prevenzione, ma del fatto molto più generalista che chi è meno alfabetizzato ha una probabilità di ammalarsi superiore da una volta e mezzo a tre volte rispetto a chi è altamente alfabetizzato (DeWalt et al. 2004: 1230).

Altrettanto ben indagata è la relazione tra dimensione narrativa ‒ anche e soprattutto autodiegetica, quando i pazienti si raccontano ‒ e condizioni generali di salute. L’idea è che nulla esista se non viene formattato nella catena crono-sequenziale di una narrazione, e che l’Io possa conoscersi, curarsi, trasformarsi solo per via diegetica. Particolarmente noto il caso della scrittrice Alice Sebold, che subisce un’aggressione con stupro mentre si sta laureando in Creative Writing, e a 36 anni si affida alla fluidità intimistica dell’autobiografia pubblicando Lucky (Sebold 2003), cronaca vera dello stupro subìto all’Università di Syracuse nel 1981. Il testo non funziona terapeuticamente per l’autrice e non piace ai lettori perché l’Io, evidentemente, per parlare di sé deve prima diventare Egli, ricodificarsi nell’altro, parlare dall’alto e da una distanza abissale. Scrivendo, l’Io ancora non vede se stesso per eccesso di prossimità e, dirà poi la Sebold, cerca di spostare il baricentro della narrazione parlando in termini ecumenici, a nome di tutte le vittime della violenza sessuale: narrativamente, un passo falso. La storia di Lucky viene a questo punto ri-raccontata nella

fiction romanzesca Amabili resti (Sebold 2002), un grande successo editoriale con più di 12 milioni di

copie vendute nel mondo e seguìto dall’immancabile adattamento cinematografico (2009): la storia di una ragazza di quattordici anni stuprata, uccisa e poi smembrata, il cui punto di vista ci giunge nondimeno ancora chiaro.

Il dato da cui si deve partire è il Disturbo post-traumatico da stress. Tutto sembra semplice, ma semplice non è. Certo, io decido di dire “io” e di raccontare quanto mi è occorso, ma che cosa ricorderò di quell’evento traumatico? L’Io che narra adesso in condizione post-traumatica in cosa è simile o comparabile all’”io” che è stato attore del trauma? Se dai tempi di Aristotele ogni racconto comporta la trasformazione della realtà in una sequenza unilineare e logico-causale, come posso raccontare ciò che non ha una spiegazione plausibile, uno scopo argomentabile, una grammatica dei gesti condivisa? Soprattutto: come posso “io” raccontare un evento il cui effetto indubitabile è stato quello di sopprimermi come “io”? Da quali immissari sarà alimentata la mia memoria, e quali configurazioni assumerà l’emissario narrativo, cioè la storia (Bedard-Gilligan et al. 2017)?

Si tratta di domande ben note alla comunità scientifica, che ha cominciato a occuparsene dopo la Prima Guerra Mondiale e soprattutto dopo la Shoah, quando molti reduci o sopravvissuti avevano difficoltà a reinserirsi nella vita civile, ed è un problema che ancor oggi occupa l’agenda

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internazionale delle grandi onlus, dell’Unicef o di Medicins sans frontières. Poco dopo la pubblicazione di Lucky, e sulla base della risonanza che tale insuccesso provocò negli USA, altri studi condotti a livello sperimentale hanno mostrato come costruire una storia riguardante turbamenti emozionali possa migliorare la salute o comunque contribuire all’acquisizione di un maggior benessere psico-fisico: convinzione cui sono giunti Nairán Ramírez-Esparza e James W. Pennebaker tramite molteplici esperimenti condotti nell’arco di un ventennio, portati avanti per lo più nella forma dell’emotional writing, cui sono stati sottoposti soggetti traumatizzati o sofferenti di forti stress emotivi, i quali, al termine di una terapia narrativa, hanno mostrato incontrovertibili indici di miglioramento. La narrativizzazione può inoltre servire come componente attiva nel lavoro terapeutico, perché in determinate situazioni medici e terapeuti possono aiutare il paziente nel processo di costruzione di un plot coerente: un modo in cui l’identità e il senso di sé si strutturano è infatti attraverso il racconto di storie, definibili per questo patient-centred (Ramírez-Esparza, Pennebaker 2006: 221-225).

