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Alle basi dell’Orientalistica. Il Bailo G.B. Donà, (1627-1699) le sue attività diplomatiche e culturali

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Alle basi dell’Orientalistica. Il Bailo G.B. Donà, (1627-1699) le sue attività diplomatiche e culturali (Giampiero Bellingeri, Venezia)

Nelle stratificazioni dell’assiduo riesporsi dell’immagine istituzionale paradigmatica, che la Repubblica Serenissima intendeva offrire di sé, (e del proprio governo, “soave”, biblico), andrebbe individuata e contemplata l’idea, dolorosa e vagheggiata, di un proprio diritto, perduto o negato, alla Prelazione da esercitarsi su Costantinopoli-Istanbul, quel Luogo straordinario del mondo e della mente, per via di filiazione e di conquiste franco-venete devastanti, avvenute nel 1204. Considerava, rimuginava infatti il futuro Doge Lunardo/Leonardo Donà (1536-1612, avo del nostro Giovanni Battista, e nel 1577 Ambasciatore a Vienna), ammirato degli scorci paesaggistici di Costantinupoli/Istanbul, di nuovo in veste di Ambasciatore straordinario sul Bosforo, e preso nelle pieghe dei pensieri durante la sua passeggiata metropolitana, sabato 18 novembre 1595:

“Tra questi Stati (ottomani) alcuni sono dotati dalla natura di così belli, comodi, utili et delitiose condizioni, che quando fussero governati bene, et che il loro Principe attendesse alla loro coltivatione et aumento, cosa che questi Signori Ottomani non fanno, si potriano chiamare il Paradiso terrestre del mondo”.1

Ciò appena accennato, (in modo ellittico, nel verso astrologico-sintattico), ritorniamo alle vicende storiche successive, in particolare agli esiti di un incidente occorso durante il suo Bailato a Giovanni Battista (di Francesco,1627-1699) – già onorato, avvezzo alle cariche più impegnative, soprattutto militari, e impegnato nelle battaglie in mare contro i Turchi (1650).

“Dunque è già deciso non esser stato in me difetto, né libero volere l’effetto della violenta volontà de’ Barbari. Ragione ben è che io spero d’esser restituito alla Casa, a’ figlioli, et a me stesso, e redento all’honore. Alle Fortune, alla Patria (...). Questo è il titolo degno dell’alto Fastigio de’ Principi. Questo è il più luminoso rimarco della Potestà a loro comunicata da Dio, cambiare su gl’huomini l’influsso di stelle infauste, et abolire i decreti del Fato inclemente”. 2 (Difesa, cc.

105v-106r-106)

Giovanni Battista di Nicolò di Francesco Donà (1627-1699), nell’estate del 1684 imprimeva questa chiusura “astrale” alla stesura e lettura della propria Difesa. Con tali espressioni, egli riconosceva la Potestà dei Principi, concessa loro da Dio; potestà in grado di sapere e volere mutare gli influssi nefasti esercitati dalle stelle sulle sorti infelici degli uomini. Accusato di atti arbitrarii, e presto scagionato, egli veniva così a opporre l’altezza di nobili prìncipi muniti di Fastigio agli ignobili sovrani e ministri barbari oscuri, inclementi, come il Fato.

1 Biblioteca Museo Correr, Venezia (in seguito;BMC), Ms Donà delle Rose 23, ( “Dello Itinerario della mia Ambasceria di Constantinopoli, libretto secondo: contiene il cammino per terra dal Borù à Constantinopoli ... 1595”, di Lunardo/Leonardo Donà), la sezione intitolata “Delli Stati, forze, denari et del Sito di Constantinopoli, opportunissimo all’Imperio d’Oriente”, cc. 288-290v. Cfr. Il viaggio di Leonardo Donà Ambasciatore della Repubblica Veneta,

nell’anno 1577, Diario trascritto ed annotato da Umberto Chiaromanni, Padova, Cleup 2004. Inoltre vd. F. Seneca, Il Doge Leonardo Donà. La sua vita e la sua preparazione politica, Padova, Antenore 1959

2 Biblioteca Nazionale Marciana, Venezia (in seguito: BNM), Mss. it, cl. 7, 229 (=8829), Difesa di GB Donà, (cc. 88r-107v), cc 101-106. In seguito, tra parentesi, dopo la citazione: Difesa, seguita dal n. delle carte

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Notiamo come la definizione di “barbari” fosse ancora usuale, sia pur nelle strozzature delle tensioni: tal quale sarebbe rimasta precisa, sebben attenuata dallo stesso Donà, la distinzione fra “noi” e “loro”, nel gran contesto culturale in cui ebbe ad agire, a creare, ad esprimersi, quel patrizio veneto di spessore. G.B. Dona’ non citava certo a caso, o per retorica, il corso di quegli astri. Li chiamava, confidente e cosciente, in soccorso, giusto in causa, grato al divino, provvidenziale intervento su quelli e sulle proprie scelte, e per la potestà di raddrizzare il corso delle stelle concessa ai propri giudici illuminati. Una delibera del maggio 1683 (si noti quanto fossero stringenti e intrecciati, intricati, l’approssimarsi e l’assedio a Vienna delle immense armate ottomane e le accuse del Senato veneto mosse al proprio bailo Donà richiamato nella Dominante, per essere giudicato) lo accusava di aver abusato del potere conferitogli dall’alta posizione occupata, nella soluzione assai delicata della questione insorta a Zemonico. Stando alla voce esagitata e amplificata ad effetto sul Bosforo, nel settembre del 1682, in questa località al confine turco-veneto, a ridosso di Zara, e in territorio ottomano, i Morlacchi, irrequieti sudditi della Repubblica, e da questa e da Vienna istigati, avevano superato il confine e “data morte a 217 Huomini, e 7 Donne del Gran Signore, nelli confini dell’Impero”. S’imponeva quindi che “dovessi (io, G.B. Donà), ò subito far venire qui 224 de’ Nostri direttori et esecutori di tanto male per esser decapitati alla presenza di Sua Maestà, ò dargli ordini risoluti perché fosse così eseguito in faccia dell’esercito, che sarebbe mandato dal Primo Visire alli Confini, et che dovessi allestirmi a comparire in Divano (Sala del Consiglio Imperiale) per giudicarsi la quantità del danno, il pagamento del quale doveva essere

immediate” (Difesa, 97 r).

La notizia del grave incidente su quei confini era giunta solo un paio di mesi dopo l’evento al Rappresentante di Venezia presso la Sublime Porta, assediato da varie difficoltà di comunicazione, e da intralciati, inibiti scambi di pareri con la Dominante, nonché dalle minacce turche. Il Bailo era insomma comprensibilmente scosso dal senso del pericolo del fallimento di una missione pur partita sotto i migliori auspici. Inaugurata appunto fra i segni apparenti di una reciproca fiducia che lasciava ben sperare la Repubblica, la cui attenzione restava però disturbata dai movimenti di truppe che irrigavano i Balcani. Ovviamente, assistiamo al rigetto dell’accusa, ritorta a oriente attraverso la versione “più vera” – quella che individuava nei Turchi i colpevoli di vessazioni intollerabili e incendi appiccati alle case in terra morlacca per intimidire i locali ed impadronirsi dei loro campi ed averi. Ma da parte della Serenissima si ingiungeva altresì al Bailo di operare “... per aggiustare l’affare con vigore, valendovi de confidenti per insinuare dolcezza ne’ trattati, e per levare le male impressioni che potessero esser state fatte nell’animo del Primario Ministro, usando tutta l’applicatione e studio per terminare brevemente questo Negotio, servendovi anco de’ soliti mezzi utili con Turchi, se li crederete necessarij, acciò sia prontamente posto il Negozio in silentio, nel che sarà sempre utile la celerità nell’operare, acciò il tempo non inasprisca maggiormente gli animi” (Difesa, c. 89 r).

