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La natura incorporata e il malgoverno della modernità nel secondo Novecento

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Academic year: 2021

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IL BOLLETTINO DI CLIO

NUOVA SERIE - NUMERO 6 – NOVEMBRE 2016

ISSN 2421-3276

LA STORIA DELL’AMBIENTE

EDITORIALE

A cura di Saura Rabuiti

INTERVISTA

10 DOMANDE SULLA STORIA DELL’AMBIENTE a Piero Bevilacqua

A cura di Giuseppe Di Tonto

CONTRIBUTI

Federico Paolini, Appunti sulla storia dell’ambiente: problemi, metodologie, approcci,

snodi tematici

Simone Neri Serneri, La natura incorporata e il malgoverno della modernità nel secondo

Novecento.

ESPERIENZE

Francesca Tognina Moretti, Ambiente e storia: un dossier per l’esame di maturità

Gabriella Bosmin, Simonetta Cannizzaro, Nadia Paterno, Ernesto Perillo, La storia dell’ambiente

nella pratica didattica. Avvio di una riflessione.

Paolo Coppari, Un progetto nei paesi del sisma

LETTURE

Piero Bevilacqua, La Terra è finita. Breve storia dell’ambiente (A cura di Germana Brioni)

Stephen Mosley, Storia globale dell’ambiente (A cura di Enrica Dondero)

Marco Armiero, Stefania Barca, Storia dell’ambiente. Una introduzione (A cura di Paola Lotti)

Matteo Melchiorre, Requiem per un albero. Racconto dal Nord Est (A cura di Ernesto Perillo)

Francesco Pinto, La strada dritta (A cura di Vincenzo Guanci)

Summer School Emilio Sereni, Abitare la terra, Gattatico (RE) (A cura di Gabriella Bonini)

SPIGOLATURE

A cura di Saura Rabuiti

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Il Bollettino di Clio – Novembre 2016

E D I T O R I A L E

EDITORIALE

A cura di Saura Rabuiti

“Lì, in quel favoloso teatro della natura che si apriva davanti ai nostri occhi, sostituendo

di colpo lo scenario di guerra, ero ubriacato assurdamente da un pensiero:

nello stesso istante in cui noi ci ammazzavamo come dei dementi fra quelle montagne,

il mondo andava avanti. Mentre noi combattevamo, ci spingevamo da soli

verso la pazzia e la crudeltà, la natura continuava a vivere, ecco tutto.”

(Nicolai Lilin, Caduta libera)

Questo numero de Il Bollettino di Clio è dedicato alla storia dell’ambiente, un campo di indagine interdisciplinare in cui convergono scienze sociali, discipline umanistiche e saperi tecnico-scientifici. Per quel che riguarda la storiografia, si tratta di un ambito di ricerca relativamente nuovo, che risale agli ultimi decenni del Novecento.

Che cosa è la storia dell’ambiente? Quale contributo di tipo nuovo e diverso ha portato al sapere storico e alla storiografia? Quali le ripercussioni nella didattica della storia? Risponde a queste domande e ad altre ancora l’Intervista a Piero Bevilacqua, storico dell’ambiente dell’Università di Roma (La Sapienza), per il quale la storia ambientale nel riconoscere “nella natura un soggetto storico, condizionato e modificato dagli uomini, ma la cui evoluzione conserva una relativa autonomia rispetto all’azione umana”, “getta una luce prima inesistente sui rapporti tra gli uomini e le risorse, tra l'azione umana e gli equilibri degli habitat entro i quali si svolgono le nostre vite e dunque anche la nostra storia” e “certamente comporta un vero salto epistemologico, rispetto all’intera tradizione storiografica, fondata esclusivamente sui saperi umanistici”.

I temi storico-ambientali sono molti e molte storie ambientali sono ancora da scrivere, ci ricorda Federico Paolini, storico dell’ambiente della Seconda Università di Napoli, che, con attenzione alla realtà italiana, fa il punto sullo stato dell’arte della disciplina e si sofferma sui principali approcci (globale, nazionale, locale) che possono essere adottati per studiare le relazioni tra la storia umana e quella degli ambienti naturali, fornendo ai nostri lettori utili informazioni e l’indicazione di possibili piste di ricerca anche storico-didattica. Il contributo di Simone Neri Serneri permette poi di riflettere sul rapporto tra società e ambiente nel Novecento, il secolo della modernità, caratterizzato dal punto di vista ambientale da una realtà qualitativamente diversa da quella dei precedenti secoli della storia. Valorizzando il concetto di “incorporazione della natura”, lo storico dell’ambiente dell’Università di Siena, riflette in particolare sul Novecento italiano, “sul farsi del mondo urbano e industriale contemporaneo, nucleo sostanziale e motore delle trasformazioni ambientali con cui siamo chiamati a confrontarci su scala globale”.

La storia dell’ambiente, pur relativamente giovane, ha ormai prodotto una consistente letteratura internazionale. Il degrado ambientale (i cui aspetti, planetari e locali, possono dar luogo a una lista infinita: deforestazione, buco dell'ozono, riscaldamento globale, desertificazione, perdita diffusa di biodiversità, cambiamenti climatici, smog, piogge acide, contaminazione dei terreni e delle acque, erosione dei suoli …) è diventato ormai universalmente evidente e percepito.

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E D I T O R I A L E

A scuola però la storia dell’ambiente non ha ancora trovato il riconoscimento e lo spazio che merita, sicuramente e innanzitutto per la novità che rappresenta e per la forza di inerzia della tradizione consolidata di insegnamento/apprendimento, non solo della storia.

Come Associazione di insegnanti e ricercatori sulla didattica della storia siamo convinti delle grandi possibilità educative e didattiche della storia ambientale. Percorsi di storia ambientale nei curricoli scolastici possono introdurre problematiche di grande attualità (e di grande potenza comunicativa) che permettono di fornire gli studenti di strumenti di lettura e comprensione su quanto accade intorno a loro e a tutti noi. Più in generale la storia dell’ambiente può essere una chiave attraverso la quale realizzare la necessaria e urgente ristrutturazione di una storia generale scolastica organizzata sul principio dello sviluppo, o progresso che dir si voglia, e in cui la narrazione è prevalentemente scandita dai tempi brevi della storia politico-istituzionale. La storia dell’ambiente può offrire l’opportunità di abbracciare, con un colpo d’occhio, molte diverse variabili a scala mondiale (ma anche locale); di interrogare soggetti e sviluppare temi originali; di cogliere mutamenti, permanenze e periodizzazioni inedite. Può mettere a fuoco la storia del presente e dare al presente spessore storico.

Per sollecitare l’assunzione di un impegno in tal senso da parte dei docenti di storia delle scuole italiane, il Bollettino si completa con materiali, progetti e segnalazioni in grado di fornire interessanti stimoli e utili informazioni.

Nella rubrica Esperienze, Francesca Tognina Moretti, dell’Associazione ticinese insegnanti di storia, presenta i materiali della sezione storica di un dossier interdisciplinare sul tema del rapporto tra uomo e ambiente nel Novecento (La terra è finita. Ecologia, ambiente e società: la responsabilità nei confronti del pianeta), predisposto per gli studenti dell’ultimo anno di un liceo di Lugano. I documenti selezionati riguardano tre problematiche ambientali e altrettanti ragionati e articolati percorsi di studio che permettono di rileggere la storia del Novecento attraverso il filtro dell’impatto dell’uomo sull’ambiente; di esaminare la nascita di un’opinione pubblica sensibile alla questione ambientale; di rilevare l’ingresso della questione ambientale nella sfera politica.

Simonetta Cannizzaro, Nadia Paterno e Gabriella Bosmin, docenti di scuola primaria della rete delle GeoStorie, a partire da una traccia di domande di Ernesto Perillo, avviano una riflessione su come la storia dell’ambiente sia o non sia tema della mediazione didattica, alternando considerazioni generali, esempi di esperienze didattiche, ipotesi e possibili prospettive di lavoro e rilanciando ulteriori interrogativi che meritano di essere approfonditi.

Paolo Coppari presenta un progetto storico-didattico dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Macerata (L’epicentro della storia. Radici e futuro dei centri del sisma e dell’entroterra marchigiani), ideato subito dopo il terremoto del 24 agosto 2016. È rivolto ai centri appenninici colpiti dal quel sisma ed è accompagnato da una scheda di Marco Moroni, relativa alle più recenti acquisizioni storiografiche sul territorio appenninico. Da allora la terra ha continuato a tremare e la situazione si è fatta sempre più drammatica e tragica. Le scuole di riferimento non esistono più; bambini e ragazzi sono sparsi un po’ ovunque e vivono grandi difficoltà. Difficile oggi immaginare la concretizzazione del progetto. Ci è piaciuto però e ci piace lo spirito che lo anima e che assegna alla storia il compito di ricostruire “le infrastrutture civiche, come la fiducia e il senso di appartenenza” necessarie, al pari della ricostruzione delle case, delle strade, dei ponti, alla rinascita delle comunità appenniniche.