I traumi ‒ parola di derivazione greca che significa letteralmente “ferita” ‒ interessano dunque i narratologi perché sin dal 1980, quando la voce “Disturbo da stress post-traumatico” entra nel

Diagnostic and Statistical Manual degli Stati Uniti, ci si rende conto che ogni trauma induce

un’aberrazione della memoria in grado di invalidare l’abilità del singolo a raccontare gli eventi in modo sequenziale e plausibile, cioè a trasformare in narrazione un’esperienza personale. Sintomi quali l’amnesia episodica, la dissociazione o permutazione delle cause e degli effetti, la predominante disforia, il ruolo primario dei flashback sulla narrazione al presente, le logiche argomentative di tipo psicotico o allucinatorio, la difficoltà a considerare il contesto sociale e la presenza di una collettività ‒ cancellate da un isolamento dell’individuo ‒ sono solo alcune conseguenze di pertinenza della narratologia quando si tratta di analizzare racconti di eventi traumatici quali disastri naturali, guerre, stupri, torture (Brewin 2014; Cohen et al. 2016).

Esiste una gerarchia dei traumi, che li classifichi in base al loro impatto sull’apparato psichico degli individui? Gli studiosi partono dalla certezza che i traumi subiti in età precoce (entro i 14 anni) siano quelli con gli effetti più duraturi – tra cui alto livello di alessitimia, afasia parziale, difficoltà nel riconoscere le emozioni negative. Così, dei quattro tipi di trauma identificati, ossia (i) i traumi precoci interpersonali cronici (ad es. una condizione di abituale violenza domestica), (ii) i traumi precoci interpersonali singoli e non ripetuti (ad es. un episodio di violenza sessuale), (iii) i traumi tardivi (un licenziamento ingiustificato) e infine (iv) i traumi non interpersonali (un incidente stradale), è stato valutato che il primo tipo è quello più nefasto e che inibisce maggiormente nei soggetti colpiti le capacità di ricorrere alle emozioni più appropriate per elaborare una strategia di

coping (Fivush et al. 2003: 15 ss.)

In quanto racconto, il trauma agirebbe come un vuoto (un gap), un’esperienza perduta o non recuperabile, e soprattutto potrebbe derivarne un racconto senza le emozioni che gli eventi hanno prodotto o una rassegna delle emozioni senza alcun ricordo degli eventi. Poiché la “memoria narrativa” integra le esperienze in schemi mentali preesistenti ed è accompagnata da stati emotivi coerenti con essi, chiunque sia stato colpito da disturbi post-traumatici deve organizzare delle ri-esecuzioni, raccontare sempre di nuovo l’accadimento traumatico cercando tuttavia di adottare una necessaria profilassi. Le narrazioni sono salvifiche e terapeutiche, e poiché Bessel van der Kolk, uno

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dei principali studiosi di trauma theory, valuta che (i) la sofferenza rimane l’elemento più condiviso tra i membri di una comunità, e che (ii) la reazione a un trauma rappresenta oggi “il principale problema di salute a livello mondiale”, si comprende bene come testi quali Amabili resti si stiano moltiplicando in tutto il mondo, siano essi noti o del tutto sconosciuti (Kolk 2014: 77 ss.).