Contestualmente, si voglia considerare l’abilità del Primo Vizir (“huomo di cui la Turchesca alterigia non hebbe il più fiero e sprezzante”, Difesa, c. 91r), pronto a cogliere al balzo l’occasione dell’incidente per garantire - a se stesso, ai ministri amici, nonché al Tesoro imperiale - un cospicuo finanziamento a spese della Repubblica, fino a quel momento neutrale, ma sospinta a reagire, schierandosi al fianco, ma un pochino in disparte, delle forze cristiane. Tempi convulsi, e animi, astri opachi, avversi, inaspriti. “E che mai si poteva fare da me, per fornire il Negocio col Pubblico desiderato vantaggio, e che non si habbia posto ad effetto?” (Difesa, cc. 93v-94r), chiedeva ai suoi

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Giudici il Donà, accusato di aver agito nell’eccesso, nell’abuso, nell’imprudenza. Effettivamente, il Bailo si era trovato costretto a sborsare 250 mila Reali, suddivisi in centinaia e centinaia di borse, ognuna gonfia di 500 Reali veneziani, ricorrendo anche ai prestiti e contributi dei mercanti connazionali presenti sul Bosforo. Ma il Donà stesso si sarebbe dato risposte, ammettendo, netto: “Non mi fu possibile terminarlo (il negoziato) con minor esborso di quello seguito (...). Tali furono, Serenissimo Principe, gli accidenti amari e spinosi e le inevitabili angustie nelle quali, servendo la Serenità Vostra in quell’ardua congiuntura io fui agitato” (Difesa, c. 99r-100v). E il bailo elencava gli esempi e i casi analoghi di pesanti esborsi da parte del Moscovita, della Polonia, dell’Imperatore, di Francia, Inghilterra, Olanda, e della Patria! Sempre al fine di evitare la guerra. Rinchiuso nelle prigioni delle Sette Torri, impossibilitato a comunicare, ad avvertire in anticipo la Serenità del Doge, né il Senato, in piena e angosciata coscienza, egli decideva e si assumeva quella gran responsabilità, posto che “non altro che le parole, ò profferite, ò scritte, sono interpreti della mente come de’ privati casi de’ Prencipi. Così addita Natura, che ha voluto Iddio (...). Dunque, havendolo terminato [quel negozio], e con la forma unicamente possibile ridotto in silentio, ho ubbidite, e non eccedute le Commissioni. Dunque è già deciso non esser stato in me difetto, né libero volere” (Difesa, 100v-105v).

Con simili “parole”, riportate fin dall’esordio di questo intervento, egli riguadagnava la libertà, l’onore, la stima, e l’agio del sostegno di tanti e potenti amici, per il conseguimento di nuove, alte cariche: non prima però di aver letto in Senato la propria Relazione (20 agosto 1684). Richiamato in Laguna, nel febbraio del 1684, il Bailo3 era ritornato per la via più sicura del mare, evitando di imbattersi in scorribande di soldati ottomani respinti da Vienna e smarriti, dispersi nei Balcani: in viaggio, persuaso della prossimità della guerra, aveva compiuto osservazioni logistiche, strategiche (movimenti e organizzazione delle forze ottomane), ed astronomiche, con l’occhio vigile di un “Argonauta”. Dopo il soggiorno nel Lazzaretto, si era presentato alle carceri, per essere poi, malato,

3 Bailo è titolo che è ricorso frequente, fin qui.; è titolo antico. Si tratta di un nome che definisce i tratti specifici della figura e della carica del Rappresentante della Serenissima Repubblica presso la “Sublime Porta (Bab-ì ‘ali). Designa al contempo il Console, il protettore, secondo il “Capitolo”, ossia gli accordi degli interessi dei sudditi veneti nella Polis. Tante le competenze di una carica che precede la fondazione dell’Impero Ottomano: risale infatti all’XI secolo, e si ridefinisce nello statuto nel 1268, dopo la riconquista bizantina della Città, ad opera di Michele Paleologo (1261). Il

Bailos era dunque già Rappresentante di Venezia con il Basileus. Tra i suoi compiti rientravano la nomina dei consoli

nelle parti superstiti dello stato bizantino, il controllo contabile. Inoltre, assistito da due Consiglieri, nominava i membri del Consiglio dei 12 notabili, addetto ad assumere decisioni importanti. Dunque, è una personalità di prestigio, preminente fra i rappresentanti europei.

Con la conquista turca, si assiste ad alcune modifiche apportate allo statuto e ai compiti del Bailo. Giovanni Minotto, ultimo bailo presso i Bizantini, è giustiziato dai Turchi. Nuovi accordi sono siglati tra i due Stati: il Bailo mantiene le sue antiche prerogative, ma viene limitata la durata della sua carica a un solo anno; per di più, ai compiti suoi, si aggiunge il pesante incarico del riscatto degli schiavi.

All’inizio del regno di ogni sovrano si rinnovano i privilegi, fissati nel Capitolo: operazione che richiede l’andata a Istanbul di un Ambasciatore straordinario. Migliorie si ottengono nel 15°-16° secolo: il bailo risponde delle proprie azioni solo in Divano (Gran Consiglio Imperiale). I mercanti veneti sono ufficialmente tutelati davanti al Cadì.

La gestione finanziaria al bailo delegata prevede: il suo riconoscimento come capo del Bailaggio, il Cottimo alimentato dalle tasse, tra lo 0, 5% e l’1% sulle transazioni da Venezia e per Venezia. Spetta a lui, inoltre, la custodia della Cassa, alimentata dal Senato. Quando regna la pace tra i due Stati, egli riceve un trattamento di favore: il Bailo, attraverso i propri uomini, trasmette spesso notizie attendibili su ciò che accade in Europa. Si osserva dunque la credibilità del personaggio, in più di tre secoli di relazioni, in epoche differenti, mutevoli, soggette ad alterazioni forti. Ma i baili sono anche incarcerati (guerra di Candia ...). Vero è che, dal 17 secolo, con la decadenza dei due stati, anche il Bailo non primeggia più fra i capi delle diplomazie occidentali: a emergere saranno i rappresentanti delle altre potenze (Francia, Inghilterra, Imperiali). Si rinvia a Bruno Simon, I rappresentanti diplomatici veneziani a Costantinopoli, in A Tenenti (a c. di), Venezia e i Turchi. Scontri e confronti di due civiltà, Milano, Electa 1985, pp. 56-6; Tommaso Bertelé, Il

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rinchiuso e coatto in Palazzo Ducale, il 29 maggio di quell’anno 1684. Si pensi: in un altro 29 maggio, del 1453, Mehmed II, il Fātih, il Conquistatore, aveva “liberato” Costantinopoli dagli imperatori di Bisanzio, assegnando alla città un altro, ma non tutt’altro, nome, sempre di sapore greco, e di ineludibile “Polis”: Istan-bul. Ma da quale “clima”, da quale Paese, da quale immersione nelle correnti del Bosforo era ritornato il Bailo? A proposito di Impero e della sua Capitale, un autore ottomano quasi coevo, di laggiù, osservava critico: “ (...) la carestia domina il mercato della scienza; per lo scarseggiare di gente capace, modesti novizi che hanno studiato in provincia, in paese curdo, qua e là, secondo il buon ordine antico, vengono ad insegnare a Costantinopoli con grande sussiego”.

