• Non ci sono risultati.

Indagine sperimentale per la valutazione dell'attenzione condivisa mediante l'impiego dell'eye-tracking nei disturbi dello spettro autistico

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Indagine sperimentale per la valutazione dell'attenzione condivisa mediante l'impiego dell'eye-tracking nei disturbi dello spettro autistico"

Copied!
113
0
0

Testo completo

(1)

agli zii, a mia nonna.

(2)

Sommario

L’attenzione condivisa è una capacità centrale dello sviluppo sociocomunicativo e dello sviluppo socio-cognitivo che viene acquisita nell’infanzia. Tale abilità permet-te al bambino di prendere parpermet-te all’inpermet-terazione sociale con l’altro ed è fondamentale durante tutto l’arco della vita in quanto è alla base dell’apprendimento mediato dall’interazione con l’altro. L’attenzione condivisa può essere descritta come il comportamento del bambino basato sulla capacità di coordinare la propria atten-zione visiva con gli altri individui e quindi di dirigere lo sguardo verso un oggetto o un evento (Mundy & Gomes, 1998). In letteratura è riportata la distinzione tra le due componenti principali dell’attenzione condivisa, la risposta e l’iniziativa. Per risposta all’attenzione condivisa si intende la capacità di dirigere la propria attenzione seguendo le indicazioni fornite dall’altro mediante l’inseguimento della linea dello sguardo o del gesto di pointing; l’iniziativa di attenzione condivisa inve-ce viene definita come la riinve-cerca da parte del bambino dell’attenzione di un’altra persona (Bruinsma et al., 2004).

L’autismo è un disturbo neuropsichiatrico dello sviluppo che colpisce soprattut-to i soggetti di sesso maschile entro i 3 anni di età, ha una prevalenza di 20/10000. Si manifesta clinicamente con alterazioni della comunicazione e dell’interazione sociale, presenza di interessi ristretti e rigidi accompagnati da comportamenti ri-petitivi e stereotipati. La chiusura sociale e la tendenza a evitare il contatto visivo diretto predispongono i soggetti autistici allo sviluppo di alterazioni dell’attenzione condivisa e ad una maggiore probabilità di disabilità sociale (Jones et al., 2008). La necessità di avere degli strumenti utili per la diagnosi precoce di questo disturbo ha portato numerosi autori ad indagare le alterazioni precoci dell’attenzione con-divisa nell’autismo, al fine di verificare se possano essere utilizzate come parametri misurabili e affidabili della predisposizione a sviluppare un disturbo dello spettro autistico in bambini di età inferiore ai 3 anni. Nel corso degli anni è stata inoltre messa a punto una tecnologia specifica per il monitoraggio dei movimenti oculari,

(3)

l’eye-tracking. L’impiego dei dispositivi eye-tracker nell’indagine delle alterazioni dell’attenzione condivisa ha permesso di migliorare in modo importante l’accura-tezza e la precisione dei dati raccolti dai movimenti oculari dei bambini a basso e ad alto rischio di autismo durante la visione di stimoli di tipo sociale e non sociale. Nella prima parte di questo lavoro di tesi vengono esaminati i principali con-tributi nella letteratura scientifica riguante la capacità di attenzione condivisa nei bambini a sviluppo tipico e si presentano le tappe evolutive attraverso cui questa capacità viene acquisita e consolidata così come si espongono i probabili mecca-nismi alla base. Sono quindi descritti i disturbi dello spettro autistico secondo il recente DSM-V e viene presentato lo stato dell’arte riguardo all’alterazione del-l’attenzione condivisa come possibile fattore predittivo precoce dello sviluppo di autismo. È inoltre trattata brevemente la tecnologia di eye-tracking.

Nella seconda parte del presente lavoro di tesi viene presentato il progetto di ri-cerca CCM A.L.E.R.T. (Attenzione condivisa valutata in uno studio Longitudinale nella popolazione ad alto rischio di autismo tramite Eye-tracking, Risposta neu-rofisiologica e Tecnologie assistive), sviluppato con l’intento di poter individuare precocemente le alterazioni nei comportamenti di attenzione condivisa nei bambini sottoposti a screening e nella popolazione a rischio di autismo. Occorre ricordare che il progetto A.L.E.R.T è tuttora in fase di completamento e che i dati discussi nel presente lavoro necessitano di cautela nella loro preliminare interpretazione. Dopo aver descritto la prova sperimentale implementata nel progetto A.L.E.R.T., la tecnologia impiegata ed i criteri utilizzati per la selezione del campione, vengono quindi presentati i risultati statisticamente significativi ottenuti grazie all’analisi preliminare sul campione fino ad ora acquisito.

(4)

Indice

I

Nozioni preliminari

1

1 L’attenzione condivisa nello sviluppo tipico 2

1.1 Cos’è l’attenzione condivisa: definizione e

componenti . . . 2

1.2 Lo sviluppo dell’attenzione condivisa nel bambino: le tappe dello sviluppo . . . 7

1.3 Lo sviluppo dell’attenzione condivisa nel bambino: le due ipotesi sui meccanismi alla base . . . 9

2 L’alterazione dell’attenzione condivisa come fattore predittivo pre-coce dei disturbi dello spettro autistico 15 2.1 Epidemiologia . . . 16

2.2 Eziologia . . . 16

2.3 Classificazione . . . 26

2.4 Manifestazioni cliniche . . . 28

2.5 L’alterazione dell’attenzione condivisa come fattore di rischio pre-coce per lo spettro autistico . . . 31

3 La tecnologia di eye-tracking: caratteristiche tecniche e impiego 36 3.1 Sviluppo del software . . . 42

(5)

4 L’indagine dell’attenzione condivisa nell’autismo mediante l’im-piego dell’eye-tracking. Stato dell’arte, criticità e sviluppi futuri

utili 48

II

Il progetto A.L.E.R.T.

60

5 Il Progetto di Ricerca CCM A.L.E.R.T. 61

5.1 Il network operativo del progetto A.L.E.R.T . . . 61 5.2 Strumenti tecnologici impiegati e finalità del progetto A.L.E.R.T. . 62 5.3 Caratteristiche dei campioni . . . 63 5.4 Il setting di acquisizione e la prova sperimentale . . . 65 5.5 Le Region of Interest (ROI) selezionate e i parametri di eye-tracking

analizzati . . . 69

6 Risultati 72

6.1 Confronto tra i due gruppi nei tre task . . . 72 6.2 Confronto tra task all’interno del campione di riferimento . . . 74 6.3 Confronto fra condizioni sperimentali . . . 75

7 Discussione dei dati 85

8 Conclusioni 90

Bibliografia 91

(6)

Elenco delle figure

1.1 Rappresentazione grafica dell’accuratezza dello spostamento dello

sguardo . . . 12

2.1 Confronto tra i criteri DSM IV e DSM V . . . 29

3.1 Posizioni reciproche della pupilla e della prima riflessione del Purkinje 40 3.2 Immagini di calibrazione del dispositivo di eye-tracking . . . 44

3.3 Dispositivi di eye-tracking Tobii . . . 46

3.4 Dispositivi di eye-tracking SMI-RED 500 . . . 46

3.5 Dispositivi di eye-tracking Smarteye . . . 47

4.1 Fotogrammi del video mostrato ai bambini nel corso dell’esperimen-to di Bedford et al. 2012 . . . 54

4.2 Fotogrammi del video mostrato ai bambini nel corso dell’esperimen-to di Falck-Ytter et al. 2012 . . . 56

4.3 Fotogrammi del video mostrato ai bambini nel corso dell’esperimen-to di Navab et al. 2011 . . . 57

5.1 Setting di acquisizione con eye-tracking. . . 65

5.2 Condizione di Risposta all’attenzione condivisa . . . 67

5.3 Prova di Iniziativa di attenzione condivisa con evento ambientale atteso . . . 68

5.4 Prova di Iniziativa di attenzione condivisa con evento ambientale inatteso . . . 69

(7)

5.5 ROI relative al task 1 . . . 70

5.6 ROI relative al task 2 . . . 70

5.7 ROI relative al task 3 . . . 70

6.1 FC, FL, TFF per la ROI del corpo . . . 73

6.2 FL sulla ROI della bocca nel task 2 . . . 73

6.3 Confronto tra gruppi per il task 3 . . . 74

6.4 FL sulla ROI della bocca nel task 3 . . . 74

6.5 Confronto fra task riguardo l’oggetto non-target . . . 75

6.6 Pattern di fissazione sull’oggetto target nei tre task . . . 76

6.7 Pattern di fissazione per l’oggetto non target nei tre task . . . 77

6.8 Pattern di fissazione del volto per i tre task . . . 78

6.9 Pattern di fissazione sulla ROI del corpo nei tre task . . . 79

6.10 Pattern di fissazione sugli occhi e la regione oculare nei tre task . . 80

6.11 Pattern di fissazione della bocca nei tre task . . . 81

6.12 Medie dei parametri FC, FL, TFF per la ROI dell’oggetto target, nei tre task . . . 82

6.13 Medie dei parametri FC, FL, TFF per la ROI dell’oggetto non target, nei tre task . . . 82

6.14 Medie dei parametri FC, FL, TFF per la ROI del volto, nei tre task 82 6.15 Medie dei parametri FC, FL, TFF per la ROI del corpo, nei tre task 82 6.16 Medie dei parametri FC, FL, TFF per la ROI degli occhi, nei tre task 83 6.17 Medie dei parametri FC, FL, TFF per la ROI della bocca, nei tre task 83 6.18 Medie del parametro FC . . . 83