Poiché i pazienti con sindrome post-traumatica (PTSD) esibiscono un ampio range di problematiche riguardanti essenzialmente la memoria, tra cui gap mnemonici, difficoltà nei ricordi dichiarativi episodici, attenzione iperfocalizzata sui ricordi traumatici (e non agli altri) e tendenza a archiviare ricordi infausti o inopportuni, è necessario soffermarsi sul responsabile di questi deficit, cioè l’ippocampo, da cui si irraggia la maggior parte dei sintomi PTSD proprio perché coinvolge direttamente la memoria, essenziale per il processo di rielaborazione/narrazione del trauma vissuto (Bremner 2006). Situato nel lobo temporale e elemento integrante del sistema limbico, l’ippocampo svolge un ruolo cruciale nella memoria a lungo termine e nella navigazione spaziale: esso costituisce una sorta di archivio in cui le informazioni multisensoriali si trasformano in una memoria episodica che in seguito, grazie a regioni para-ippocampali, si trasformeranno in modo selettivo in una memoria più duratura. Va ricordato che l’ippocampo si mielinizza completamente intorno ai 3-4 anni, ed è per questo che anteriormente a quella data non abbiamo ricordi.

Se nei malati di Alzheimer l’ippocampo è una delle prime regioni del cervello a soffrire di deficit mnemonici e disorientamento spaziale, nei post-traumatizzati le lesioni o la diminuzione di volume dell’ippocampo lede sia la memoria dichiarativa (i ricordi che possono essere esplicitamente verbalizzati) sia la capacità di ritenzione di nuovi ricordi (amnesia anterograda), sia infine l’accesso ai ricordi precedenti al danno (amnesia retrograda) (Shin 2004: 292 ss.). Uno studio rivolto a bambini tra i 7 e i 13 anni vittime di eventi traumatici multipli che comprendevano separazione e perdita, abusi sessuali e abbandono fisico ha rilevato alti livelli di cortisolo e una conseguente riduzione del volume dell’ippocampo 12-18 mesi dopo gli eventi traumatici, e soprattutto che più i sintomi PTSD erano manifesti, più il volume ippocampale era ridotto (Carrion et al. 2007; Teicher et al. 2002). Il trauma è dunque un autentico cataclisma, e le risposte agli eventi traumatici sono considerate “overwhelming”, cioè schiaccianti e sovra-rappresentate, per cui la frammentarietà dei ricordi e l’impossibilità di costruire un plot coerente degli accadimenti infausti sono le conseguenze più immediate delle disfunzioni ippocampali.

3.

È stato ancora una volta Jerome Bruner a distinguere le “narrazioni descrittive” – che noi riferiamo a eventi di routine – dalle “narrazioni esplicative” o explanatory accounts (prima della modernità, si chiamavano racconti eziologici), cui ricorriamo dinanzi a eventi fuori dall’ordinario, e sono questi secondi accounts che cercano di dare ospitalità ad accadimenti traumatici (Crespo, Fernández-Lansac 2016). In questo caso, lo sappiamo, le narrazioni possono risultare incolori e frammentarie, decolorate, prive di componenti emotive al limite dell’alessitimia, immerse in una flessione temporale spesso al presente – proprio in quanto l’evento traumatico persiste sino al limite della sopraffazione del soggetto. Cosa accade nel cervello? La catena tayloristica ci dice che normalmente l’amigdala registra l’emozione, mentre l’ippocampo integra le nuove informazioni negli schemi pregressi e procede per assestamenti progressivi; se tuttavia l’esperienza è traumatica, essa resta per

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così dire incollata all’amigdala e l’ippocampo non riesce ad archiviarla. Il trauma non si traduce in una sequenza narrativa crono-causale, ma resta un agglomerato somatosensoriale. In un importante contributo sugli Healing processes in trauma narratives lo psicologo D. Kaminer è partito da questi inoppugnabili dati per sostenere che l’organizzazione ottimale di un retelling terapeutico debba necessariamente passare attraverso un duplice processo di visualizzazione e abituazione all’ansia: in pratica, ogni soggetto post-traumatizzato deve trasformare in un film il trauma e poi ripeterlo molte volte per mitridatizzarsi all’ansia (Kaminer 2006: 481 ss.). Il problema è tuttavia come guidare un

retelling in grado di dare vita a una trama coesa e integrata, e proprio in relazione a questo

interrogativo Kaminer ha raccolto molteplici test per arrivare a identificare cinque sotto-processi rilevanti nel fenomeno del retelling post-traumatico.

