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Persone e status in un contesto dharmico

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Academic year: 2021

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Persone e status in un contesto

dharmico

Domenico Francavilla

Versione inviata all’editore – postprint – non definitiva – non citare

Introduzione

Questo scritto analizza il concetto di persona e la rilevanza degli status nel diritto hindu e nel diritto buddhista. In particolare intende presentare una breve analisi del rapporto tra la concezione di soggetto elaborata nell’induismo e nel buddhismo e le categorie giuridiche che sono state elaborate nei due diritti e identificare le principali distinzioni e classificazioni che sono state adottate per pensare giuridicamente le persone.

Induismo e buddhismo condividono alcuni aspetti fondamentali. Il concetto di dharma in particolare è centrale in entrambe le religioni, così come del resto nel jainismo, anche se la sua elaborazione è stata significativamente diversa. Il dharma hindu si presenta con caratteri di maggiore ritualismo, essendosi sviluppato nel contesto vedico, e proprio sull’autorità del Veda come fonte primaria del dharma e sul ruolo del rito si ha una separazione netta del buddhismo. Altra differenza centrale riconducibile alla diversa elaborazione del concetto di dharma è il non riconoscimento nel buddhismo del sistema delle caste, che ha naturali implicazioni per quel che riguarda la rilevanza degli status nelle due tradizioni. Per quanto le due religioni elaborino in modo diverso il concetto di dharma, in entrambe sono centrali il karman, l’effetto delle azioni in termini di merito e demerito spirituale, e una concezione dell’esistenza come serie di rinascite. Inoltre in entrambe, anche se con accenti diversi, è centrale la figura dell’asceta rinunciante che ricerca la liberazione dal mondo inteso come catena di sofferenza e manifestazione irreale di un principio divino assoluto verso cui “ritornare”.

Aldilà delle differenze su questi punti, la cui analisi compiuta richiederebbe una trattazione molto più estesa, diritto hindu e diritto buddhista, assieme, possono fornire una prospettiva diversa rispetto a quella elaborata da altre tradizioni religiose relativamente al concetto di persona, alla traduzione giuridica di concezioni cosmologiche e

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soteriologiche, alla rilevanza degli status e quindi in definitiva alla rete di doveri, capacità, diritti, fini che caratterizzano l’esistenza umana e le interazioni sociali. Nel titolo dell’articolo questo tratto comune viene sintetizzato nell’espressione “contesto dharmico”.

Bisogna ricordare che induismo e buddhismo sono entrambe religioni al loro interno molto plurali. Quel che si dirà è riferito principalmente al brahmanesimo, componente dell’induismo sviluppatasi in stretta continuità con il pensiero vedico che rappresenta il paradigma delle molte religioni che si sono sviluppate nel corso dei secoli all’interno dell’induismo, e al nucleo dottrinale del buddhismo delle origini, originatosi in contrasto con il brahmanesimo, anch’esso rimasto relativamente stabile nelle diverse tradizioni buddhiste1. Bisogna poi considerare che l’induismo,

e in misura ancora maggiore il buddhismo, hanno interagito con altre culture. Per questo motivo nei concreti contesti storici l’influenza dottrinale e religiosa sul diritto può aver assunto diverse forme.

Nella prima parte di questo articolo verranno analizzati i fondamenti del concetto di persona in relazione al concetto di dharma. Nella seconda parte se ne vedranno le implicazioni per gli status e si cercherà di fornire un quadro delle categorie centrali nella costruzione del diritto delle persone hindu e buddhista.

Soggetto e dharma

Per intendere il concetto di soggettività giuridica nell’induismo bisogna fare riferimento al concetto di dharma, che rappresenta il concetto normativo fondamentale nel diritto hindu e può essere tradotto come “giustizia”, “ordine”, “legge” o “dovere”, ma anche come “prerogativa”, “qualità”. La riflessione sul dharma è stata condotta primariamente nel contesto rituale e da ciò deriva la specificità del concetto di “ordine” elaborato nella tradizione hindu.

Malamoud ha evidenziato che nel pensiero dell’India brahmanica il sacrificio fornisce uno schema esplicativo dell’ordine del mondo2. Infatti,

gli autori vedici, cercando di interpretare i riti, sono condotti a costruire paradigmi e classificazioni, regole e metaregole. Il rito ha fornito un’interpretazione della realtà attraverso la quale sono state approfondite 1 Sulla centralità del brahmanesimo nello sviluppo delle religioni hindu, si veda W. Halbfass, India and Europe: An Essay in Philosophical Understanding, Delhi, Motilal Banarsidass, 1990, e Id., Tradition and Reflection: Explorations in Indian Thought, Albany, NY, State University of New York Press. Per un quadro più ampio delle religioni hindu si veda, ad esempio, G. Flood, An Introduction to Hinduism, Cambridge, Cambridge University Press, 1996. Sulle diverse tradizioni buddhiste si veda introduttivamente G.R. Franci, Buddhismo, Bologna, Il Mulino, 2004.

