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Anzi, insiste per essere chiamato con il suo vero nome, Charles

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Academic year: 2021

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CHUCKIE

IL suo nome è Charles Earl Weston, ma noi lo chiamiamo Chuckie. Lo odia. Anzi, insiste per essere chiamato con il suo vero nome, Charles. Non Chuck, non Charlie, non Chuckster, e di sicuro non Chuckie. Il fatto che questo lo irriti così tanto, rende tutto molto più divertente.

E la maggior parte delle volte, è questo che Chuckie rappresenta per me:

divertimento. Credo che all’inizio mi irritasse. Era così diverso, e non riuscivo a sopportare il modo in cui si comportava. Un giorno l’ho sorpreso che mi guardava, e mi ha fatto davvero venire i brividi. Quando ho cercato il contatto visivo rilanciandogli un’occhiata, lui ha velocemente distolto lo sguardo. È stato allora che ho capito quanto fosse facile intimidirlo.

Beh, diciamolo. Sono minaccioso con molte persone, specialmente con i tipi come Chuckie. Si potrebbe dire che sono piuttosto diretto. Non mi faccio prendere per il culo da nessuno. So di essere il meglio, e so che molti ragazzi sono gelosi di me. A essere sinceri, hanno un sacco di ragioni per esserlo. Sono popolare, piuttosto attraente, ho un bel fisico scolpito, non so se mi spiego. Mi alleno da quando ho tipo tredici anni, e si vede.

La gente pensa che gli atleti come me siano fortunati, ma riuscire ad avere un corpo come il mio e poi mantenerselo è frutto di un duro lavoro. Non si tratta di fortuna. Io me lo sono guadagnato questo corpo. Mi sono guadagnato questi quarantasei centimetri di bicipiti e questi centododici centimetri di pettorali. Vado in palestra tutti i giorni. Corro dagli otto agli undici chilometri al giorno da quando ho iniziato il liceo. Oltre alla mia tabella di allenamento personale, ho anche il calcio. E dopo corsa e baseball. Ho sempre uno sport su cui sono concentrato, e mi ci dedico al 110 percento. Sono fatto così.

Proprio non sopporto i tipi come Chuckie. È un pappamolla, e la cosa peggiore è che non fa niente per provare a cambiare. Quanto potrà essere difficile per lui prendere un bilanciere una volta ogni tanto? Non dico che tutti debbano somigliare a me o comportarsi come me. Mi rendo conto che ho un talento naturale,

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che sono particolarmente portato per gli sport; ma almeno potrebbero provarci.

Tanti nella mia squadra dicono di imitarmi. Mi chiedono consigli, cercano di essere come me. Come posso rimproverarglielo. Anzi, sono pronto a aiutarli. Non saranno mai me; neanche lontanamente, ma almeno ci provano.

Chuckie è nel mio corso di educazione fisica, e, fatemelo dire, è patetico. Ci sono stati dei momenti in cui mi sarei sentito in imbarazzo per lui, se non fossi stato così incazzato per il solo fatto che esiste. Sembra che non ci provi nemmeno. Quello che fa sempre è evitare di partecipare. Se ne va, sgattaiolando in qualche angolo come se cercasse di non essere notato. Invece, quando deve partecipare, è una schiappa. È peggio di una ragazza, e la maggior parte delle volte è lo zimbello di tutta la classe.

È una rottura avere un tipo del genere nello spogliatoio. Corre voce che sia meglio stare attenti quando lui è dentro. Nessuno di noi vuole che una checca come Chuckie ci fissi mentre ci cambiamo o mentre facciamo la doccia.

“Dai, che schifo!” esclamo.

Gomer fa penzolare in aria un sospensorio macchiato di piscio.

“Hai qualche problema, bello? Non controlli più la vescica?” chiedo.

Tutti i ragazzi ridono, compreso Gomer. “Non è mio! Era qui davanti al mio armadietto. Credo che si caduto dal suo”. Indica nella direzione di Chuckie. Lui è seduto su una panca di fronte a Gomer; è l’unico, nello spogliatoio, che non segue la conversazione.

“Cosa ci fai con quel sospensorio, frocetto? È tuo?”, chiedo ad alta voce.

Ovviamente lui non risponde, ma guarda dall’altra parte.

Non mi piace essere ignorato. “Frocio! Sto parlando con te!”. Adesso mi sta facendo girare i coglioni.

Mi muovo in avanti, afferrando il sospensorio puzzolente dalle mani di Gomer mentre mi avvicino alla checca. Credo di vederlo sussultare, forse tremare.

La mia sicurezza cresce ancora di più.

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“Piccolo finocchio scherzo della natura, ho detto che sto parlando con te!

Rispondimi!” Ora gli sono sul viso, e tengo il sospensorio a pochi centimetri dal suo naso. Si sposta sulla panca e distoglie lo sguardo.

“No,” dice sommessamente. “Non è mio”.

“Cosa?” urlo io. Sento Gomer che ride dietro di me. “Non è tuo? Allora che cosa ci facevi? Di chi è?”

La sua faccia è diventata paonazza. Probabilmente sente che tutti lo stanno guardando. Il suo imbarazzo mi diverte. Adoro vedere che si agita. Adoro il potere, quell’enorme scarica di adrenalina. Potrei giurare che vuole evitarmi, ma non c’è nessun posto dove nascondersi.

Ogni volta è la stessa cosa. All’inizio cerca di mantenere la sua posizione.

È risoluto nel negare, mentre dichiara di non sapere niente del sospensorio. Ma ovviamente non funziona. Sono più grosso di lui, e parecchio più forte. In più, tutta la squadra è dalla mia parte. Lui non ha nessuno, è completamente solo e indifeso.

Mi dice di lasciarlo stare. È davvero spassoso vedere che prova a lottare per sé stesso.

“Allora rispondi alla mia cazzo di domanda, frocio! Da quale armadietto l’hai rubato?”

Lo prendo per la maglietta e lo sollevo dalla panca, lo faccio girare e lo spingo contro gli armadietti. La mia adrenalina sale a mille. Sono pronto a spaccare il culo di qualche finocchio. Adesso ho capito tutto. So che quel frocio ruba i sospensori e li tiene nel suo armadietto. Il pervertito forse li usa per farsi una sega.

Che maniaco!

“Apri il suo armadietto, Gomer!” ordino, mentre tengo sempre bloccato Chuckie, con il sospensorio sulla faccia. “Guarda cos’altro c’è lì dentro, che cos’altro ha rubato”.

“Aspetta, per favore!” squittisce Chuckie.

Gomer non lo ascolta e comincia a rovistare nell’armadietto. Toglie lo zaino di Chuckie, tira fuori un paio di pantaloncini da allenamento, una maglietta, un paio

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di calzini puliti. Prende la biancheria intima di Chuckie e ride. “Sembrano mutandine!”, dice. Tutti ridono.

Si è raccolta una folla.

Non c’è più niente, solo un libro. Gomer lo prende, ridendo ancora più forte.

“L’arte di decorare torte!”

Mi giro per vederlo, sorpreso. “Ma che cazzo...?!” chiedo. “Hai un libro per decorare torte?” dico. “Oh mio Dio, sei veramente un finocchio! Cos’altro c’è lì, Gomer? Pompon? Un’uniforme da cheerleader? Una borsetta?”

Scoppiano tutti a ridere. Tutti tranne Chuckie. Gomer tira il libro a uno degli altri ragazzi. Se lo passano avanti e indietro, ridendo rumorosamente. Sento commenti come “Che frocio”, “finocchio”, e “femminuccia”.

Chuckie si agita. Sta per piangere, potrei giurarci. Quando piagnucola “Per favore, rimettetelo a posto”, sento la sua voce che si rompe. La sua debolezza mi dà la nausea.