6.19 Medie del parametro FL . . . 83

(8)

Parte I

(9)

Capitolo 1

L’attenzione condivisa nello

sviluppo tipico

1.1

Cos’è l’attenzione condivisa: definizione e

componenti

In letteratura si possono trovare molteplici e diverse definizioni di attenzione condivisa, ma in generale possiamo definirla come un comportamento del bambino basato sulla capacità di coordinare la propria attenzione visiva con gli altri individui nell’osservazione di un oggetto o un evento (Mundy & Gomes, 1998). In generale si possono definire due componenti dell’attenzione condivisa: 1) la risposta all’atten-zione condivisa, intesa come la capacità di spostare la propria attenall’atten-zione seguendo l’indicazione fornita dall’altro attraverso, ad esempio, l’inseguimento della linea dello sguardo o del gesto del pointing verso un oggetto di interesse o un even-to; 2) l’iniziativa all’attenzione condivisa, che può essere definita come la ricerca da parte del bambino dell’attenzione di un’altra persona. (Bruinsma et al., 2004). L’attenzione condivisa è quindi considerata un’abilità importante da acquisire nello sviluppo cognitivo e sociale dell’infanzia in quanto permette al bambino di prende-re parte all’interazione sociale. Una volta acquisita, è fondamentale durante tutto

(10)

l’arco della vita in quanto è alla base dell’apprendimento mediato dall’interazione con l’altro.

La maggior parte della ricerca sullo sviluppo dell’attenzione condivisa si è con-centrata sulla capacità da parte del bambino di seguire la direzione dello sguardo di un soggetto adulto, l’abilità quindi di risposta (Mundy et al., 1995; Grederback, Fikke & Melinder, 2010). Per capire dove un soggetto dirige lo sguardo, e quindi l’attenzione, è importante integrare anche le informazioni fornite dalla direzione della testa e dalla postura. In uno studio di Perret et al. (1994) viene ipotizzato che le informazioni provenienti dallo sguardo, dalla posizione della testa e del corpo siano combinate in modo gerarchico in un meccanismo che è stato da loro denomi-nato Direction-of-Attention Detector (DAD). Secondo questo modello la direzione dell’attenzione verrebbe rivelata dagli occhi se questi sono visibili, se invece sono coperti o il volto viene mostrato a una grande distanza è la testa ad avere il compito di segnalare la direzione dell’attenzione. Se per qualche ragione risultassero essere non disponibili le informazioni dagli occhi e dalla testa, sarà dunque l’orientamen-to del corpo a indicare la direzione verso cui il soggetl’orientamen-to rivolge la sua attenzione. In conclusione, anche se in questo modello viene sottolineato il coinvolgimento di altri fattori che entrano nel processo di valutazione della direzione dell’attenzio-ne, questi elementi giocano un ruolo di minor importanza se comparati con quello svolto dagli occhi e dallo sguardo. (Langton, Watt & Bruce, 2000). Altri studi hanno dimostrato inoltre che, in aggiunta agli indizi forniti dalla posizione della testa e dall’orientamento dello sguardo, anche i gesti di puntamento, o pointing, contribuiscono in modo importante nel processo di comprensione della direzione dell’attenzione di un’altra persona (Langton, Watt & Bruce, 2000). Per lo sviluppo di un’attenzione e di un’azione condivisa è fondamentale, inoltre, la comprensione dell’intenzionalità dell’azione eseguita dall’altro individuo, così come la gestualità, che sostituisce o integra il linguaggio verbale tra gli individui. In particolare per quanto riguarda l’iniziativa all’attenzione condivisa proprio i gesti di puntamento

(11)

sembrano essere quelli che hanno la maggiore rilevanza: quando il bambino indica lo fa per dirigere l’attenzione dell’adulto verso qualcosa di suo interesse che potreb-be essere fuori dalla sua portata; il bambino che guarda nella direzione indicata dal dito del genitore è la risposta necessaria a permettere l’inizio di un episodio di attenzione condivisa (Camaioni, Perucchini, Bellagamba, Colonnesi, 2004). Nei bambini a sviluppo tipico le informazioni visive fornite dal seguire i movimenti oculari degli adulti e la produzione di gesti di puntamento per guidare l’attenzione dell’adulto sono prerequisiti fondamentali nello sviluppo dell’attenzione condivisa e coordinata (Korkmaz, 2011). Da tutti questi studi sembra plausibile che l’osser-vatore analizzi in parallelo gli indizi sulla direzione forniti dagli occhi, dalla testa e dai gesti di puntamento e tutte queste informazioni si rendono disponibili nel mo-mento in cui deve essere presa una decisione riguardo a dove un individuo dirige la propria attenzione. (Langton, Watt & Bruce, 2000).

La letteratura scientifica vede l’attenzione condivisa correlata con lo sviluppo del linguaggio (Mundy & Gomes, 1998), la regolazione delle emozioni e con la teoria della mente (Baron-Cohen, 1994; Korkmaz, 2011). Mundy e Gomes (1998) hanno condotto uno studio longitudinale nel quale analizzano la correlazione esistente tra lo sviluppo dell’attenzione condivisa e lo sviluppo linguistico nel bambino tra i 14 e i 17 mesi. Già diversi studi avevano dimostrato la presenza di un’associazione tra questi due fattori ma le ricerche precedenti si erano per lo più concentrate sulla valutazione del ruolo che gli episodi di attenzione condivisa giocano nell’interazione tra il bambino e il caregiver, come la madre o un’altra figura familiare (Bruner, 1975; Tomasello, 1988; Dunham, Dunham, & Curwin 1993). Queste ricerche in-fatti hanno enfatizzato soprattutto il ruolo del caregiver in queste interazioni e hanno suggerito che la tendenza del caregiver a seguire la linea dello sguardo del bambino durante gli episodi di attenzione condivisa sia da mettere in relazione con un maggiore e più precoce sviluppo lessicale del bambino (Tomasello, 1988; Dunham, Dunham, & Curwin, 1993). Per alcuni autori, la capacità di attenzione

(12)

condivisa è stata associata allo sviluppo del linguaggio anche come conseguenza della maturazione e dello sviluppo di importanti capacità di tipo sociale, cognitivo e di autoregolazione del bambino (Corkum & Moore, 1998). Lo studio di Mundy, Kasari, Sigman e Ruskin (1995) offre un punto di vista interessante sulla questione in quanto mostra come la risposta all’attenzione condivisa, cioè la capacità del bambino di seguire la direzione dello sguardo e dei gesti di pointing effettuati da uno sperimentatore, abbia un valore predittivo positivo significativo per quanto riguarda lo sviluppo del linguaggio ricettivo. Inoltre gli autori suggeriscono come le diverse componenti di attenzione condivisa non siano equivalenti nella loro cor-relazione con lo sviluppo del linguaggio: per tale motivo, nello studio di Mundy e Gomes (1998) sono state studiate separatamente le due componenti principali dell’attenzione condivisa, l’iniziativa e la risposta, in relazione con lo sviluppo del linguaggio valutato con un follow up di circa 16 settimane. Il campione preso in considerazione è composto da 24 bambini tra i 14 e i 17 mesi; tale range è stato scelto in quanto proprio a questa età si ha il consolidamento delle abilità di at-tenzione condivisa (Adamson & McArthur, 1995). L’ipotesi di partenza è basata su studi precedenti che sostengono come entrambe le componenti dell’attenzione condivisa siano correlate allo sviluppo del linguaggio ma che solo la risposta all’at-tenzione condivisa sia un predittore dello sviluppo del linguaggio ricettivo (Mundy et al.,1995; Ulvund & Smith, 1996). I risultati mostrano che nel campione esami-nato né il sesso né il livello di educazione della madre né il reddito familiare sono associati in modo significativo allo sviluppo del linguaggio o della comunicazione non-verbale. Inoltre viene constatato che l’iniziativa all’attenzione condivisa è da mettere in correlazione con lo sviluppo del linguaggio espressivo, mentre la risposta all’attenzione condivisa invece è fortemente associata allo sviluppo del linguaggio ricettivo e quest’ultimo dato conferma i risultati degli studi precedenti (Mundy et al., 1995).

(13)

quella che riguarda la correlazione con lo sviluppo della teoria della mente (Baron-Cohen, 1994; Korkmaz, 2011). Per teoria della mente (dall’inglese Theory of Mind, ToM) si intende un insieme di abilità intellettive che ci permettono di comprendere come le altre persone abbiano credenze, desideri, piani, speranze, informazioni e intenzioni che possono essere differenti dalle nostre. La teoria della mente è una funzione composita, necessaria per gestire la comunicazione e le relazioni umane, che coinvolge la memoria, il riconoscimento delle percezioni complesse, il linguaggio, le funzioni esecutive, il riconoscimento e l’elaborazione delle emozioni, l’empatia, l’imitazione e, appunto, l’attenzione condivisa (Korkmaz, 2011). Nel bambino tipico lo sviluppo di una teoria della mente comincia intorno ai 18 mesi di età e si completa a circa 3-4 anni, questa evoluzione porta il bambino ad acquisire la consapevolezza dell’altro come di un soggetto con desideri e credenze (vere o false) rispetto alla realtà esterna e a comprendere che i propri stati mentali sono diversi da quelli degli altri (Frith & Frith, 2003). La teoria della mente trova i suoi precursori in fasi precoci dello sviluppo. Tra i prerequisiti necessari per un corretto sviluppo delle componenti percettive della teoria della mente possiamo trovare l’acquisizione della capacità di percezione dei volti, dell’abilità di distinguere tra il volto materno e quello di un estraneo, di riconoscere le emozioni e le espressioni facciali. Anche il gioco di finzione rappresenta un fattore importante che rende possibile l’acquisizione di una teoria della mente (Connolly & Doyle, 1984): il bambino riesce a rappresentare attraverso il gioco una realtà diversa da quella percepita e attribuisce all’oggetto della finzione (la bambola, l’orsacchiotto ecc.) degli stati interni, dimostrando di capire tali stati in un’altra persona. Un altro prerequisito fondamentale per lo sviluppo della teoria della mente è appunto la capacità di distinguere tra lo sguardo diretto (e il quindi il contatto oculare tra soggetto e interlocutore) e lo sguardo deviato, come base per l’attenzione condivisa e la comprensione dei processi di comunicazione con l’altro (Korkmaz, 2011).

