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"Ospedali tra teoria e pratica architettonica" in Costruire in Laterizio n. 182, marzo 2020

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ISSN 0394-1599 • Anno XXXIII MARZO 2020 • Quadrimestrale

Edilizia sanitaria

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3 CIL 182

182

4 NEWS

• a cura di Roberto Gamba

6 PANORAMA

• a cura della redazione

12EDITORIALEOspedali fra teoria e pratica architettonica

• Alberto Manfredini

14

PROGETTI

Benedetta Tagliabue y Joan Callís Miralles Tagliabue EMBT

Centro Kálida Sant Pau Barcellona, Spagna

• Adolfo F. L. Baratta

22Hariri Pontarini ArchitectsCasey House Toronto, Canada

• Chiara Testoni

32

2BMFG Arquitectes,

PICHarchitects_Pich-Aguilera

Istituto di ricerca dell’Ospedale Sant Pau Barcellona, Spagna

• Igor Maglica

40El Equipo MazzantiAmpliaciòn Fundaciòn Santa Fé Bogotà, Colombia

• Roberto Gamba

In copertina:

El Equipo Mazzanti

Ampliaciòn Fundaciòn Santa Fé Bogotà, Colombia

SOMMARIO MARZO

2020

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Soluzioni Tecniche per l’Architettura e le Costruzioni

SALONE INTERNAZIONALE DELL’EDILIZIA

48L’INTERVISTAPaolo Felli

L’edilizia ospedaliera ieri, oggi e domani

• Laura Calcagnini

52STORIA E RESTAUROIl materiale ceramico della Ca’ Granda di Milano

• Chiara Colombo, Stefano Della Torre, Rebecca Fant, Antonio Sansonetti

60DESIGNTEd’A Arquitectes

Appartamenti per vacanze a Can Picafort Maiorca, Spagna

• Chiara Testoni

64TECNOLOGIAIl potere curativo dell’ambiente:

l’esperienza dei Maggie’s Centres

• Nicoletta Setola, Maria Chiara Torricelli

72Spazi per abitare e curare gli anziani affetti da Alzheimer. I Centri di Codroipo e Dublino

• Adolfo F. L. Baratta, Cecilia Leone, Valentina Santi

78CANTIEREEdificio residenziale in muratura armata

a Moniga del Garda

• Pasqualino Solomita

88DETTAGLITAM associati

Laterizio etico

• Alessandra Zanelli

92RECENSIONI

• a cura di Roberto Gamba

95CRONACHECovid-19

Verso strutture sanitarie d’eccellenza

• Bruno Finzi

22

14

Promossa da In collaborazione con

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E D I T O R I A L E

“L’

aspirazione al tipo è il primo carattere distintivo della teoria; significa riconoscere a ogni genere di edificio una propria identità”, rappresentata con elementi fissi e ripe-tuti, “appunto con elementi tipizzati”. È questo il primo momento in cui si manifesta la volontà di definire un ordine razionale “per costruire e rendere riconoscibile un aspetto del re-ale, un’istituzione”1. L’ospedale è un’istituzione che dovrebbe avvalersi dei temi fondamentali

della teoria d’architettura: la connessione “tipologia-morfologia” (rapporto architettura-città), l’aspetto della costruzione come definizione di elementi solo necessari e la questione dell’ap-propriatezza del linguaggio2.

L’inserimento delle opere ospedaliere nel territorio può consentire il recupero della porzione di città su cui insiste la struttura. Aspetto sovente disatteso perché la progettazione è affidata a cosiddetti specialisti che in nome di esigenze peculiari hanno determinato quei volumi amorfi e indifferenziati che tanta responsabilità hanno avuto e hanno nei confronti della qualità dell’ar-chitettura. E poi per la mancanza di una base teorica unitaria sui problemi del contesto, come la scarsa presa di coscienza sui risvolti ambientali legati all’edificazione di macrostrutture specia-lizzate, che ha impedito la costruzione di un metodo progettuale estensibile al territorio par-tendo da una tipologia specifica. Ciò accade in nome di esigenze funzionali inessenziali per la morfologia e marginali per la composizione architettonica del manufatto. Infatti se non è impos-sibile trovare una struttura ospedaliera che funzioni è difficile trovarne una la cui tipologia sia in sintonia con la morfologia urbana preesistente, e ancor più difficile trovarne una la cui morfolo-gia sia sintesi di un processo analitico generale di cui il progetto specifico è l’atto finale. L’esem-pio brunelleschiano dell’Ospedale degli Innocenti, del primo Quattrocento fiorentino, costitui-sce ancor oggi la migliore sintesi tra progetto architettonico e inserimento urbanistico, ossia tra specificità del tema e morfologia urbana.

Il celebre porticato (costituito dalla ripetizione di elementi fissi e ripetuti con la tipizzazione del “dado” brunelleschiano), vero e proprio filtro tra città dei sani e città dei malati, con la sottostante gradinata “albertiana” di cerniera e di raccordo tra la piazza urbana e la struttura specializzata, sono allineati lungo l’asse visivo e ideale coincidente con via dei Servi, di congiunzione tra la Chiesa dell’Annunziata e la Cupola del Duomo. Attenzioni così forti difficilmente sono state po-ste in essere nel disciplinare specifico della modernità. Per esso ha sempre funzionato l’alibi che

le forme architettoniche prodotte da esigenze così complesse dovrebbero essere accettate tout court in nome di quelle citate esigenze funzionali che invece disattendono l’architet-tura e l’urbanistica. Situazione non più accetta-bile perché causa di ulteriore impauperimento della qualità urbana a fronte di un impiego di risorse sempre più consistente. L’unico para-metro di riferimento era, e lo è ancora in molti casi, la cosiddetta forma tipologica

istituzio-Ospedali fra teoria

e pratica

architettonica

Alberto Manfredini

Nasce a Reggio Emilia, dove ha lo studio professionale di architettura con il fratello Giovanni. Ingegnere (Bologna, 1977) e Architetto (Firenze, 1982), è Professore Associato di Composizione Architettonica nell’Università di Firenze. Primo Premio CNETO (1977), Primo Premio “Michelucci” (1981), Primo Premio IN/ARCH Emilia Romagna (1990). Ha pubblicato articoli, saggi, libri e ha realizzato numerose opere pubbliche.