Ho ancora il sospensorio in mano, ma chiudo il pugno e glielo ficco nella pancia. Mentre il suo corpo spasima lui caccia un urlo, cercando di piegarsi per il dolore, ma io lo tengo fermo con l’altra mano, premendogli contro il collo.

È ironico, veramente. Io adoro il potere. Adoro davvero far agitare qualche vittima indifesa. Adoro il fatto che lui sia debole e che non abbia scelta. Allo stesso tempo, però, la sua debolezza mi irrita. Il fatto che non sia abbastanza uomo da reagire mi fa schifo. È una strana combinazione di rabbia e piacere quella che mi scorre nelle vene quando mi trovo in situazioni del genere.

Quando lascio la presa, lui si accascia a terra. Mi ci butto sopra, lo tengo sotto di me e gli ficco il sospensorio in bocca. Ha le braccia bloccate sotto le mie gambe, ma non è più un problema. Ha smesso del tutto di opporre resistenza. Ha accettato il suo destino, la sua umiliazione.

Tutti i ragazzi mi incitano, sfottendolo.

Qualcuno dice che sta arrivando l’allenatore. Sgombriamo tutti il campo, e Chuckie scatta in piedi. Quando il coach entra ci comportiamo in modo normale.

Molti ragazzi stanno ancora ridendo, ma lui non ci fa caso.

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Chuckie non dice niente. Si sistema i capelli e si strofina la faccia. Lancio il sospensorio in fondo al mio armadietto. Chuckie ficca le sue cose nello zaino, compreso il libro sulla decorazione di torte.

Gli lancio un’occhiata, lo fisso dritto in faccia. È il mio avvertimento.

Chuckie è abbastanza furbo da non dire nulla. Non dirà mai niente, perché sa che se lo facesse, si scatenerebbe l’inferno.

SONO uscito con la stessa ragazza per due mesi. Jena non è solo la ragazza più sexy della scuola, ma è anche veramente intelligente. Sicuramente non è la classica cheerleader, anzi, partecipa a tutte le attività. Gioca a pallavolo, è nel gruppo musicale, fa parte di una confraternita e del gruppo di teatro. Per la verità, non è il tipo di ragazza che ci si aspetta che frequenti un atleta come me.

Ma ci siamo trovati in sintonia, e tutto è cominciato una sera al ballo scolastico. Essendo uno dei giocatori di football, sono molto più interessato allo sport che a uno stupido ballo. In realtà avevo pensato di fare presenza, squagliarmela presto con alcuni dei ragazzi e dare una festa per conto nostro.

Invece, non so come, attaccai discorso con Jena. Prima che me ne rendessi conto, stavamo ballando, e mi ritrovai a chiederle di uscire.

All’inizio, la maggior parte delle volte ci sentivamo per messaggio, ci chiamavamo al telefono o chattavamo su Internet. Le nostre giornate sono talmente piene, tra sport e attività scolastiche, che, per conoscere veramente qualcuno, devi avere almeno un Blackberry.

“Ehi”. Sento la sua voce e le sue mani morbide che mi toccano la schiena.

Avvolge le sue braccia intorno a me e mi stringe da dietro. Mi giro e la abbraccio, le do un bacio veloce e le sorrido, guardandola negli occhi.

“Ciao, bellezza”, rispondo. Siamo di fronte al mio armadietto; lo chiudo.

Poi le prendo la mano.

“Stasera c’è la prima prova generale. Vieni?”, mi dice.

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“Sì, perfetto. Verrò dopo l’allenamento. Non sono mai stato a vedere uno spettacolo, sai?”.

Mi guarda scettica. “Davvero?”

Annuisco. “Giuro. Non sono, ehm…beh, queste cose non mi fanno impazzire… ma tu sì!”.

Sorride dolcemente. “Ottima risposta”, poi tira lì una battuta. “Beh, neanch’io di solito vado matta per un mucchio di ragazzi che si assaltano sul campo di football, ma vengo alle tue partite”.

Rido. “Lo so. È quello che stavo dicendo. Forte”.

“Ma mi piace guardarti, con quei pantaloncini attillati”, mi stuzzica, sfiorandomi la schiena con la mano. Mi piego in avanti e la bacio di nuovo, poi ci avviamo in classe.

Il coach è uno stronzo oggi agli allenamenti. È una merda; non ci aveva mai massacrato così. Non esco dal campo prima delle sei passate. Mi faccio una doccia e vado verso l’auditorium, dove è già iniziata la prova generale. È buio, e il teatro è quasi pieno. Vado al corridoio centrale e mi siedo in prima fila. Jena è in scena.

Sta cantando, e con mia grande sorpresa scopro che ha una voce angelica.

Avrei dovuto saperlo. È brava in tutto quello che fa. Ma la canzone non è da solista;

sta cantando rivolta al personaggio maschile principale. Rimango scioccato quando lui si gira verso il pubblico e comincia a cantare. Esegue i suoi versi con chiarezza e fiducia in sé stesso, e la sua presenza scenica è maestosa. Non posso credere che sia Chuckie.

A bocca aperta scuoto la testa, piuttosto sbigottito. La passione e la chiarezza della sua voce riecheggiano nell’auditorium. La voce da soprano di Jena si armonizza in maniera magica con quella da tenore di lui, perfettamente intonata.

Sul palco si muovono insieme, fluidi, in una coreografia impeccabile. Distolgono lo sguardo dal pubblico, si girano l’uno verso l’altra, e Charles le prende le mani, guardandola dritto negli occhi.

Non sembra affatto un rammollito. A dire il vero, sarà sette o otto centimetri più alto di Jena, e in scena, con quel costume, le spalle sembrano più larghe, la

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postura è decisamente sicura. Lei gli risponde come ipnotizzata dalla sua voce ammaliatrice. Ed è veramente magico. Quel tipo dovrebbe essere a American Idol, o qualcosa del genere.

Mi toglie il fiato, letteralmente. Guardo il resto delle prove in silenzio, estasiato. Jena è fantastica, e so che la rappresentazione sarà un successo. Ma, soprattutto, sono sorpreso da lui, dal…ehm…dal frocio.

Continuo a ripensarci tra me. Diventa sempre più difficile concentrarmi mentre ripenso al modo romantico in cui si guardavano negli occhi. Provo una sensazione a cui non sono abituato. Gelosia, forse? Ma perché? Lui non è niente in confronto a me, e nella vita, quella vera, è un grande pappamolla. Un frocio. Uno che decora torte, cazzo.

Alla fine dello spettacolo mi alzo per applaudire; mentre gli attori guadagnano il centro del palco, Jena e Charles si inchinano tenendosi per mano.

Charles è raggiante. Credo di non averlo mai visto sorridere così. Scuote leggermente la testa per spostarsi i capelli dagli occhi e, mentre lo fa, mi ricordo dei suoi modi effemminati. Quell’effeminatezza è sempre stata la caratteristica che ho odiato più di tutte in lui. Finora, però, sul palco, questo suo lato non si era notato.

Credo che sia il suo modo di recitare. È talmente bravo, a quanto pare, che dà l’impressione di essere etero. Anche nella scena romantica dove doveva baciare Jena, per un attimo ho creduto che fosse vero.

Ridacchio tra me e me, rendendomi conto dell’ironia di quella situazione. Il tipo che ho tormentato per così tanto tempo adesso è il protagonista maschile dello spettacolo in cui recita la mia ragazza. È un frocio, ma è di fronte a lei che interpreta il suo amato. Nonostante le idee di quelle persone, dei finocchi, così come quello che fanno tra di loro mi dia la nausea, credo di essere sollevato di sapere che quello che sta là sul palco a baciare pubblicamente la mia ragazza sia una checca. Credo che se ci fosse stato qualcun altro al posto di Charles, sarei stato veramente geloso, a maggior ragione con un’interpretazione così convincente.

