• Non ci sono risultati.

di contatto e di affinità con i nostri obiettivi.

Postfazione

31 ottobre 2016. Abbiamo ultimato la stesura del progetto nella prima metà di ottobre, dopo esserci confrontati con docenti universitari e insegnanti delle scuole medie e superiori; con direttori di musei, esperti di didattica della storia ed esponenti di enti locali. Purtroppo i violentissimi terremoti di mercoledì 26 e domenica 30 ottobre ci costringono a un doloroso aggiornamento, con molti paesi dell’Appennino umbro e maceratese completamente distrutti e con esodi di massa degli abitanti verso la costa adriatica. Eventi drammatici che hanno momentaneamente interrotto, ma non spezzato il nostro progetto. Ci sono cose che potranno essere ricostruite in tempi rapidi, mentre altre non possono essere recuperate facilmente, come il senso di appartenenza e la speranza nel futuro: “Sono cose - come afferma lo scrittore giapponese Haruki Murakami - che non possiedono una forma fisica. Una volta distrutte è difficile ripararle, perché non possiamo farlo con macchine, lavoro e materiali”. (Sognatore irrealistico. Discorso di Haruki Murakami in occasione della consegna allo scrittore del Cataluña International Prize, in

www.harukimurakami.it

) Nonostante tutto, noi continuiamo a provarci.

Paolo Moroni, La montagna appenninica nella recente storiografia1

Dopo aver sottoposto a verifica le interpretazioni a lungo utilizzate per descrivere i caratteri e le peculiarità delle aree montane, la storiografia degli ultimi decenni ha rivisto molti dei tradizionali schemi interpretativi, progressivamente apparsi in gran parte obsoleti.

Il primo a cadere è stato quello dei condizionamenti ambientali. Ovviamente non è stata negata l’importanza dei vincoli posti dall’ambiente, sulla quale tanto avevano insistito le discipline antropologiche e geografiche. Criticando però ogni visione deterministica, si è arrivati a sottolineare che, nonostante la presenza di quei vincoli e nonostante il peso di un contesto naturale poco permissivo, le società montane hanno potuto scegliere fra differenti opzioni, tanto che, tramite strategie specifiche, sono riuscite a realizzare diverse traiettorie di sviluppo.

Rapidamente è caduto, poi, lo stereotipo dell’immobilità. Certamente le “terre basse” della pianura, luogo di elezione delle grandi città depositarie del potere politico, appaiono più dinamiche, ma non è sempre stato così: basti pensare al Medioevo. E comunque le società montane non sono al riparo dagli effetti dell’andamento generale dell’economia e non sono rimaste ferme quando, nel corso dell’età moderna, imponenti trasformazioni economiche e sociali hanno incominciato a delinearsi in alcune aeree del continente europeo.

Per effetto delle stesse analisi, è stata abbandonata anche la tradizionale visione della montagna come sistema chiuso e autarchico, volto quasi unicamente alla ricerca di una impossibile quanto necessaria autosufficienza. Il problema dell’isolamento, frutto dei particolari caratteri ambientali, indubbiamente esiste ed è reso evidente dalle condizioni delle strade montane, che spesso risultano impercorribili per alcuni mesi dell’anno, ma le catene montuose non sono barriere insuperabili bensì, oltre che zone di transito, sono “regioni cerniera”. Nel caso degli Appennini, poi, più che a una frontiera impenetrabile si è di fronte a una “zona di attraversamento tra i contrapposti versanti per greggi, uomini, mercanzie”.

Negli ultimi anni, è caduto anche quello che è stato definito “il paradigma della sedentarietà”. Il tratto fondamentale delle società del passato in

E S P E R I E N Z E

genere non è la sedentarietà. In ogni caso, tale carattere non può essere attribuito alle comunità della montagna, che anzi sono spesso caratterizzate da fenomeni di migrazione stagionale o temporanea sia per procurarsi risorse complementari, sia per cogliere nuove opportunità. Non si tratta solo di riconoscere l’importanza della mobilità; negli studi più recenti è stato anche rivisto il modello proposto da Braudel nel quale la montagna viene definita come “una fabbrica di uomini” a vantaggio della pianura, uomini che nel paradigma braudeliano apparivano spinti verso la più ricca pianura soprattutto dalla pressione demografica e dalle necessità economiche.