2 Si veda C. Malamoud, Cuocere il mondo. Rito e pensiero nell’India antica, Milano, Adelphi, 1994.

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alcune categorie che hanno conservato la loro importanza culturale anche in contesti non strettamente rituali. Nel contesto del ritualismo vedico è stato elaborato un concetto di uomo come l’unico essere che può agire nel sacrificio. L’uomo viene quindi definito con riferimento al sacrificio.

Il concetto di soggetto è stato sviluppato nel quadro di una concezione dell’ordine costruita sulla rappresentazione di una rete di relazioni e interconnessioni sul livello macrocosmico e su quello microcosmico. Il concetto vedico originario di ordine è çta, mentre il concetto di dharma diviene centrale in un periodo successivo. Il concetto di çta è basato sulla percezione di un ordine naturale delle cose ed è l'ordine macrocosmico che si manifesta nella regolarità dei cicli della natura, nel susseguirsi del giorno e della notte, in elementi percepiti come costanti nella manifestazione del mondo. L'opposto di çta è nirçti, disordine, la dissoluzione delle connessioni che sostengono il mondo e assicurano la sua conservazione. Malamoud osserva che il çta può essere definito come "l'assenza di deficit", "ordinamento esatto", "pienezza differenziata", mentre la nirçti, il disordine, si trova negli intervalli, nei buchi, nell’assenza di rapporti, nella fine della differenziazione e, quindi, nella confusione.

I concetti di çta e dharma si basano su una cosmologia. L’universo si manifesta attraverso la differenziazione dell’assoluto indifferenziato e tende a essere riassorbito in esso, dando origine a un ciclo continuo di manifestazioni e dissoluzioni. Pertanto, nel processo cosmico, l’ordinare è collegato alla differenziazione mentre il disordine, inteso come confusione, prelude al ritorno in un assoluto indifferenziato. L’ordine non è inteso come statico, ma come dinamico, come un continuo “fare ordine” piuttosto che come adattamento a un ordine preesistente e fisso. Le categorie dell’eternità e della immutabilità non sono collegate all’ordine ma al principio divino che soggiace all’universo, che si manifesta come differenziazione. Il macrocosmo e il microcosmo sono intimamente connessi e l’ordine delle azioni umane viene compreso all’interno della stessa struttura concettuale dell’ordine cosmologico. Questa unità è riflessa nel rito, inteso come immagine dell’universo e come paradigma del “fare ordine”. È attraverso l’azione rituale che – si sostiene – un uomo può influenzare il corso delle cose e prendere parte alla conservazione del mondo3. L’ordine è quindi il frutto delle azioni umane e richiede l’attività

dell’uomo per la sua stessa esistenza.

In questa concezione, ogni uomo è immerso in una rete di relazioni macro e micro-cosmiche. Nei testi vedici più antichi il termine dharma normalmente compare al plurale e non denota l’ordine universale ma 3 In questo senso possiamo descrivere il dharma come un ordine naturale di relazioni in cui ogni hindu percepisce se stesso come parte attiva che ha una responsabilità cosmica. Sul punto si veda anche W.F. Menski, Hindu Law: Beyond Tradition and

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determinate attività e qualità degli enti che sono manifestazione della differenziazione del cosmo4. Il concetto di dharma, che è centrato

sull’azione dell’uomo, si sostituisce in epoca post-vedica al concetto di rta, che ha carattere più impersonale e che assume più specificamente il significato di verità/realtà. Visto che l’azione che produce ordine è l’azione dharmica, il termine dharma viene riferito all’insieme di doveri il cui rispetto è finalizzato al mantenimento dell’ordine. Inoltre, il concetto di dharma diviene concetto generale di ordine perché partendo dai dharma degli individui è possibile riferirsi a un ordine universale come somma delle posizioni dharmiche. In questo senso il dharma, al singolare, come concetto generale, è la somma di dharma peculiari. In definitiva, il dharma è “ciò che deve essere fatto” in una rete di relazioni macrocosmiche e microcosmiche in un processo continuo di mantenimento del mondo.

Questa concezione fondamentale, che viene generalizzata all’intera attività umana e diviene dominante anche aldilà della ristretta sfera rituale del sacrificio, rivela un aspetto peculiare della concezione hindu di normatività che introduce al concetto di soggettività. Infatti, il fare ordine richiede che l’uomo agisca nella rete di relazioni macrocosmiche e microcosmiche in cui è immerso secondo una legge di “appropriatezza”5.