(14)

1.2

Lo sviluppo dell’attenzione condivisa

nel bambino: le tappe dello sviluppo

Per quanto riguarda il bambino numerosi studi hanno dimostrato che fattori secondari, come la posizione della testa e i gesti di puntamento, possono forni-re indizi salienti sulla diforni-rezione dell’attenzione rispetto alla sola diforni-rezione dello sguardo. Negli esperimenti più comuni di inseguimento dello sguardo, i bambini vengono fatti sedere di fronte alle loro madri mentre queste cercano di stabilire un contatto visivo. Una volta ottenuto il contatto visivo, la madre sposta lo sguar-do e/o ruota la testa e viene osservato il comportamento di inseguimento dello sguardo da parte del bambino. Tra gli studi effettuati secondo questo metodo, in particolare quelli di Scaife & Bruner (1975) e di Butterworth & Jarret (1991) hanno mostrato come i bambini tra i 3 e i 6 mesi di età siano capaci di interpretare correttamente una combinazione di indizi forniti dalla testa e dagli occhi, ma non riescano a seguire le indicazioni fornite dal solo spostamento dello sguardo prima dei 14-18 mesi. Addirittura sembra che prima dei 14-18 mesi i bambini ignorino completamente la direzione degli occhi e utilizzino semplicemente l’orientamento della testa come indizio per seguire l’attenzione della madre (Corkum & Moore 1995; Langton, Watt & Bruce, 2000). In questi studi, non appare chiaro se il bambino segua l’indicazione dello sguardo dell’altro grazie ad una sua eventuale capacità di comprenderne l’intenzionalità dell’azione (ovvero l’obiettivo della ma-dre di osservare un oggetto in particolare) o, piuttosto, grazie ad un più semplice meccanismo riflesso di orientamento dell’attenzione. Per indagare questo aspetto è stato effettuato un esperimento (Baron-Cohen et al. 1995) in cui si chiede al bambino di individuare tra quattro diversi oggetti quello che viene fissato dalla persona mostrata in un’immagine. I risultati mostrano che i bambini di 2-3 anni di età solitamente non riescono a discriminare tra gli oggetti in quanto non riescono a immedesimarsi nel soggetto mostrato nella foto, osservando la scena dal suo punto

(15)

di vista. Bambini dai 4 anni di età, invece, sembrano interpretare correttamente le informazioni fornite e rispondere in modo adeguato. Questi risultati suggeriscono come fino ai 4 anni di età il bambino non sembri capace di comprendere a pieno, partendo dalla sola informazione fornita dalla direzione dell’attenzione di un altro individuo, lo scopo o l’intenzione che guida l’osservazione di un certo oggetto da parte dell’adulto. Nondimeno la performance dei bambini più piccoli è migliorata in modo importante nel momento in cui gli indizi forniti dallo sguardo sono stati presentati contemporaneamente alle indicazioni date dall’orientamento della testa o quando lo sguardo è stato sostituito da gesti di pointing. In conclusione sem-bra probabile che i bambini, prima di utilizzare le sole informazioni fornite dallo sguardo, siano capaci di seguire l’orientamento della testa di un adulto e di usare questa informazione per individuare l’oggetto che viene osservato. (Langton, Watt & Bruce, 2000).

Contrariamente a quanto affermato negli studi precedenti (Butterworth & Jar-ret, 1991; Scaife & Bruner, 1975), nel loro studio Gredebäck, Fikke e Melinder (2010) mostrano che l’abilità di inseguimento dello sguardo emerge tra i 2 e i 4 mesi di età e tra i 6 e gli 8 mesi si presenta fortemente stabile. Questo dato confer-ma le evidenze di studi precedenti (Bruinsconfer-ma et al., 2004; Striano & Stahl, 2005) che mostrano come questo tipo di interazione abbia un esordio molto precoce nella vita del bambino e si manifesti con chiarezza intorno ai 9 mesi di vita. Secondo Gredebäck, Fikke e Melinder (2010), il 30% dei bambini a 2 mesi di età presenta una certa capacità di seguire la linea dello sguardo fino ad arrivare ai 14 mesi, età alla quale il 100% dei bambini ha ormai acquisito questa abilità. In uno studio di Farroni et al. (2004) è stata mostrata una rudimentale capacità di seguire lo sguardo già pochi giorni dopo la nascita; durante la crescita questa caratteristica tenderebbe a diventare più complessa e strutturata. Già a 3 mesi è stata mostrata una maggiore sensibilità nei confronti della direzione dello sguardo di altre persone (D’Entremont, Hains & Muir, 1997; D’Entremont, 2000), inoltre a questa età il

(16)

bambino sorride di più durante episodi di attenzione condivisa rispetto a quando lo sperimentatore distoglie semplicemente lo sguardo, dimostrando quindi un’attiva partecipazione del bambino all’evento (Striano & Stahl, 2005). Intorno ai 5-6 mesi il bambino sembra diventare capace di seguire lo sguardo di un soggetto mostrato attraverso il monitor di un computer, senza quindi necessitare della presenza fisica di un individuo verso cui dirigere la propria attenzione. Tra 1 e 2 anni di età il bambino acquisisce la capacità di seguire lo sguardo verso oggetti localizzati dietro di lui e di prevedere il riapparire dell’oggetto in base allo sguardo della persone con cui interagisce (Butterworth & Jarrett, 1991; Deák, Flom & Pick, 2000; Flom et al., 2004; Moore & Corkum, 1998). Rispetto agli studi precedenti (Scaife & Bruner, 1975; Butterworth & Jarret, 1991), nello studio di Gredebäck (2010) le tappe dello sviluppo dell’abilità di inseguimento dello sguardo e poi dell’attenzione condivisa risultano essere discordi. Questo dato potrebbe essere attribuibile a dif-ferenze nella raccolta e nell’analisi dei dati nei diversi studi ma anche a un diverso approccio al lavoro di ricerca da parte degli autori: nello studio del 2010 infatti si cerca di studiare l’evoluzione e la progressiva strutturazione dell’abilità di insegui-re lo sguardo piuttosto che lo sviluppo della capacità di individuainsegui-re la diinsegui-rezione dell’attenzione di un altro individuo, sebbene sia da sottolineare che questa abili-tà è un prerequisito fondamentale per la successiva acquisizione di una adeguata capacità di partecipazione ad episodi di attenzione condivisa.

1.3

Lo sviluppo dell’attenzione condivisa

nel bambino: le due ipotesi sui meccanismi

alla base

Le spiegazioni proposte per spiegare la manifestazione di questa abilità fin dalla più tenera età sono numerose e differenti. Da un lato la capacità di seguire lo

(17)

sguar-dal desiderio di percepire, di vedere quello a cui l’altro sta rivolgendo la propria attenzione. Questa ipotesi sottintende che il bambino comprende come l’individuo con cui interagisce sposti il proprio sguardo per osservare qualcosa di interessante o inusuale, attribuendo così allo sguardo un ruolo fondamentalmente comunicativo, guidato dal desiderio di condividere con gli altri. A supporto di questa teoria, è stato dimostrato che bambini di 12 mesi cercano di aggirare le barriere presenti nell’ambiente per vedere quello che sta guardando un soggetto adulto (Moll & To-masello; 2004). Dall’altro lato, alcuni studi suggeriscono che la tendenza che ha il bambino di guardare nella stessa direzione di un altro soggetto possa essere una capacità acquisita, strutturata in seguito ai numerosi rinforzi positivi acquisiti dal-le prime e precoci esperienze di interazione con la madre (Moore et al.; 1997). La madre sposta lo sguardo verso qualcosa di presumibilmente interessante e il bam-bino ricava una ricompensa dall’aver seguito lo sguardo della madre, la visione cioè di un oggetto, o una persona, nuovi e interessanti. Esistono evidenze empiriche che confermano la presenza di meccanismi di rinforzo per quanto riguarda l’insegui-mento dello sguardo nei bambini di 8 e 9 mesi: in questi studi sperimentali (Moore et al., 1997; Corkum & Moore, 1998) i bambini inizialmente non sono in grado di seguire lo sguardo in modo corretto, ma sono capaci di imparare e acquisire questa abilità se allo spostamento dello sguardo segue la visione di un elemento da loro considerato soddisfacente e interessante. Nello studio di Gredebäck (2010) viene eseguita un’analisi longitudinale a 2, 4, 6 e 8 mesi di età per valutare gli episodi di inseguimento dello sguardo nell’interazione tra il bambino e un estraneo oppure con la madre. Seguendo l’ipotesi del rinforzo positivo è ipotizzabile un numero maggiore di spostamenti dello sguardo durante l’interazione con la madre rispetto all’interazione con l’estraneo, in quanto entrambe le stimolazioni elicitano lo stesso tipo di risposta ma è con la madre che si ha la risposta di più alta intensità (Ghir-landa & Enquist, 2003). Secondo l’ipotesi di tipo cognitivo-sociale, se lo sguardo ha un ruolo comunicativo ed è correlato ad altre abilità cognitivo-sociali, è