Nella rubrica Letture sono segnalati l’edizione 2016 della Summer School Emilio Sereni sul tema Abitare la Terra (a cura di G. Bonini) e cinque libri dai quali ricavare indicazioni, riflessioni, analisi, dati e stimoli per ricerche storico - didattiche sulla storia dell’ambiente: Piero Bevilacqua, La Terra è finita. Breve storia dell’ambiente (a cura di Germana Brioni); Stephen Mosley, Storia globale dell’ambiente (a cura di Enrica Dondero); Marco Armiero e Stefania Barca, Storia dell'ambiente. Una introduzione (a cura di Paola Lotti); Matteo Melchiorre, Requiem per un albero. Racconto dal Nord Est (a cura di E. Perillo); Francesco Pinto, La strada dritta (a cura di Vincenzo Guanci).

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Il Bollettino di Clio – Novembre 2016, Anno XV, Nuova serie, numero 6 Pag. 4

Le Spigolature (a cura di Saura Rabuiti), tratte dalla Storia dell'ambiente europeo di Robert Delort e Francois Walter, propongono alcune riflessioni sulla novità rappresentata da un’ecostoria, che corregge la visione antropocentrica del passato.

LA REDAZIONE

La redazione del Bollettino di Clio (Nuova serie) è costituita da Ivo Mattozzi (Direttore responsabile), Saura Rabuiti (Coordinamento redazionale), Giuseppe Di Tonto, Vincenzo Guanci, Ernesto Perillo

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Il Bollettino di Clio – Novembre 2016

DIECI DOMANDE SULLA STORIA DELL’AMBIENTE

INTERVISTA A PIERO BEVILACQUA

Università di Roma, La Sapienza

A cura di

Giuseppe Di Tonto (Associazione Clio ’92)

1. Lo studio dell’ambiente, della sua storia e delle relazione che l’uomo ha da sempre costruito con esso rappresentano il centro di interesse di questo nuovo ambito della storiografia contemporanea che ha avuto il suo massimo sviluppo negli ultimi decenni del XX secolo. Tuttavia non si può dire che non ci sia un’eredità storiografica dalla quale hanno preso spunto i nuovi studi di storia ambientale: dalla scuola geografica di Vidal de la Blanche agli studi di Lucien Febvre e di Marc Bloch, dalle sollecitazioni di Fernand Braudel verso quella che lui chiamava la “geostoria” agli studi sul clima di Emmanuel Le Roi Ladurie per rimanere nell’ambito della storiografia francese. Per aiutarci ad entrare in questo mondo, potrebbe segnalarci quelle che, secondo lei, sono state le principali tappe di questo ambito dell’indagine storiografica fino ad oggi?

P. Bevilacqua

.

Indubbiamente, sul piano strettamente storiografico, sono questi i precedenti più rilevanti che anticipano e aprono i nuovi orizzonti verso la storia ambientale. Sul piano più latamente culturale non bisognerebbe tuttavia dimenticare gli apporti della cultura americana, che non sempre si presenta in forma di contributo storiografico, ma certamente introduce temi che troveranno ampi sviluppi nella ricerca storica successiva. Penso agli studi e ai dibattiti sulla wilderness , vale a dire la “natura selvaggia”, da tutelare di fronte all’avanzare dell’urbanesimo e dell’industrializzazione, che ha portato, in Usa, alla creazione dei primi parchi nazionali della storia già nella seconda metà dell'Ottocento, ai contributi di studiosi come David Thoreau

(1817-1882) di John Muir (1838-1914), soprattutto agli scritti di una figura anticipatrice come quella di George P.Marsh (1801-1882), autore di un testo profondamente precorritore Men and Nature (1864) riscoperto nella seconda metà del XX secolo. E vorrei anche segnalare l’influenza più tarda soprattutto sul versante urbanistico, di Lewis Mumford, autore di The City in the History (1961, ora ripubblicato da Castelevecchi,2013)

Sul piano strettamente storiografico direi che un punto di partenza importante è l'opera di Marc Bloch I caratteri originali della storia rurale francese (1931). Com'è noto, questo testo viene più o meno universalmente riconosciuto come il capostipite della storia agraria, un nuovo territorio della ricerca storica, e soprattutto del paesaggio agrario. Un'opera a cui si ispirerà il nostro Emilio Sereni con la sua Storia del paesaggio agrario italiano (1961). Ma è importante ricordare i contributi di Lucien Febvre, con testi come La terra e l’evoluzione umana (1923), che costituisce una serrata critica al determinismo geografico di ambito tedesco, tutta orientata a restituire agli uomini la libertà e la responsabilità di decidere il proprio destino, al di là delle avversità dell'ambiente naturale. Un libro che oggi risulta in buona parte datato, ma che per tanto tempo inserì i temi della geografia umana di Vidal De la Blache nella riflessione e nella ricerca storica. Sempre Febvre, nel 1935, scrive un libro sul Reno, Le Rhin. problèmes d'histoire et d'économie (pubblicato in italiano da Donzelli, 1997) facendo di questo grande corso d'acqua che attraversa il Nord d'Europa un soggetto storico. Una novità non da poco nella lunga tradizione storiografica occidentale. Stesso ardimento innovativo mostrerà

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più tardi Fernand Braudel, che nel 1949 pubblica la prima edizione della Mediterranée, un capolavoro della storiografia novecentesca, che fa del grande mare interno dell’Europa del Sud il centro di un affresco di popoli, di economie, di commerci e di paesaggi di impareggiabile fascino. Infine, come giustamente suggerito nella domanda, occorre ricordare lo studio pioneristico di Emmanuel Le Roy Ladurie, Histoire du climat depuis l’an mil (1967) che ricostruisce gli andamenti climatici di alcune regioni agricole della Francia sulla base degli andamenti delle vendemmie per un gran numero di anni. Un modo molto originale di utilizzare fonti archiviste, utili per ricostruire la storia agraria, al fine di analizzare le vicende di un nuovo soggetto storico: il clima. Naturalmente la storia del clima si è poi avvalsa, nei decenni successivi, di sistemi scientifici molto più sofisticati e sistematici di quelli che poté usare Le Roy Ladurie, ricavandoli dagli archivi monastici francesi.

Dunque, la storiografia francese della scuola delle Annales ha contribuito molto ad aprire territori inesplorati alla ricerca, a favorire nuove sensibilità nei confronti dei territori, degli spazi, delle geografie entro cui si svolge la storia umana. Ma va detto che si tratta, a ben valutare oggi questi autori – non è una diminutio, ma un'ovvietà - non certo di storia ambientale ante litteram, ma di storia economica. Una storia economica che guarda ai fiumi, alle terre, ai mari e alle montagne, come risorse e spazi protagonisti del processo economico, i cui primi agenti restano sempre gli uomini coi loro bisogni produttivi, di scambi, di vita. Un grande passo in avanti rispetto alla storiografia del passato, ma non si tratta della storia ambientale che guarda alla natura indipendentemente dal suo valore ed uso economico. Una storiografia, per intenderci, che incomincia a esprimersi, soprattutto in USA e in Germania e poi in Italia - curiosamente, ma forse significativamente, non in Francia, che dopo la grande stagione annalistica perde il suo smalto – a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso. Non c’è, dunque, io credo – e in quello che dico, ovviamente, c’è molto della mia vicenda personale, ma significativa, perché io sono stato per anni un affascinato studioso della storiografia

annalistica – un passaggio naturale e immediato da Bloch e Braudel alla storia dell’ambiente. In mezzo c’è una profonda revisione culturale e teorica, un bagno nella letteratura ecologista internazionale, negli studi di Rachel Carson, Barry Commoner, nel pensiero filosofico di Edgar Morin, negli studi storico-teorici di Hans Immler, nelle ricerche dell’agronomia biodinamica, che metteva a nudo i limiti dell’agricoltura industriale, ecc.

2. Ma che cos’è la storia dell’ambiente? È possibile precisare il suo oggetto di studio, le caratteristiche costitutive di disciplina o piuttosto per la molteplice possibilità di approcci e di temi ci troviamo di fronte ad un campo di ricerca predisposto per sua natura alla contaminazione (si pensi ad esempio al rapporto con la geostoria), sfuggente quindi ad una rigida formalizzazione?