Come evidenziato da Clooney, il termine dharma nei primi trattati sul rito significa:

... that which characterizes some thing, word or text, person, or action in the ritual context. One’s dharma is the way one is treated, acted upon, related to, during the sacrifice ... dharma indicates a functional description of some element of the sacrifice. To know the dharma of something is to know what it does, what is done to it, what is related to, when it appears and disappears. For the most part too it does not overlap with the notion of a property, a guãa. This latter is rather what is part of something in its ordinary, laukika existence, and such a property may or may not be relevant to the decision of whether the thing or person enters the ritual world at all6.

4 Si veda Halbfass, India and Europe, cit.. P. Olivelle (Dharmasutras: The Law Codes of

Apastamba, Gautama, Baudhayana and Vasistha, New York, Oxford University Press,

1999, p. xxxviii), seguendo Halbfass, osserva che nella letteratura vedica il termine

dharma, al plurale, viene riferito alle regole connesse al continuo sostentamento del

mondo e pertanto “... it did not refer to any overarching cosmic order or natural law, which is comprehended by the term çta”.

5 L’appropriatezza è un carattere di prima importanza nel pensiero hindu sulla normatività. Tuttavia è chiaramente importante anche in altre tradizioni, per esempio nella misura in cui esso si fonde con l’equità, intesa come giustizia nel contesto.

6 Clooney, F.X., “The Concept of Dharma in the Mimamsa Sutras of Jaimini”, in S.S. Janaki (a cura di), Professor Kuppuswami Sastri birth-centenary commemoration volume, vol. 2, Madras, Kuppuswami Sastri Research Institute, 1981, pp. 180-182.

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La struttura rituale definisce quindi una serie di relazioni significative all’interno del rito. La stessa identità di un oggetto viene definita attraverso i rapporti con altri elementi in questa struttura. In altri termini, il termine dharma viene riferito alle qualità che rendono una cosa una determinata cosa e non un’altra, e questo significato del termine, collegato al concetto di identità, viene conservato nelle elaborazioni successive, dove rimane cruciale l’idea che esiste un modo corretto di relazionarsi agli altri che dipende dallo loro particolare posizione o ruolo.

Essendo fondato sul concetto di appropriatezza in una rete di relazioni macrocosmiche e microcosmiche, il dharma è necessariamente differenziato e viene definito sulla base di diverse situazioni spazio-temporali, delle condizioni personali o status degli attori e dei destinatari dell'azione, e anche dei caratteri specifici di una determinata azione.

Un’importante distinzione viene tracciata tra dharma comune (sâmânya- o sâdhâraãa-dharma) e dharma particolare (viðeïa-dharma). Il primo include una serie di comportamenti che sono considerati comuni a tutti gli uomini e può essere ridotto a una lista di virtù generali come la non violenza, il perdono, la compassione, la disciplina interiore, mentre il secondo consiste essenzialmente nella complessa rete di doveri definiti dal varãâðramadharma, che, come vedremo meglio dopo, definisce il dharma sulla base della casta e dello stadio di vita cui si è giunti. Il rapporto tra i due livelli del dharma è che il dharma generale rappresenta una categoria residuale, piuttosto che un insieme di principi fondamentali da cui dovrebbero essere derivate regole specifiche. Solo se una specifica norma di comportamento, basata sul proprio dharma specifico, non può essere trovata, si deve agire sulla base di quei principi. Sotto questo aspetto Ramanujan osserva che:

each addition is really a subtraction from any universal law. There is not much left of an absolute or common (sâdhâraãa) dharma which the texts speak of, if at all, as a last and not as a first resort. They seem to say, if you fit no contexts or conditions, which is unlikely, fall back on the universal7.

In questo quadro, avere doveri diversi significa avere identità diverse, legate al processo di differenziazione cosmica. Questa identità non è fissa e muta nel ciclo delle rinascite. Il concetto di dharma è infatti strettamente legato all’idea della retribuzione delle azioni secondo la legge del karman8.

Il significato del termine karman è azione, o più propriamente azione vista nelle sue conseguenze. Nella sfera rituale, il karman è l’azione rituale che

7 Ramanujan, A.K., “Is there an Indian way of thinking? An informal essay”,

Contributions to Indian Sociology, XXIII, 1, 1989, p. 48.