(i) Catarsi emotiva - Il ricordo e il racconto dettagliato di un’esperienza traumatica facilitano il rilascio emotivo (re-tell+re-live), poiché da un livello inconscio si passa a una processazione conscia e intenzionale di tale esperienza.

(ii) Rappresentazione linguistica - La maggiore difficoltà consiste in questo shift dall’accezione somatosensoriale del trauma a una sua traduzione logico-discorsiva: i ricordi di chi soffre di sindromi post-traumatiche non sono altro che frammenti sensoriali, inattingibili dalla parola, per cui i pazienti devono recuperare il plot del trauma tramite una rappresentazione linguistica in cui si intreccino componenti affettive, cognitive e sensoriali. Già Janet affermava come la memoria giocasse un ruolo centrale nell’organizzare qualsiasi dato derivante dall’esperienza, permettendo di categorizzare e integrare elementi meramente sensoriali in schemi coerenti di significato. Da un lato abbiamo le esperienze descrittive, familiari e pre-conosciute, le quali si inseriscono automaticamente nel nostro archivio mentale, dove sono raccolti tutti i frames, mentali, dall’altro le esperienze dolorose, che risultando nuove e in alcun modo assimilabili all’archivio mentale pre-esistente devono subire un processo di accomodamento, in base al quale il trauma viene per così dire adulterato per renderlo il più simile possibile alle esperienze di routine.

Se Piaget sosteneva che quando un’esperienza è ritenuta particolarmente differente dalle altre, essa sfugge alla categorizzazione cognitiva e viene quindi sedimentata a un livello somato-sensoriale, irraggiungibile dalla ragione e dal discorso, oggi gli studiosi hanno aggiunto una spiegazione neurobiologica di questa inidoneità: infatti va ricordato come l’amigdala sia responsabile delle informazioni sensoriali in arrivo e del loro significato, mentre spetta all’ippocampo l’integrazione delle informazioni nuove con quelle pre-esistenti, ed entrambe queste due regioni anatomiche si occupano del processamento neuro-anatomico delle emozioni. Ebbene, l’attivazione troppo intensa (arousal) dell’amigdala può interferire con il funzionamento dell’ippocampo, e dunque danneggiare il ricordo di un evento. Uno studio in neuro-imaging ha addirittura evidenziato che il richiamo di alcune memorie traumatiche causa un deficit attivazionale dell’area di Broca, fondamentale per il processamento del linguaggio e per la riorganizzazione narrativa di un evento traumatico (Rubin 2011; Römisch et al. 2014; McKinnon et al. 2017)

(iii) Abituazione all’ansia - Il processo di re-telling in ambiente sicuro e protetto facilita il recupero psicologico tramite un processo di “abituazione” all’ansia legata al trauma vissuto: è provato che l’esposizione continua allo stimolo negativo provochi una sua riduzione, benché naturalmente il caregiver deve far accedere il soggetto traumatizzato alle emozioni negative in modo

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graduale e controllato. Le tecniche più utilizzate sono quelle della visualisation e della relaxation, in base alle quali i pazienti vengono invitati a visualizzare l’elemento traumatico e a viverlo in modo più distaccato: entrambe le tipologie di esposizione al trauma favoriscono la creazione di una rappresentazione linguistica e creano lo spazio ideale per il rilascio emotivo tramite la rottura della relazione, creatasi precedentemente, tra ricordi traumatici e ansia (Van der Kolk et al. 2001).

(iv) Empatia - Raccontare la propria esperienza traumatica a un’altra persona favorisce il percorso di guarigione, poiché se il trauma risulta rielaborato con qualcuno si rafforza il legame tra l’individuo e la community of listeners (Nelson 2003).

(v) Narrazione esplicativa - Sviluppo di un racconto esplicativo. La produzione di una narrazione esplicativa del trauma a livello cognitivo (explanatory account) favorisce la sua rielaborazione e, infine, la sua sostanziale accettazione (Pennebaker, Seagal 1999).