P. Bevilacqua. È certamente difficile racchiudere in un'unica formula la storia dell'ambiente. Intanto perché ci sono molte scuole nazionali, ciascuna delle quali è nata in un determinato contesto geografico a all'interno di una specifica tradizione culturale e storiografica. Per esempio negli Stati Uniti la storia ambientale ha privilegiato molto l'impatto della colonizzazione europea a partire dal 1492. In Europa, invece (vale a dire soprattutto in Germania e poi in Italia) continente di antichissima antropizzazione, hanno prevalso i temi della distruzione delle risorse e dei fenomeni di inquinamento generati dallo sviluppo industriale. Ma all’interno delle stesse correnti storiografiche nazionali ci sono, com’è naturale, diversità d'impostazione, di approcci, punti vista, ecc. Un autorevole storico tedesco, tanto per dare un’idea, Peter Sieferle, autore di studi importanti sulla storia dell’energia, ha ad esempio teorizzato una storia, capace di passare “dall’antropocentrismo al concetto di ecosistema”. Il che equivale a una storia ambientale in grado di ricostruire l'evoluzione della natura per mezzo delle discipline scientifiche (botanica, biologia, chimica, ecc.) in cui la vicenda umana diviene di fatto marginale, non è più centrale. D'altra parte, occorre considerare che

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si tratta di una disciplina ancora giovane, per cui ogni autore cerca sperimentalmente una propria strada, sia pure all’interno di una tradizione nazionale. Quel che si può sicuramente dire è che, indipendentemente dalle scuole e dalle tradizioni, la storia ambientale riconosce nella natura un soggetto storico, condizionato e modificato dagli uomini, ma la cui evoluzione conserva una relativa autonomia rispetto all’azione umana. Evoluzione che si manifesta con processi specifici da indagare tramite strumenti multidisciplinari, processi e fenomeni che non sono senza influenza sulla condizione e sulla storia umana.

3. Come è già accaduto per altri ambiti della ricerca storica, ad esempio la storia sociale, la storia dell’ambiente ha introdotto nel discorso storico nuovi soggetti spesso ignorati o poco analizzati, per fare solo qualche esempio: animali, fiumi, laghi, foreste, il paesaggio e le sue trasformazioni, il clima e i suoi andamenti, i prodotti e le condizioni di inquinamento della terra. In che modo essi vanno trattati? Quali domande occorre porsi nei loro confronti e come inserirli in un discorso più ampio di storia generale?

P. Bevilacqua. Ne abbiamo già parlato a proposito degli storici francesi. Io credo che le vicende di tali soggetti vadano affrontate soprattutto in una dimensione di storia locale, vale a dire con ricostruzioni che privilegino il rapporto tra le popolazioni e questi elementi fondamentai dell'habitat: laghi, foreste, terre, ecc. Un bell’esempio di storia di questo tipo è la ricostruzione che uno dei maggiori storici ambientali americani, Donald Worster, ha fatto del cosi detto Dust bowl, letteralmente “palle di sabbia”, le tempeste di sabbia che negli anni Trenta del Novecento hanno sconvolto le campagne degli Stati centrali degli USA. Qui la prolungata siccità, seguita da tempeste di vento hanno devastato il top soil, cioè lo strato fertile del terreno, distruggendo i raccolti e le terre coltivate a grano di migliaia di famiglie contadine, (Dust Bowl:The Suothern Plains in the 1930s,- 1979). In questa storia, centro ambientale della vicenda è il terreno, che uno sfruttamento intensivo ha esposto al processo erosivo degli agenti naturali,

generando una delle più gravi grandi catastrofi ambientali del ‘900.

4. La storia dell’ambiente appare in tutta evidenza di estrema complessità per il suo intreccio di approcci e di studi che investono le scienze naturali e biologiche, l’economia, la demografia, le religioni, le culture. Modi diversi di osservare lo stesso tema con innegabili difficoltà che investono le fonti che lo storico deve identificare e padroneggiare. È possibile ricostruire un quadro sintetico di queste problematiche? Quali fonti, tra quelle disponibili, si rivelano di più facile uso nella didattica della storia?

P. Bevilacqua. Certamente la storia ambientale comporta un vero salto epistemologico, rispetto all’intera tradizione storiografica, fondata esclusivamente sui saperi umanistici, dei secoli e dei millenni precedenti. Possiamo dire che fino a pochi decenni fa il modo di fare storia da parte degli studiosi non era molto diverso, quanto a modalità e strumenti, da quello inaugurato da Erodoto o da Tucidide oltre due millenni fa. Del resto, ancora oggi, la maggior parte degli storici, soprattutto quelli dell'età contemporanea, sono fermi alla storia come puro racconto di fatti. Fino alla storiografia delle Annales, salvo isolate eccezioni, e poi più decisamente con la storia ambientale, la storia è stata semplicemente racconto di umane vicende, come se la natura non esistesse. Naturalmente oggi esistono le specializzazioni, che sono inevitabili e necessarie, per cui abbiamo una storia politica, la storia economica, la storia urbana, ecc. con una loro dignità scientifica. Ma la storia ambientale costituisce un contributo di tipo nuovo e diverso di sapere storico, che getta una luce prima inesistente sui rapporti tra gli uomini e le risorse, tra l'azione umana e gli equilibri degli 'habitat entro i quali si svolgono le nostre vite e dunque anche la nostra storia.

Quanto alle fonti credo che, per i fini dell'insegnamento, la storia ambientale costituisca un tipo di disciplina che introduce nuove fonti oltre a inediti approcci e punti di vista.

Sono per lo più (o possono essere soprattutto a fini didattici) anche fonti che si trovano fuori dalle

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biblioteche e dagli archivi, rinvenibili nelle campagne, nei territori, ma anche in prossimità di fabbriche inquinanti, lungo le coste del mare e le foci dei fiumi, ecc. Farò degli esempi rispondendo alle domande successive.

5. La possibilità e la capacità di periodizzare e tematizzare un ambito così complesso sarebbe di grande aiuto per i docenti che intendessero, a ragion veduta, introdurre percorsi di storia dell’ambiente nei curricoli scolastici di storia. Lei ce ne ha dato un interessante esempio nel libro “La terra è finita. Breve storia dell’ambiente” (Laterza, 2006), ripercorrendo le tappe più importanti “dell’alterazione della natura e dell’ambiente intorno a noi”. Il punto di partenza è l’ipotesi che la situazione attuale di degrado dell’ambiente abbia cause più o meno remote che hanno preparato la situazione attuale. Esse andrebbero identificate nei “fondamenti etici e religiosi di un atteggiamento di dominio dell’uomo nei confronti della natura”, nel successivo “esito estremo del dominio della scienza e della tecnica sulla natura” o in fattori più concreti e misurabili quali lo sviluppo della popolazione mondiale in rapporto alle risorse disponibili e l’esplosione della rivoluzione industriale e del sistema capitalistico come “modo specifico di sfruttamento delle ricchezze naturali”. Può aiutarci a sistemare anche attraverso una più puntuale periodizzazione queste quattro possibili interpretazioni delle origini delle condizioni ambientali del presente?

P. Bevilacqua

.

Allorché i fenomeni di inquinamento ambientale sono diventati universamente evidenti, gli studiosi hanno cominciato a interrogarsi sulle cause remote e prossime di quanto stava avvenendo nelle società occidentali. Una delle cause è stata riconosciuta nel predominio della cultura religiosa giudaico- cristiana. Secondo alcuni studiosi, avendo posto l'uomo, quale soggetto dominante, al centro della Terra, tale tradizione ha spinto a un sfruttamento sempre più indiscriminato e distruttivo delle risorse del pianeta. Il primo e più coerente fautore di questa tesi è stato lo storico americano Lynn

White, che ne 1967 pubblicò sulla rivista Science un saggio molto discusso dal titolo Le radici storiche della nostra crisi ambientale. Il saggio di White aprì un dibattito internazionale che si prolungò per anni, con alcune obiezioni importanti su cui qui non ci si può soffermare. Ne rammento solo una. In Giappone, che certo non appartiene all’ambito della tradizione giudaico-cristiana, già a fine Ottocento gli imprenditori hanno prodotto danni ambientali rilevanti nel corso della prima industrializzazione di quel paese.