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produce un effetto sovrasensibile e, progressivamente, il suo significato principale diventa quello di risultato dell’azione, in altre parole il merito o demerito connesso all’azione. Comportarsi secondo il proprio dharma specifico produce karman positivo, mentre comportarsi in violazione di esso produce karman negativo. Dal karman dipende il tipo o qualità della rinascita. Esiste quindi una stretta relazione tra ciò che si deve fare, il dharma, l’effetto dell’azione, il karman, e ciò che si è.

Per comprendere meglio il concetto di dharma e l’idea di soggettività ad esso sottesa bisogna considerare una distinzione fondamentale sviluppata in questo sistema di pensiero dell’ortodossia brahminica, quella dei fini dell’uomo (puruïârthas). Sotto questo profilo, il dharma non viene presentato come un ordine inclusivo ma come uno dei fini dell’esistenza, assieme ad artha e kâma. Artha è l’utile, l’interesse, ed è rilevante soprattutto nella sfera della politica e dell’economia. Il kâma è il desiderio e la sua soddisfazione, il piacere. Dharma, artha and kâma, considerati come un tutto, costituiscono il trivarga, “triplice gruppo”. Le relazioni concettuali intessute tra questi tre fini dell’uomo sono molto complesse. Uno degli aspetti più semplici che può essere evidenziato è che dal dharma al kâma si va da un massimo a un minimo di oggettività e socialità9. Anche se ciascuno di questi tre fini ha il suo specifico valore

nella vita di una persona, viene stabilita una gerarchia per cui indubbiamente il dharma viene riconosciuto come il fine principale dell’uomo. Inoltre, il dharma è visto come una categoria più ampia, che ingloba gli altri fini.

Al trivarga si aggiunge un quarto fine, il mokïa, la liberazione, e si ha così un quadruplice gruppo (caturvarga). Con il concetto di mokïa incontriamo uno degli aspetti più complessi e distintivi dell’induismo. Il mokïa rappresenta una via di salvezza che non si realizza attraverso l’azione rituale (karmamârga) ma attraverso la conoscenza (jñânamârga), e più precisamente, almeno nell’elaborazione principale, attraverso la conoscenza dell’identità di brahman e âtman, assoluto e sé, che conduce alla liberazione dal ciclo delle rinascite.

Per quanto l’elaborazione teoretica del mokïa possa sembrare in conflitto con quel che abbiamo detto con riguardo al carattere originariamente rituale del dharma, deve essere evidenziato che il concetto di mokïa trova un posto, esplicito o implicito, nelle opere sul dharma. Nella Manusmçti, uno dei principali trattati sul dharma, ad esempio, ci sono molti riferimenti alla liberazione. In particolare, nell’ultima parte del testo, l’esposizione del dharma si conclude con una trattazione del raggiungimento del “bene supremo10. La rinuncia ha

rappresentato originariamente un modello in conflitto col sistema di valori 9 Si veda Malamoud, Cuocere il mondo, cit.

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vedico, ma nel periodo classico è stato integrato nel brahmanesimo, che anche sotto questo aspetto manifesta la sua capacità di affermarsi come modello culturalmente dominante11.

Il mokïa si contrappone al trivarga considerato come un tutto, nel senso che esso trascende gli altri fini dell’uomo e appartiene e un ordine completamente diverso12. Esso in particolare non è negazione del dharma

ma si colloca oltre di esso. Sotto questo profilo, il rinunciante che persegue la via della liberazione trascende le regole delle caste e degli stadi di vita inferiori. Possiamo comprendere in che senso raggiungere la liberazione significhi trascendere il dharma richiamando la sua fondazione cosmologica. Il karman, in quanto connesso all’azione dharmica, è collegato alla conservazione del mondo e degli individui. Infatti, l’equilibrio tra atti positivi e negativi risulterà in un residuo che è all’origine della rinascita13. L’ordine del dharma conduce a effetti sovrasensibili e pertanto

lega l’uomo alla catena delle rinascite. In altri termini, l’uomo del dharma avrà fortuna in questa vita e nelle vite successive ma resterà nel ciclo delle rinascite. Attraverso l’osservanza del dharma non può essere raggiunta la condizione di beatitudine suprema che nel pensiero indiano viene generalmente riconosciuta nella condizione di chi è stato capace di liberare se stesso dal mondo, che viene integrata nel brahmanesimo come una forma di vita possibile.

Le implicazioni di questa concezione per il problema della soggettività sono importanti. Come abbiamo visto, secondo Malamoud, la concezione hindu di ordine è basata su una dinamica tra vuoto e pieno. I dharma sono derivati da uno sprigionamento cosmico, che è visto come una differenziazione della realtà assoluta, una emersione da un vuoto che è, allo stesso tempo, un pieno, perché contiene tutto14. Il cosmo sorge come

differenziazione di un assoluto non differenziato, che potrebbe essere visto come vuoto ma in cui tutto è presente allo stato dormiente. Il dharma, in quanto relativo alle differenze, è in senso filosofico ciò che protegge il rapporto tra le cose che sono sorte dal vuoto.