Tanto scriveva, “a denunziare il decadimento del mondo accademico della Capitale, Mustafa, figlio di ‘Abdullah (il nome paterno era di quelli usati dai rinnegati, detto Kātib Çelebi (1600-1657), era costui un irregolare della cultura, suo il titolo di Haji Khalifa, sotto il quale fu conosciuto in Europa”.4

Autore noto anche al Donà, Kātib Çelebi, alias Hagi Khalifa, Mustafa ben ‘Abdullah (1609-57). Si coglie nelle sue opere una acuita sensibilità al bisogno di attrezzarsi secondo le tendenze e le esigenze dei tempi. Sensibilità stimolata comunque dal confronto, da un modello, ossia da un rapportarsi all’altro. Un “altro” che, in questo caso, impone al tema il passo, il motivo seguente, a proposito di attitudini venete, esemplari seppur “da infedeli”. Sempre in un trattato di Kātib Çelebi, si legge infatti: “(...) e quand’anche non si fosse ben introdotti nelle conoscenze delle condizioni del globo terrestre intero, bisognerebbe almeno avere ben presente la situazione dei Paesi Ben Protetti [l’Impero ottomano] e la conformazione delle confinanti contrade dattorno, cosicché nel momento in cui si renda necessaria una spedizione militare in una qualche direzione, ci si prepari secondo le esigenze, e con quelle cognizioni sia agevole entrare nella terra nemica, e provvedere alla custodia attenta delle frontiere (...). I Veneziani – spregevole squadra banda? raminga e smarrita, che fra i sovrani infedeli occupano il limitato grado di duca, noti fra i miscredenti col nomignolo di «pescatori» - sono arrivati alla Gola [agli Stretti] del Ben Custodito Dominio, contrastando [durante la guerra di Candia, 1645-1669] uno Stato di gloria oltremodo eminente, che esercita il proprio dominio su Oriente e Occidente”.5

4 A. Bombaci, La letteratura turca, Firenze-Milano, Sansoni-Accademia 1969, p. 367.

5 Si traduce da BNM, Cod. or. XCVII (33): Kātib Celebi, Tuhfet ul-kibār fī esfār ul-bixār, pp. 4-5, (De Geographia

Liber Constantinopoli impressus ab Ibrahim Ephendi, Hegirae 1141, rectius “Omaggio ai grandi delle spedizioni

navali”, ossia “Storia delle battaglie navali ottomane fino al 1065/1654-1655”, in seguito: Tuhfet…. Presso la Biblioteca Marciana si veda anche un’altra copia del codice in questione (che rientra nel novero delle prime opere stampate nella Tipografia di Ibrahim Müteferrika, a Istanbul, nel 1728: BNM, Cod. or. CLXVII (48). Sempre nella Biblioteca di San Marco si segnala la presenza della copia ms. di un altro lavoro di Kātib Celebi/”Hazi Halifa”/Mustafa ben Abdullah: Cod. or. CXXIX (8), “Mustafa ben Abdallah, Tabulae Chronologicae, Codex exaratus anno 1661” (ma l’opera, intitolata in ottomano Taqvīm al-tevārīx (“Cronologia”), risale all’anno 1058/1648). Di tale codice abbiamo una importante traduzione italiana: Cronologia Historica, scritta in Lingua Turca, Persiana ed Araba da Hazi Halife Mustafa, e tradotta nell’idioma Italiano, da Gian Rinaldo Carli, Nobile Justinopolitano e Dragomanno della Serenissima Repubblica…, Venetia, A. Poletti 1697. Cronologia tradotta per volontà di G. B. Dona’. Su Kātib Celebi, alias Hajji Khalife, - oltre al Bombaci, La letteratura turca, cit., pp. 364-367- si veda anche Ekmeleddin Ihsanoğlu et alii,

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Intorno a Venezia, si potevano pure leggere altre pungenti considerazioni in altri storiografi ottomani. Sentiamo per esempio Na`imā (ca. 1655-1716), autore di una storia voluminosa che abbraccia il periodo compreso tra il 1591 e il 1659:

“Le male costumanze dello stato di Venezia sono siffatte che presso quella gente la sovranità non si trasmette di padre in figlio, bensì secondo un diritto soggetto a mutazione mediante il quale si raggiunge la dignità di doj, cioè di sovrano. Sono circa quaranta beg [signori], i quali niente fanno se non all’unanimità. Se al riguardo di una questione anche uno solo è in disaccordo, la dibattono all’infinito. Di qui il procedere lento dei loro affari; una volta però che abbiano raggiunto l’unanimità, niente più arresta le loro diavolerie. Di quei beg, a turno, uno è balyos [bailo] in Aleppo, un altro a Smirne, un terzo a Istanbul, e diresti che essi vagolano al fine di apprendere quanto al mondo corre. Quei balyos cambiano ogni tre anni. Non è regola che a lungo si trattengano in uno stesso luogo. Acquisite cognizioni nella pratica del commercio ricoprendo la carica di

balyos, diventano generali il cui grado (lungi da noi l’idea di un paragone ingiurioso!) potrebbe

corrispondere a quello dei Beglerbegi [i due massimi governatori delle provincie ottomane, l’uno in Anatolia, l’altro in Rumelia/Penisola Balcanica]. Quando poi il maiale che è doj morisse, diventerebbe doj il generale”.6

È opportuno avvertire che in ambito ottomano non si scrive in modo metodico su Venezia. Di gran lunga più ampia, circostanziata, e metodica (quasi a toccare le punte della grafomania) è la quantità, con la qualità, delle scritture venete sull’Impero confinante a Oriente: trattazioni vaste almeno quanto l’estensione di quello Stato, proporzionata alla sua importanza.

Torniamo alle scritture, alle iniziative di G.B. Donà. Relazione importante, quella del Bailo ritornato, riabilitato, già ascoltato in Senato, (quando legge la propria Difesa). Difesa, abbiamo visto, ispirata al sentimento del favore ritrovato delle stelle e riconducibile anch’essa alla continuità dello svolgimento di un pensiero, concepito da tempo. Un’dea che a quella missione diplomatica avrebbe impresso, è vero, il segno della mortificazione, dell’umiliazione, riscattate però dalla ricerca culturale incisiva, gratificante ancor più delle cariche e delle varie magistrature, pur gradite, di cui viene investito immediatamente dopo l’assoluzione, (Savio del Consiglio, Provveditore in Zecca alla cassa di ori e argenti, Provveditore all’Arsenale, alle Artiglierie...). Relazione oltretutto ripresa, negli spunti e nei concetti strutturanti, nella sua Letteratura (1688), e appunto di tale celebre Opuscolo anticipiamo alcuni brani, compiendo uno scarto temporale, rispetto alla Relazione (1684):

FIG. 1 LETTERATURA

“Mi sovviene che discorrendo con lei, quando la Serenissima nostra Repubblica volle nell’anno 1680 destinarmi al grave impiego di Bailo Ambasciadore alla Porta Ottomana, si fecero ponderati riflessi per le congiunture de’ tempi non solo, ma per la qualità del Potentato, a cui risiedere io doveva. Si discorse, che mio [di G. B. Donà, destinato bailo alla Porta, 1680] pensiere esser dovesse, avvicinato che fossi a quel grande Colosso, il quale divorando gli altri, si rende sempre più complesso, e che fino al suddetto tempo non fù mai tocco da qual si sia Natione impunemente.