We must rediscover that system of rational rules derived from the theoretical apparatus of architecture capable of ensuring that the shape is representative of the identity of the building in the deepening of the relationship between form and destination. Nobody doubts that the hospital must operate and comply with the regulations, but the re-appropriation of the theory, of the right architectural practice and of the most appropriate use of the construction material is, for this type, urgent as well as indilatable.

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13 CIL 182

nale della fine del Settecento come il modello di Bentham per il “Panopticon”, un tipo di carcere ideale che diede origine a una serie di istituzioni vittoriane senza preoccupazione per il contesto. È la storia della composizione architettonica non solo dell’ospedale generale, ma anche dell’o-spedale psichiatrico e del carcere. Luoghi con una matrice comune: controllo esclusivo della tu-tela della salute fisica, della salute mentale o del più ampio ventaglio dei comportamenti. Le eccezioni non mancano e sono quelle in cui le particolarità gestionali e funzionali sono sem-pre sottomesse, come è giusto che sia, alle esigenze autentiche dell’architettura.

Quanto all’appropriatezza del linguaggio, nei suoi risvolti con l’involucro, è bene ricordare come “ogni teoria del rivestimento, da Semper a Ungers, abbia sostenuto che la ricchezza è variabi-lità compositiva nel progetto della facciata e proviene dalla doppia possibivariabi-lità concessa all’ar-chitetto: quella di rivestire per occultare e quella opposta di rivestire per chiarire la reale strut-tura tettonica dell’edificio”3.

Situazione che si ritrova costantemente nell’evolversi del linguaggio architettonico, sino al con-temporaneo sviluppo dei materiali che ha prodotto un utilizzo dell’involucro come membrana sensibile per meglio aderire a oggettive esigenze di risparmio energetico, di isolamento termico e acustico, di attenzione dialettica ai temi della luce, di resistenza alle azioni sismiche, di durabi-lità dei paramenti, di rapporto alle preesistenze, di legame con l’architettura prossima e conse-guentemente di rapporto architettura-città. Ognuno di questi punti è stato tradotto in una molte-plicità di declinazioni con un ventaglio di tecnologie, in svariate gamme tipologiche.

Il laterizio sta svolgendo un ruolo determinante nella definizione di queste componenti compo-sitive, ancor prima che tecnologiche, come illustrato in queste pagine da cui è possibile evincere la infinita capacità espressiva del materiale. Il mattone (mi piace chiamare così quel prisma retto rettangolare di terra cotta di circa 25x12x5,5/7 cm), materiale di sempre (antico e contempora-neo), naturale, sostenibile, ecocompatibile, chimicamente inerte, totalmente riciclabile, econo-mico, di scarsa o nulla manutenzionabilità, idoneo sia per i recuperi che per le nuove costruzioni, è il modulo base in grado di produrre soluzioni diversificate sapendo caratterizzare l’identità di ogni manufatto con elementi tipizzati, modulari, fissi e ripetuti, definendo quell’ordine razionale che consente di costruire e rendere riconoscibile un particolare tipo edilizio. La tipologia ospe-daliera non è immune a questo tipo di ricerca nel ricorso al laterizio pure per le frontiere esterne (come nell’ospedale per S.Giovanni Valdarno di Gregotti, in quello nostro per Reggio Emilia e in molti altri esempi non solo italiani).

Gli esempi di queste pagine approfondiscono in maniera autentica gli enunciati esposti, riu-scendo a evidenziare (è la metafora di Carlos Martì Arìs) la relazione esistente tra “centina” e “arco” in un processo costruttivo, analoga a quella che si dovrebbe stabilire tra “teoria” e “pra-tica” nel progetto architettonico.

La centina è strumentale alla realizzazione dell’arco, ma destinata a scomparire discretamente. Si deve riscoprire quel sistema di regole razionali derivate dall’apparato teorico dell’architettura in grado di garantire che la forma sia rappresentativa dell’identità dell’edificio nell’approfondi-mento del rapporto forma-destinazione.

Nessuno mette in dubbio che l’ospedale debba funzionare e osservare le normative, ma la riap-propriazione della teoria, della giusta pratica architettonica e del più appropriato uso del mate-riale costruttivo è, per questa tipologia, urgente oltre che indilazionabile.

Note

1. A. Monestiroli, La Metopa e il Triglifo, Laterza, Bari, 2010, p. 5;

2. “Casabella” n.903 (novembre 2019, p.63) lamenta come nella costruzione del progetto dell’ospedale manchi spesso il rapporto con la città. Su tale aspetto mi sono soffermato nel 1975 ad Arezzo nel Convegno “Ospedale e habitat” e ancora nel 1992 al XII° Congresso Internazionale I.F.H.E. a Bologna;

3. A.R. Burelli, “Portare in superficie ciò che la superficie nasconde”, Area n. 77/2004, p.152;

Riferimenti

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