Ora, sul piano microcosmico, raggiungere la liberazione significa ritornare a uno stato indifferenziato. È ben noto il fatto che, secondo Dumont, in questo contesto culturale il rinunciante rappresenta l’unico esempio di individualismo15. Infatti, con la rinuncia una persona sceglie un

percorso che conduce alla libertà dalla rete di regole dharmiche che 11 Sul questo punto si veda W. Doniger, The Laws of Manu, London, Penguin, 1991, p. xxxiv ss..

12 Malamoud (Cuocere il mondo, cit.) evidenzia che la struttura del caturvarga non è tanto un 4 quanto un 3+1.

13 Si veda sempre Malamoud, Cuocere il mondo, cit. 14 Ibidem.

15 Si veda L. Dumont, Homo Hierarchicus. Le système des castes et ses implications, Paris, Gallimard, 1966.

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regolano la propria vita. Ma da un altro punto di vista si può osservare che questo percorso verso il divenire un individuo è in realtà un percorso di disindividualizzazione. In questo sistema di pensiero l’individuo è infatti definito attraverso le relazioni. Andare oltre queste connessioni, vale a dire collocarsi oltre il dharma, significa replicare nella dimensione microcosmica il processo di riassorbimento nell’assoluto indifferenziato che è tipico delle cosmologie indiane.

La differenziazione del dharma è collegata alla differenziazione degli individui e, ancora più ampiamente, di tutte le cose nel mondo. La fondazione cosmologica della differenziazione, come è riflessa anche nel rapporto tra varãâðramadharma e mokïa che abbiamo visto, conduce a una ontologia dharmica, vale a dire a connettere dharma e identità. In questo senso il dharma fornisce una definizione normativa dell’individuo, una definizione dell’identità in termini normativi. Pertanto sembra più appropriato dire che un individuo è un insieme di doveri invece che dire che un individuo ha un insieme di doveri. Ogni individuo è connesso ad altri individui, esseri umani o altre entità e non può essere concepito indipendentemente da questi rapporti.

Una osservazione ulteriore è che questo modo di concepire la natura dharmica dell’uomo è non essenzialista. Una concezione di prima importanza nelle dottrine occidentali del diritto naturale è che alcuni doveri e norme possono essere derivati attraverso il ragionamento dalla natura, o essenza, degli esseri umani. In questo contesto, al contrario, il dharma non è derivato dalla natura dell’uomo ma definisce la natura dell’uomo16. Tuttavia, in un senso più profondo, la “vera” natura dell’uomo

è il principio eterno, divino e non differenziato, mentre il dharma è semplicemente la sua manifestazione. In conclusione, il dharma è il frutto della differenziazione cosmica, e la complessa relazione teorica tra pieno e vuoto che è elaborata dalle filosofie indiane aiuta a comprendere il modo peculiarmente hindu di concepire la soggettività.

Il dharma buddhista, come quello induista, è strettamente connesso al concetto di karman, inteso come effetto positivo o negativo delle azioni, e consiste nelle leggi che costituiscono l’ordine macro-cosmico e micro-cosmico17. Ma, mentre l’elaborazione brahmanica che si trova alla base del

diritto hindu ha uno spiccato carattere ritualistico, il dharma buddhista è più strettamente connesso al raggiungimento del fine della liberazione 16 Per un’analisi di questa dottrina e una discussione del problema collegato della fallacia naturalistica, si vedano L. Lombardi Vallauri, Corso di filosofia del diritto, Padova, Cedam, 1981 e J. Finnis, Natural Law and Natural Rights, Oxford, Clarendon Press, 1980.

17 Per un’analisi del concetto di dharma nel Buddhismo si veda Gethin, R., “He who sees dhammas: dhamma in early Buddhism”, Journal of Indian Philosophy, 32, 2004, pp. 513-542.

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(nirvâãa)18. Anche nel buddhismo troviamo una cosmologia basata

sull’idea del mondo come manifestazione. Un elemento fondamentale dell’etica buddhista consiste nello stretto collegamento riconosciuto tra comportamento corretto e consapevolezza della realtà come priva di sé, o vuoto (ðûnya)19. Questa dottrina della vacuità è al centro della visione

buddhista centrata su un percorso di liberazione dalle illusioni fenomeniche. Il punto importante è che comportamento etico e intuizione del vuoto, e quindi la sfera pratica e la sfera conoscitiva, sono interconnessi e si supportano a vicenda.