Infine, sono state riviste e in parte corrette anche le affermazioni di Braudel sui necessari rapporti esistenti tra sistemi economici di montagna e di pianura. Negli ultimi anni, indagando la realtà alpina e, nel caso dell’Appennino, le regioni centrali del versante tirrenico e quelle meridionali del versante adriatico, numerosi studi hanno dimostrato la bilateralità e la molteplicità di quei rapporti. All’immagine passiva della società di montagna vista come semplice ‘serbatoio’ di uomini, si è andata contrapponendo “un’immagine più attiva e composita nella quale i montanari non solo dispongono di risorse e di conoscenze, ma formulano anche progetti, scelgono gli itinerari, selezionano oculatamente le opportunità economiche”.

Se queste sono le risultanze più rilevanti alle quali è giunta la storiografia socio-economica che negli ultimi decenni si è occupata della montagna, novità interessanti sono emerse anche dagli studi che sono stati dedicati più in particolare all’Appennino umbro-marchigiano. Tre appaiono le acquisizioni più rilevanti: una più precisa visione dell’evoluzione demografica vissuta dalle regioni montane; una forte mobilità che però non si spiega con la sovrappopolazione e neppure con la povertà, ma con la lunga abitudine a integrare le risorse della montagna con le opportunità offerte dalla città e dalla pianura; infine, il ruolo fondamentale delle istituzioni comunitarie che, dotate di una propria identità patrimoniale, politica e religiosa, operano non solo come soggetti attivi nei confronti del potere centrale, ma

anche per governare sia il carico demografico che lo sfruttamento delle risorse disponibili. Il dinamismo, la soggettività e il ruolo attivo di queste comunità locali emergono con evidenza quando le regioni appenniniche vivono momenti particolarmente critici; infatti, se il quadro generale a prima vista appare dominato da continuità e persistenze, in realtà anche l’Appennino deve affrontare vere e proprie fratture.

Cinque sono le vicende che nella storia dell’Appennino marchigiano si configurano come profonde cesure: innanzitutto, il rovesciamento delle vie di transumanza che, imposto nello Stato della Chiesa a inizi Cinquecento, provoca una profonda trasformazione dei rapporti tra fascia appenninica e collina costiera; in secondo luogo, le carestie di fine Cinquecento che, determinando una profonda crisi economica, demografica e sociale, provocano un forte impoverimento e l’avvio di consistenti flussi di lavoratori stagionali in direzione del Tirreno; successivamente, la rottura, maturata tra Sei e Settecento, della sostanziale omogeneità dei due versanti dell’Appennino, con un versante tirrenico dominato da una economia silvo-pastorale strettamente legata alla transumanza e alle pianure laziali e un versante adriatico, meno aspro e montano, dove si afferma invece una economia agricola, integrata da alcune attività manifatturiere e dalle migrazioni stagionali. Una quarta cesura è poi, a fine Ottocento, il passaggio dai lavori stagionali in Maremma e nella Campagna romana all’emigrazione verso l’estero, in particolare nel Nuovo Mondo: essendo spesso definitiva, per la montagna è una perdita di energie giovani; da ultimo, la rottura che si determina con l’esodo del trentennio 1950-1980: per le comunità dell’Appennino, l’esodo del secondo dopoguerra non può che apparire la rottura finale e la fine di un mondo, ma si deve comprendere che nel trentennio successivo lentamente riemergono nuovi equilibri.

Anche oggi, infatti, i sistemi economici e sociali della fascia appenninica sono impegnati a costruire nuove traiettorie di sviluppo. I caratteri del nuovo equilibrio che si sta formando dipenderanno, ancora una volta, da come verranno affrontati due temi cruciali: la conservazione del

E S P E R I E N Z E

Il Bollettino di Clio – Novembre 2016, Anno XV, Nuova serie, numero 6 Pag. 40

capitale naturale e lo sviluppo locale. Concretamente dipenderanno dal ruolo che sapranno svolgere le istituzioni politiche nazionali e i governi regionali, ma anche le comunità locali: perché senza la partecipazione attiva delle comunità locali non sarà possibile realizzare un nuovo sviluppo.

TORNA ALL’INDICE

1 La scheda è una sintesi del saggio Continuità e cesure

nella storia dell’Appennino marchigiano pubblicato nel

numero 4 (2015) della rivista “Marca/Marche”, edita dall’editore Andrea Livi di Fermo, che contiene un’ampia sezione monografica dedicata al tema: “L’Appennino marchigiano. Economia, tradizioni, prospettive di sviluppo”. Sulla storia della montagna appenninica si segnalano altri due volumi: Olimpia Gobbi, I Sibillini oltre il mito. Aspetti socio-economici

di una regione appenninica nei secoli XV-XVIII, Staf

Edizioni, Amandola 2003; Antonio G. Calafati ed Ercole Sori (a cura), Economie nel tempo. Persistenze e

cambiamenti negli Appennini in età moderna, Franco

L E T T U R E