Appena le luci dell’auditorium si accendono, Jena mi vede. È ancora sul palco, e mi sta chiamando. “David!”. Mi saluta con entusiasmo, si precipita dietro

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le quinte e si fa strada verso l’auditorium. “Grazie mille di essere venuto!”. Il suo costume è enorme, gonfiato dalla sottogonna. Sembra che cammini a mezz’aria mentre mi si avvicina.

“Sei stata fantastica!”, le dico. “Non avevo idea…”.

“Oh, grazie tesoro!”. Mi si avvicina, si alza sulle punte, e mi bacia proprio sulla bocca. La stringo fra le braccia e la chiudo nel mio abbraccio. “Attento, ti macchio il viso col trucco. È tutto incrostato”.

“Sei meravigliosa… bellissima”.

Ridacchia e si allontana, guardandomi di nuovo negli occhi. “Quindi ti è piaciuto?”

Annuisco con energia. “Sì, davvero. Ero come trasportato. Giuro su Dio”.

“Beh, domani è il grande giorno, la prima. Credo che avrei dovuto farti aspettare fino ad allora per vedere lo spettacolo”.

“Nah, così posso vederlo due volte”, dico io. “E domani non ho nemmeno gli allenamenti, così posso vederlo dall’inizio”.

“Che bello, David! Puoi venire anche alla festa del cast, allora?”

Penso un attimo a Charles. Sarà a dir poco imbarazzante, ma come faccio a dire di no? “Certo”. Sorrido nel modo più sincero possibile.

“Ok, mi puoi aspettare per altri dieci minuti? Mi cambio e ti raggiungo qui fuori”.

“Sì, va bene”.

È tornata normale, con un paio di jeans e un maglioncino stretto. Andiamo verso l’Internet Cafè. È una sorta di ritrovo per i ragazzi, e ci abbiamo passato un bel po’ di tempo nell’ultimo paio di mesi, per conoscerci meglio. È un po’ come se fosse il nostro angolo, credo. Lei è così naturale, dopo essersi tolta il trucco di scena.

Ha raccolto i capelli in una coda. Sembra dolce e innocente. E questo è quello che mi piace più di tutto in lei.

Mi racconta tutta eccitata dello spettacolo, mi parla dell’estenuante programma di prove, ed è entusiasta della sua esibizione di stasera. “Sai, è così tutte

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le volte, in realtà. Ti sembra sempre di non essere pronta in tempo; poi però, a quanto pare, all’ultimo secondo tutto quadra alla perfezione”.

“Hai una gran bella voce”, le dico.

“Davvero?”. Beve un sorso di coca. Siamo a un tavolino, seduti uno di fronte all’altra. “Dai, credo di avere tutt’al più una voce comune. Ma Charles… Charles è incredibile. Non ho mai sentito nessuno col suo talento. Diventerà famoso un giorno, vedrai”.

Aggrotto le sopracciglia, anche se non volontariamente.

“Non credi?”, mi chiede. “Quel ragazzo andrà a Broadway… o a American Idol”.

Mi ricordo di aver pensato proprio la stessa cosa. “Ma lui non è… ehm…

capito…?”

Lei mi guarda perplessa. “Cosa?”. Sorride ancora.

Alzo le spalle. “Ho sempre pensato che fosse… sai, un frocio, una checca”.

Subito il suo sorriso scompare, e diventa molto seria. “David, non usare queste parole”. È come se rimproverasse un bambino piccolo.

Mi sento un po’ in imbarazzo; una sensazione a cui non sono abituato.

“Quali?”, dico io, sulla difensiva.

“Probabilmente Charles è gay. Non lo so, in realtà, e non mi interessa. Ma non insultarlo”.

Sono scioccato dalle sue parole. Non posso credere che lo difenda anche se pensa che sia un finocchio. “Quindi anche se fosse, ehm, gay, ti andrebbe bene?

Anche se ti bacia in quel modo?”.

Lei ride suo malgrado, ma la sua espressione rivela che non è divertita.

“David, si chiama recitazione. Mi bacia perché il personaggio che interpreta è innamorato di quello che interpreto io. Come nei film, sai”. Mi spiega le cose lentamente, come se fossi uno delle medie.

Sono un po’ irritato. Ma solo un po’. Cedo. “Scusami”, dico. “Non so. Un po’ mi infastidisce, credo. Se pensi a dove può essere stata quella bocca”.

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“Non essere volgare”, dice lei. “Cerco di non pensare a dove può essere stata la bocca di chiunque… compresa la tua”.

Credo di essermelo meritato. Sono ancora sorpreso di sentirla così sulla difensiva. “Quindi ti piace? Ti piace quel tipo?”

“Il suo nome è Charles, e lo adoro. David, è il ragazzo con l’animo più gentile che abbia mai conosciuto. È una persona premurosa, sensibile e di grande talento, ed è un onore anche solo stare insieme a lui sul palco. Vorrei solo che…

vorrei che tu cercassi di aprire un po’ la mente”.

Sospiro e la guardo dritto negli occhi. “Beh, fa educazione fisica con me.

E… ehm… è completamente diverso da come lo descrivi tu. È piuttosto irritante, sai. Non partecipa, non fa nulla”.

“E questo per te è irritante?”. Ora è meno sulla difensiva. È come se stesse cercando di comprendermi sinceramente, di capire il mio punto di vista. “Sai, non tutti sono bravi negli sport. Evidentemente Charles ha altre doti”.

“Come quella di decorare torte”, borbotto.

“Cosa?”, dice lei.

“Decora torte”.

“Davvero?”, mi chiede allegra, sinceramente interessata.

“Non lo trovi strano? Un ragazzo della nostra età con la passione per le torte.

Lei scuote la testa, sorridendo ancora. “No, credo che sia fico, e non mi sorprende. Scommetto che è bravissimo. È molto creativo”.

Vorrei raccontarle del sospensorio ma non credo sia una buona idea. Lo difende troppo. Forse dovrei soltanto cambiare argomento.

“Sono preoccupata per lui, però”, dice. “Credo che a molti ragazzi lui non piaccia. Tanti sono gelosi, e non capiscono perché è così timido”.

“Non sembrava timido stasera”, dico. Mi ficco un mini pretzel in bocca.

“No, cioè… è così. Non è timido quando è sul palco. L’hai visto. È fantastico. Ma a scuola, è un tipo piuttosto solitario. Non voglio che se la prendano con lui. Sai, sarebbe carino se tu ci stessi un po’ attento. Assicurati che nessuno faccia il bullo con lui”.

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Inghiottisco il resto del mio pretzel prima di spalancare la bocca. “Io?”, chiedo.

“Sì. Tienilo d’occhio. Assicurati che nessuno se la prenda con lui”.

“Almeno Chuckie sa che esci con me?”, chiedo.

“Charles”, mi corregge. “Odia essere chiamato Chuckie o Chuck, e ovviamente lo sa”.

Sono sorpreso. Non posso credere che non le abbia detto niente di come l’ho torturato. “E non ti dice niente di me?”

“Intendi qualcos’altro a parte quanto sono fortunata ad avere un atleta così sexy e popolare come fidanzato?”. Sorride.

“Per favore, dimmi che non ti ha detto questo!”

Lei comincia a ridere. “Perché? Ti darebbe fastidio se un ragazzo gay pensasse che sei sexy? Dovresti prenderlo come un complimento”.

“Mi sembra che tu abbia detto che non sapevi se fosse gay o meno”.

“Ho detto che non mi importa se lo è o non lo è. Anche se me lo confessasse, non diffonderei mai la notizia senza il suo permesso. E se fosse gay, come potrebbe non accorgersi di quanto sei sexy? Di solito i ragazzi gay hanno gusti migliori persino delle donne in fatto di uomini”.