Se nel brahmanesimo il sâdhâraãa (o sâmânya) dharma, il livello generale e comune del dharma, ha semplicemente una funzione supplementare, vale a dire, una rilevanza solo in quei casi che non possono essere regolati al livello del viðeïadharma, nel buddhismo è molto più forte il ruolo del dharma generale e le differenze non assumono carattere di definizione identitaria. L’insegnamento di Buddha si pose dall’inizio in contrapposizione con l’organizzazione sociale dell’induismo basata sulla divisione in caste e sul predominio dei bramini, che avevano il monopolio delle attività connesse al sacro. La concezione brahmanica del sacrificio e la legittimazione vedica delle disuguaglianze venne criticata introducendo un’idea del rito declinata all’interno delle relazioni sociali. In altri termini, se la concezione brahmanica del rito come fattore di mantenimento dell’ordine dharmico portava all’esecuzione di complessi rituali legati alle divinità vediche, con il buddhismo si affermò, o meglio divenne prevalente, l’idea che il comportarsi in modo corretto nelle normali relazioni sociali fosse il reale fattore di mantenimento dell’ordine dharmico. Il modello dharmico della vita laica si affianca a quello, che rimane primario, della ricerca della liberazione. Nella concezione buddhista di persona l’aspetto dell’attore nel sacrificio è dunque assente e viene privilegiato il modello della ricerca del perfezionamento spirituale e della liberazione, che viene generalizzato.

Indubbiamente il buddhismo si presenta come più fortemente egalitario dell’induismo. La comunità monastica buddhista viene considerata esempio di comunità di individui uguali. Ciò non toglie che un’importante differenza di status derivi dal livello di perfezionamento spirituale raggiunto. Se il sistema delle caste è un sistema di differenziazione del soggetto, il buddhismo con il suo netto rifiuto dottrinale del sistema delle caste sembra aderire all’idea di una unità della persona e del soggetto di diritto. Ciononostante nel buddhismo rimane un 18 Bisogna comunque osservare che il fine della liberazione è ugualmente importante in molte scuole hindu, come il Vedânta, e che questa osservazione vale principalmente per le concezioni che sono alla base della letteratura dei dharmaðâstra.

19 Si veda Reynolds, F.E. e R. Campany, “Buddhist Ethics”, in The Encyclopedia of

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orizzonte non creazionista, così come rimane l’operatività della legge del karman e del ciclo delle rinascite. Sotto questo profilo induismo e buddhismo presentano una somiglianza che li contrappone alle religioni creazioniste, in cui l’idea di soggetto è influenzata dalla teologia del rapporto padre-figlio e dell’essere fatti a immagine e somiglianza del Dio-padre. Qui ci troviamo invece in un cosmo fatto di apparenze fenomeniche in cui il soggetto terreno è manifestazione transeunte di un principio divino, che è il vero Sé.

Soggetti, classificazioni e status

Questa concezione della soggettività ha conseguenze importanti per il diritto. Il diritto hindu viene infatti costruito attorno all’idea della differenziazione del dharma. Una prima differenziazione dei doveri degli uomini viene determinata sulla base delle categorie sociali di appartenenza (varãa), che rappresentano il centro del sistema delle caste, e degli stadi di vita (âðrama). Varãadharma e âðramadharma, combinati, costituiscono il varãâðramadharma. Il varãâðramadharma è stato descritto come un “modello della società hindu”. Lingat scrive:

Mentre la teoria dei quattro varãa cerca di definire la posizione degli individui nello spazio (il loro rapporto con diversi gruppi sociali paralleli al proprio), la teoria dei quattro âðrama li segue lungo la loro esistenza e li conduce progressivamente verso il loro fine ultimo. Pertanto le due teorie combinate forniscono una visione della società su due dimensioni, la prima su un piano orizzontale o statico, la seconda verticalmente o diacronicamente. La vita è organizzata, nei suoi aspetti individuali e sociali, attraverso un coordinamento dei due20.

Come abbiamo visto, l’ordine dharmico può essere rappresentato come un insieme di doveri. Lingat osserva anzi che il significato del termine dharma nella trattatistica sul dharma è nella maggior parte dei casi:

... la totalità dei doveri che incombono sull’individuo a seconda del suo status (varãa) e dello stadio di vita (âðrama) in cui si trova, la totalità delle regole alle quali deve conformarsi se non vuole “cadere”, se si preoccupa dell’aldilà21.