Ora, i sintomi tipici del PTSD (la continua ri-esperienza del trauma, l’evitamento degli stimoli che ricordano l’evento negativo, una eccessiva attivazione del sistema di arousal) possono derivare da molti episodi traumatici, ma uno dei più diffusi è l’incidente automobilistico, nel corso del quale ad esempio l’80% dei bambini sviluppa una sindrome post-traumatica. Cosa accade nel corpo di questi bambini traumatizzati? Una ricerca del 2004 ha analizzato attentamente i valori endocrini di un gruppo sperimentale di bambini e adolescenti tra i 7 e i 18 anni che erano stati investiti da una macchina e che avevano avuto almeno un giorno di ricovero ospedaliero, mentre il gruppo di controllo era formato da bambini coetanei senza PTSD e senza disordini genetici o endocrini. Lo studio è durato due anni (Maggio 2002-Dicembre 2004) e si è basato su tre valutazioni (iniziale, dopo 1 mese e dopo 6 mesi), riscontrando come il livello di cortisolo (ormone prodotto dalle surrenali per far fronte allo stress) e di noradrenalina (un neurotrasmettitore che viene inoculato ad es. dopo i collassi cardiovascolari) aumenti a dismisura nella settimana successiva al trauma, decrescendo poi con l’attenuarsi dei sintomi e il passare del tempo. Anche qui, le competenze narrative dipendono dal sistema endocrino: il grado di attenzione focale agli eventi e la memoria di essi dipendono infatti dalla noradrenalina (Tuval-Mashiach et al. 2004).

Per comprendere meglio quanto si decostruiscano le competenze narrative in chi soffre di PTSD, bisogna per un istante tornare al modo in cui nel corso dell’esistenza si formano ed evolvono quelle stesse competenze, essenziali per ottenere un Self stabile e insieme flessibile nel tempo. Già, che cosa produce l’idea che io sia io? La continuità, e la continuità si ottiene solo attraverso una strategia narrativa in cui le azioni del mondo esterno sono incessantemente correlate all’individuo che ne è spettatore o attore. Insomma, come ha detto lo psicologo americano Dan McAdams, noi siamo delle antologie di storie, in quanto ogni life-story è da considerarsi una narrazione autobiografica selettiva che modella gli avvenimenti significativi della vita, li mette in memoria fino a costituire l’impalcatura (scaffolding) dell’Io e continua a inserire nuovi capitoli in questa antologia (McAdams 1996). La nostra storia costituisce un framework che permette di selezionare eventi coerenti con la propria identità (self-event connection) e di creare un legame significativo tra passato, presente e futuro, dove si può procedere dal positivo al negativo (con le cosiddette contamined

narratives, cioè il racconto di fallimenti) o dal negativo al positivo (con le cosiddette redemptive narratives, cioè il racconto di successi, predominanti nella cultura nord-americana) (McAdams 2006).

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se fossero staccati da noi, o meglio come se noi e l’evento fossimo indistinguibili e non ci fossero intenzioni, schemi volizionali, calcoli predittivi, determinazione degli scopi; nell’adolescenza iniziamo a correlare una singola azione al Self, in modo tale che ci sia un riconoscimento positivo o negativo tra il soggetto che compie/subisce un’azione e l’azione stessa; nell’adultità infine giungerebbe a compimento la capacità di correlare il Self a costellazioni intere di eventi (vedi tabella 1).

Infanzia (0-11 anni)

Che evento ho vissuto?

Ruolo dello scaffolding: i soggetti tendono ad imitare i propri genitori nella creazione di narrazioni personali.

 Capacità di organizzare descrizioni a partire dai propri self-attributes (“Sono bravo”, “Sono gentile”), dei propri gusti (“Mi piace”) e dall’ordine temporale.

 Capacità di narrare un singolo episodio alla volta tramite la struttura narrativa problema-risoluzione, ovvero tramite una prospettiva valutativa.

Utilizzo della local coherence: ci si preoccupa solo della coerenza dell’evento singolo.

 Scarsa capacità di integrazione: esperienze narrate a partire dall’ordine temporale e da un angusto ancoraggio spazio-temporale.