6 Da Na´īmā Tārīhi, a c. di Z. Danışman, III, Istanbul, Ed. Danışman 1968, p. 14; per i “titoli” affibbiati ai Veneziani e ai loro rappresentanti cfr V. Costantini, “Contemptible Unbelievers” or “Loyal Fiends”? Notes on the many ways in

which the Ottomans named the Venetians in the 16th century, in M. Kappler (ed.), Intercultural Aspects in and around Turkic Literatures, Wiesbaden, Harrassowitz 2006, pp. 29-35.

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Fosse ad ogni modo la più precisa mia incombenza di scoprirvi il suo forte, & il suo debole, poiché il mondo in sé non contiene alcuna cosa di eterno. Fissato pertanto l’occhio sopra lo stesso, compresi a bastanza quello, che presi per appunto per soggetto della mia Relazione [del 1684] di quell’Imperio all’Eccellentissimo nostro Senato: Che quella Natione non si ritrovi in quel vigore così grande, come aveva acquistata la riputatione d’esser invincibile; né ch’ella avesse tale rozzezza d’ingegno, e totale imperitia e nella cognizione delle scienze, e delle belle arti”. 7 Letteratura. p. 2. Con la disfatta turca sotto Vienna, nel 1683, sembra ufficialmente e finalmente ‘sdoganarsi’, liberata dai sigilli, quella biblioteca a fascicoli e tomi di cultura ottomana, tuttavia conservata per secoli, tenuta da parte, custodita in archivio, censurata se non negata; ma sempre registrata, in Europa. E in Venezia era venuta a configurarsi, da tempo, una intelligentia duttile, specialistica, attenta, curiosa. Esisteva presso la Serenissima Repubblica una raccolta, poliedrica e dislocata in varie sedi, diremmo, di espressioni culturali ottomane, registrate almeno a conoscere, con il calibro e la gittata di un cannone, con i numeri e le dimensioni delle galee, anche i tipi, i tenori, i sistemi dei pensieri economici, amministrativi, organizzativi di giustizia e saperi, “ottici” (pensiamo, puntando lo sguardo sulla Repubblica, a Padova, su Galileo, e sulla Accademia degli Argonauti, in Laguna). Una sorta di “Stato dei saperi e valori letterari” dello Stato ottomano. Stato anche nel senso di “stato dell’arte” di quel vicino “colossale”. Parleremmo di riconoscimento e ricognizione; per provare a dire che quel conoscere volgerebbe in riconoscere: avremmo non tanto un semplice ammettere, bensì una più complessa ricognizione di comuni, antiche, storiche matrici; poniamo, per comodità, “neoplatoniche”, ancora percepibili nelle distorsioni ottomane e ottomanistiche (! i pregiudizi restano vigenti) occorse di là, dai Balcani alla Trancaucasia, al Nord-Africa, al Maghreb).

Solo che di là c’è, e va segnalata, anche la Persia. Ma i Persiani (sudditi del “Sophi”), è risaputo, di qua, nel Golfo di Venezia, godono, anziché patire, del pregiudizio: tanto considerati per via del famoso principio del contrappeso, e della magnificata nobiltà di sangue, e della cavalleria… Quello intonato intorno ai Sophì, in Venezia e a Occidente, pare un malinteso motivo di candore esaltato in strumentata, strumentalizzata sintonia, in riga e rigo con il canto, le ottave di Ludovico Ariosto, quando il poeta inveisce furioso – seguito nel canone da Paolo Giovio e Cervantes/Don Chisciotte - contro il diabolico ferrobuso ripescato da Cimosco sul fondo dell’Oceano circonfluente. Intanto, viene ad abbattersi, per opera del vile piombo turco, l’iranico valore guerriero, cavalleresco, “purtroppo” oltremodo in auge oltre la Mesopotamia. Alla base, di qua, si sperava in una disponibilità persiana ad armarsi modernamente, acquistando armi magari dai Veneziani; si incoraggiava una inclinazione a intrattenere i Turchi di là, spargendo il sangue, certo nobile, mescolato a quello ignobile: così che la Repubblica restasse alleviata dal peso del suo troppo grande confinante orientale. Parimenti nobile, e ricalcata a Venezia, è l’impronta persiana sulle plasmate lettere turche: “La Poesia viene pure praticata da’ Turchi con molta abbondanza, (…) loro pure

hanno come noi misura, armonia, e desinenza; e nelle stesse spiegano affetti, con pensieri, con

7 Cfr. Della Letteratura de’ Turchi, Osservationi fatte da Gio: Battista Donado, Senator Veneto, fù Bailo in Costantinopoli, in Venetia, per A. Poletti, All’insegna dell’Italia, a San Marco, MDCXXXVIII, p. 2 (in seguito: Donà,

Letteratura …). (E che dire allora, impertinenti, di quando quel Colosso era nel suo pieno vigore e insieme la società e

le comunità che lo animavano non erano talmente rozze, inette?)

A proposito dell’operato del Donà, sul Bosforo e al suo ritorno in Laguna, cfr. P. Preto, Venezia e i Turchi, Firenze, Sansoni 1975, in particolare le pp. 340-351; Id., I Turchi e la cultura veneziana del Seicento, in Storia della cultura veneta, 4/II: Dalla Controriforma alla fine della Repubblica, a c. di G. Arnaldi, M. Pastore Stocchi, Vicenza, Neri Pozza 1984, pp. 313-341; Francesca Scarpa, Da Venezia a Costantinopoli, da Costantinopoli a Venezia: Giovanni Battista

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concetti, e con eloquenza. Ricevono anco loro dal Persiano le galanterie del dire, come noi dal

Toscano, ò sia Senese; e dall’Arabo come noi dal latino la forza del dire succoso, e con decoro”

(Letteratura cit., 125).

Ma ecco l’inclinazione a un ridimensionamento, a un contenimento prudente:

“Sappia però lei, Signor mio Fratello, che, non ostante le suddette notizie, non si deve credere esser li Turchi al possesso delle bell’Arti, e Scienze in universale; massime essendo privi delle Stampe, e violentati da una forzata ignoranza. Ma tuttavia concorrono ben sodi riflessi ad acconsentirle non mezzana cognitione delle lettere, e della intelligenza, massime de’ termini positivi…” (Letteratura cit., pp. 5-6.) .

Avremmo un’appartenenza a un universo, a un sistema, in cui, giusta la spiegazione del Dona’, si dovrebbe considerare “per intendere meglio che la Lingua Turca è come nell’Italia la Provinciale, nella quale cadauno parla con le forme, e con la pronuncia, & accento del Paese. Ma questa si vede adornata dalla Persiana, sì come noi facciamo con la Toscana” (Letteratura cit., p. 6.).

Giovanni Battista - rivolto al fratello, l’abate Andrea, preposto ai Catecumeni, “che mi ricercò circa l’intelligenza, & uso, che avessero i Turchi delle Scienze, e loro Letteratura”- soggiunge : “io mi suppongo, che haverà Lei dalla lettura delle stesse pagine notizia, e cognizione bastante, che la Turca Natione non sia più sepolta in quella brutale rozzezza di prima, & che pur anco questo Imperio, ad uso dei conquistatori, (...) nell’introdursi nelle più belle provincie è andato conquistando pur anco delle doti, e delle belle arti, che godevano li paesi da essi di tempo in tempo occupati. Io nello scoprimento di questa verità so di non haver penetrato nell’intiero di quanto studiano & intendono li Monsulmani” (Letteratura cit., 135). 8

In cerca di argomentazioni, conferme, e di persuasione, il Bailo ritornato aggiungeva:

“Ella però nella sua pietosa non meno, che caritatevole assistenza à Catecumeni, ritroverà bene spesso persone di non mezzano intendimento, & haverà riscontri ben evidenti della prenarrata verità” (Letteratura cit., 8). Per affermare nell’epilogo: “il grado di confidenza, che hò seco, e l’amorevole discrezione, che Lei ha per me, non mi lascia dubbio, che l’unioncella di questa materia non sia per essere da Lei gradita. Difficile unire, & havere l’honore dell’inventione, e della perfettione, riuscendo à grado assai distinto per me quello d’haverla obbedita...” (Letteratura cit., 135s.).