20 Lingat, R., La tradizione giuridica dell’India. Dharma, diritto e interpretazione, Milano, Giuffrè, 2003, p. 29.

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I varãa sono quattro e possono essere descritti brevemente nel seguente modo. Il primo è il varãa dei brahmani, la classe sacerdotale. Poi ci sono gli kïatriya, la classe aristocratica e guerriera, i vaiðya, la gente comune, e gli ðûdra, servitori. La loro origine mitica viene individuata nel sacrificio del Puruïa, il “maschio primordiale” (Ÿgveda 10.90). I brâhmaãa sarebbero nati dalla sua bocca, gli kïatriya della braccia, i vaiðya dalle cosce e gli ðûdra dai piedi. In questa concezione I bramini sono caratterizzati principalmente dal diritto e dal dovere di dedicare se stessi all’insegnamento del dharma e all’esecuzioni di determinati riti che sono loro riservati. Gli kïatriya sono caratterizzati dal dovere di combattere e proteggere gli altri. Sotto questo aspetto deve essere evidenziato che secondo la dottrina ortodossa i re dovrebbero appartenere alla classe degli kïatriya. I vaiðya hanno il dovere specifico di occuparsi delle attività produttive, commercio e agricoltura. Infine, gli ðûdra hanno il dovere di servire i varãa superiori.

Anche gli âðrama sono quattro: brahmacarya, il periodo dello studentato religioso, gârhasthya, il periodo della vita di famiglia, vânaprasthya, il periodo dell’eremitaggio ai margini delle attività mondane e del progressivo distacco dal mondo e la saänyâsa, il periodo segnato dalla completa rinuncia al mondo22.

Questo modello può essere visto senz’altro come teorico, ma è basato su differenze sociali reali ed è a sua volta in grado di influenzare la pratica. Questa classificazione costituisce un primo livello di differenziazione dei doveri e viene usato nei testi sul dharma come uno schema generale per descrivere i doveri che ricadono su ciascuno, adottando come paradigmatico il modello dei brahmini23. I doveri sono ulteriormente

differenziati sulla base dell’appartenenza a una casta (jâti), che è connessa al varãa anche se non si identifica con esso, visto che un varãa include caste diverse. Queste sono ulteriormente divise in sottocaste (upajâti)24.

Il sistema delle caste nel suo complesso determina attività permesse e proibite. Le regole di comportamento differiscono sulla base dell’appartenenza a un determinate varãa, casta o sottocasta. Infatti un determinato comportamento può essere proibito per una determinata persone in un contesto specifico e, al contrario, essere permesso se non addirittura obbligatorio se agente e destinatario dell’azione cambiano. In questa prospettiva, si può anche sostenere che lo stesso modello del varãâðramadharma rimane ancora molto generale. Realisticamente è 22 Sugli âðrama si veda P. Olivelle, The âðrama System: the History and Hermeneutics

of a Religious Institution, New York, Oxford University Press, 1993.

23 Si veda P. Olivelle, Manu’s Code of Law, New York, Oxford University Press, 2005. 24 Per una discussione di diverse teorie sull’origine dei varãas si veda Lingat, La

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possibile determinare qual è il proprio dovere solo scendendo ulteriormente al livello delle regole delle caste, sottocaste e di altri gruppi sociali, e considerando anche le specifiche circostanze del caso25. Bisogna

anche osservare che i quattro stadi di vita sono riferiti primariamente ai brahmani. Esiste però nella dottrina hindu una modalità di interpretazione che assume come paradigmatico lo status di brahmano e costruisce le regole relative agli altri status per analogia o contrasto.

In questo quadro, il livello di dettaglio raggiunto dalle classificazioni degli status, con le conseguenze normative che ne derivano, è estremo ed è il frutto di numerose combinazioni. Oltre al dharma di varãa, jâti e upajâti, e quello degli âðrama, in particolare capofamiglia e rinunciante, bisognerà distinguere il dharma specifico del re, il dharma specifico delle donne, il dharma del maestro (guru), il dharma delle vedove e così via.

Halbfass ha evidenziato che il dharma non è concepito come un insieme di regole universali che valgono per la società hindu e ugualmente per altre società. Infatti il dharma riguarda gli âryas mentre gli mlecchas, i barbari, sono esclusi. Pertanto il concetto di dharma è strettamente connesso a una xenologia:

Regardless of its original Vedic or etymological meaning, in traditional and “orthodox” Hinduism, dharma appears as an essentially anthropocentric, sociocentric, and, moreover, Indocentric and Brahmanocentric concept. Dharma is the differentiated “custom” and “propriety” which constitutes the Aryan form of life, which upholds the identity of the ârya and distinguishes him from the mleccha, and which also legitimizes the privileged position of the Brahmins as the teachers and guardians of the dharma26.