“Questo non è vero”, le dico, scuotendo la testa. “Io non voglio che qualche… (sto quasi per dire di nuovo “frocio”), qualche ragazzo gay mi faccia le lastre”. Mi ricordo del sospensorio.

“Ehi, rilassati”. Ride, mentre mette la sua mano sulla mia. “Non ha mai detto niente del genere. Giuro che non avrei mai pensato che tu fossi omofobo”.

“Non sono omofobo”, insisto. Tolgo la mano da sotto la sua e prendo un altro pretzel.

“Mhmm”, dice lei, “sembrerebbe”.

“L’omofobia è quando qualcuno ha paura dei finocchi, e io non ho paura di lui…né di nessuno!”

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A questo punto sembra davvero che si stia irritando. “Prima di tutto”, dice,

“non sono finocchi. E, seconda cosa, credo che tu abbia paura di loro. Hai paura che Charles possa essere attratto da te. Cosa credi, che ti faccia delle avances o cosa?”

“Farebbe bene a non farlo!”, dico io sulla difensiva. “Non se ci tiene alla pelle”.

“Oh mio Dio!”, esclama. “Sei davvero omofobo. Charles non è un predatore o roba simile. Non va in giro a reclutare ragazzi etero, e anche se avesse una cotta per te, questo non ti renderebbe gay”.

“Possiamo cambiare argomento?”, dico io. “Va bene che ti piaccia, ma non pensare che diventerà il mio migliore amico. Siamo troppo diversi”.

“Non ti sto chiedendo di essere il suo migliore amico. Assicurati solo che nessuno sia cattivo con lui, ok?”

Alzo gli occhi al cielo e guardo altrove; poi torno a guardarla. Con un sospiro, alla fine cedo alle sue richieste. “Bene. D’accordo. Ci starò attento”.

“Grazie”, dice, sorridendomi e prendendomi di nuovo la mano.

LA mattina dopo arrivo presto in palestra. Mi alleno con il mio compagno di squadra Tom tre volte a settimana, prima di entrare a scuola. Non è ancora arrivato, ma va bene. Vado al mio armadietto e mi preparo. Rovistando tra le mie cose, scopro che non ci sono i pantaloncini da allenamento. Li ho portati a casa per lavarli? So che non l’ho fatto. Porto i panni sporchi a casa solo il venerdì. Strano.

Meno male ho anche i pantaloni della tuta, ma che palle doversi allenare in pantaloni lunghi. Poi all’improvviso mi ricordo cosa è successo l’altro giorno con il sospensorio.

Comincio a rovistare nell’armadietto, facendo l’inventario delle mie cose, e mi accorgo che i pantaloncini non sono l’unica cosa che manca. Ci dovevano essere almeno quattro sospensori, e non trovo una maglietta.

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Penso di sapere cosa sta succedendo. Quella checca ruba davvero la roba.

Mentre vado verso il suo armadietto sento la rabbia che mi sale. Giuro che lo ammazzo quel frocetto. Chi se ne frega di cosa pensa Jena.

Quando forzo lo sportello del suo stipetto, scopro che è completamente vuoto. In realtà non mi sorprende. Gli armadietti della palestra non hanno chiusura, e la maggior parte dei ragazzi non ci tengono dentro cose di valore. Li usano solamente per lasciarci la roba durante la lezione di educazione fisica. Se fossi furbo, farei lo stesso, ma io quasi ci vivo là dentro. Non è pratico per me portare avanti e indietro tutta la roba dall’armadietto principale. Forse dovrei soltanto comprarmi un lucchetto.

Scommetto che il frocio tiene tutta la nostra roba da allenamento a casa.

Cioè, Jena mi ha praticamente detto che lui le ha confessato di avere una cotta per me. Scommetto che quel finocchio tutte le sere si fa una sega mentre annusa le mie cose. Che schifo! E, peggio ancora, si fa amica la mia ragazza, probabilmente per avere informazioni su di me.

Sono incazzato, e sono pronto a scovare quella testa di cazzo. Gli dirò due paroline oggi in palestra, e gli ricorderò di tenere giù le mani dalla mia roba… e dalla mia ragazza! Quando Tom entra sono ancora furioso.

“Ehi”, mi saluta mentre si avvicina al suo armadietto. Mi giro per guardarlo, e lui si accorge subito che sono agitato. “Che hai?”, mi chiede.

Scuoto la testa. “Niente”, dico. Sono indeciso se dirgli del frocio, ma a dirla tutta è piuttosto imbarazzante. Me la vedrò da solo.

Tom apre il suo armadietto e si sfila il maglione. Mentre si cambia, torno al mio e finisco di vestirmi. Mi giro e vedo un paio di shorts sul pavimento, di fronte allo stipetto di Tom. Sono blu, proprio come quelli che non trovo. Mi avvicino.

Lui li raccoglie velocemente e li tira dentro, poi chiude lo sportello.

“Senti bello, sono un paio di pantaloncini in più quelli? Me li presti?”

Scuote la testa, con un sorriso nervoso. “No, sai, sono sporchi. Meglio di no”.

Alzo le spalle. “Non m’importa. Tanto mi faccio la doccia quando finiamo”.

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Tom sta diventando rosso. È strano; si comporta in modo assurdo. Mi avvicino all’armadietto e metto la mano sulla maniglia. Lui spinge il palmo della mano sullo sportello per non farmelo aprire.

“Ehi, che succede?”, chiedo. “Fammi aprire lo sportello”.

Scuote la testa. Perché è così nervoso? Perché si comporta così? “Ho detto apri questo cazzo di sportello!”

Trema mentre fa un passo indietro. “Per favore…”. Ha la voce rotta.

Apro lo sportello e rimango a bocca aperta. Non riesco a credere a quello che vedo. L’armadietto è stipato di roba. Pantaloncini, sospensori, e chi più ne ha più ne metta.

“Ma che cazzo…?”, dico. “Sei tu che rubi la roba? Cazzo! Perché?”

La sua faccia è talmente rossa che posso chiaramente vedere il suo imbarazzo. Sta tremando. “Mi dispiace”. La sua voce è un sussurro.

“Cosa ci fai con tutta questa roba? Con tutta questa roba mia!”

“Io… Io…”, balbetta.

“Cavolo, perché mi rubi le cose? Io… credevo fossimo amici”.

“Ti giuro”, dice, “non stavo rubando. Per favore, devi credermi. Avrei restituito tutto. Cioè, ehm, lo faccio sempre”.

Adesso sono confuso. “Lo fai sempre?” chiedo.

“Vedi… io… diciamo che ho questa fissa per la roba… Per la roba da allenamento”.

“Tom”, dico, indietreggiando, “sei un frocio?”

Con gli occhi pieni di lacrime, distoglie lo sguardo e si copre la faccia. “Non lo so!”, piange.

Non posso credere alle mie orecchie. Tom, il mio migliore amico, un finocchio? E peggio ancora, mi ruba la roba; e a che scopo? “Ok, sarà meglio che cominci a spiegarti, se non vuoi che mi incazzi di brutto!”

“Mi dispiace”, dice di nuovo. “Io… non so perché, ma sì, è vero. Io… non mi piacciono le ragazze. Mi piacciono i ragazzi, e io…”

“Rubi le nostre cose, vai a casa e ti ci fai una sega?”, lo accuso io.

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“Non è così”, insiste. “Davvero. Non so… è solo che ho… ehm, credo che sia un’ossessione o qualcosa del genere”.

“Sei un frocio! Sei una checca, come Chuckie!”

“Dave!”, praticamente supplicandomi, “per favore, non dirlo a nessuno!”

Scuoto la testa, disgustato. “Ridammi la mia roba! Tutto!”

Ancora tremante, torna allo stipetto e tira fuori una pila di oggetti. Li smista nervosamente e mi passa tutto ciò che mi appartiene. Strano a dirsi, ma si ricorda qual è la mia roba, anche se è parecchia.