Giovanni Battista intuisce forse le possibili obbiezioni del fratello Andrea a fonte di simile “unioncella” di questa materia? La trattazione doveva essere più approfondita, organica, metodica? Un secolo dopo (1787), a riorganizzare uno scorcio, una visione, sempre originale, unica, sarebbero

8 Ibid. p. 135. Corsivi nostri; e riferendoci a quella brutale rozzezza di prima, potremmo anche domandarci: “di prima! quando, se da secoli a Venezia e nelle stanze dei giovani di lingua veneziani a Pera si frequentavano letture e recitazioni e interpretazioni di versi, aulici o popolari, “scolastici”!? “Di prima” quando, se nei veneti rapporti sulla Capitale si forniscono cifre in merito alle centinaia di “collegi”, o “ginnasj”, alle lezioni impartite e alle migliaia di “sofa” là immatricolati!?). Non sarebbe fuori luogo ripetere che forse non era conveniente ammetterne, divulgarne apertamente la “grazia”, al fine di non cadere in disgrazia a causa di una turcofilia “accidentale”; adesso invece si potrebbe anche pensare al modo, “pio”, di servirsi di queste nozioni nell’approccio ai ricoverati nella Casa dei Catecumeni, affollata dai nuovi arrivati di Morea

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intervenuti i tre tomi del Toderini a rincalzare, a sospingere oltre le aperture offerte dalla nominata “unioncella” del Donà. 9 Del modo, solo all’apparenza sdoppiato, di descrivere le manifestazioni delle maniere e delle forme culturali di quell’Impero da parte di G.B. Donà riprendiamo i passaggi in cui potrebbero ritrovarsi formulati e ristabiliti organicamente i rapporti politico-diplomatici (quindi la sua Relazione, 1684, composta e letta al rientro in patria dopo il soggiorno a Costantinopoli, 1681-1684), con il discorso culturale, “letterario” in generale (quindi la sua

Letteratura, 1687). Quasi avessimo dovuto aspettarci una differenziazione dei toni, quando invece

alle scritture si raccordano quei toni sotto la penna per convogliarsi attraverso le tipografie in direzione di sbocchi editoriali; indici di interessi, in uscita, in entrata nei circoli della sapienza stimolata; nelle Accademie, nelle Storie della cultura. Rileggiamo dunque nella sua Relazione, (1684):

(...) Non avendo alito più vivace il mio cuore della ereditata ubbidienza alli comandi riveriti dellEcc.mo Senato, mi cade in conseguenza (di presentare) la Relazione delle cose più rimarcabili del mio Baliaggio di Costantinopoli, per esecuzione puntuale anco in questa parte delle leggi più riguardevoli della Serenissima Repubblica (...). Primo. Rappresenterò se la Casa Ottomana si ritrovi per anco in quell’alto posto di autorità dispotica nella quale, con il corso di tante vittorie per molti secoli si trovava; ed insieme l’arte violentissima della tirannia (...). Ed è palese assai che questa dispotica ed alta autorità se l’abbia principalmente stabilita, con aversi posto in totale possesso nel dirigere le coscienze e disporre della religione a suo arbitrio: con che in certo modo rese l’armi sue nella guerra abbronzite da una disperata credenza e da un’inevitabile disposizione del destino (...).“Stimo però mio debito rendere noto, che nel dilatarsi da’ Monarchi stessi l’Imperio,

conosciutosi necessario provvedere li popoli di chi li mantenesse in pace e polizia con la giudicatura, convennero dar mano alla erudizione e allo studio, e tollerare che si diffondesse una

mezzana coltura d’animo non solo, che principiata per dovuta regola delle coscienze, con la lettura dell’Alcorano, s’è poi accresciuta in maniera che gli stessi Imperatori hanno eretto collegi, istituite scuole e letture pubbliche, aperte ed universali, così bene nella città di Costantinopoli che nelle città principali dell’Imperio e nelle terre e ville ancora, insegnandosi grammaticalmente le lingue Persiana ed araba, per comprendere l’eleganza con la quale sta l’Alcorano spiegato e da cui ricevono tutti li punti della loro giudicatura così civile come canonica. Nel progresso di questa erudizione di necessità si sono invogliati poi di altre cognizioni di ornamento di scrivere e dire in prosa ed in metro, qualche squarcio di matematiche ed altre buone arti e scienze non speculative ma pratiche e necessarie al benvivere umano non solamente, ma d’istruzione al comando, anzi che si fanno questi passi con ordine così misurato di tempo e di possesso di virtù, che li scolari passano al dottorato et alle lettere con esami ed approvazioni, e secondo il grado della abilità loro sono impiegati nelle giudicature di cadì in prima loro istanza di Mullà in appellazione (...) Questa introduzione molto dilatata produce che essendo molto più tenero e dolce il ferro adoperato per vomere che per sciabola, la frugale coltura ammollisce gli animi, e separa in certo modo li sudditi dall’alto delle autorità, cangiata una vita che si faceva di non meritata servitù, in altra che godono innocente e campestre”.10

9 Dalla Letteratura Turchesca dell’Abate Giambattista Toderini, T. III, G. Storti, Venezia 1787, p. 219; mentre, nello stesso T. III , a p. 200, l’abate Toderini informava: “I Turchi coltivano molto la Poesia condotti dal genio e dal diletto. Non mancan loro institutioni poetiche, né precettori e maestri, tra quali Abù Baschar Matta dal Greco e Aidì Sciecabeddin dal Siriano trasportaron nell’Arabo la Poetica d’Aristotele…”.

10 Relazione di G.B. Donà, (agosto 1684), in L. Firpo (a c. di), Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, vol., XIII,

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Nonostante l’accento, sfumato, “georgico” (campestre), sembra di ascoltare un genere di summa “armata”, e di verifica collaudata della tesi che sarebbe stata sostenuta di lì a pochi anni in quell’altra, più letteraria, e non meno politico-diplomatica sede, come già abbiamo potuto constatare, grazie alle anticipate citazioni dalla Letteratura (immagine frontespizio???). Tuttavia, il vigore dell’exemplum culturale sarebbe rimasto valido, fino alla sua interazione con gli influssi provenienti dall’Europa, si sostiene qui di seguito: “(…) Ma il tempo, le circostanze del Comerzio cogli Europei, e quelle vicende che sogliono accompagnar li affari del mondo, poterono dar facile e pronta occasione ad un innesto di questa Nazione colle straniere d’ogni sesso, Si potrebbe dire che i Turchi d’oggidì non sono i veri, e legitimi discendenti de’ loro primi Padri”.11

Si potrebbe anche dire che, a dispetto delle opinioni rivedute, è sempre pronto a risalire il rigurgito aspro che ricaccia i Turchi nella illegittimità. Turchi, e Ottomani! Cioè almeno tutti i sudditi musulmani dell’impero, magari con i cittadini cristiani ed ebrei “imbarbariti” dal giogo dei sultani. A legittimarli, a renderli se stessi, a restituir loro una identità, sarebbe dovuta ritornare la “barbarie” vetusta? Veramente no, non potendo quel nome a rigore applicarsi esclusivamente a quella gente, se non fosse per certa superstizione. Infatti:.