 Narrazione di unità d’azione generiche e non specifiche: le prime integrazioni tra scripts avvengono intorno ai 5 anni.

 Capacità di ordinare elementi legati solamente alla quotidianità: dai 4 agli 8 anni si ricordano eventi recenti (estate, ieri), dopo gli 8 anni eventi significativi (ad es. il Natale).

 Produzione di racconti che non attivano riferimenti al contesto normativo e culturale. Adolescenza (dai 12 ai 19 anni)

In che modo il passato ha influenzato il presente? In che modo le esperienze che ho vissuto hanno influenzato il Self?

Creazione della lifestory, intesa come unione coerente di eventi significativi.

 Sviluppo di strumenti cognitivi idonei e necessità di rispondere alle domande sociali

self-typical.

Costruzione dell’identità, intesa come

life-story che attribuisce senso agli eventi tramite un

processo continuo di meaning-making, self-understanding, self-continuity.

 Capacità di creare legami tra evento e caratteristiche del Self (“In che modo questo evento mi ha cambiato?”).

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 Inserimento degli eventi nel quadro complessivo della vita (“In che modo questo avvenimento influisce sulla mia esperienza?”).  Sviluppo della global coherence, che coinvolge vari livelli di significato.

 Sviluppo della capacità di connettere momenti diversi in una sola narrazione, grazie all’utilizzo di connettori temporali corretti.

 Utilizzo del background culturale di riferimento per valutare le azioni secondo canoni prestabiliti.

 Sviluppo della coerenza causale:

interpretare le azioni dei soggetti in base alle loro intenzioni.

 Sviluppo della coerenza tematica: capacità di riassumere, interpretare e ricorre al pensiero metariflessivo (“penso, credo ecc”.).

Età adulta  Costante aumento delle riflessioni

autobiografiche sul Self.

 Massima attenzione ai canoni culturali (“Come devo esprimermi? A quali regole devo attenermi?”).

 Senso sincronico della narrazione (l’individuo si percepisce in diversi modi a partire dai ruoli o dai compiti) e diacronico (si percepisce come diverso in momenti differenti della storia), con una continua integrazione tra i due livelli.

 Gli obiettivi e le emozioni guidano il processo della memoria: si racconta solo ciò che ha un valore emotivo alto e che persegue gli obiettivi del soggetto.

Terza età  Declino della self-event connection, ovvero

delle relazioni tra eventi e Self.

 Riflessioni identitarie che privilegiano la

self-stability (caratteristiche stabili del Self).

 Più ci si allontana da un evento, più lo si ricorda facendolo assomigliare a frames e scripts prototipici.

Tab. 1. Il narrative development nell’ontogenesi (Pasupathi et al. 2007).

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Proviamo a concludere. Per allenare le competenze narrative dei malati, è stata Rita Charon (2006) a proporre di farli lavorare su cinque componenti strutturali: Frame (lo scopo della storia, il perché di

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quello che è accaduto, cosa va evidenziato nel racconto), Form (la struttura sequenziale del racconto, la posizione del narratore e il linguaggio), Time (l’ordine del racconto e il lasso di tempo preso in considerazione), Plot (quali eventi sono narrati, e secondo quale logica causale), Desire (la narrazione è “servita” a qualcosa?). Nel caso di eventi traumatici questo allenamento non può essere affrontato, in quanto il frame è parziale, l’organizzazione formale del tutto implausibile, l’arco temporale frammentario, l’intreccio bloccato su alcuni ricordi somato-sensoriali, e il desire addirittura utopistico (Robertson, Clegg 2017).