Afferro le mie cose e mi allontano. “Trovati un altro compagno per allenarti!”, dico. “E se ti azzardi a prendere di nuovo anche una sola cazzo di cosa da chiunque, tutta la scuola lo saprà!”

Butto la roba nell’armadietto e mi vesto velocemente. Poi esco dallo spogliatoio; oggi salto l’allenamento. Attraverso la stanza mentre vado verso l’uscita e sbatto forte le mani sulla porta. Mentre si apre, sussulto nel vedere Charles lì di fronte a me.

Lo guardo, sorpreso, e chiedo, “Che ci fai qui?”. Non si presenta mai in palestra prima di scuola, dato che non si allena.

“Scusa”, dice, facendo un passo di lato. Continuo a guardarlo severamente.

Sembra nervoso. “Devo solo prendere delle cose nell’armadietto”, dice.

So che sta mentendo: ho appena guardato nel suo armadietto ed era completamente vuoto. Non posso dirglielo, però, quindi annuisco. Lentamente mi passa accanto e prende il corridoio. Io attraverso la porta e continuo, entro nella palestra; ma poi mi fermo.

Aspetto qualche secondo, poi torno indietro, e sgattaiolo di nuovo nel corridoio. Voglio sapere che cosa combina Charles. Stando attento a non fare rumore, rimango fuori dallo spogliatoio. Sbircio dietro l’angolo e mi accuccio.

Charles sta parlando. “Hai fatto tutto, Tom?”

Vedo Tom di schiena, di fronte al suo stipetto. Scuote la testa. “No, ci ho provato, ma David era già qui… e sa tutto”.

“Cosa vuol dire, sa tutto?”, chiede Charles.

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“Ha trovato tutto. Ha trovato tutta la roba che ho preso. L’ha vista nel mio armadietto prima che la potessi rendere”.

“Merda!”, dice Charles, poi sospira. “Cos’ha detto?”

Tom si gira e lo guarda. “Ehm… beh, si è incazzato. Ha detto che devo restituire tutto, o lo dirà a tutta la scuola. E non mi vuole più come compagno di allenamenti”.

“Mi dispiace”, dice Charles. Sembra quasi che stia per stendere il braccio e toccare Tom, ma si ferma. “So che siete amici da tanto tempo”.

“Dalle elementari. Siamo migliori amici, o meglio, eravamo”.

“Quando gli passa, forse puoi provare a parlargli di nuovo. Magari quando si è calmato; magari capirà”.

“Ne dubito”, dice Tom, scuotendo la testa. “Non mi capisco nemmeno io”.

“Spero che lo faccia”. La voce di Charles è compassionevole. Sembra quasi che stia per piangere.

“Posso chiederti una cosa?”, dice Tom.

Charles annuisce e sorride.

“Perché mi hai coperto l’altro giorno… quando David pensava che fossi stato te?”

Charles scrolla le spalle. “Per prima cosa, dubito che se avessi detto la verità mi avrebbe creduto”. Si ferma per un momento. “In più, quei ragazzi già mi odiano.

Non importa se pensano che abbia rubato la loro roba. Se gli avessi detto che eri stato tu, la vostra amicizia si sarebbe potuta rovinare”.

“Beh, credo che avresti dovuto dirglielo, visto che ci sono riuscito da solo a rovinare la nostra amicizia. In più, ora devo restituire tutta questa roba, e appena lo scoprono gli altri, sono un uomo morto. Probabilmente sarò buttato fuori dalla squadra”.

Charles scuote la testa. “No, ascoltami”, dice. “Non restituirai niente!”

“Cosa? Che dici? È per questo che sono qui”.

“Prendi tutta quella roba e buttala nel mio armadietto”, gli ordina.

Tom lo guarda come se fosse fuori di testa.

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“Fidati! Fallo. Mettila nel mio armadietto e mi prenderò io la colpa. Loro credono che la colpa sia comunque mia”.

“Charles, non essere stupido”, dice Tom. “David ormai lo sa”.

“Ascolta, potresti dire a David che stavi coprendo me. Che ti dispiaceva per me e che non volevi che venissi picchiato. E che però, ripensandoci, ti sei reso conto che non era giusto che io rubassi”.

Tom ride. Non posso credere alle mie orecchie. “È da matti, Charles. David non ci crederebbe mai, e poi, non ti farei mai una cosa del genere. Fammi restituire tutto adesso. Abbiamo tempo se ci diamo una mossa: so dove va ogni cosa”.

“Speri di avere una borsa di studio per il football, giusto?”, chiede Charles, ignorando la proposta di Tom.

“Sì”. Tom fa segno di sì con la testa.

“Allora non buttare tutto all’aria! Se ti buttano fuori dalla squadra, non otterrai mai la tua borsa di studio. Pensaci. La cosa peggiore che può capitare a me è essere bocciato in educazione fisica, cosa che probabilmente succederà comunque”.

“Però i ragazzi ti uccideranno”.

Charles scuote la testa e sorride. “Sono molto bravo a chiedere pietà. Ho fatto un sacco di pratica. E se restituisci tutto adesso, per quale motivo David dovrebbe fermarsi? Perché non dovrebbe dirlo a tutti?”. Poi va allo stipetto di Tom, lo apre e prende tutte le cose che c’erano nascoste. Le ammucchia sulla panca dietro di lui e chiude lo sportello. “Se mi beccano con le mani nel sacco, non c’è modo che tu possa essere accusato”. Proprio mentre si gira per aprire il suo armadietto, sento dei passi dietro di me. Sono Gomer e Derek.

Mi giro veloce, cercando di far finta di andar via. Spero che non mi abbiano visto accucciato. “Ciao, ragazzi”, dico con nonchalance.

“Come butta?”, dice Gomer.

Gli faccio un cenno senza dire niente. Sono abituati a vedermi qui così presto. Mi superano e vanno verso lo spogliatoio. Cerco di pensare a qualcosa per fermarli, ma è troppo tardi.

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“Che cazzo succede?!”. Ovviamente hanno visto il mucchio di roba.

“David! Cazzo, vieni qui!”.

GOMER tiene Charles bloccato contro il suo armadietto; sta per picchiarlo. Chiude il pugno e lo carica indietro, pronto a colpire. Tom sta fermo a guardare, come se avesse paura di muoversi.

“Guarda questa roba!”, urla Gomer. “Ho beccato questo frocio di un ladro con le mani nel sacco!”

Charles trema, consapevole del fatto che sta per essere picchiato a sangue.

“Non colpirlo! Per favore”, dice Tom. “Stava, ehm, stava restituendo tutto”.

Gomer mi guarda, poi guarda Tom. “Perché ce l’aveva, tanto per cominciare?”

Charles si raddrizza un po’, dimenandosi, quando Gomer gli preme la mano sulla gola.

“Lascialo andare. Fallo parlare”, dico io calmo. Mi avvicino, metto la mano sul petto di Gomer e lo calmo. Lui si rilassa leggermente. “Faresti meglio a parlare”, dico a Charles.

“Mi dispiace”, dice, quasi sussurrando; poi inspira come se provasse a prendere sicurezza prima di continuare. “Non riesco a trattenermi. Io… ehm…

avevo preso in prestito la… la roba. L’avevo presa in prestito, e stavo per restituirla, ma Tom mi ha beccato. Poi siete arrivati voi”.

“È vero?”, chiedo a Tom. Entrambi sappiamo la verità, ma voglio vedere cosa dice davanti a Gomer e Derek. Rosso in viso, guarda Charles per qualche secondo. Poi annuisce in silenzio.

Tom deve essere terrorizzato. Sa che posso sputtanarlo quando voglio, e dire ai ragazzi che prima ho trovato la roba nel suo armadietto.