A partire dagli anni Ottanta emersero altre spiegazioni e teorie. Una di queste, è quella che fu definita liberale o liberistica. In sintonia con i successi crescenti delle teorie neoliberiste, alcuni studiosi sostennero la tesi che la crisi ambientale, sempre più evidente nelle società di antica industrializzazione, era dovuta al fatto che molte risorse naturali non avessero un prezzo, non fossero “prezzabili”. Secondo costoro, in genere economisti di formazione, se si desse un prezzo ad ogni frammento di natura, essa non sarebbe distrutta come di fatto accade, ma sarebbe ben curata e riprodotta dagli imprenditori, i quali non hanno interesse a distruggerla, poiché possono continuare a valorizzarla e a ricavarci profitti. Insomma affidare l'ambiente alle regole del mercato consentirebbe la sua buona conservazione e gestione. Credo che oggi non ci sia bisogno di mostrare quanto ideologica, cioè falsa, rispondente ad interessi sociali particolari, sia stata una tale posizione, che pure ha goduto di un certo successo, ma che oggi non ha più alcun credito. Per gli imprenditori, infatti, la natura è teoricamente infinita, se si esaurisce una miniera si passa a un’altra, se si distrugge la Foresta Amazzonica, si ripiantano altri alberi, se si estinguono le balene per eccesso di caccia, si pescheranno altri pesci. Il mercato continua, perché la crescita è infinita…

Attualmente non ci si interroga più sulle cause, ma si da per certo che è il capitalismo dell'età contemporanea – con il gigantismo delle sue produzioni e dei suoi consumi - a dare alla crisi ambientale una dimensione globale e una prospettiva minacciosa per il nostro avvenire. Si

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pensi al riscaldamento climatico. Mentre in tutte le epoche passate i problemi dell'ambiente, che pure non sono mancati, neppure nella più remota antichità, sono stati sempre a scala locale.

6. “Il XX secolo inaugura senza alcun dubbio un “tempo nuovo” nella storia del rapporto tra gli uomini e il mondo fisico. È in questa fase che “appaiono fenomeni mai osservati fino ad allora. Nuovi pericoli, di portata mondiale, si presentarono per la prima volta davanti all’umanità. Si pensi all’ingresso della radioattività nucleare e alle armi atomiche…Oppure al buco dell’ozono…all’effetto serra…” così lei esordisce nel capitolo del suo libro già citato, dedicato ai nuovi scenari del Novecento. Siamo alle soglie del presente. Come disegnare questo periodo che insieme alla consapevolezza del problema ambientale ha prodotto la nascita di una coscienza ambientalista, mai così manifesta nel passato?

P. Bevilacqua

. Oggi i problemi dell'ambiente si si

pongono in diverse forme e dimensioni. Per un verso si presentano come carenza crescente di risorse. Pensiamo, ad esempio, all’acqua. Di fronte alla crescita mondiale della popolazione l'acqua appare e sarà sempre più scarsa. La maggior parte dei grandi fiumi della Terra, da Nilo al Fiume Giallo, dal Tigri al Mississippi, sono sempre più poveri di acqua per effetto dello sfruttamento e delle innumerevoli estrazioni cui sono sottoposti lungo il loro corso. Stessa tendenza alla scarsità è visibile per le terre fertili destinate all'agricoltura. In tutte le aree del mondo il suolo viene divorato dal cemento, dall’ espansione urbana, da usi non agricoli o da usi agricoli e pastorali distruttivi. Non diversamente le foreste equatoriali, si pensi al caso dell'Amazzonia.

Ma i problemi dell'ambiente si presentano anche come danni, squilibri degli assetti naturali. Pensiamo allo smog cittadino, alle piogge acide, alla contaminazione del terreno per effetto di rifiuti, scarichi industriali, ecc. In tale ambito rientrano poi i problemi di scala planetaria come il

buco dell'ozono e soprattutto il riscaldamento globale, il Global warming, che rappresenta una minaccia grave per l'avvenire delle popolazioni sulla Terra.

7. L’attenzione verso l’ambiente, le sue trasformazioni nel tempo e la forte valenza educativa che questo tema ha nella formazione di un cittadino consapevole dei problemi del presente hanno aperto nuovi orizzonti anche nella didattica della storia. Tenendo conto delle caratteristiche interdisciplinari del tema, quali suggerimenti si possono dare ai docenti che intendono progettare e organizzare percorsi didattici nel settore della storia dell’ambiente, rivolti a studenti dei diversi ordini e gradi?

P. Bevilacqua. Ne ho già accennato, la storia dell'ambiente costituisce una disciplina in grado di cambiare profondamente la didattica della storia e direi la didattica in generale. Portare i bambini e i ragazzi in campagna, mostrare loro insieme a un botanico, un agronomo, a un chimico, come è fatto e come si è formato nel tempo un terreno fertile, il suo carattere di ecosistema, e come avviene il nutrimento di una pianta è utilissimo per insegnare le scienze e la storia al tempo stesso. Per spiegare, ad esempio, com'era l'agricoltura tradizionale e com'è diventata l'agricoltura industriale, come cerca di essere l'attuale agricoltura biologica, secondo quali metodi e sistemi e secondo quale concezione della natura. Si possono visitare i dintorni di una fabbrica e osservare gli effetti degli scarichi su territori circostanti. Una piccola inchiesta, fatta di interviste alle persone anziane che abitano nei pressi, il ripescaggio di vecchie foto può mostrare le trasformazioni storiche subite dai territori. Il coinvolgimento nelle lezioni di un bravo urbanista può mostrare ai ragazzi com'era il loro quartiere 50 anni fa e come è stato costruito, con quali criteri sono stati organizzati gli spazi collettivi, di quanta luce dispongono le loro case, quanto verde è stato conservato o creato, ecc. Una storia di breve periodo diventa anche, per i ragazzi, occasione di apprendimento scientifico (natura del terreno, qualità dell’aria, concetti dell’urbanistica, ecc.) e un accrescimento della loro

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consapevolezza civile mai sperimentata in passato. È davvero clamoroso che in Italia – Paese delle mille città - intere generazioni escano dalla scuola e dall’Università senza ricevere un qualche rudimento storico-scientifico di com’è stato costruito e organizzato lo spazio urbano in cui vivono, senza dunque avere la possibilità di giudicare la qualità della propria vita cittadina. 8. È possibile selezionare una serie di

concettualizzazioni utili per lo studio scolastico della storia dell’ambiente, quali suggerimenti può dare ai docenti?

P. Bevilacqua. Certo, si possono utilizzare alcuni concetti-guida che corrispondono ad alcune delle più profonde scoperte scientifiche del mondo della natura. Forse il più importante, che è a fondamento della scienza ecologica, è quello di ecosistema, vale a dire un determinato habitat in cui convivono diversi esseri viventi, in relazione tra loro e con l’ambiente circostante, secondo meccanismi di reciprocità ed equilibri dinamici. Un altro concetto fondamentale è quello di biodiversità. La vita sulla Terra è animata da una straordinaria moltitudine di esseri viventi, frutto di una millenaria coevoluzione di animali, piante, clima, acque, ecc., che ha dato spesso luogo a una rete complessa di connessioni. A partire dalla luce solare, che mette in moto la fotosintesi clorofilliana, nascono piante di cui si nutrono ad esempio gli insetti, pasto a loro volta degli uccelli, predati a loro volta dai mammiferi o dai rettili, ecc. La natura è una rete invisibile e intricata, fatta di molteplici fili che si reggono su equilibri spesso ancora ignoti a tutti noi. Per questo i danni ambientali non consistono tanto nel saccheggio di risorse finite e non rigenerabili, ma anche nella rottura di equilibri nascosti, che spesso scopriamo a nostre spese. Il buco dell'ozono, ad esempio, causato dall’uso dei gas clorofluorocarburi, ci ha mostrato che noi viviamo sulla terra protetti da uno strato dell'atmosfera, che fa parte di un complesso equilibrio dei gas, senza il quale la nostra salute e forse la nostra vita sulla Terra non sarebbe possibile. Dunque, ecosistema. biodiversità, complessità, equilibri complessi, rete ecosistemica, sono concetti che possono arricchire in maniera rilevante l’intelligenza critica dei

ragazzi e nutrire la loro formazione storica ed ecologica su solide basi scientifiche.

9. Un tema collegato alla didattica della storia dell’ambiente è quello della manualistica scolastica. In che modo, secondo lei questo tema viene preso in considerazione dagli autori? Come si dovrebbe correttamente dispiegare la storia dell’ambiente all’interno della storia generale dei manuali?

P. Bevilacqua. È un tema difficile da affrontare qui. Io ho una mia idea del manuale di storia che ho espresso in maniera sistematica nel libro Sull’utilità della storia (Donzelli,1997 e varie edizioni successive). Sono fautore di una storia insegnata per grandi problemi, non come racconto di fatti, e la storia dell’ambiente avrebbe bisogno di strumenti didattici pensati in maniera specifica e secondo nuove logiche.

10. Chiudiamo questa intervista con uno sguardo sulla storia dell’ambiente attraverso altre forme di narrazione. Le chiediamo di suggerire ai nostri lettori un romanzo, una poesia, un videogioco, un film che, secondo lei, possono essere usati per la realizzazione di percorsi di storia dell’ambiente?