(18)

giusti-ficato aspettarsi una maggior frequenza di episodi di inseguimento dello sguardo durante l’interazione con l’estraneo piuttosto che con la madre. La preferenza e la più sostenuta attenzione nei confronti dell’estraneo possono essere spiegate in diversi modi. L’estraneo per definizione è un individuo nuovo, sconosciuto, e per questo meritevole di un maggior grado di attenzione rispetto alla madre. Inoltre, secondo gli autori, è probabile che la madre riesca a individuare i segni di fatica e di stress nel bambino durante il contatto visivo diretto all’inizio della prova, con una conseguente e più precoce interruzione della prova stessa (Gredebäck et al., 2010). Questa ipotesi dunque suggerisce che l’attenzione condivisa è un precurso-re di ulteriori e più avanzate forme di abilità cognitivo-sociali. L’esperimento di Gredebäck (2010) a cui i bambini vengono sottoposti consiste nella presentazione di un soggetto che inizialmente ha una breve interazione verbale con il bambino e successivamente sposta lo sguardo verso uno dei due oggetti situati ai lati del tavolo di fronte a lui. Nel corso dello studio sono stati utilizzati numerosi modelli per la valutazione delle interazioni, incluse la prova con il soggetto estraneo e con la madre. I risultati mostrano diverse e interessanti condizioni. I bambini di 2 mesi non seguono se non in modo approssimativo e debole lo sguardo del soggetto usato per la sperimentazione nel contesto descritto, sia nella prova con la madre sia in quella con l’estraneo. All’età di 4 mesi i bambini mostrano una tendenza ad aggiustare la direzione del proprio sguardo seguendo lo sguardo del soggetto mostrato, indipendentemente se si tratta della madre o dell’estraneo. Questi ri-sultati confermano i precedenti studi che dimostravano una maggiore sensibilità allo spostamento dello sguardo già nel bambino di 3 mesi. A 4 mesi di età viene rilevato come l’accuratezza dello spostamento dello sguardo sia inferiore durante l’interazione con la madre rispetto all’estraneo. Questa differenza è più netta a 6 e 8 mesi. I risultati quindi mostrano che, almeno dall’età di 6 mesi, i bambini presentano episodi di inseguimento dello sguardo in grado più elevato durante l’in-terazione con gli estranei rispetto all’inl’in-terazione con la madre. La rappresentazione

(19)

grafica di questo evento (Figura 1.1) mostra come gli episodi di inseguimento dello sguardo nella prova con gli estranei aumentano in modo evidente tra i 4 e i 6 mesi di età mentre lo stesso miglioramento è ritardato di due mesi per quanto riguarda l’interazione con la madre.

Figura 1.1: Sviluppo individuale della percentuale di accuratezza dello

sposta-mento dello sguardo dei soggetti che partecipano allo studio, sia nella prova con l’estraneo (A) sia nella prova con la madre (B). Ogni linea rappresenta un bambino. (Gredebäck, G., Fikke, L., Melinder, A.; 2010).

In conclusione gli autori affermano come appaia poco probabile che la prefe-renza per l’estraneo sia determinata solo da un meccanismo di rinforzo positivo, e come piuttosto sia da considerare l’ipotesi cognitivo-sociale, che vede la capacità di seguire lo sguardo dai 6 mesi di età (ma probabilmente anche dai 4 mesi) dotata di ruolo comunicativo nelle interazioni con gli individui e il mondo circostante. D’al-tronde è importante notare che la letteratura contiene diversi suggerimenti riguardo l’esatta natura dell’influenza di processi socio-cognitivi sullo sviluppo dell’abilità di seguire dello sguardo. È stato suggerito che il primum movens alla base di questo meccanismo sia l’intenzionalità alla condivisione, sottolineando quindi gli aspetti comunicativi dell’interazione sociale (Carpenter et al., 1998). È altrettanto pro-babile però che i meccanismi socio-cognitivi che guidano lo sviluppo dell’abilità di seguire la linea dello sguardo siano focalizzati a soddisfare il bisogno di comprendere

(20)

le intenzioni e i desideri degli altri (Senju & Csibra, 2008). Quest’ultima possibilità è anche la più accettata da Gredebäck e dagli autori dello studio norvegese (2010), per quanto riguarda almeno le condizioni proposte nel loro studio.

Dal primo momento in cui il bambino inizia a percepire visivamente il mondo circostante, sembra prestare più attenzione alle altre persone, preferendo questo stimolo di tipo sociale agli altri di tipo non sociale presenti nell’ambiente. Molti studi hanno già mostrato che i bambini fin dalla più tenera età mostrano una pre-ferenza innata a orientare la propria attenzione verso qualunque tipo di stimolo sociale come ad esempio i volti, gli occhi o le voci delle persone circostanti (Farroni et al., 2004; Farroni et al., 2005; Cassia et al., 2008). La tendenza a orientarsi verso gli stimoli sociali è molto importante nello sviluppo sociale e, una volta acquisita, tale capacità perdura per tutto l’arco della vita. Per spiegare questa tendenza, i processi visivi precoci sono stati il primo aspetto a essere indagato (Farroni et al., 2005; Frank et al., 2009). Ci sono evidenze in campo neurologico di un coinvol-gimento di un primitivo sistema neuronale magnocellulare sensibile agli stimoli a bassa frequenza spaziale e al contrasto luminoso. Questo sistema influenza le pre-coci esperienze visive del bambino ed è responsabile del preferenziale orientamento verso lo stimolo sociale (Plaisted & Davis, 2005). Inoltre si crede che gli stimoli sociali abbiano anche un ruolo nello sviluppo di uno specifico sistema di motiva-zione mediato da meccanismi neurali (Mundy & Sigman, 2006), importante nelle successive interazioni sociali. In molti studi l’orientamento sociale è stato inteso e studiato come orientamento dell’attenzione in risposta a uno stimolo sociale (es: seguire lo sguardo di un’altra persona o la reazione di risposta al nome). Secondo questi studi è plausibile aspettarsi che l’orientamento sociale sia in relazione con al-tre capacità socio-comunicative come l’attenzione condivisa (Adamson, 1995). Nel corso di questa evoluzione la capacità di prestare un’attenzione attiva allo stimolo sociale rappresenta dunque una fase fondamentale in quanto fornisce un maggior numero di possibilità di partecipare all’interazione sociale, nel corso della quale il

(21)

bambino può imparare e sviluppare al meglio le altre abilità socio-comunicative. In più secondo alcuni autori (Maestro et al., 2002) un’altra ragione che spinge il bambino a partecipare all’interazione triadica è data dall’intervento del sistema neuronale di motivazione che attribuisce un valore di ricompensa positiva allo sti-molo sociale. L’ipotesi proposta nello studio di Maestro et al. (2002) fornisce un’interpretazione interessante in quanto suggerisce che entrambe le ipotesi, sia quella innata di tipo cognitivo-sociale sia quella acquisita legata al rinforzo positi-vo, possano partecipare allo sviluppo delle abilità di inseguimento dello sguardo e di attenzione condivisa. Sembra dunque probabile che la preferenza di orientamen-to verso uno stimolo sociale possa, nei bambini a sviluppo tipico, avere un valore predittivo per lo sviluppo di abilità sociali e comunicative, tra cui l’attenzione condivisa (Maestro et al., 2002).

(22)

Capitolo 2

L’alterazione dell’attenzione

condivisa come fattore predittivo

precoce dei disturbi dello spettro

autistico

La prima definizione di autismo si deve a Kanner che nel 1943 parla di ‘auti-smo precoce infantile’ in seguito agli studi effettuati su un gruppo di 11 bambini. Kanner notò che questi bambini presentavano delle caratteristiche simili tra loro, come ad esempio una tendenza all’isolamento, una riduzione della reattività in am-bito sociale, una ridotta produzione verbale o un linguaggio ecolalico, una tipica inversione pronominale (utilizzo dell’ ‘io’ per riferirsi all’altro e del ‘tu’ per par-lare di sè). Osservò anche una caratteristica paura del cambiamento, un bisogno di immutabilità e in alcuni dei bambini esaminati ritrovò delle specifiche abilità molto sviluppate ma in modo isolato, accompagnate da un ritardo generale dello sviluppo. Kanner inoltre valutò anche il contesto sociale e familiare da cui questi bambini provenivano e si rese conto che spesso le famiglie erano di ceto medio-alto e che le madri apparivano fredde, più interessate alla carriera e alla cultura che

(23)

a sviluppare rapporti interpersonali. Quasi contemporaneamente e in modo indi-pendente, anche Asperger nel 1944 utilizzò il termine autismo per descrivere un insieme di sintomi molto simile a quello descritto da Kanner rilevando però alcune differenze riguardo al linguaggio, la motricità e la capacità di apprendimento.