“In realtà”, dice Charles, “Tom ha trovato tutto ieri, quando ha guardato nel mio stipetto. Mi ha preso la roba e l’ha messa nel suo, dicendomi di venire qui stamattina presto per restituirla prima che venisse qualcuno”. Parla veloce, come

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una mitraglietta. Sta cercando una scusa che spieghi perché stamani i vestiti erano nell’armadietto di Tom. Non sa che Tom mi ha già detto tutto, e non sa che ho origliato la loro conversazione pochi minuti fa.

“Sei disgustoso!”, urla Gomer. “Frocio del cazzo!”

“Gomer”, dico io con calma, “c’è qualcosa di tuo tra questa roba?”

“Sì, un sacco di roba!”

“Prendila e vai in palestra. Sfoga la rabbia nell’allenamento”.

Mi guarda fisso, scioccato. “Ma è un ladro!”

“Hai ripreso la tua roba. Non ha nessun danno. Prendila e stai zitto!”. Lo guardo dritto negli occhi.

“Sei fuori?”, dice.

“Fallo!”

Gomer indietreggia, e Derek lo segue velocemente. In pochi secondi se ne sono andati, entrando in palestra come delle furie.

Mi giro verso Tom, guardandolo dritto negli occhi. “Rimetti il resto della roba dove deve stare”, dico. Tom obbedisce veloce, affrettandosi a depositare gli oggetti nei diversi armadietti. Mentre lo fa, metto la mano dietro al collo di Charles e gli dico, “Andiamo”. Lo spingo verso il corridoio, e usciamo insieme.

Camminiamo un bel pezzo per il corridoio, e io tengo la mano salda sulle spalle di Charles, camminando subito dietro di lui. Non sa bene quale direzione prendere una volta nella palestra, e io gli faccio un cenno verso le gradinate. Senza dirci una parola, mi siedo, facendogli segno di fare lo stesso.

Guardo altrove per un istante, e vedo Gomer e Derek dall’altro lato della palestra che stanno iniziando le loro serie. Alla fine, scuotendo la testa, sospiro, e mi concentro di nuovo su Charles. “Perché? Perché hai mentito per proteggerlo?”

Charles mi fissa, probabilmente si chiede per quale motivo non l’abbia insultato o minacciato con violenza. Però non sembra spaventato. Anzi, è molto calmo, e per una volta sembra sicuro di sé. È quasi come la sera prima sul palco.

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“Tom è l’unica persona della scuola che mi abbia mai capito”, dice Charles.

La sua voce è ferma. “È venuto a chiedermi aiuto, o forse si trattava piuttosto di appoggio. Mi ha detto di lui, di com’è veramente”.

“Gay?”, chiedo.

Charles annuisce. “Non è una persona cattiva. Non avrebbe dovuto prendere i tuoi pantaloncini, né, ehm, tutta l’altra roba. Non lo sto difendendo per questo. Ma sai cosa? Credo che non sapesse cosa fare. Si è trovato in questa situazione in cui era circondato da tutti voi atleti. Provava dei sentimenti, aveva delle fantasie, sai.

Non… non stava ragionando in modo razionale.

“A volte è difficile. È difficile quando non c’è nessuno con cui parlare. Non puoi chiedere a qualcuno di uscire, né andare a un appuntamento, né tantomeno dire a tutti chi sei veramente. Ha visto come siete voi. Voi odiate i gay. Li insultate, li picchiate. Sapeva che avreste odiato anche lui se aveste saputo la verità”.

“Non sopporto che sia un ladro”, ammetto.

Charles scrolla le spalle. “Hai ragione, ma davvero, non stava mentendo quando ha detto che avrebbe restituito tutto. All’inizio, si trattava solo di un oggetto qua e là. Poi però gli è sfuggita di mano…. Ehm, beh, hai capito”. Ride suo malgrado, rendendosi conto del gioco di parole involontario.

Rido anche io. Non resisto. “È piuttosto contorto”, confesso, ridendo ancora.

“Lo so!”, dice Charles; scoppia a ridere. Ridiamo tutti e due adesso, in modo quasi isterico.

Alla fine torna serio. “E così il tuo migliore amico è un tipo strano. Gli piace sniffare sospensori. Poteva andarti peggio. Poteva essere uno di quelli che ha l’ossessione per i piedi. Allora avrebbe voluto annusare i tuoi piedi rancidi”.

“Non puoi dire sul serio?!”, dico io.

Charles ride di nuovo. “Dico solo…”

“Cioè, davvero ci sono dei ragazzi a cui piace annusarsi i piedi?”

“Non lo so”, dice. “Alla gente piacciono un sacco di cose strane. A ognuno il suo, credo”.

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Adesso ci sorridiamo, e non posso credere di essere veramente seduto qui a ridere con quel tipo, e che stiamo ridendo di… ehm, come chiamarle? Ossessioni sessuali da gay?

“Charles”, dico, “è stato molto coraggioso da parte tua, il modo in cui ti sei preso la colpa per lui. Io… ecco… credo di non essere stato giusto con te. Non sei così rammollito dopotutto”.

Mi sorride. È lo stesso sorriso a trentadue denti che ho visto la sera prima durante la chiamata alla ribalta. Poi scuote la testa delicatamente, spostandosi i capelli dagli occhi. I suoi modi di fare, però, stavolta non mi infastidiscono molto.

A dire il vero, non mi infastidiscono per niente.

“È la prima volta che mi chiami Charles”, dice.

“Quindi cosa dovremmo fare con Tom?”

Ci pensa per un secondo e all’improvviso gli si illuminano gli occhi. “Perché non gli chiedi se fosse interessato a farti il bucato?”

Lo fisso per un secondo, scioccato dal suo suggerimento. Charles scoppia a ridere, quindi mi rendo conto che sta scherzando. Lo colpisco affettuosamente, e lui ride ancora più forte. Ha le lacrime agli occhi dal ridere. Mentre torniamo insieme verso lo spogliatoio, gli metto il braccio intorno alle spalle e sorrido.

LO spettacolo è ancora più bello la seconda volta, e la performance di Charles è perfetta. L’applauso scrosciante alla fine della rappresentazione va avanti per quasi quindici minuti; dopo mi trovo con Jena, e insieme andiamo alla festa del cast.

Quando entriamo, la prima cosa che notiamo è un’enorme torta a tre piani.

È incredibile, come quelle che vedi ai matrimoni. Ci avviciniamo al tavolo per osservare la cascata. “Deve essere costata una fortuna!”, dico.

“È stata donata”, annuncia una voce dietro di noi.

Ci voltiamo e vediamo Charles nel suo abito a tre pezzi.

“Vi piace?”

“L’hai fatta tu, Charles?”, chiede Jena.

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22 Annuisce orgoglioso.

“È fantastica”, confesso. “Sei veramente bravo. E… la tua esibizione…”.

Sono senza parole.

“La tua esibizione di stasera è stata spettacolare”, continua Jena al posto mio.

Annuisco. “Sì, è quello che volevo dire io”.

“Grazie, ragazzi”, dice lui. “Adesso chi di voi due sta per chiedermi di ballare?”

Terrorizzato guardo Jena, e mi rendo conto di aver fatto molti progressi, ma non fino a questo punto. Lei e Charles si scambiano uno sguardo d’intesa e scoppiano a ridere. Poi Jena gli prende la mano e lo porta sulla pista da ballo, mentre io mi mangio una fetta della torta più buona che abbia mai assaggiato.

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DIVERSO

CAIDEN è stato una vittima per tutta la vita. Deriso e preso in giro dai suoi due fratelli maggiori, ha imparato presto cosa vuol dire essere perseguitato dai bulli. A scuola era anche peggio. La bassa statura, quell’aria da sfigato e da insicuro lo rendevano una specie di ritardato sociale. Anche i più aperti e i meno moralisti sembravano evitarlo. In una parola, era un perdente.