P. Bevilacqua. Il romanzo che segnalerei è The Graspes of Wrath (1939) di John Steinbeck, Furore in traduzione italiana, da cui è tratto il film, dello stesso titolo, di John Ford. Ma aggiungerei altri due testi, che non sono romanzi, ma racconti di esperienze reali. Il primo è il libro diario di H. David Thoreau, Walden, ovvero la vita nei boschi (1854, edizione italiana, Donzelli, 2005, ma scaricabile anche dalla rete), racconto di una esperienza di solitudine a contatto con la natura. Il secondo è il breve, emozionante, racconto di J. Giono, L’uomo che piantava gli alberi, che ha conosciuto varie edizioni ed è rinvenibile anch’esso in rete.

È un testo che i ragazzi possono leggere rapidamente con vero entusiasmo. Per quanto riguarda la filmografia consiglierei Fast food nation, di R. Linklater, film documentario di denuncia della ferocia e insostenibilità che caratterizzano la catena alimentare americana. Si trova in rete. Ma a proposito di film, soprattutto

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per i bambini, mi sento di consigliare Avater (2009) di J. Cameron. Una favola ecologica di buon impatto emotivo. Sempre in tema di filmografia da mostrare in ogni classe, a scuola come all’Università, è il documentario di animazione The Story of Stuff (2007) narrato da Annie Leonard, La storia delle cose in italiano. È la storia della materia e delle sue trasformazioni, dalla miniera alla discarica dei rifiuti. Di breve durata è di una efficacia didattica, per grandi e piccini, straordinaria. È difficile indicare una poesia da utilizzare in una lezione di storia ambientale, dipende dalle intenzionalità didattiche dell’insegnante. Si può svariare da Foglie d’erba di Walter Whitman, che contiene tante liriche in

cui è intensa l’esaltazione della vita e della potenza delle forze naturali, ai nostri poeti nazionali. Penso a tante poesie di Pascoli (Il gelsomino notturno, Romagna) al D’Annunzio de La pioggia nel pineto, ecc..

Grazie

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Il Bollettino di Clio – Novembre 2016

APPUNTI SULLA STORIA DELL’AMBIENTE: PROBLEMI,

METODOLOGIE, APPROCCI, SNODI TEMATICI

Federico Paolini

Seconda Università di Napoli

Keyword: Storia dell’ambiente, storia globale, storia nazionale, storia locale, metodologia storica

Abstract:

L’articolo muove da alcune riflessioni sullo stato dell’arte della disciplina – stretta tra problemi epistemologici e paradigmi sempre più militanti – per poi analizzare brevemente i principali approcci (globale, nazionale, locale) attraverso l’esemplificazione di alcuni snodi tematici e l’indicazione di possibili piste di ricerca.

Introduzione

Attualmente, la storia dell’ambiente sembra soffrire di due problemi: il primo riguarda l’epistemologia; il secondo, il progressivo appiattimento della ricerca sulle posizioni dell’ambientalismo radicale che sta conferendo alla disciplina un carattere militante all’interno di un paradigma marcatamente ecocentrico.

A livello internazionale, la storia ambientale appare egemonizzata da un approccio di tipo tecnico-scientifico che, con il passare degli anni, ha indebolito le relazioni interdisciplinari fra la storia dell’ambiente e le storie antropocentriche (la storia politica e delle idee, la storia sociale, la storia culturale…). Insomma, lo storico di formazione politico-sociale che lavora su argomenti ambientali avverte la sensazione che l’uomo sia stato espunto dalla storia dell’ambiente. Scorrendo i programmi delle conferenze internazionali ci si accorge che le scienze sociali, le discipline umanistiche e i saperi tecnico-scientifici percorrono il settore disciplinare attraverso l’ossimoro delle convergenze parallele: sono tutti rappresentati, ma fanno fatica ad ibridarsi e gli studi che utilizzano

un approccio di tipo scientifico-tecnologico e naturalistico prevalgono decisamente su quelli i cui assunti di partenza affondano le proprie radici nell’approccio socio-politico.

Il secondo problema riguarda l’approccio ecocentrico che spinge una parte consistente della storiografia ad identificarsi come una sorta di costola accademica dell’ambientalismo politico la cui parabola, a partire dalla seconda metà degli anni ’90 del Novecento, si è andata sempre più caratterizzando in senso minoritario e antagonista. L’ambientalismo antagonista inquadra i problemi ecologici in un modello interpretativo essenzialmente dicotomico che semplifica le questioni, opponendo ad un insieme di mali (la produzione industriale, il neoliberismo, i modelli di consumo occidentali…) alcuni assiomi individuati come risolutivi (la decrescita, la tutela aprioristica di alcuni modelli paesaggistici, lo slow food, l’opposizione dal basso alle infrastrutture giudicate eccessivamente impattanti…). Una parte degli storici ambientali ha fatto proprio questo schema che si attaglia bene alla prospettiva ecocentrica. Le questioni ambientali, però, raramente seguono una dinamica dicotomica, ma tendono ad essere ben più

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articolate. L’insorgenza di un problema ecologico e la sua eventuale risoluzione non seguono uno svolgimento del tipo causa-effetto perché, assai spesso, sono le risultanti di processi mediati da dinamiche sociali e culturali alquanto complesse. Da ciò ne discende che un approccio inflessibilmente ecocentrico o, al contrario, rigidamente antropocentrico si limitino a produrre spiegazioni deterministiche o parziali dei fenomeni e, allo stesso tempo, contribuiscano alla deleteria polarizzazione della disciplina tra fautori dell’approccio ecocentrico e sostenitori di quello antropocentrico.

In Italia, questa situazione sta contribuendo in maniera determinante alla marginalizzazione della storia dell’ambiente: dopo un decennio di crescita (2001-2010) l’approccio storico ambientale sta declinando. La marginalizzazione della disciplina – ma anche il cul de sac epistemologico in cui si trova – ha spinto alcuni precursori e altri studiosi che si erano avvicinati nel decennio 2001-2010 a ritornare ad occuparsi di ricerche più tradizionali, ispirate ad un approccio essenzialmente storico-politico. Nel decennio iniziale del XXI secolo, la storia dell’ambiente italiana ha saputo affrancarsi dai suoi due settori più frequentati – l’analisi degli ecosistemi e il movimento ambientalista (in modo particolare le vicende del conservazionismo italiano e dei parchi nazionali) – per abbracciare la storia della città, delle aree urbane, dei trasporti, della salute. Adesso questo fervore – per quanto limitato ad un numero esiguo di studiosi – sembra assopito.

Eppure, gli oggetti di studio non mancano: secondo Giorgio Nebbia (2001, pp. 11-35), le storie ambientali da scrivere sono ancora molte e riguardano la storia delle associazioni ambientaliste, la storia del dibattito sui «limiti della Terra», la storia delle lotte operaie per la salute e l’ambiente di lavoro, la storia dell’economia ecologica e del diritto ambientale, la storia delle tecniche ecologiche, la storia dell’educazione e dell’informazione ambientale, il carattere politico dei movimenti di contestazione, la storia dell’«ecologia dei padroni», la storia dei rapporti fra le chiese e l’ambiente, la storia del negazionismo ambientale, la storia degli ambientalismi eterodossi. Nel suo recente Storia globale, Sebastian Conrad (2015, p. 150) ha

sostenuto che la lista dei temi storico-ambientali «può essere allungata a volontà» e ha ricordato, in particolare, «la storia dei boschi e del disboscamento, della caccia e della caccia illegale; l’erosione del suolo e il cambiamento climatico; gli effetti di terremoti, tsunami e altre catastrofi naturali; la diffusione di germi e batteri, malattie ed epidemie; la storia di fiumi e mari; l’impatto sulle società umane dei periodi di siccità e delle stagioni delle piogge, di esplosioni vulcaniche o di incendi di boschi; la storia dell’inquinamento e della politica ambientale, ma anche della resistenza contro interventi sull’ambiente».

Alla luce delle sopraccennate riflessioni, vediamo quali prospettive possono essere adottate per studiare le relazioni tra la storia umana e quella degli ambienti naturali.

1. L’approccio globale e di lungo periodo

Poiché i fenomeni naturali e i problemi ambientali hanno una dimensione prevalentemente globale (si pensi, ad esempio, all’eruzione del vulcano Eyjafjoll del 2010 e al conseguente blocco della circolazione aerea tra l’Europa centro-settentrionale e le Americhe, oppure alle conseguenze sociali, economiche e politiche indotte dal cambiamento climatico), un’ottica macroprospettica e di lungo periodo appare particolarmente adatta alla storia dell’ambiente (McNeill, 2002; Radkau, 2008).