“Né tal nome [di barbari] lor si conviene per la ferocia, con la quale guerreggiano, abbruciando, depredando, e facendo Schiavi, mentre in tal guisa combattevano anche i Romani, e in tal guisa combattiamo ancor noi. Sicché Barbari unicamente ponno chiamarsi, perché infetti della superstizione Maomettana, in molte parti diversa da quella, che, da Maomettani, si suppone la vera, essendo, tra questi, moltissimi infetti d’idolatria”.12

Intanto, negli spazi culturali della storia, delle vicende esposte dal Donà, ci siamo anche mantenuti all’ascolto di frammenti di un linguaggio comune a Persiani e Turchi, nella fruizione veneziana, oltre che nostra, memori di un humus già tardo-antico. È risaputo quanto una meta-retorica sia pronta e passiva a rimbalzare sul fondo morbido della retorica accumulata nei secoli, prossima a venir uniformata. Ne siamo consapevoli. E sappiamo che l’attività culturale, turcologica, del Donà è segnata da un interesse ampio e profondo (per la potenza delle armate, delle iniziative politiche, e delle lettere ottomane), e, certamente, da certa qual piega al lucro. Sì, ma anche da passione, dedizione autentica. Con lucidità, lontana da denigrazioni recise e superficiali come quella seguente:

“(...) Hanno [gli Ottomani] anco un poco di Poesia, ma senza dolcezze & (...) in uno sol modo di versi, rubato però ancho da Persiani. Non hanno arti liberali, non grammatica come hanno i Latini & i Greci. Ciò è che tra loro altro sia il parlare letterario, altro il volgare: ma i loro libri sono tutti in lingua Araba (...)”.13

11 BNM, Mss. it., cl. VI, 439 (10562), Francesco Dadich, Memorie Costantinopolitane dall’anno 1710 sino 1751,

scritte da … l’anno 1751 in Costantinopoli, c. 4v; vd. anche, ivi, Ms. it., cl. VI, 140 (6037); cfr. inoltre, in BMC, Cod.

Cicogna 852, e Ms. Correr 744.

12 L. F. Marsigli, L’Etat Militare de l’Empire Ottoman, ses Progrès et sa Décadence..., à La Haye-Amsterdam... M.D.CC.XXXII, p. 5.

13 Cfr. Delle origini et imperio de Turchi, per opera di Luigi Bassano da Zara..., al Cardinale Nicolò Ridolfi suo Signore, in Francesco Sansovino, Historia Universale dell’Origine, et Imperio de’ Turchi, Raccolta, & in diversi luoghi

di nuovo ampliata…, in Vinegia, presso Altobello Salicato MDLXXXII (è la penultima delle molte edizioni aggiornate

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E pensare che queste righe venivano scritte negli anni in cui la potenza militare, e culturale, ottomana toccava l’acme, con Baqi (1526-1600), eletto “sovrano dei poeti” di corte.

Andiamo ad attingere a una raccolta di Lettere spedite dal Bosforo all’amico Giovanni Grimani, contrassegnate da una maggiore spontaneità, più rilasciate verso il dialetto veneziano, ed il “lessico familiare”, nonché “turcologico”.14 Si tratta di una scelta di brani epistolari troppo limitata, rispetto al volume delle missive confidenziali; restiamo però aderenti a un motivo specifico: quello letterario.

16 Ottobre 1681: “Unisco un altro foglio de Proverbi Turcheschi, che vano con gli altri, et come V E haverà inteso da plico de altre mie, onde rinovo le mie preghiere per l’effetto stesso”.

11 Gennaio 1681(more veneto = 1682) “Ho conosciuto di mia particolar incombenza animar questi Signori Giovani di Lingua ad applicar all’idioma turchesco et nello stesso tempo ricercar io le massime di questa natione. Che perciò le ho fato raccoglier 450 proverbi (modi di dire), e dico 450, et fati scriver in carattere turco. Poi carattere italiano, ma idioma turco (ossia in trascrizione). Restano dedicati à mio figliolo (Pietro), come V. E. vedrà nella lettera dedicatoria. Io li ho animati à ciò fare con la promessa che saranno stampati. Desidero che così segua, et scrivo al Sr mio fratello perchè unito con V.E. accudisca all’affare et al sr Gignoni perché paghi, (...) havendole rimesso dinaro anco per questo. Bramo soprattutto che vi sia il Carattere Turchesco, et stimo che forse si troverà Carta et il Sr d. Gio. Ayaup (Agop-Hagop) lo saprà, et esso potrà esser et direttore alla stampa et revisore. Se non vi fossero li Caratteri Turchi, V. E. li ordini, che spero con 100 Reali di haverli fatti. Et ordino al Sr Gignoni pagarli, et anche qualcosa di più, occorrendo; mi rimetto a Lei Vorrei che Stampatore fosse il Sr Gio. Antonio Remondini da Bassano, mio amico, et che mi servirà (...). Stampati che siano, desidero che il Sr mio Figliolo ne porti a Sua Serenità, all’Ecc.mi Savij Consiglieri... et altri Senatori & Amici, et dò di questo modo pubblicata questa mia applicazione al Publico Servitio, senza scrivere in Senato...”.

FIG 2 ADAGGI FRONT.

Tanta la discrezione, con la forza organizzativa di un Bailo, estensore di un articolato, fitto reticolo di progetti e programmi editoriali; un disegno turcologico denso, quanto il Cielo di costellazioni. Scriveva anche un editore-stampatore, dimostrando acume e abilità editoriali.

“Ma degli studi e della letteratura de’ Turchi, nessuna, ò lieve notizia fin qui s’è divulgata in Europa; anzi è corsa universale opinione, in vero erronea, che la Nazione Turchesca fosse affatto ignara delle buone, e belle Lettere, incapace della Retorica, e della Poesia, e come lontana da gli studi delle Leggi, della Medicina, della Filosofia, e delle Matematiche, così fosse solamente dedita all’uso dell’Armi ”.15

14 Cfr. BMC, cod. Cicogna 2793, “Lettere particolari del NH Gio. Batta Donado al NH Gio. Grimani nel corso del suo Bailaggio di Costantinopoli, 1683”. Cc. non numerate; si darà, come riferimento, la data delle lettere citate, premessa alla citazione.