Non che Caiden fosse un codardo, ma aveva imparato presto che la sua miglior difesa contro l’aggressione fosse non difendersi affatto. Reagire era inutile, e qualsiasi tentativo avrebbe inevitabilmente avuto conseguenze molto più drastiche che non accettare passivamente la cosa. Lasciali divertire, lasciali sfogare, falli andare per la loro strada. Fa sì che finiscano il prima possibile, pensava Caiden, e presto tutto verrà dimenticato.

Ma per lo stesso Caiden non era così facile dimenticare quei momenti di strazio. Rimanere rinchiuso in uno stipetto a scuola per ore era terrificante. Andare in giro con foglietti incollati sulla schiena, sentirsi tirare addosso cibo e oggetti, essere preso a cazzotti nella pancia molte volte al giorno, non erano cose che poteva semplicemente cancellare dalla memoria. I soprannomi e gli attacchi verbali erano brutti allo stesso modo, se non peggio, e col passare del tempo, Caiden si era chiuso sempre di più, fino ad arrivare al punto di impedire a sé stesso di provare qualsiasi emozione.

A volte Caiden fissava la sua immagine riflessa nel grande specchio del bagno, e si chiedeva se quel ragazzo che vedeva fosse davvero lui. Si era fatto un video col telefono, e lo riguardava solo per capire se avesse davvero quella voce così nasale e quelle espressioni così goffe. Non voleva essere la persona che vedeva riflessa. Voleva essere più alto, più attraente, e voleva avere tratti decisamente belli e maschili. Voleva i capelli lisci, folti e lucidi, non ispidi e arruffati come i suoi.

Voleva spalle larghe e addominali scolpiti, duri come la roccia, e bicipiti grandi e forti, invece della corporatura scheletrica e debole che aveva in realtà. Ma più di tutto, avrebbe voluto non avere la necessità costante e incontrollabile di sbattere gli

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occhi e di torcere il naso quando era nervoso, o anche semplicemente quando si concentrava troppo.

Onestamente, non aveva idea di quando fossero comparsi i tic. Sapeva solo che era qualcosa che non poteva controllare. Più se ne preoccupava e più peggiorava. Era come sforzarsi di non pensare a un elefante rosa: quanto più cerchi di non immaginartelo, tanto più ti si fissa nella mente.

Caiden sapeva un sacco di cose sul bullismo, poiché spesso ne era vittima.

Sapeva che la maggior parte delle cose che la gente pensa di sapere sono sbagliate.

I suoi fratelli maggiori sapevano che era vittima dei bulli, e spesso erano proprio loro quelli che lo tormentavano. Sua madre lo sapeva, così come suo padre. Ognuno di loro aveva qualcosa da dire, e tutte le loro opinioni erano contrastanti, oltre a essere tutte sbagliate.

La madre di Caiden forse era l’unica più comprensiva, e ovviamente provava a dargli qualche consiglio utile. “Tesoro, sono solo gelosi”, diceva. Questo, naturalmente, era uno dei commenti più stupidi che avesse mai sentito. Caiden era consapevole del fatto che non c’era neanche un solo studente a scuola che potesse essere geloso di lui. Non aveva nessuna qualità o caratteristica da voler imitare. Non aveva nessun talento particolare, non era popolare, e certamente non aveva successo in niente che potesse dare a qualcuno anche un solo motivo per voler sembrare come lui.

Se il motivo che spingeva i bulli fosse stata la gelosia, il loro bersaglio sarebbero stati i ragazzi più belli e popolari. Ma erano proprio loro i ragazzi più belli e popolari, dunque la logica di sua madre non era corretta. Sicuramente aveva buone intenzioni, ma si sbagliava, così come si sbagliavano quasi tutte le altre persone che pensavano di capire.

Anche suo padre diceva cose trite e ritrite. Pensava che tutto ciò che una vittima di bullismo avrebbe dovuto fare fosse ribellarsi a chi gli usava violenza, una volta per tutte. La sua soluzione era semplicemente reagire. “I bulli sono codardi”, diceva, “e se li affronti, smetteranno”. Anche questo era del tutto falso. Chi maltrattava Caiden voleva proprio che lui provasse a rispondergli. Voleva proprio

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che reagisse, perché questo gli forniva ancora più carte da giocare contro di lui. Le poche volte che Caiden aveva provato a difendersi, aveva solo peggiorato le cose.

L’unica cosa che era riuscito a ottenere era stato mostrare quanto fosse impotente, debole e patetico.

Se Caiden provava a rispondere, i suoi torturatori gli facevano semplicemente il verso. Se cercava di respingerli, di reagire in qualsiasi modo, lo prendevano a calci in culo. Caiden aveva il sospetto che il motivo per cui suo padre gli desse un consiglio così ridicolo fosse che, in un certo senso, si vergognava di lui. Voleva che Caiden fosse più virile e meno rammollito. Quando suo padre diceva che i bulli erano codardi, Caiden sapeva che intendeva dire era che il codardo era proprio lui.

Gary aveva due anni più di Caiden, ed era il figlio di mezzo della famiglia.

In realtà non era molto comprensivo con il fratello, e di solito rideva quando se la prendevano con lui. Nelle rare occasioni in cui Gary trattava suo fratello minore come un essere umano, anche lui aveva qualche parola saggia da dispensare. “È colpa tua. Se tu non fossi così stupido, smetterebbero di offenderti”. Se non altro, in questo consiglio c’era un pezzo di verità. Il problema era che Caiden non sapeva come fare a cambiare. Aveva provato tantissime volte a essere meno sfigato. Aveva provato a inserirsi, a vestirsi e a comportarsi in modo meno appariscente. Ma i suoi tentativi erano falliti, anzi, sembravano peggiorare le cose.

Nel periodo in cui Caiden cominciava il liceo, suo fratello maggiore, Daniel, non viveva più con loro. Quando Caiden era piccolo, Dan lo prendeva in giro, e spesso assecondava Gary quando ridicolizzava o tormentava il fratellino. Ma quando Caiden ha iniziato a frequentare il liceo, Dan, avendo cinque anni di più, era già all’università. In realtà, Dan non si preoccupava molto di Caiden; anzi, per lui era soprattutto una seccatura. Una volta gli suggerì di ignorare i bulli. “Loro sanno com’è facile ottenere una reazione. Se li ignori, ti lasceranno in pace”.

Ovviamente, anche questo era un consiglio sbagliato. Caiden aveva trascorso tutta la vita a cercare di ignorare le derisioni, le provocazioni e gli insulti.

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Era rimasto volontariamente in disparte, tentando di essere il più invisibile possibile. Ma questo non ha mai impedito agli altri di prenderlo di mira.

La scuola di Caiden aderiva a un progetto per cercare di arginare il problema del bullismo. Questo veniva condannato, e si incoraggiavano gli studenti a impegnarsi nello scovare e nell’affrontare le prepotenze più feroci. La soluzione, dicevano, era che i testimoni parlassero, e che, se non fossero stati in grado di fermare le ingiustizie da soli, si sarebbero dovuti rivolgere a un adulto.

Con questo tipo di programma, il problema era doppio. Prima di tutto, i bulli non erano degli emarginati sociali. Era Caiden il reietto, perciò agli altri studenti non importava se lui veniva umiliato o maltrattato. Potendo scegliere, molti ragazzi avrebbero preferito schierarsi con gli studenti più popolari e rispettati (proprio i bulli). Pensare che questi testimoni si sarebbero precipitati in difesa di Caiden era piuttosto bizzarro.

Seconda cosa, se Caiden o qualsiasi testimone avesse riportato un episodio di bullismo a un’insegnante o al preside, l’episodio stesso sarebbe stato semplicemente negato. Non solo il bullo avrebbe negato assolutamente ogni tipo di malefatta, ma sarebbe stato anche in grado, senza problemi, di trovare testimoni che avrebbero confermato la sua versione. Il risultato sarebbe stato disastroso, e Caiden sapeva che alla fine ne avrebbe sofferto ancora di più.