Studiosi come Jared Diamond (2005) hanno invitato a superare l’approccio riduzionista alla questione ambientale, sostenendo che le radici dell’odierna crisi ecologica ripercorrono la storia a ritroso fino alla rivoluzione neolitica quando il miglioramento del clima dopo l’ultima glaciazione permise, intorno al 10000 a.C., lo sviluppo dell’agricoltura e l’insediamento delle prime comunità sedentarie. Da quel momento in poi, secondo Diamond, la prosperità o il declino delle società umane è dipeso anche dalla loro capacità di gestire più o meno proficuamente le risorse ambientali da cui si trovavano a dipendere. L’autore ha dimostrato che vi sono due tipi di risposte ai problemi ambientali: la prima, bottom-up (dal basso verso l’alto), può essere utilizzata da comunità poco numerose che abitano territori di dimensioni limitate; la seconda, indicata come

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top-down (dall’alto verso il basso), si riferisce a società numerose con un’organizzazione socio-politica evoluta e centralizzata (Diamond, 2005, pp. 292-324). Un esempio di soluzione bottom-up è quello dell’Egitto le cui popolazioni sono riuscite, per oltre settemila anni, ad ottenere raccolti in grado di soddisfare il loro fabbisogno alimentare sfruttando l’inondazione annuale del Nilo, che rappresentava un sistema naturale di irrigazione e di concimazione grazie al limo depositato sui terreni agricoli dalle acque. Un caso di risposta top-down è rappresentato dal Giappone dell’era Tokugawa (1603-1867). Intorno al 1650 l’arcipelago asiatico si trovava sull’orlo di un vero e proprio collasso ambientale provocato dall’espansione demografica e dal conseguente sviluppo urbanistico che finì con l’innescare un disastroso processo di deforestazione. La situazione iniziò ad essere risolta, a partire dagli ultimi decenni del Seicento, quando gli shogun Tokugawa cominciarono a promuovere efficaci politiche forestali, alimentari (fu favorito il consumo di pesce per diminuire la pressione sulla produzione agricola) e di controllo demografico.

Un secondo approccio (Ponting, 1992; Hughes, 2001) è quello che privilegia una cornice temporale relativamente breve, il cui termine a quo è individuato nell’inizio dell’espansione europea nel XV secolo e il termine ad quem nel tempo presente. Questo tipo di analisi mette in relazione l’espansione degli insediamenti europei e la transizione al moderno sistema di produzione industriale con la radicale modificazione dell’ambiente naturale tanto in Europa quanto negli altri continenti. In Europa, il paesaggio venne mutato radicalmente dal disboscamento, dalle bonifiche (valle del Po in Italia, i Fens in Inghilterra, i laghi interni nei Paesi Bassi…), dalla diffusione delle recinzioni, dalla costruzione di nuove infrastrutture (prima le vie d’acqua artificiali, poi le ferrovie) e dalla continua espansione dei territori urbanizzati. Le profonde trasformazioni paesistiche produssero una consistente perdita degli habitat naturali e la conseguente estinzione di numerose specie animali. Nei territori oggetto della conquista coloniale, l’arrivo degli europei causò una vera e propria rivoluzione ambientale, tanto che Alfred Crosby ha parlato, in due saggi di fondamentale

importanza, di «imperialismo ecologico» e di «espansione biologica dell’Europa» (Crosby, 1988, 1992). Come ha sottolineato anche Stephen Mosley (2013, p. 13), è «difficile sopravvalutare l’impatto ecologico della prima globalizzazione»: in primo luogo la colonizzazione causò la progressiva disgregazione delle comunità indigene; in secondo luogo, i sistemi agricoli tradizionali furono sostituiti con forme di agricoltura specializzata che danneggiarono i suoli e provocarono una grave perdita di biodiversità; in terzo luogo, gli ecosistemi delle colonie furono stravolti dall’indiscriminato prelievo di risorse (legname, minerali, animali da pelliccia, grandi predatori carnivori…); in quarto luogo, l’introduzione di specie vegetali ed animali comunemente diffuse nei paesi europei provocò seri danni agli ecosistemi originari.

Un terzo approccio, oggi molto fortunato, muove dal concetto di «antropocene» proposto dal premio Nobel per la chimica Paul J. Crutzen (2005). Secondo il chimico, l’età contemporanea sarebbe «un’epoca geologica, dominata da esseri umani, che completa l’Olocene, il periodo caldo degli ultimi 10-12 millenni». In quest’ottica, quindi, il sistema capitalistico, la crescita demografica e i processi di industrializzazione e di urbanizzazione sarebbero i principali responsabili di una radicale trasformazione delle condizioni ambientali, il cui salto di scala sarebbe avvenuto a cominciare dalla prima metà del Novecento. All’inizio del XX secolo, infatti, la popolazione mondiale raggiunse, per la prima volta nella storia, la cifra di un miliardo e 634 milioni di individui (erano 954 milioni nel 1800). Cinquant’anni dopo, nel 1950, la Terra era popolata da oltre due miliardi e mezzo di persone. Al boom demografico si accompagnò l’impetuosa crescita delle città, alimentata dal processo di inurbamento che portò un numero sempre crescente di persone ad abbandonare le campagne alla ricerca di una nuova occupazione nell’industria. Nel 1930, la maggioranza degli abitanti degli Stati Uniti e dell’Europa occidentale risiedeva ormai nelle aree urbane (rispettivamente 56% e 55%) e, nel corso degli anni Trenta, l’urbanesimo divenne un fenomeno quantitativamente rilevante anche in Giappone e in America Latina, dove lo sviluppo delle città era

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stato precocemente favorito dall’immigrazione dei coloni europei. Nella prima metà del Novecento, in Europa, in America settentrionale e in Australasia, l’agricoltura conobbe una vera e propria rivoluzione: la progressiva meccanizzazione degli attrezzi (fra il 1920 e il 1940 il numero di trattori passò da 300.000 a 3 milioni) e l’impiego delle concimazioni minerali permisero il superamento delle pratiche tradizionali. Sempre nella prima metà del Novecento, il crescente fabbisogno di materie prime finì per alterare interi ecosistemi: i maggiori danni all’ambiente furono provocati dalle attività minerarie che sconvolsero l’equilibrio ecologico di vaste aree in Giappone come in Cile, in Sudafrica o negli Stati Uniti. La rapida crescita della produzione industriale e degli scambi commerciali internazionali guidò la completa transizione, iniziata nel corso del XVIII secolo, da un regime energetico basato sulle biomasse e sull’energia muscolare (umana e animale) a uno imperniato sui combustibili fossili: la produzione di carbone passò da 283 milioni di tonnellate nel 1875 a 1.800 milioni nel 1950, mentre quella di petrolio da 9 milioni di tonnellate nel 1890 a 267 milioni nel 1940.

L’antropocene, inoltre, si caratterizza per l’impatto ambientale dei consumi di massa. Il primo prodotto ad avere un notevole impatto sull’ambiente fu l’automobile che aggravò l’inquinamento atmosferico nelle città dando luogo a episodi di smog fotochimico. L’espansione dei consumi alimentari rappresentò un ulteriore fattore di trasformazione ambientale. Il costante aumento della domanda stimolò la ricerca di nuove tecniche per il trasporto e la conservazione degli alimenti. Il largo impiego degli impianti frigoriferi nell’industria alimentare nonché il loro uso domestico trasformò la refrigerazione in un significativo fattore di mutamento ambientale: i clorofluorocarburi impiegati nelle macchine frigorifere (quali, ad esempio, il freon), infatti, si sono rivelati capaci di modificare la composizione chimica dell’atmosfera terrestre rarefacendo lo strato di ozono, indispensabile per schermare la Terra dalle radiazioni ultraviolette.

2. L’approccio nazionale

Fino ad oggi non sono molti gli storici dell’ambiente che si sono cimentati con la prospettiva globale. In Italia (ma anche all’estero) continuano a prevalere le analisi della dimensione nazionale che, spesso, adottano una periodizzazione convenzionale. È il caso, ad esempio, del recente Breve storia dell’ambiente in Italia di Gabriella Corona la cui narrazione – incentrata sulla gestione del territorio, sulle città e, in misura minore, sull’ambientalismo (in particolare, sulla protezione della natura e sull’ambientalismo politico) – si dipana dall’Unità al tempo presente passando per la «modernità» e l’Italia repubblicana.