15 Sono parole dello Stampatore, A. Poletti; cfr Della letteratura de’ Turchi, cit., Osservazioni fatte da Gio: Battista Donado Senator Veneto, Fù Bailo a Costantinopoli, per A. Poletti, in Venetia.... MDCLXXXVIII, p. A. 3 (“Lo Stampatore a chi legge”). In seguito: Donà, Letteratura…

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Nella fruizione del sostegno della “tribale”, filiale solidarietà, (e, non si escluderebbe, della simpatia per i Colleghi del Bosforo):

“Ingannati da una falsa apprensione vollero creder molti, che i Turchi non applicassero ai Studi serii d’Istorie, ò agli ameni di belle lettere. L’anno 1688 per commissione dell’Ill.mo, & Ecc.mo Signor Gio: Battista mio Padre uscì alla luce un Opuscoletto intitolato Letteratura de’

Turchi; questo distinse le opinioni, cangiò il concetto ne’ Letterati, e diede al genio di me

Pietro Donado un eccitamento erudito di comprovarne tal verità. Osservai in detto piccolo libro un non breve registro d’Auttori Monsulmani, che trattano di varie nobili scienze, ed arti; E per

appagare questo mio non meno utile, che bel desiderio, uno ne fece tradurre l’Ecc.mo Signor mio Padre suddetto, in Testimonio bastevole della mia relazione sincera. Eccomi per tanto ad accompagnare sotto l’occhio di ciascheduno curioso la Cronologia dell’Origine del Mondo scritta da Mustafà Azì Halifè, che intitola Tacuimè, ò sia Epitome delle Storie Universali. Molti n’amireranno lo stile, e molti gli scherzi inseritivi dall’Auttore nella spiegatione (…)”; nota Pietro Donà

e un Traduttore, a presentare la propria fatica, a costituire una continuità, un filone, rivolto al padre di Pietro:

“ho fedelmente tradotta la Cronologia Turchesca, dal barbaro all’Idioma Italiano. Si leggerà in essa Epitome tutto ciò, che d’Eroico, di singolare e di grande in cadaun secolo, hà saputo oprare l’Oriente, e V. E., che nel suo cospicuo Bailaggio di Costantinopoli si hà formata la vera massima della letteratura de’ Turchi, goderà di vedere disingannato il Mondo della rea opinione, che non vi si conservi trà quei Barbari alcun seme d’erudizione”.16

Anelito a un’intesa più armoniosa, a una lettura più aperta e diffusa. Una dolce fatica che aiuta gli umori a trapelare. Quasi una strofa in turco ben tradotta, ben esplicata in italiano/toscano/senese: “Dalla purpurea faccia / Dell’amato mio bene / Usciva à goccia à goccia / La cristallina linfa / Dei sudori preziosi”.17

Col senno di poi… vien suggerito di dire. È una fiacca battuta – ricavata da un banale capovolgimento di una altrettanto banale sentenza - che potrebbe tuttavia dotare di uno sfondo mosso, coltivato, e rendere più viva, cosciente, la non così nuova, positiva osservazione veneta della cultura turco-ottomana. Quella organicamente registrata a Venezia dall’autunno del ‘600, ma, va ricordato, preceduta da costanti cure e attenzioni. E seguita poi da ripercussioni in Europa (policentrico luogo di nascita dell’Orientalismo), con ricadute prestigiose sulla Città marciana, già

16 Cronologia Historica scritta in lingua Turca, Persiana, & Araba, da Hazi Halifé Mustafà, e tradotta nell’Idioma Italiano da Gio: Rinaldo Carli Nobile Justinopolitano, e Dragomanno della Serenissima Repubblica di Venezia, consacrata all’Ill.mo, & Ecc.mo Sig. Gio: Battista Donado…, appresso A. Poletti, in Venetia MDCXCVII, cfr le pp. di presentazione e introduzione. (“Mustafà Azì Halifè”, alias Kātib Celebi, 1609-1657, è tra i maggiori esponenti dell’erudizione del ‘600 ottomano).

Sul contesto di tali iniziative culturali veneziane, costituenti un’autentica “collana” turcologica “impirada” in famiglia grande, anche grazie all’apporto armeno –p. es. di G. Agop, nel 1680 al seguito del bailo Donà nella capitale ottomana, autore del Rudimento della Lingua Turchesca…, all’Ill.mo & Rev.mo Sig. Andrea Abbate Donado, appresso A. Barboni, in Venetia MDCLXXXV- cfr. F. Scarpa, Per la storia degli studi turchi e armeni a Venezia: il sacerdote

armeno Giovanni Agop, “Annali di Ca’ Foscari”, s. o. XXXIX (2000), pp. 107-130.

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faro e fondaco di approfondite, quotidiane notizie, per tenore situabili ben al di là delle nozioni, sui Turchi. Un bagaglio che sta a comprovare l’intensa attività di raccolta pregressa, mai disinteressata, svolta sul campo, con vari fini e motivazioni, per non dire pretesti. Non ultimo quello di vigilare sul processo e progresso scientifico, tecnico altrui, riversabile/reversibile, all’occorrenza, nel vaso delle pozioni tossiche, in grado di avvelenare una difficile convivenza armonica. Riprendiamo un’altra lettera del Donà, aperto alle confidenze all’amico:

(4 Novembre 1682). “Il Musceip genero del Gr. Sre ha ordinato che io sia introdotto in alcuni suoi serragli o Palazzi; ivi ho veduto il sito sempre in tutti bellissimo, come sono tutti qui; ma le fabbriche bruttissime; desidera haver un suolo di pietra bianca. Io le ho arricordato farlo una bianca et nera, come ne sono moltissimi costà (a Venezia), massime nella Chiesa, le ho fatto far vinti disegni, hà scelto il peggio, in due colori soli, nero e rosso. V. E. veda nella carta qui acclusa. Il piano deve esser (oppure il superficial contenuto) quadro, et sia sedici braccia per ogni verso, che poi li quadri siano o più grandi, o più piccioli (che valeranno meno) poco importa, purché siano lustri”.

FIG 3 MODELLI PAVIMENTO

Come sentiamo, il Donà sapeva consigliare i prodotti e i disegni migliori per un pavimento di un palazzo imperiale. Pavimento, suolo, ovvero Base, disegno di una Base. Orientalistica, se si vuole, con influenze estetiche, tecniche, di un Occidente interpretato alla veneziana. Ma qui assistiamo soprattutto al rispecchiarsi delle parti di un mondo. Tra le inclinazioni del Diplomatico, era forte anche quella scientifica. Alla fine del 1684, con il geografo Coronelli, il Donà sarebbe stato il fondatore della Accademia degli Argonauti.18 E per una immagine del mondo costruita dal Coronelli, l’antico bailo, e non solo bailo, avrebbe disegnato il piedestallo. Si pensi al piedestallo per un Globo del Coronelli, disegnato dal Donà: alla base della rappresentazione del mondo.

FIG 4 PIEDE DONÀ

Il necessario riesame delle multiformi relazioni (e frizioni) occorse, strette, complicate, fra il “Turco”, giudicato cupo d’ufficio, e la Serenissima – alla luce dei dati effettivi, emergenti sul risvolto culturale di quei secolari rapporti - potrebbe appunto indurre all’abuso di quel facile, rovesciato modo di dire (col senno di prima...), sbrigativo e un po’ scettico; ma che è motivato, a fronte dei notevoli lavori raccolti, editi, dedicati dalla Dominante alle manifestazioni letterarie di quel mondo affacciato alla linea sottile del fragile confine.