Ogni giorno Caiden, più che vivere, puntava a sopravvivere. Aveva una strategia che non era di certo perfetta, ma sperava che potesse almeno limitare il danno. Sapeva che non avrebbe mai sconfitto i suoi bulli. Non li avrebbe mai battuti.

Non si sarebbe mai liberato completamente dei loro tormenti, ma era riuscito a trovare un modo per evitarli il più possibile.

Caiden passava la sua vita in incognito. Faceva qualsiasi cosa fosse necessaria per evitare di attirare l’attenzione. Stava lontano dagli studenti che sapeva che lo odiavano di più. Cercava di non disturbare nessuno, non esprimeva mai un parere, non alzava mai polveroni. Lo spiacevole effetto collaterale di questa strategia, però, era che Caiden diventava un tipo sempre più solitario. Le sue capacità relazionali, già inesistenti, peggioravano. Era diventato un circolo vizioso.

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Si sentiva un outsider perché non sapeva come interagire. Questo alimentava il bullismo, che a sua volta lo faceva chiudere ancora di più in sé stesso. E questo fomentava ancora di più i bulli; e il ciclo continuava, peggiorando ogni volta.

L’unica amica di Caiden era una ragazza di nome Liz Marie. Ironia della sorte, Liz era praticamente tutto l’opposto di Caiden. Se lui era timido e riservato, lei era estroversa e vivace. Diceva sempre la sua, e sembrava fregarsene di cosa pensavano gli altri. Forse era per questo che anche lei era una sorta di emarginata, visto che non aveva mai provato a far parte della massa.

Ovviamente, Liz sapeva come veniva trattato Caiden, e quando era nelle vicinanze, accorreva in suo aiuto. Aveva impedito molte volte che si verificassero episodi di violenza, e per questo Caiden le era davvero riconoscente. A essere sinceri, però, qualche volta lo imbarazzava. Anche se si sentiva al sicuro in presenza di Liz, sapeva che non era così virile nascondersi dietro a una ragazza. Si rendeva conto che farsi difendere da lei spesso lo faceva apparire ancora più debole e più patetico.

Liz Marie era una ragazza più grossa rispetto alle sue compagne, e per il suo peso spesso diventava il bersaglio di molte battute. Probabilmente anche lei era vittima di bullismo, anche se non aveva mai un atteggiamento da vittima. Sembrava che non si facesse ferire dai commenti maligni e dalle battute offensive sul suo peso.

Caiden sospettava che invece le facessero più male di quanto desse a vedere.

Avrebbe voluto essere forte come Liz e non dare peso alle parole e alle azioni offensive dei suoi compagni.

Era stato facile per Caiden dire la verità su sé stesso all’amica, e quando lo fece, la reazione di lei fu proprio tipicamente “alla Liz”.

“Passami il ketchup, per favore”, disse.

“Liz, ti ho appena rivelato il mio segreto più profondo e personale”.

“Lo so, tesoro. Ora passami il ketchup”.

Caiden alzò gli occhi al cielo e le passò la bottiglia. Erano seduti da soli, più o meno isolati, a un tavolo nell’angolo della caffetteria della scuola.

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Liz sospirò. “Carissimo, adesso lascia che ti confidi il mio segreto”. Si piegò in avanti, vicinissima a Caiden, per sussurrargli all’orecchio. “Sono grassa”.

Lui le si allontanò e la guardò negli occhi con un sorriso a trentadue denti.

“Ma va?!”.

“Esatto!”, rispose Liz. “Il tuo grande e oscuro segreto è una rivelazione proprio come lo è la mia confessione di essere sovrappeso. È ovvio… che scoop!”

“Davvero?”, chiese lui. “Quindi credi che tutti lo sappiano già?”

Si ficcò una patatina in bocca e scosse la testa. “Quegli idioti non sanno un cazzo. Sanno che sei diverso, tutto qui. Per loro, tutti quelli che sono diversi sono froci”.

Caiden sapeva che quello che stava dicendo Liz era vero. L’odio che affrontava tutti i giorni non aveva a che fare tanto con il suo orientamento sessuale, quanto piuttosto con il suo modo di presentarsi. Anzi, Caiden sapeva di un paio di studenti dichiaratamente gay che, a essere onesti, non erano diversi dagli altri. A dirla tutta, Caiden pensava che fossero anche peggio degli omofobi, perché erano loro i veri codardi. Sarebbe stato troppo rischioso per loro parlare e difenderlo. Farlo avrebbe potuto mettere a repentaglio la loro reputazione, e avrebbe potuto rendere anche loro delle prede dei bulli.

Quando durante una partita di dodgeball quattro giocatori lo presero di mira, Rick Burch rimase in disparte a guardare. I bulli tormentavano Caiden, lo chiamavano frocio e femminuccia e lo prendevano a pallonate. Rick rimase lì a ridere, come se non sentisse le parole velenose che uscivano dalle loro bocche. In più, fu proprio lui quello che lo prese in giro quella volta che comparve un vibratore nell’armadietto di Caiden. Rick fu uno dei primi a ridicolizzare Caiden, ancora confuso, suggerendogli di tenere a casa i suoi giocattoli sessuali.

Quando Caiden scoprì che Rick era gay, era piuttosto eccitato, fantasticava, pensava che forse sarebbero potuti diventare amici. A dire il verso sembrava un’aspettativa molto elevata, ma Caiden credeva che se fosse stato abbastanza coraggioso da dire la verità su di sé a Rick, forse questa cosa che avevano in comune avrebbe potuto aiutarli a diventare amici. Ma non gli ci è voluto molto per scoprire

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che anche tra gay esiste una gerarchia. Rick faceva parte dell’elite e, anche se probabilmente aveva già subito la sua parte di discriminazione, non era comprensivo con i perdenti come Caiden.

Caiden sapeva di un altro studente apertamente gay, una ragazza di nome Tina. Aveva un atteggiamento molto duro e sicuro di sé, e i suoi modi di fare erano piuttosto mascolini. Aveva una camminata spavalda, e usava un linguaggio che avrebbe fatto arrossire un marinaio. La sua linguaccia e la sua sfrontatezza erano come uno scudo contro ogni tipo di omofobia. Caiden si teneva alla larga da Tina, perché sapeva che lei lo odiava, non solo perché era un maschio, ma anche perché lo vedeva come un rammollito. Per Tina, Caiden non era nessuno. Era solo un debole miserabile che doveva tirare fuori le palle.

RICHARD Andrew Burch non aveva vita facile, soprattutto perché era l’unico ragazzo dichiaratamente gay del liceo di Crestwood Hills. E dichiararsi pubblicamente non era stata una decisione facile. C’erano giorni in cui si sentiva veramente soddisfatto di sé, orgoglioso di aver avuto il coraggio di rimanere saldo sulla sua posizione e essere sé stesso; ma altri giorni era un inferno. In quei momenti, Richard avrebbe voluto rifugiarsi di soppiatto in un angolo e diventare invisibile.

In Rick, ciò che faceva la differenza era il fatto di essere una persona piuttosto sicura di sé. Era stato educato a essere orgoglioso di sé stesso, e questo alto grado di sicurezza si era trasformato in una personalità estroversa e socievole.

Rick era sempre stato un ragazzo popolare e benvoluto, e non dava fastidio il fatto che fosse intelligente o avesse uno stile fuori del comune.

Per dire la verità, non è che Rick si credesse tanto migliore di chiunque altro.

Alcune volte era preoccupato che la sua disinvoltura venisse fraintesa per arroganza; allo stesso tempo, però, se qualcuno aveva un problema riguardo al suo modo di essere, si trattava di un problema loro, non suo.

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