Oggi, chi si avvicina alla storia dell’ambiente dovrebbe provare ad individuare le concordanze, le discordanze e gli anacronismi prodotti dalla scansione cronologica tradizionale: si potrebbe immaginare, ad esempio, una storia ambientale dell’Italia utilizzando una periodizzazione modellata sul concetto di «antropocene». In questo caso, il termine a quo può essere individuato nel radicale cambiamento ecologico che si verificò tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento: fra i territori coinvolti vi furono la Val Padana (trasformata in un’unica grande pianura dove prosperavano le coltivazioni di riso, frumento e granturco), la laguna di Venezia (il dragaggio delle secche convertì l’ecosistema lagunare in una baia marina), il lago Fucino (il terzo per estensione dopo il Garda e il Maggiore, prosciugato per ricavarne terreni agricoli coltivati a cereali, legumi e ortaggi), la Val Lagarina (una delle prime aree del paese a sperimentare gli effetti dell’inquinamento industriale causato, nel caso specifico, da uno stabilimento per la produzione dell’alluminio). Un secondo momento periodizzante può essere indicato nella grande trasformazione (1950-1990) seguita al secondo conflitto mondiale: in termini ambientali, i principali motori del cambiamento furono il rapido processo di inurbamento (la popolazione residente nelle aree urbane passò dal 54,1% del 1950 al 66,8% del 1985) e il disordinato sviluppo economico che contribuirono

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a originare gravi episodi di dissesto idrogeologico (l’inondazione del Polesine del 1951 e le alluvioni che colpirono Venezia e Firenze nel 1966…) e di inquinamento (la Val Bormida, Seveso, il bacino del Po, le aree in cui insistevano i grandi poli industriali siderurgici e chimici…). Il termine ad quem può essere indicato negli anni della mondializzazione liberista (1990-2008) che hanno determinato un ulteriore incremento della pressione antropica sull’ambiente naturale: l’emergenza primaria è rimasta l’inadeguata gestione del territorio, seguita dal problema dello smaltimento dei rifiuti (che ha originato una vera e propria crisi ecologica specialmente nelle regioni meridionali, in primo luogo in Campania), dalla pressione sulle risorse idriche (9,2 miliardi di m3 prelevati nel 1999, di cui 7,9 dalle falde

sotterranee) e dall’inquinamento atmosferico (dal 1990 al 2005, le emissioni dei principali gas serra sono aumentate del 12,1%).

La storia ambientale dell’Italia, però, potrebbe essere letta adottando una scansione cronologica modellata sul concetto di «ambientalismo». In questo caso il termine a quo può essere indicato nella nascita del movimento protezionistico sul finire del XIX secolo (il Touring Club Italiano, fondato a Milano nel 1894; l’Associazione Nazionale Pro Montibus et Silvis, costituita a Roma nel 1898). Una seconda fase periodizzante può essere individuata nella progressiva affermazione, fra il 1960 e il 1990, di organizzazioni non governative (Wwf, Greenpeace, Legambiente…) e partitiche (i partiti verdi), volte a promuovere una radicale trasformazione degli stili di vita e del sistema economico per arginare la progressiva devastazione della natura. Il termine ad quem può essere indicato negli anni Zero del XXI secolo (si tratta, quindi, di un processo storico ancora in divenire), caratterizzati dalla crisi dei partiti verdi, dalla progressiva istituzionalizzazione delle organizzazioni ambientaliste e dalla comparsa di numerosi movimenti di protesta particolaristici e

localistici (indicati generalmente con gli acronimi Lulu-Locally Unwanted Land Uses e Nimby-Not in My Back Yard).

3. L’approccio locale

Infine, una prospettiva ormai consolidata è quella della dimensione locale che si dedica allo studio di realtà geografico-amministrative circoscritte o di microstorie (un corso d’acqua, una diga, una fabbrica…). In Italia, le tematiche più frequentate dalla storiografia riguardano gli usi delle risorse (i boschi e le acque, in particolare), l’energia, i terremoti, i disastri naturali provocati dall’azione umana, gli incidenti e gli inquinamenti di natura industriale, l’ambiente urbano, i movimenti ambientalisti. Partendo dall’assunto che le prospettive nazionali e globali non sempre riescono a leggere e a interpretare le dimensioni locali di fenomeni storici di importanza generale, l’approccio locale si pone l’obiettivo di approfondire le macro-tematiche alla luce dell’analisi delle diversità e delle peculiarità territoriali. Questo punto di vista acquista una dimensione di rilievo quando riesce ad affrancarsi dalla chiave nostalgico-erudita e a superare le rigide distinzioni disciplinari per approfondire le stratificazioni umane, economiche, sociali, politiche che consentono di cogliere i movimenti e i flussi della storia. Recentemente, Serge Gruzinski (2016, pp. 87-89) ha notato come la dimensione storico-locale sia parte di un retaggio culturale plurisecolare alimentato dal «bisogno di sicurezza» e dalla «rivendicazione delle radici». A suo dire, però, la storia locale può ancora svolgere un ruolo di primaria importanza, a patto che trasformi il proprio punto di vista «in un’interfaccia privilegiata in relazione a un contesto infinitamente più ampio» e aperta a «ricostruire il profilo della dimensione locale nei suoi rapporti con una pluralità di realtà esterne, a volte estremamente lontane».

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BIBLIOGRAFIA

Conrad S. (2015), Storia globale. Un’introduzione, Roma, Carocci.

Corona G. (2015), Breve storia dell’ambiente in Italia, Bologna, il Mulino.

Crosby A. (1988), Imperialismo ecologico. L’espansione biologica dell’Europa, 900-1900, Roma-Bari, Laterza.

Crosby A. (1992), Lo scambio colombiano: conseguenze biologiche e culturali del 1492, Torino, Einaudi. Crutzen P. (2005), Benvenuti nell’Antropocene. L’uomo ha cambiato il clima, la Terra entra in una nuova era, Milano, Mondadori.

Diamond J.M (2005), Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere, Torino, Einaudi.

Gruzinski S. (2016), Abbiamo ancora bisogno della storia? Il senso del passato nel mondo globalizzato, Milano, Raffaello Cortina Editore.

Hughes J.D. (2001), An Environmental History of the World. Humankind’s Changing Role in the Community of Life, New York, Routledge.

McNeill J.R. (2002), Qualcosa di nuovo sotto il sole. Storia dell’ambiente nel XX secolo, Torino, Einaudi. Mosley S. (2013), Storia globale dell’ambiente, Bologna, il Mulino.

Nebbia G. (2001), Per una definizione di storia dell’ambiente, in Saba A.F e Meyer E., Storia ambientale. Una nuova frontiera storiografica, Milano, Teti.

Radkau J. (2008), Nature and Power: A Global History of the Environment, Cambridge, Cambridge University Press.

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LA NATURA INCORPORATA E IL MALGOVERNO DELLA MODERNITÀ

NEL SECONDO NOVECENTO

Simone Neri Serneri

Università di Siena

Keyword: Storia ambientale del Novecento, tecnologie e ambiente, Italia questione ambientale, urbanizzazione, industrializzazione.

ABSTRACT: il testo propone una riflessione sintetica sulle implicazioni ambientali della modernità, valorizzando il concetto di incorporazione della natura, ovvero la connessione mediata delle tecnologie dei processi di riproduzione antropica e di riproduzione degli ecosistemi. Di seguito, ripercorre le dinamiche di sviluppo urbano e industriale del Novecento italiano, illustrandone i tratti essenziali e le conseguenze ambientali di lungo periodo.

Introduzione

Quale è stato il rapporto tra società e ambiente nel Novecento, il secolo della modernità, una stagione che ora ben ci appare portatore di epiche e talora drammatiche novità nella storia dell’umanità? Ad un interrogativo così generale non può rispondersi che con considerazioni necessariamente sommarie, ma spero utili per introdurre una problematica di grande attualità, ma ancora troppo poco indagata sul piano storico e praticata sul terreno educativo. E poiché è necessario delimitare necessariamente il campo, incentrerò le mie riflessioni sul farsi del mondo urbano e industriale contemporaneo, nucleo sostanziale e motore delle trasformazioni ambientali con cui siamo chiamati a confrontarci su scala globale1.

Conviene iniziare riprendendo un’immagine usata da John McNeill nel suo volume Qualcosa di nuovo sotto il sole2, pubblicato ormai un decennio

1 Il testo riprende, con lievi modifiche, la lectio magistralis

da me tenuta il 28 agosto 2013 alla Summer School dell’Istituto Alcide Cervi dedicata a Il XXI Secolo: Trame

passate, segni futuri.

2 Per i riferimenti bibliografici si rinvia alla bibliografia finale.

fa, quando rimarcava come l’eccezionalità del Ventesimo secolo dal punto di vista della storia ambientale consista nel fatto che, mai come in passato, gli uomini hanno operato come “squali”, anziché “ratti”, ovvero hanno oltremodo specializzato le proprie attività e, di conseguenza, hanno trasformato massicciamente l’ambiente a proprio uso, anziché adattarsi ai diversi contesti. Questa modalità di operare ha consentito loro di massimizzare lo sfruttamento delle risorse disponibili ai fini della propria riproduzione. Così facendo, uomini e squali si sono posti al vertice delle gerarchie tra gli ecosistemi.

A questa prima immagine, permettetemi di accostare una seconda – e ultima – citazione, per dire che la storia moderna pare aver pienamente applicato la massima coniata da Francis Bacon, il Bacone filosofo del primo Seicento considerato uno dei padri della moderna conoscenza scientifica, secondo il quale “il mondo è creato per l’uomo, non l’uomo per il mondo”.