Vogliamo essere prudenti, però: col senno di prima rivalutato, si rischierebbe di ridimensionare la laboriosa, acuta ricerca del Donà, nonché il recupero della portata, dell’eredità culturale dei Turchi; nel mentre che, magari, più auspicabile sarebbe una rimeditazione su quell’eredità, in parte comune, di sapore, di humus tardoantico e mediorientale. Riandiamo a Paolo Giovio, che veneziano e filoveneto a oltranza non era, ma che a Venezia si era documentato, e che veniva pubblicato, in edizioni integrali, e a stralci, nelle antologie, curate dal veneziano connaturato Francesco

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Sansovino, figlio naturale di Jacopo19; per padre, e di per sé, non digiuno di scienza delle costruzioni:

“(A Costantinopoli) Vi sono le moschee di Sultan Baiazet, di Sultan Selim, & di altri Signori, le quali sono molto belle, et benissimo fabricate. Il che dimostra, che quando volessero, saprebbero anco essi far case, & palazzi magnifichi, et sontuosi”.20

Singolare ipotesi, della realtà realizzata… E così sarà di Don Chisciotte, discreto turcologo, destro nello sdoppiarsi quanto il suo inventore Cervantes, distinto e ferito a Lepanto. Abile alla soluzione del dilemma (la spada, o la penna?), lo scrittore tiene per il calamo e lascia vibrare l’asta al militante delle lettere cavalleresche desuete. Il quale esprime un riconoscimento alla dinastia ottomana, assurta da origini grezze e oscure alla grandezza che ai tempi suoi s’imponeva alla vista di ognuno: verosimilmente sulla scorta, oltre che della propria esperienza di combattente e prigioniero, pure delle notizie attinte all’enorme conca editoriale della Laguna, (si allude, per esempio, alle letture di Cervantes di Giovio e Sansovino, “bricole turche” stagliate in quel paesaggio).21 Pensiamo alla Legge divina accettata, ma molto, molto indagata, interrogata da un tale, finissimo esegeta, e Califfo:

“ama l’ocio, & la pace più che habbia fatto altro delli suoi maggiori: da che ne nasce che non pare inimico de Cristiani: & che viene lodato di essere osservatore della sua parola & della fede promessa a cadauno. È esistimato pietoso, humano & facile à perdonare à cui fallisse. Dicon che è studioso di lettere, & specialmente delle cose di Aristotile: le quali legge con gli suoi espositori in lingua arabesca, & è studioso della Teologia sua: della quale ne fa professione à paragone delli suoi Mufty. E’ di età di anni quarantatrè in circa”.22

Era Solimano, il Magnifico Legislatore, sovrano, sì, ma anche un esponente tra molti di quelle attività culturali.

Per riassumere, dal fondo, risalirei a quell’inizio, preso, sospinto su da un dubbio: vorrei fugare l’idea che questa partecipazione al nostro Seminario sia dovuta alla voglia di raccontare, attraverso le testimonianze e le scritture venete, che le élites ottomane sapevano leggere, scrivere, produrre calligrafie e linguaggi su registri diversi da quello dei firmani. Questo lo sapevamo già, e lo sapevano i Veneziani, i quali segnalavano, prima di Donà, il numero elevato delle istituzioni “scolastiche”, proiezioni esterne e organiche alle “Librarie Commune et Secreta attaccate alle stanze di esso Gran Signore (...). Vi sono Cento, e Venti Colleggi dove stanno molti Scolari

chiamati Sophà, che vol dire Sapienti, o Studenti, à quali è dato in esso Colleggio à ciascuno una Camera...”.23

19 Sull’importanza e le continue riedizioni (dal 1560) della raccolta di F. Sansovino, Del Governo et Amministratione di

Diversi Regni et Repubbliche…, A. Salicato, in Vinegia MDCVII rimando a P. Preto, Venezia e i Turchi, G. C. Sansoni,

Firenze 1975, pp. 295-298.

20 F. Sansovino, Del Governo et Amministratione... cit., p. 37r-v. 21 Cfr. Don Chisciotte, I, 39-41; II, 6.

22 [B. Ramberti], Libri tre delle cose de Turchi, in casa de’ Figliuoli di Aldo, in Vinegia, M.D. XXXIX, p. 30r-v.

23 Rimando a una delle numerose copie manoscritte della Relazione, talora attribuita a Ottaviano Bon (bailo a Costantinopoli dal 1604 al 1608; ma si tratta di scrittura successiva al regno di Murad IV, 1623-1640), presenti nelle biblioteche veneziane: Biblioteca Querini Stampalia, ms. cl. IV, cod. 647 (1080), Relazione della Gran Città di

Costantinopoli con la Vita del Gran Turco, (cc. 128r-257v), c. 159r e 178r. Cfr. Le Relazioni degli Stati europei lette al senato dagli Ambasciatori veneziani nel secolo decimosettimo, raccolte ed annotate da N. Barozzi e G. Berchet, serie V, Turchia, vol. unico, parte I, Naratovich, Venezia 1871, pp. 59-124.

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Si vorrebbe, casomai, ricordare con Voi che quel filtro veneziano, censorio e a maglie larghe, aveva soltanto rallentato, trattenuto in serbo, in qualche ripostiglio delle dogane, alquante rifiniture di regime, “limature”, arricciate piallature, preziose, diventate nei tempi un sedimento stratificato, un lievito valido a innalzare il livello, questo sì elitario, delle conoscenze e della cultura di Venezia e dell’Europa sui Turchi. Nel dopo- sarebbe diventato possibile ammettere l’esistenza di organizzazioni, tradizioni, promozioni culturali in terra altrui, e articolare meglio l’esaltazione della Persia: vera spugna, quest’ultima, che assorbiva i rigagnoli, deviati, lasciati scorrere a lambire la strumentale accettazione di un altro Islam, buono, e di un altro impero islamico, nobile, non ignobile, retto da “Cavalieri” della schiatta di Dario e Serse, coi quali per secoli si era tentato, invano e con intenzioni mortificate e scemanti, di stringere un’alleanza per accerchiare i Signori del Corno d’oro. Scaduta, vanificata quella speranza persiana, e smorzata sotto le mura di Vienna l’estrema offensiva lanciata da Oriente, sarebbe stato concesso un maggiore agio contemplativo, e uno spazio di manovra più vasto per cercare di restituire alla Romanità la Grecia, la Morea, e ricondurre a una condivisa tradizione classica, orientale, le manifestazioni “alessandrine” delle lettere turchesche, considerate degne di entrare a far parte del coro, del Parnaso oramai ricostituito, traslato a Occidente. Agio speculativo, con una più netta sensazione di trovarsi nei dintorni di casa propria, in orti non estranei, nelle aiuole dei quali si erano coltivate piante antiche e riaddomesticati tulipani-gonfaloni. Senza che si escogitassero innesti snaturati. Un pacato, tranquillizzante riorientamento, un ritorno ad ambientarsi tra le ramificazioni delle conoscenze antiche e e rinnovate.

Noi, da parte nostra, possiamo solo ribadire che sentiamo la forza di quel contributo, anzi, di quei contributi, cresciuti su un suolo curato, coltivato; e resta complessa l’azione di ricercare, trovare, raccogliere, unire e trattare alla “perfettione” tanta materia, non sempre omogenea, benché raccordata. Sentiamo ancora, avvertiti dalla passione scientifica, culturale, astronomica e astrologica del Donà, che quella “narrativa familiare” (anche così chiama La Letteratura il suo Autore) è concepita in forma ellittica, come le ellissi tracciate dai pianeti, non “perfette”, certo, se si attribuisce la perfezione esclusivamente alla figura del cerchio, o alla frase ben tornita. Di tal passo, ci accorgiamo che G.B. Donà avrebbe suggerito a noi - con le sue comparazioni/equazioni (o appianate opposizioni): “loro pure hanno come noi misura, armonia (...), ricevono anco loro dal Persiano le galanterie del dire, come noi dal Toscano, ò sia Senese; e dall’Arabo come noi dal Latino la forza del dire succoso, e con decoro”, supra-, ci avrebbe suggerito, dicevamo, che potremmo, chissà, cercar magari di dire, o di sentir dire: “Anco noi, come loro... noi pure, come loro...”. (Spostando, ricollocando i termini del confronto, senza mutarli). Rendendo così più “rotonda” l’ellissi (la cosa non detta, da non dirsi) delle trattazioni culturali, delle relazioni diplomatiche: fatte anche di agili ed eque trasposizioni dei termini del paragone. Applicandosi alle “Correnti del Bosforo”, e alle affezioni, ai riverberi che esse comportano riflettendoci, raffrontandoci tra le rive.

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