A fronte dell’incapacità di accettare un trauma, le vittime preferiscono affidarsi alla memoria narrativa (plot) anziché a quella traumatica (fabula), e poiché in molti casi la memoria narrativa è costituita da schemi e script normotipici, letteralmente il trauma non rientra nei canoni di una narrazione: non fa racconto (Oatley 2011: 65). Affinché la memoria traumatica sia ripristinata è necessario che venga innescato un elemento dell’esperienza traumatica, cui è probabile seguiranno altri elementi in grado di ricostruire il ricordo reale dell’evento: questo innesco è spesso l’incipit della storia, da cui possono discendere con naturalezza gli episodi successivi, in modo tale che i frammenti della narrazione siano messi in ordine sequenziale per costruire una fabula (Mar et al. 2006: 694 ss.). Da un punto di vista narratologico si può dunque ipotizzare di procedere su due piani strettamente correlati:

(i) Il recupero del piano cognitivo: si riordina l’intreccio (la memoria narrativa) grazie all’apporto di materiale diegetico che non si riferisce direttamente al trauma subìto, per cui l’individuo non è sottoposto allo stress di confrontarsi direttamente con il ricordo effettivo del trauma, ma allo stesso tempo si esercita a ricostruire il proprio racconto seguendo un ordine logico-sequenziale che si avvicina alla realtà dell’evento accaduto.

(ii) Il recupero del piano emotivo: si fa leva sull’esperienza di simulazione incarnata che i testi narrativi rappresentano per il lettore, in modo tale da ricostituire la parte emotiva del trauma, aggiungendo ricordi fisico-percettivi al nuovo racconto in fase di ricostruzione.

Benché la narratività abbia un radicamento di lunga data nella psichiatria e nella neurologia, da semplice descrizione di uno status clinico le sue funzioni si sono recentemente evolute verso la vera e propria cura dei pazienti: certo, già nella medicina clinica ottocentesca, grazie a Sir William Osler, la storia del paziente aveva assunto un rilievo incontestabile, ma nella psichiatria diventa addirittura imprescindibile: l’unico modo per riuscire a individuare una patologia psichica è infatti attraverso la narrazione del paziente. Ma queste sono life narratives, storie ordinarie e “vere” (Aubry 2011: 125).

Ma davvero tutto si può curare attraverso diete narrative sotto stretta sorveglianza medica? Affabulare cura tutti i mali? Come si è visto dalle sperimentazioni molteplici citate in questo articolo sono in molti a crederlo, e a un livello meta addirittura alcuni studiosi hanno, come dire, fondato il partito dello Strong Narrativism, a cominciare dal filosofo Anthony Rudd, secondo il quale nessuna narrazione breve riferita a micro-azioni (short-term narrative) sarebbe comprensibile senza una cornice di riferimento macro-narrativa (long-term narrative). Semplici scripts quotidiani come bere un caffè non si comprenderebbero se non entro un più ampio frame, in cui una tazzina di caffè attiva ricordi autobiografici, segnala una costante quotidiana, si associa ad altre azioni (ad es. una pausa lavorativa con i colleghi), diviene un rito comunicativo (“quand’è che ci prendiamo insieme un

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caffè”) e al tempo stesso racconta una storia (nello specifico, quella della scoperta e colonizzazione del nuovo mondo tra Cinque e Seicento, tale da mutare le abitudini degli europei): per essere decodificato e compreso, anche in modo preterintenzionale, tutto va inserito in un framework che ne permetta la contestualizzazione (Rudd 2009: 60-75; Ruud 2012: 34 ss.). Solo un poco più moderata l’opinione di Marya Schectman, convinta che le narrazioni costituiscano sì la base della comprensione, ma che non tutte le azioni richiedano una cornice narrativa di riferimento: riprendendo la distinzione tra approccio diacronico e sincronico la Schectman afferma che chi vive un’esperienza narrativizzando gli eventi e inserendoli in una cornice più ampia appartiene alla modalità di ragionamento “person”, mentre chi adotta una modalità sincronico-episodica ragiona maggiormente come “self”, quindi come essere a sé stante: in questo secondo caso, gli eventi non sono altro che set di esperienze e circostanze. Diversamente da Ruud, la studiosa sottolinea come la capacità di istituire una self-narrative sia indispensabile in entrambi i casi, benché cambi radicalmente il modo in cui essa viene utilizzata, risultando fondamentale solo nel primo caso, dove di fatto coopera a organizzare cognitivamente l’esperienza e a formattare emozionalmente l’individuo (Schechtman 2007: 165; Schechtman 2011: 400 ss.).