2.1

Epidemiologia

L’autismo è un disturbo neuropsichiatrico dello sviluppo che è molto più fre-quente nel maschio rispetto alla femmina con rapporto di 4:1 (Fombonne 2003). La prevalenza del disturbo autistico è stimata intorno a 20/10000, per i distur-bi pervasivi dello sviluppo (PPDs) in generale è di 60-70/10000, rendendo così i PPDs i più frequenti disturbi neuropsichiatrici dell’infanzia (Fombonne 2009). Nell’ultimo ventennio la prevalenza è molto aumentata e questo aumento può es-sere riferito all’espansione dei criteri diagnostici, allo sviluppo dei servizi e a una maggiore consapevolezza del disturbo e delle sue caratteristiche da parte del per-sonale medico-sanitario e dei genitori stessi, anche se non è da escludere che questo aumento sia correlato anche ad altri fattori per ora non noti (Fombonne 2009).

2.2

Eziologia

La precisa eziologia dell’autismo è tutt’oggi sconosciuta e per questo oggetto di ulteriori ricerche. Negli anni subito seguenti alla prima descrizione dell’autismo l’individuazione delle cause è stata oggetto di numerose controversie in quanto in seguito all’approccio di Kanner il principale cardine per i successivi studi sull’au-tismo si basò sulla teoria psicodinamica: in particolare Bruno Bettelheim nel 1967 propose l’ipotesi che la causa dell’autismo andava ricercata in un anomalo rappor-to madre-bambino. Quesrappor-to aurappor-tore punta il dirappor-to contro i genirappor-tori e in particolare contro le madri dei bambini autistici, insinuando che la freddezza e addirittura l’ostilità dimostrate nei confronti dei loro figli possano aver provocato dei traumi

(24)

di tipo emotivo nella prima infanzia del bambino con il seguente sviluppo di un disturbo di tipo autistico. Questa ipotesi è stata abbandonata nel corso del tem-po grazie alla riflessione che l’anomalo raptem-porto genitore-bambino è probabilmente legato non tanto al genitore quanto alle difficoltà sociali e comunicative del bam-bino stesso (Volkmar, 2003). L’alta frequenza di crisi epilettiche in molti di questi bambini suggerisce inoltre un interessamento cerebrale di tipo organico (Volkmar & Nelson, 1990), ipotesi che può essere indagata oggi grazie ai progressi nel cam-po del neuroimaging con la tomografia assiale computerizzata (TC), la risonanza magnetica (RMN) e la risonanza magnetica funzionale (RMNf). Dal punto di vista eziologico quindi si ritiene che l’autismo sia determinato da una certa pre-disposizione genetica sulla quale vanno a intervenire fattori di tipo ambientale e si prendono in considerazione anche modelli neuropsicologici e neurobiologici utili nel comprendere i molteplici aspetti di questo disturbo. Per quanto riguarda la predisposizione genetica ci sono studi che mostrano che il rischio relativo di andare incontro alla diagnosi di autismo per un secondo figlio in una famiglia in cui il primo figlio è affetto da autismo è da 20 a 50 volte maggiore rispetto alla popola-zione generale (O’Roak & State, 2008). I genitori e i siblings (i fratelli dei bambini con autismo) spesso presentano delle manifestazioni cliniche di autismo in modo leggero e subsindromico (Piven, Palmer et al. 1997), come ritardo del linguaggio, difficoltà nell’acquisizione degli aspetti pragmatici del linguaggio, ritardo nello svi-luppo sociale, assenza di vere amicizie, perfezionismo e una personalità piuttosto rigida. Gli studi effettuati sui gemelli hanno dimostrato che nelle coppie di gemelli omozigoti (che condividono lo stesso patrimonio genetico) se uno dei due bambini è affetto da autismo nel 60-70% dei casi anche il fratello riceverà la stessa diagno-si, mentre questa concordanza si abbassa al 10% nel caso delle coppie di gemelli dizigoti (che condividono solo metà del patrimonio genetico) (Bailey et al. 1995). La differenza tra i tassi di concordanza nei gemelli mono e dizigoti suggerisce che ci sia un’interazione tra diversi fattori di rischio di tipo epigenetico e ambientale

(25)

(Levy et al., 2009). Un’altra prova a sostegno dell’ipotesi di una componente ge-netica che partecipa all’eziologia dell’autismo è data dagli studi che hanno rilevato un’associazione nel 10-15% dei casi di autismo con malattie genetiche in cui l’al-terazione cromosomica è nota, come ad esempio la sindrome dell’X fragile (circa il 3%), la sclerosi tuberosa (2%) e varie altre anomalie genetiche come delezioni e duplicazioni (Kumar & Christian, 2009). Nessuna di queste alterazioni è specifica per lo sviluppo del disturbo autistico ma piuttosto per un insieme di fenotipi che includono anche la disabilità mentale (Levy et al., 2009). In conclusione è alta-mente probabile che l’autismo abbia una patogenesi di tipo poligenico anche se per ora non sono stati individuati i geni coinvolti.

In associazione a una predisposizione genetica è da considerare anche la possibi-lità che sia un danno organico a intervenire sulla genesi del disturbo. In particolare l’alta frequenza di epilessia (Volkmar & Nelson, 1990), l’associazione con il ritardo mentale e la presenza di vari e persistenti segni neurologici (ad es.: la persisten-za dei riflessi arcaici come il visual rooting reflex, come in de Bildt et al., 2012) suggeriscono fortemente un coinvolgimento cerebrale. Numerosi studi post mor-tem hanno riportato la presenza di un insieme di anomalie come una riduzione del numero di neuroni e una riduzione dell’arborizzazione dendritica nelle aree del sistema limbico (amigdala, ippocampo, il setto e il cingolo anteriore) (Kemper & Bauman, 1998). Altre anomalie erano state individuate già in uno studio autoptico su 4 soggetti autistici nel 1986 da Ritvo et al. che osservò a livello cerebellare una riduzione significativa delle cellule del Purkinje e dello strato dei granuli. L’ence-falo dei soggetti autistici confrontato con quello di soggetti tipici si presenta con un volume aumentato dal 2 al 10% (Piven et al. 1995) e anche se questa evi-denza ancora non è stata del tutto compresa per quanto riguarda la patogenesi dell’autismo si suppone che possa derivare da una anomalia nel pruning neurale (la selezione di sinapsi e dendriti) (Volkmar et al. 2003). Anche Dora Polšek et al. nella review del 2011 riporta che la precoce ed eccessiva crescita del cervello

(26)

è una delle più rilevanti anomalie morfologiche che si ritrovano nel bambino au-tistico. Un’altra alterazione che viene evidenziata riguarda l’anormale struttura delle minicolonne nella corteccia frontale, temporale e nel cingolo anteriore. Le minicolonne sono l’unità di base di elaborazione e processazione delle informazioni a livello corticale, queste piccole strutture si sviluppano e si specializzano grazie agli stimoli provenienti dall’ambiente (Lücke & von der Malsburg, 2004). Lücke e von der Malsburg (2004) rilevano quindi che il volume minicolonnare dei soggetti con DSA è ridotto ma il numero di cellule per minicolonna sembra essere normale. Questo dato potrebbe trovare spiegazione in uno sviluppo minicolonnare troppo rapido e precoce, riducendo l’arco di tempo entro il quale gli stimoli esterni de-rivati dall’esperienza possono influenzare lo sviluppo dei neuroni piramidali, delle loro connessioni a lunga distanza e dei loro alberi dendritici (Courchesne & Pierce, 2005). Inoltre è descritto uno sviluppo non adeguato dei neuroni inibitori, come le cellule a canestro e le cellule a candelabro (Courchesne & Pierce, 2005), che deter-mina una riduzione dell’inibizione necessaria per isolare le informazioni specifiche elaborate da una minicolonna. Ciò provoca un’iperattivazione delle minicolonne vicine con una conseguente iperstimolazione in seguito a semplici stimoli esterni che in condizioni normali provocherebbero l’attivazione di una singola o di un pic-colo gruppo di minipic-colonne. Dal punto di vista clinico questo si manifesta con una più scarsa consapevolezza del contesto circostante e una ipereccitazione in seguito all’esposizione a stimoli apparentemente di bassa entità, entrambe caratteristiche spesso riferite al disturbo autistico (Polšek et al., 2011).