Cosa intendo sottolineare con questi richiami? A cosa alludono queste metafore? Voglio rimarcare come lo sviluppo moderno, il farsi di quella che chiamiamo modernità, dal punto di vista ambientale è stato caratterizzato da una realtà qualitativamente diversa da quella del banale

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sfruttamento delle risorse naturali, per quanto talora così massiccio da giungere fino alla depredazione e al loro esaurimento localizzato, come era accaduto fin dai tempi dei nostri lontani antenati raccoglitori e cacciatori e in generale negli ultimi due millenni nelle società agricole tradizionali.

La modernità otto-novecentesca si è sostenuta, invece, sviluppando una relazione tra uomini e natura assai più intensa, più profonda, più sistematica o, forse più propriamente, sistemica rispetto a quanto realizzato dalle società che possiamo definire pre-industriali o di antico regime. La potenza del moderno uomo-squalo poggia infatti sulla capacità di asservire gli ecosistemi, dominandone ampiamente, attraverso la tecnologia, le dinamiche riproduttive. Per questo, tornado a Bacon, affermare che la modernità considera il mondo creato per l’uomo, significa propriamente affermare che gli uomini sono in grado di volgere a propria utilità larga parte dei processi naturali che costituiscono il mondo.

1. Incorporare la natura

Questo è quel che intendiamo quando parliamo di incorporazione della natura. Nel corso del Ventesimo secolo – e con una sostanziale rottura di continuità rispetto al passato - lo sviluppo delle società umane si è largamente sostenuto sulla capacità di inserire gli ecosistemi, e in particolare i processi di riproduzione del mondo naturale, all’interno dei meccanismi di produzione e riproduzione della stessa società umana. Dal ciclo dell’acqua alla riproduzione delle specie viventi, dai sistemi di accumulo e trasformazione dell’energia, alle dinamiche trasformative dei suoli, tutti questi processi sono stati inseriti e valorizzati nello sviluppo moderno. Mentre in passato gli uomini avevano variamente utilizzato i prodotti della natura, certo adoperandosi per assecondarne quanto più vantaggiosamente i cicli produttivi, la modernità in particolare novecentesca ha operato una svolta epocale, perché porzioni di quegli ecosistemi sono state integrate – incorporate, hanno dato corpo – nei processi di produzione e riproduzione delle società antropiche. Lo sviluppo tecnologico ha

infatti consentito non solo di controllare sempre più incisivamente i processi di riproduzione di porzioni di ecosistemi ai fini della produzione di beni alimentari, ma, ben più ampiamente e per la prima volta nella storia, per la produzione su vastissima scala di quantità innumerevoli di beni materiali e di risorse energetiche.

Come chiunque sa, ciò si è tradotto in un eccezionale sviluppo e trasformazione di quelle società, ma anche in una pressione enorme sulle risorse disponibili. Soprattutto, ha determinato un’alterazione talora massiccia degli assetti ambientali e delle modalità di riproduzione degli ecosistemi: si pensi al prelievo di risorse energetiche fossili che si erano prodotte in milioni di anni, ma, più banalmente, al prelievo delle acque di falda secondo tempi assai più brevi di quelli necessari al loro accumulo o ai mutamenti nella composizione dell’atmosfera o alla copertura del suolo, che, lungi dall’essere una mera riduzione di terreno naturale, è una variazione di grande impatto in numerosi sistemi ambientali. Ancora, si pensi alle alterazioni dei cicli riproduttivi di innumerevoli ecosistemi, conseguenti alla manipolazione del ciclo delle acque tramite prelievi e immissioni, anche non particolarmente inquinanti. Incorporazione della natura significa dunque interconnessione e integrazione dei sistemi produttivi sociali e di quelli ambientali. E, se di integrazione si tratta, occorre certo misurare l’intensità degli scambi, ma anche considerare quanto – interagendo – quei sistemi si condizionino e modifichino reciprocamente.

Occorre poi ricordare – altro passaggio cruciale – che nella seconda metà del Ventesimo secolo l’accumulo, l’intensità e la diffusione di questi processi, inizialmente localizzati, hanno determinato trasformazioni qualitative di portata globale. Almeno dalla metà degli anni Ottanta, esse sono divenute ben percepibili dagli specialisti e ormai sono ben note anche al largo pubblico, chiamato dai mass media e talora anche dalla diretta esperienza a confrontarsi con la deforestazione di vaste aree del pianeta, le alterazioni atmosferiche su larga scala, la cosiddetta desertificazione, la perdita diffusa di biodiversità, fino al riscaldamento globale e ai cambiamenti climatici. In una sorta di nemesi,

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l’incorporazione della natura su scala globale ha portato anche alla interconnessione delle crisi ambientali che, sorte in ambito locale o regionale, accumulandosi e interagendo, costituiscono minacce gravi per aree sempre più vaste e talora l’intero pianeta. Tra i molti indicatori possibili dei livelli di squilibrio e di rischio raggiunti, è sufficiente ricordare qui la cosiddetta “impronta ecologica”, ovvero la quantità di superficie biologica utilizzata da una certa società o, dall’insieme delle società umane, per riprodurre se stessa: se nel 1985 la domanda antropica, ovvero la superficie utilizzata per i consumi umani, aveva quasi raggiunto la capacità rigenerativa terrestre, adesso la eccede del 30%. La differenza è indicativa della mancata capacità – forse meglio: la mancata possibilità – di rigenerazione degli ecosistemi.

2. Il malgoverno delle risorse e delle tecnologie

Il quadro sommario fin qui tracciato consente di volgerci al tema del malgoverno, ovvero al tema delle scelte in materia di gestione delle risorse e quindi alla nostra capacità di costruire meccanismi di incorporazione della natura che tengano conto dell’equilibrio, certo dinamico ma necessario, tra riproduzione sociale e riproduzione degli ecosistemi. Così come è necessario che quell’equilibrio sia costruito su basi di equità sociale, tanto nel presente – in seno alle nostre società e tra le diverse aree del pianeta – quanto nel futuro, ovvero garantendo un’equa potenzialità di accesso alle risorse sia alle nostre che alle generazioni successive, nonché all’interno di queste ultime, ricomponendo tensioni e competizioni già ampiamente innescate dalle dinamiche di sviluppo fin d’ora in atto nei paesi asiatici e in genere nel cosiddetto “Sud” del mondo.

In diversa prospettiva, inoltre, evocare il malgoverno significa anche invitare a riflettere sulle modalità concrete di utilizzo delle risorse, ovvero sulle tecnologie. Le tecnologie giocano infatti un ruolo cruciale nel promuovere l’incorporazione della natura, sia in modo diretto – perché consentono materialmente di intervenire nel ciclo delle risorse: si pensi alle tecniche di

perforazione del suolo, ai fertilizzanti, all’impego della sega elettrica e di altri macchinari per il taglio del legname – sia indiretto, per le molteplici conseguenze – e la scarsa reversibilità delle conseguenti relazioni tra sistema sociale e ambiente – di numerose “catene tecnologiche”, che concatenano l’estrazione, la valorizzazione e l’uso produttivo e riproduttivo di varie risorse naturali, come ad esempio nel caso delle tecniche costruttive (dalla produzione dei materiali da costruzione all’edificazione di abitazioni, insediamenti e infrastrutture) o nel caso della motorizzazione (dalla estrazione del petrolio e dei metalli, alla produzione dei carburanti e degli autoveicoli e delle infrastrutture viarie fino alla loro circolazione).

Ecco perché, a proporre un giudizio certamente sommario, ma comunque critico sulle modalità di governo di quelle risorse abbiamo evocato la categoria del malgoverno, alludendo esplicitamente all’affresco con cui Ambrogio Lorenzetti raffigurò nel Palazzo Pubblico di Siena, ormai molti secoli fa, la dicotomia tra quanti erano capaci di governare la città e il contado – la società e la natura – secondo armonia e giustizia, adeguatamente impiegando tecnica e conoscenza, e quanti invece si dimostravano inadeguati a quelle responsabilità.

3. Paesaggi della modernità: l’Italia e l’industrializzazione

L’esperienza del malgoverno, tanto in riferimento a singole scelte negative quanto più in generale alla incapacità di coniugare sviluppo sociale ed equilibri ambientali, è bene evidente se passiamo a riconsiderare in modo giocoforza estremamente sintetico la storia del nostro paese.

Il secondo Novecento è stato per l’Italia, ancor più che per altri paesi europei, un periodo cruciale anche in termini ambientali. Negli anni Cinquanta e Sessanta, la produzione e i consumi crebbero con notevolissima intensità, alimentati da un rapido ampliamento della base industriale, i cui stabilimenti si disposero sul territorio secondo tre principali modalità di localizzazione. Quella della concentrazione degli impianti attorno ai grandi poli metropolitani, quella della disseminazione sul

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