L’obiettivo di Daniel D. Hutto, studioso assai noto di “psicologia filosofica”, è invece quello di proporre una valida alternativa alle tendenze estremiste degli ultimi anni, che vedono nella narrazione una costante fissa nella comprensione delle esperienze di vita, e a tale proposito egli ha proposto il concetto di narrazione auto-formativa (narrative self-shaping) (Hutto 2016: 21 ss.). Per chiarirlo, Hutto fa notare come lo strong narrativism concepisca l’uomo come un autore di romanzi, disponendo sino in fondo di un libero arbitrio in base al quale la vita diviene una trama (un plot) di eventi legati per via narrativa, ed è proprio questo plot a favorire la comprensione del mondo e i processi adattivi a questo mondo. Hutto nota quanto sia diversa la nostra concezione — l’uomo è un narratore che scrive la propria storia man mano che la vive, con continue correzioni di rotta — da quella ad esempio di Shakespeare, per il quale il mondo era un palcoscenico e l’uomo un attore/spettatore, dipendentemente dal momento. Di qui Hutto ricava la certezza che ci sia un legame consolidato tra comprensione narrativa degli eventi e possibilità di auto-modellarsi

(self-shaping) in base ad essi: gli individui si auto-modellano sulla base delle decisioni prese, degli eventi

che accadono e insieme di elementi pre-definiti quali le caratteristiche genetiche, le abitudini ecc. (Hutto, 1997; Rudd, 2012).

Ora, se il processo di self-shaping prevede l’utilizzo della ragione, in quanto è grazie ad essa che la narrazione può attribuire significati agli eventi esterni, l’agire in modo autonomo e razionale si lega direttamente alle competenze narrative. Di qui il modello cosiddetto NSSH (Narrative Self

Shaping Hyphotesis), secondo cui gli individui agiscono sulla base di un obiettivo e questo obiettivo

viene compreso per via narrativa, ed è sempre in base a una competenza narrativa che gli individui valutano e ponderano le scelte, riflettono sulle proprie caratteristiche, valutano le peculiarità della situazione e collegano gli eventi passati a quelli futuri. Insomma, per Hutto le narrazioni personali sono una parte essenziale ma non l’unica del processo di self-shaping individuale (Hutto 2007: 45).

Se l’assunto fondante dello Strong Narrativism è il legame indissolubile tra self-understanding e

narrative-understanding, e cioè il fatto che l’unica modalità per comprendere se stessi sia la

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Self), molti non condividono l’idea che l’individuo sia un produttore di autofiction, innanzitutto perché non tutti gli individui adottano una modalità di comprensione della realtà di tipo narrativo ma adottano paradigmi meno olistici analizzando solo singole parti o frammenti di storie, oppure abbandonandosi a un flusso ininterrotto di azioni ed eventi (ongoing story), privo di una trama coerente ma non per questo illeggibile. Sono questi gli strali che il filosofo britannico Galen Strawson ha indirizzato ai teorici dello strong narrativism, nella convinzione che a inaugurare l’idea in base alla quale gli individui vivono la propria esperienza come un continuum narrativo e che gli eventi quotidiani non siano se non tappe di questo percorso e dunque antologie di short stories sia stato Jerome Bruner (Strawson 2004: 435; Strawson 2007: 85 ss.). Strawson ha coniato l’espressione “anti-narrative tendency” per riferirsi alle attitudini di quegli individui che non concepiscono il processo di comprensione come una dimensione diacronica, che osservano i fatti in sé e per sé, che non istituiscono legami tra il passato e il futuro (come accade in ambito scientifico), che non si considerano proprietari di un’identità permanente ma incessantemente mutevole. Per questi oppositori dello Strong Narrativism, si capisce bene, i traumi non solo non possono essere raccontati, ma costituiscono la prova che non tutto nella realtà è addomesticabile in forma di narrazione (Goldie 2012).

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Figura

Tab. 1. Il narrative development nell’ontogenesi (Pasupathi et al. 2007).

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