Poiché l’autismo è un disturbo delle funzioni integrative di alto ordine, come le interazioni sociali complesse, il pensiero associativo e le reazioni emotive appropria-te rispetto al conappropria-testo, le aree cerebrali più studiaappropria-te con le appropria-tecniche di neuroimaging sono quelle associate con queste funzioni: la corteccia frontale e temporale, la cor-teccia del cingolo anteriore, il giro fusiforme, l’amigdala e il cervelletto (Polšek et al., 2011). Carper et al. in uno studio del 2005 affermano che la corteccia

(27)

fron-tale nel bambino autistico cresce in modo sproporzionato rispetto alle altre parti dell’encefalo nel primo anno di vita mentre tra i 2 e i 9 anni di vita si ha un ac-crescimento volumetrico di appena il 10% di questa porzione corticale nei bambini autistici rispetto all’accrescimento del 48% nei bambini tipici. Questo è appunto l’arco di tempo entro il quale avviene la mielinizzazione, la sinaptogenesi e lo svi-luppo dell’albero dendritico dei neuroni piramidali nel terzo strato della corteccia cerebrale fontale (Courchesne & Pierce, 2005). Questa stessa alterazione microar-chitetturale non si ritrova invece nella corteccia visiva, una porzione corticale che subisce uno sviluppo molto importante nei primi mesi di vita (Courchesne & Pier-ce, 2005). Queste evidenze sperimentali portano a concludere che, probabilmente, le aree cerebrali più colpite nell’autismo sono proprio quelle che hanno bisogno di più tempo per svilupparsi (Polšek et al., 2011). Per quanto riguarda la corteccia temporale, è noto che il giro temporale superiore e il giro frontale inferiore sono im-plicati nella processazione del linguaggio, una funzione lateralizzata di competenza dell’emisfero sinistro (Dehaene-Lambertz et al., 2006). Nell’autismo la processazio-ne del linguaggio è spesso danprocessazio-neggiata in modo importante, per questo sono stati effettuati studi di imaging per indagare queste aree. Nello studio di Redcay e Cour-chesne del 2008 viene utilizzata la risonanza magnetica funzionale durante il sonno: l’esito di questo esame mostra una ridotta attivazione a livello del giro temporale superiore nell’emisfero sinistro di bambini con autismo in risposta alla voce umana rispetto ai soggetti tipici. Questa anomalia è da riferire a un mancato completo sviluppo delle connessioni a lunga distanza in questa regione. I soggetti autistici però in risposta all’ascolto di una fiaba al momento di andare a dormire mostra-no un’attivazione molto maggiore del giro temporale superiore e del giro frontale inferiore di destra rispetto ai controlli (Redcay & Courchesne, 2008). Questa sco-perta è stata poi confermata da numerosi altri studi (Pierce, 2010; Dinstein et al., 2011) che hanno inoltre dimostrato che è una costante e precoce caratteristica del-l’autismo. Ciò suggerisce la possibilità di utilizzare questo biomarker neurologico

(28)

funzionale nella diagnosi precoce dell’autismo (Pierce, 2010). Il preciso substrato che sottende a questa lateralizzazione a destra nella processazione del linguaggio è tutt’oggi non del tutto chiaro e inoltre non è accertato se questo meccanismo impe-disca la normale acquisizione del linguaggio o se sia una conseguenza di un fattore sconosciuto che impedisce la lateralizzazione a sinistra di questa funzione (Polšek et al., 2011). Il giro fusiforme è stato invece indagato insieme all’amigdala e alla corteccia cingolata anteriore utilizzando la risonanza magnetica funzionale (RMNf) per il suo ruolo nell’elaborazione emozionale, aspetto che risulta essere deficitario nei soggetti autistici. Rispetto a pazienti di controllo, nei soggetti con autismo ad alto funzionamento o con la sindrome di Asperger non si ha l’attivazione del giro fusiforme durante prove che richiedono il riconoscimento di volti ed emozioni (Schultz et al. 2000; Kleinhans et al., 2011). A conferma di questo dato anche Corbett et al. (2009) hanno utilizzato la RMNf per misurare l’attivazione del giro fusiforme durante l’elaborazione emozionale, rilevando una diffusa ipoattivazione di quest’area nel gruppo dei soggetti con DSA. Nello studio di Pierce e Redcay (2008) viene rilevata un’ipoattivazione del giro fusiforme solo in risposta alla visione di volti sconosciuti, mentre la presentazione di volti familiari elicita una normale at-tivazione dell’area cerebrale esaminata. Questo porta Karen Pierce a formulare la teoria secondo la quale i pazienti con DSA possono instaurare legami emotivi forti in quanto dispongono di un’adeguata rete neurale che può essere attivata come nel soggetto a sviluppo tipico, ma sarebbero necessari stimoli aggiuntivi per attivar-la in quanto nel corso dello sviluppo le connessioni neurali andrebbero incontro a una disorganizzazione importante che secondo l’autrice è la causa del tardivo iso-lamento sociale di questi bambini (Pierce, 2010). Un’altra area che è importante nel riconoscimento dei volti e delle emozioni che esprimono e per il potenziamento della memoria in relazione a eventi emotivamente significativi è l’amigdala. Nei pazienti autistici le indagini effettuate permettono una valutazione volumetrica di quest’area e queste mostrano un aumento del volume già all’età di 2 anni seguito

(29)

da un arresto della crescita non proporzionale alle modificazioni volumetriche del resto dell’encefalo (Sparks et al., 2002). In uno studio del 2004 Schumann et al. mostrano come nel bambino tipico l’amigdala presenti un aumento volumetrico di circa il 40% tra gli 8 e i 18 anni mentre nel bambino con autismo questa crescita non viene rilevata. Bisogna però dire che, se i volumi misurati dell’amigdala differi-scono in modo importante tra i due gruppi durante l’infanzia, il volume raggiunge valori equivalenti per i tipici e per i soggetti con autismo nell’adolescenza e nell’età adulta a causa dei differenti pattern di crescita encefalica in queste due popolazioni. Schumann et al. (2004) hanno inoltre sottolineato l’importante correlazione clini-ca che esiste tra il volume dell’amigdala e l’associazione del ritardo mentale grave con il disturbo autistico. Inoltre il volume dell’amigdala sarebbe anche coinvolto nella manifestazione di un livello di ansia più elevato in questi soggetti (Juranek et al., 2006) e anche in peggiori abilità comunicative e sociali (Munson et al., 2006). Per quanto riguarda il cervelletto sono stati condotti numerosi studi per valutare quest’area cerebrale in quanto, sebbene nell’autismo non siano presenti i tipici se-gni motori di disfunzione cerebellare, il cervelletto è implicato anche in numerose funzioni cognitive come il linguaggio, l’imitazione, l’attenzione, la visualizzazione mentale (Schmahmann, 1991). Dal punto di vista volumetrico il cervelletto sembra essere proporzionato rispetto alle altre aree cerebrali (Amaral et al, 2008) ma altri studi riportano un volume del verme cerebellare sia aumentato che ridotto rispetto alla media (Courchesne et al., 1994), forse espressione dell’eterogeneità dei pazien-ti con DSA (Piven, Saliba et al., 1997) o forse da correlare con una metodica di misurazione approssimativa e imprecisa (Scott et al. 2009). Come già ricordato in precedenza ci sono anche studi che dimostrano la presenza di anomalie significative a carico delle cellule del Purkinje (Ritvo et al., 1986), in particolare a livello degli emisferi cerebellari dove queste cellule appaiono essere ridotte in dimensioni e in numero (Amaral et al., 2008; Scott et al., 2009). Anche se le anomalie delle cel-lule del Punkinje rappresentano fino ad ora la scoperta più consistente dal punto

(30)

di vista morfologico e strutturale nell’autismo, questi dati non sono ancora stati confermati da una ricerca stereologica (Amaral et al., 2008). La stereologia è una tecnica molto rigorosa che consente il conteggio cellulare ex-vivo su tessuti fissati e attraverso questa metodica si possono ottenere misurazioni precise del numero di cellule presenti in una data area di tessuto.

La ricerca si è quindi concentrata sull’individuazione di un biomarker sensibile per l’autismo e numerosi studi sono stati fatti sui neurotrasmettitori misurando la loro concentrazione sanguigna, valutando la densità recettoriale e quantificando la loro produzione e degradazione. Una delle teorie più interessanti e importanti in questo campo è quella che parla di un’alterazione dell’equilibrio tra eccitazione e inibizione: questa teoria si basa sulle numerose evidenze che provano come nel cer-vello del soggetto autistico siano presenti delle anomalie che interessano il neurotra-smettitore GABA, con funzione inibitoria, e il glutammato, un neurotraneurotra-smettitore eccitatorio. L’ipotesi proposta afferma che una completa mancanza dell’inibizio-ne locale e dell’eccitaziodell’inibizio-ne a lunga distanza sia durante lo sviluppo sia dell’inibizio-nell’età adulta possa essere un fattore comune nello sviluppo e nell’evoluzione dell’autismo (Polšek et al., 2011). Le ricerche sul neurotrasmettitore eccitatorio glutammato dimostrano che i suoi livelli sierici sono sicuramente alterati in relazione all’auti-smo ma il dosaggio del glutammato nel sangue non è affidabile come marker di autismo perché troppo dipendente da eventuali premedicazioni, dall’alimentazione e dalle comorbidità di questi pazienti (Shinohe et al. 2006 ). Un’altra tra le ipotesi neurotrasmettitoriali propone come possibile fattore che interviene nell’eziologia dell’autismo una disregolazione della serotonina, che in molti studi viene ritrovata a livelli più elevati del normale nel soggetto autistico, anche se non è stato possibile accertare la presenza di un collegamento tra i livelli di questo neurotrasmettitore e la gravità della presentazione clinica dei pazienti esaminati (Leboyer et al., 1999). Anche la dopamina è stata presa in considerazione negli studi sulle basi neurochi-miche dell’autismo in base alle evidenze cliniche che mostrano una riduzione dei

(31)

comportamenti aggressivi e autolesivi e dell’iperattività nei pazienti trattati con antagonisti dei recettori dopaminergici D2. Il miglioramento della sintomatologia è secondo gli autori da attribuire al rilascio di glutammato D2-mediato, portan-do quindi un’ulteriore conferma alla teoria dello squilibrio tra neurotrasmettitori inibitori e eccitatori (Bernardi et al. 2011).

I fattori ambientali studiati in cerca di una possibile associazione allo sviluppo di autismo sono numerosi. In uno studio di Croen et al. (2011) si segue l’ipotesi che l’uso di farmaci antidepressivi nel corso della gravidanza possa intervenire sull’au-mento del rischio di autismo nel nascituro. I risultati di questa ricerca mostrano che l’esposizione prenatale agli inibitori selettivi della ricaptazione della serotoni-na soprattutto durante il primo trimestre di gravidanza potrebbero aumentare in modo modesto il rischio di sviluppo di autismo, non fornendo quindi dati sufficien-temente attendibili per considerare questo fattore di rischio come certo. Tra gli altri fattori valutati troviamo anche l’infezione da rosolia nel periodo prenatale, che sarebbe da associare a un aumento dei casi di autismo nei bambini colpiti da rosolia congenita (Hwang & Chen, 2010). Uno studio che ha suscitato molto scalpore nel 1998 è stato quello di Andrew Wakefield il quale sosteneva nella sua pubblicazione l’esistenza di una correlazione tra il vaccino MPR (morbillo, parotite, rosolia) e l’autismo. Questa ricerca si è però rivelata del tutto errata e basata su dati scor-retti e manipolati, per questo motivo è stata poi ufficialmente smentita nel 2011 da Fiona Godlee e i suoi collaboratori (Godlee, Smith, Marcovitch; 2011). Lo studio di Geier et al. (2013) valuta l’ipotesi che l’esposizione a vaccini a base di conservanti contenenti mercurio come il Thimerosal, possano essere associati a una maggiore incidenza di diagnosi di autismo. I risultati di questo studio mostrano la presenza di una correlazione epidemiologica tra i due fattori ma sono necessarie ulteriori conferme sperimentali per validare questa ipotesi (Geier et al, 2013). Anche la possibile interazione esistente tra l’autismo e alterazioni del sistema immune è sta-ta considerasta-ta. Le teorie proposte e analizzate sono l’ipotesi virale, che associa un

(32)

aumento del rischio di autismo a uno squilibrio immunitario legato a un’infezione virale, e l’ipotesi autoimmune, secondo la quale ci potrebbe essere un’associazione tra alcune patologie autoimmuni e l’autismo, suggerendo quindi un’origine comune per questi due disturbi (van Gent et al., 1997).

Per quanto riguarda le teorie cognitive messe attualmente in correlazione con l’autismo, le tre più importanti sono il deficit di acquisizione della teoria della mente, il deficit delle funzioni esecutive e il deficit della coerenza centrale. Per teoria della mente si intende un insieme di abilità intellettive che ci permettono di comprendere come le altre persone abbiano credenze, desideri, piani, speranze, in-formazioni e intenzioni che possono essere differenti dalle nostre (Korkmaz, 2011). Nel bambino autistico sarebbe presente un’incapacità di attribuire a se stessi e agli altri degli stati mentali e quindi una conseguente difficoltà di riconoscere gli stati mentali negli altri individui, mentre viene conservata la percezione fisica del mondo circostante (Ozonoff & Miller, 1995). Le alterazioni principali nel soggetto auti-stico vengono rilevate nel conseguimento dei prerequisiti necessari per un corretto sviluppo di una teoria della mente. Tra queste, la mancanza del gioco simboli-co o di finzione, il deficit dell’imitazione e deficit nell’acquisizione dell’attenzione condivisa (Korkmaz, 2011). Le funzioni esecutive sono i processi di controllo e coordinazione del funzionamento del sistema cognitivo che permettono di attuare il controllo necessario per il raggiungimento di uno scopo futuro (Pennington & Ozonoff, 1996). Sono funzioni complesse che dipendono dal controllo della cortec-cia prefrontale. Tra le funzioni esecutive più importanti ci sono l’inibizione delle reazioni impulsive scatenate da stimoli esterni, la memoria di lavoro, la flessibilità cognitiva o ‘set-shifting’, intesa come la capacità mentale di adattare il pensie-ro o l’attenzione in risposta agli stimoli ambientali, la pianificazione e la fluidità nel linguaggio (Pennington & Ozonoff, 1996). Molteplici studi hanno evidenziato deficits nelle funzioni esecutive in soggetti con autismo, dall’infanzia fino all’età adulta (Hill, 2004; Ozonoff, 1997). I bambini con autismo spesso hanno difficoltà

(33)

per quanto riguarda la flessibilità mentale, la pianificazione, la memoria di lavoro e la fluidità nel linguaggio ma l’inibizione delle reazioni impulsive è una delle fun-zioni che rimane relativamente intatta (Ozonoff, 1997). In un suo lavoro del 1989, Uta Frith ipotizza che l’autismo possa derivare da un deficit di coerenza centra-le. L’autrice rileva nei soggetti autistici la presenza di difficoltà nell’elaborazione e nell’integrazione dell’informazione percepita e delle sue componenti cognitive e affettive. Questa abilità è anche prerequisito per un corretto sviluppo della teoria della mente, indicando quindi la possibilità che entrambi i fattori possano par-tecipare alla patogenesi dell’autismo. Ciò che secondo Uta Frith risulta alterato nell’autismo è la naturale propensione di un sistema cognitivo a sviluppare una coerenza interna, cioè la tendenza a riunire insieme le diverse informazioni per co-struire sempre più alti livelli di significato. Anche la capacità di mentalizzare, cioè “la capacità che spinge un’informazione complessa, che deriva da fonti del tutto disparate, ad integrarsi in un insieme che abbia significato” (Frith, 1989) appare deficitaria. La mancanza di integrazione delle informazioni in entrata porta a una percezione frammentaria del mondo esterno e delle emozioni da parte del soggetto autistico ed anche ad una frammentaria pianificazione ed esecuzione dell’azione, elementi che in ultima analisi inficiano anche le relazioni sociali (Frith, 1989).

2.3

Classificazione

L’individuazione di criteri diagnostici specifici per la definizione di autismo è sicuramente un punto importante che aiuta nella definizione e nella diagnosi di questo disturbo. Uno dei sistemi nosografici più utilizzati per la classificazione dei disturbi mentali è il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM, dall’inglese Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders ), redatto dal-l’American Psychiatric Association (APA). Il DSM V è la quinta e più recente revisione di questo lavoro di ricerca, uscita nel maggio 2013. La classificazione proposta dal DSM V presenta alcune ma fondamentali differenze rispetto alla

(34)

ver-sione precedente, il DSM-IV-TR TR. Il primo e importante cambiamento proposto dal DSM V prevede la sostituzione della terminologia proposta nel DSM IV di Disturbi Pervasivi dello Sviluppo in vantaggio del termine Disturbi dello Spettro Autistico (DSA). Questa decisione è stata presa in quanto il termine ‘pervasivo’, introdotto dal DSM III e ripreso nel DSM IV, risulta essere poco adatto e og-getto di controversie, anche se bisogna riconoscere che l’utilizzo di questa parola ha permesso l’inclusione nel ristretto concetto di autismo di un ampio gruppo di soggetti con difficoltà sociali e comunicative. Il termine ‘spettro’ inoltre dovrebbe rendere possibile una più facile distinzione di questi disturbi da altri disturbi dello sviluppo non appartenenti allo spettro e dallo sviluppo tipico. Il DSM V inoltre si propone di raggruppare i vari disturbi sulla base di cause e caratteristiche comuni, senza fermarsi alla sintomatologia clinica, per questo motivo i DSA sono inclu-si nella categoria dei Disturbi del Neurosviluppo (Neurodevelopmental Disorders, ND). Per quanto riguarda i criteri diagnostici, invece che i tre proposti nella ver-sione precedente, il DSM V prevede solo due classi di sintomi cardine: il dominio socio-comunicativo e il dominio relativo ai comportamenti ripetitivi e interessi ri-stretti. Un’altra questione che è stata affrontata riguarda il ritardo del linguaggio. Nel DSM V si è deciso di non considerare più il linguaggio e i suoi disturbi come parte dei criteri diagnostici dei DSA, ma invece come una caratteristica separata da esaminare nel corso della valutazione clinica e nella ricerca neurobiologica, per questo l’esame del linguaggio diventa uno specificatore. Il risultato di questa scelta è che tutti i comportamenti di comunicazione a scopo sociale, verbali e non verbali, sono inclusi nell’area socio-comunicativa. Gli aspetti ripetitivi del linguaggio come l’ecolalia, l’eloquio stereotipato, le domande ripetute e i rituali verbali vengono ad essere inclusi nell’area dei comportamenti e interessi ripetitivi e ristretti. Anche l’aspetto delle modalità di presentazione dei DSA sono state rivalutate. Nel DSM IV per porre una corretta diagnosi è necessaria la manifestazione di determinati aspetti che rientrano nelle aree di definizione dei DPS prima dei 36 mesi di vita. Il

(35)

DSM V modifica questo aspetto in quanto prevede un range di età più ampio per la manifestazione dei segni e dei sintomi di DSA: si parla infatti di sintomi che si presentano nel bambino piccolo (‘young childhood’ nel testo in inglese, sostituisce il ‘prior to age three years’ del DSM IV) e che possono non essere evidenti finché le richieste sociali non aumentano in modo eccessivo, superando cioè le limitate capacità socio-comunicative del soggetto con DSA. Un’altra novità apportata dal DSM V riguarda il dominio dei comportamenti ripetitivi e degli interessi ristretti, in quanto sono necessari per la diagnosi due criteri su quattro. Questa modifica dovrebbe aumentare sia la specificità di questo criterio sia la stabilità della diagnosi nel tempo, oltre a facilitare la differenziazione dei DSA da altri disturbi. Sempre riguardo alla seconda area vengono introdotti nell’algoritmo diagnostico i compor-tamenti sensoriali insoliti, del tutto assenti nel DSM IV. Il gruppo di lavoro del DSM V inoltre cerca di definire dei criteri diagnostici che possano essere sensibili per tutto l’arco della vita, cercando quindi di adattarli alle necessità di una diagno-si in età molto precoce ma anche alla diagnodiagno-si in età adolescenziale e adulta. Un cambiamento importante e molto discusso apportato dal DSM V è stato l’elimina-zione della categoria diagnostica del Disturbo di Asperger, per un’inadeguatezza e una poca specificità dei suoi criteri diagnostici. Il DSM V introduce inoltre un ulteriore criterio necessario per la diagnosi, il criterio D, che riguarda l’interferen-za del DSA sulla vita quotidiana in base alla sua gravità (Santocchi & Muratori, 2012). In Figura 2.1 si può vedere uno schematico confronto tra i criteri richiesti per la diagnosi del Disturbo Autistico nel DSM IV-TR-TR e i criteri proposti dal DSM V per i Disturbi dello Spettro Autistico.

2.4

Manifestazioni cliniche

Premesso l’ampia variabilità clinica che intercorre tra le caratteristiche com-portamentali e di fuzionamento di una persona con autismo e l’altra, è possibile identificare alcuni elementi tipici dei disturbi dello spettro. Dal punto di vista

(36)

cli-Figura 2.1: Confronto fra i criteri del DSM IV e del DSM V per la diagnosi di

(37)

nico l’autismo si manifesta con alterazioni nei settori della comunicazione verbale e non verbale, dell’interazione sociale e degli interessi, che risultano essere ristretti e accompagnati da attività ripetitive.

Per quanto riguarda la comunicazione verbale si trova un ritardo di sviluppo del linguaggio nel 70% dei bambini autistici che non viene compensato da tentativi di acquisire una forma di comunicazione alternativa. I soggetti che sono in grado di utilizzare il linguaggio comunicano spesso in modo bizzarro e inadeguato: può essere presente ecolalia immediata (che consiste nella ripetizione di parole e fra-si subito dopo averle sentite) e differita (ripetizione a distanza di tempo oppure ripetizione di parole o frasi sentite in precedenza).

Il bambino autistico inoltre mostra un’apparente carenza di interesse per quan-to riguarda l’interazione sociale: c’è una tendenza all’isolamenquan-to e alla chiusura sociale, indifferenza o al contrario ipereccitabilità agli stimoli esterni, difficoltà a stabilire un contatto visivo diretto. Quest’ultima difficoltà predispone al deficit di sviluppo dell’abilità di instaurare un’attenzione condivisa con gli individui circo-stanti ed è correlata a un maggio rischio di sviluppo di disabilità sociale (Jones et al., 2008).

Dal punto di vista degli interessi e delle attività questi individui possono ma-nifestare un eccessivo interesse per un oggetto o parti di esso oppure per un de-terminato argomento o tematica in modo estremamente ristretto, possono inoltre presentare delle stereotipie, ovvero movimenti o sequenze di movimenti afinalistici ripetute in modo ossessivo, quali torcere o mordersi le mani, agitare le mani in aria, dondolarsi, camminare sulla punta dei piedi, o movimenti complessi del capo. Un’altra caratteristica del funzionamento delle persone con autismo può essere il bisogno di immutabilità, che si manifesta sia nella vita quotidiana sia nel gioco, con una spiccata resistenza al cambiamento. Questi bambini in seguito alla modi-ficazione delle loro abitudini e dei loro rituali possono manifestare crisi d’ansia e addirittura di aggressività diretta contro se stessi e contro gli altri.

(38)

2.5

L’alterazione dell’attenzione condivisa come

fattore di rischio precoce per lo spettro

au-tistico

Considerando che nella maggior parte dei casi di DSA i primi sospetti vengono posti durante il secondo anno di vita (Chawarska, Paul et al., 2007), diventa es-senziale migliorare e potenziare le attuali conoscenze sull’espressione del disturbo autistico durante il periodo preclinico, sia per fornire strumenti utili alla pratica clinica sia per scopi di ricerca. Ad oggi la diagnosi di autismo non può essere posta con sicurezza prima dei 3 anni di età per cui ha assunto sempre più importanza la necessità di individuare dei parametri che possano essere utilizzabili per la diagnosi precoce di autismo. È già noto che nell’autismo risultano essere deficitarie o alte-rate le abilità di inseguimento dello sguardo e di attenzione condivisa (Hood et al., 1998; Maestro et al., 2005; Senju et al., 2008), per questo motivo numerosi studi si sono concentrati sull’individuazione precoce di questa capacità così da poterla utilizzare come fattore predittivo precoce per il successivo sviluppo del disturbo autistico. Charman nel suo studio del 2003 mostra come le alterazioni nell’atten-zione condivisa siano tra i segni più precoci e importanti di autismo e come siano correlate positivamente con il successivo sviluppo del linguaggio, come già mostra-to in studi precedenti (Mundy & Gomes, 1998), e in misura inferiore anche con le difficoltà dei pazienti autistici in ambito sociale e comunicativo. Intorno alla fine del primo anno di vita sembrano essere evidenti le precoci anomalie tipiche dell’au-tismo nell’attenzione condivisa e nei comportamenti di interazione sociale, queste alterazioni diventano poi più strutturate nel secondo anno di vita, con la comparsa aggiuntiva di una tendenza a evitare del tutto il contatto visivo e all’isolamento (Charman, 2003). Chawarska, Macari e Shic in uno studio del 2013 mostrano come fin dai 6 mesi di età i bambini che poi ricevono diagnosi di autismo presentino una ridotta abilità a prestare attenzione spontaneamente alle altre persone e alle loro

(39)

attività. Questa limitata predilezione attentiva nei confronti degli altri individui probabilmente ha un impatto negativo sulla specializzazione di determinati net-work neuronali destinati alle abilità sociali e quindi sullo sviluppo delle capacità di interazione sociale in questi bambini. L’anomala strutturazione di questo network neuronale specifico il cui sviluppo risulta essere correlato all’esperienza, giustifica le precoci alterazioni nel campo dell’attenzione sociale, che si crede siano da corre-lare a una ridotta sensibilità da parte dei soggetti autistici al valore di ricompensa attribuibile allo stimolo sociale (Dawson et al., 2012). Un’altra ipotesi proposta per spiegare le difficoltà dei bambini con autismo nei compiti di inseguimento dello sguardo è stata proposta da de Jong et al. (2008), che correlano questa altera-zione a una difettosa capacità di elaboraaltera-zione degli stimoli emozionali. Un altro studio di Shic, Chawarska e Macari (2013) fornisce ulteriori supporti sperimentali alla tesi che alterazioni dell’attenzione possano essere presenti fin dai 6 mesi di età e aggiunge nuovi spunti per le future ricerche. Gli autori infatti mostrano come la presenza di una stimolazione verbale durante la somministrazione della prova potrebbe disturbare e alterare l’attenzione unicamente di quei bambini che suc-cessivamente riceveranno diagnosi di DSA, in quanto sarebbe difettosa in questi bambini la capacità di processare gli stimoli sociali complessi (Shic, Chawarska, Macari, 2013). In uno studio del 2008 Gernsbacher et al. propongono un’ulteriore spiegazione del perché i bambini autistici trovino difficoltà sia nell’iniziare un epi-sodio di attenzione condivisa, utilizzando i gesti di pointing per segnalare all’adulto un oggetto o un evento di interesse, sia nel rispondere agli stimoli di attenzione condivisa, modificando quindi la posizione degli occhi e della testa in modo da direzionare la propria attenzione verso l’oggetto che l’altra persona sta osservando. Le motivazioni di questa alterazione secondo gli autori sono da ricercare nell’ati-pica resistenza alla distrazione dei bambini autistici, nella loro alterata percezione del mondo circostante e nell’anomala esecuzione di azioni volontarie, in particolare per quanto riguarda i movimenti oculari (disprassia visiva). Spesso il bambino

Riferimenti

Documenti correlati

Deficit nei comportamenti comunicativi non verbali usati per l’interazione sociale, da una scarsa integrazione della comunicazione verbale e non verbale, attraverso

Infatti uno degli aspetti più distintivi delle forme di autismo è la difficoltà nell’esprimere le emozioni e nel codificare quelle altrui; questo vale anche nelle forme

Humans and robots interact thanks to an acquisition system based on an eye tracker device that allows the user to control the motion of a robotic manipulator with his gaze..

Efficacy of Bacillus subtilis and Bacillus amyloliquefaciens in the control of Aspergillus parasiticus growth and aflatoxins production on pistachio..

To evaluate urokinase plasminogen activator (u-PA), urokinase plasminogen activator soluble receptor (su-PAR), plasminogen activator inhibitor I (PAI-1) and tissue

Chiari Deficit nelle abilità sociocomunicative verbali e non verbali; le difficoltà sociali sono evidenti anche in presenza di aiuto; l’iniziativa nelle interazioni sociali è

Chiari Deficit nelle abilità sociocomunicative verbali e non verbali; le difficoltà sociali sono evidenti anche in presenza di aiuto; l’iniziativa nelle interazioni sociali è

5,6 Among IFIs occurring after liver transplantation, ICIs account for up to 75% of cases, with prolonged or repeated surgery, choledochojejunostomy, re- transplantation,