In tutti i casi, il dharma definisce il modo in cui un individuo deve comportarsi e il modo in cui è appropriato comportarsi nei confronti di qualcuno. In questo senso il proprio dharma è anche un limite per i comportamenti altrui e ciò indica ancora una volta quanto il concetto di dharma sia legato a quello di identità.

La soggettività giuridica viene determinata ulteriormente dal concetto di adhikara, che si riferisce a ciò che un determinato individuo ha titolo a fare nel quadro del dharma ed è considerato il traducente più prossimo del concetto di diritto soggettivo, anche se ha una natura mista perché si riferisce a ciò che si può e a ciò che si deve fare27. Da qui si sviluppa tutta

25 Come osservato da S. Piano (Sanatanadharma. Un incontro con l’induismo, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 1996, p. 33) la frammentazione arriva sino al punto in cui c’è un dharma proprio di ogni individuo.

26 Halbfass, India and Europe, cit, pp. 319-320.

27 Adhikara è il termine utilizzato per tradurre “right” nella versione hindi della Costituzione indiana. ”Law” viene tradotto come vidhi, termine sempre originariamente

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una serie di regole sulle capacità nei diversi contesti. Riprendendo la struttura del rito, che sotto questo profilo è tipica del ragionamento giuridico, viene determinato chi può fare cosa, quando e come. Davis evidenzia la rilevanza anche di un altro concetto collegato, svatantratva, che riguarda l’autonomia, la responsabilità e la capacità di compiere determinati atti, capacità che naturalmente varia a seconda degli status28.

Anche per il buddhismo naturalmente si pone il problema del modo in cui diritti e doveri diversi si riconnettono a specifici status, determinando il modo corretto di comportarsi per un soggetto e, allo stesso tempo, il modo corretto per gli altri di comportarsi nei suoi confronti. Anche se il diritto buddhista si presenta come più egalitario e universale, bisogna considerare che esso ha preso forma concreta adattandosi a diversi contesti culturali e organizzazioni sociali, ad esempio in Cina, Giappone, Sudest asiatico, dove le gerarchie sociali hanno un ruolo tradizionale rilevante. Lo stesso sistema delle caste persiste anche per il buddhismo come realtà sociologica nel mondo indiano.

Indipendentemente dall’interazione con i contesti locali un aspetto importante è che il perfezionamento spirituale si accompagna a diversi livelli di responsabilità nelle gerarchie sia sociali che istituzionali attraverso cui si sono organizzate le società buddhiste. In altri termini, a diversi livelli di perfezionamento spirituale si accompagnano diversi livelli di perfezionamento etico e quindi di autorevolezza e responsabilità, pur in un quadro sostanzialmente egalitario. Ciò comporta una notevole rilevanza di quelli che potremmo definire “status sapienziali”.

L’etica buddhista è finalizzata al perfezionamento spirituale e al raggiungimento dell’illuminazione, ma nelle diverse scuole cambiano il modo di intendere questo fine e i modelli ideali collegati. Nel buddhismo Theravâda il modello ideale verso cui tendere è quello dell’arahant, che è appunto colui che ha raggiunto la bodhi, il risveglio. L’arahant è anche colui che ha completato il perfezionamento della propria condotta morale, e agisce spontaneamente in accordo col dharma. In altri termini, per l’arahant non è più necessario riferirsi a standard di condotta che lo aiutino a controllare le proprie azioni, perché, come abbiamo detto precedentemente, l’intuizione della natura delle cose che egli ha raggiunto lascia fluire liberamente un comportamento corretto. Nel buddhismo Mahâyâna l’ideale è invece rappresentato dalla figura del bodhisattva, già presente nel buddhismo Theravâda, che è colui che è pronto al risveglio ma non lo ha ancora raggiunto. Nell’elaborazione Mahâyâna, il bodhisattva non è un gradino sotto l’arahant, ma è colui che, pur potendo raggiungere il nirvâãa, volontariamente vi rinuncia. Questo atto di rinuncia, dovuto alla sanscrito, che significa prescrizione.

28 Si veda D.R. Davis, The Spirit of Hindu Law, Cambridge, Cambridge University Press, 2010.

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compassione nei confronti degli altri, si traduce in un impegno nella guida di coloro che sono lungo il cammino del perfezionamento spirituale29.

La distinzione centrale nel buddhismo è quella tra laici e monaci che fonda una sorta di etica modulare. Dal punto di vista etico, le norme di comportamento fondamentali per un laico sono cinque: non uccidere, non rubare, non dire il falso, non fornicare, non bere alcolici. A questi doveri potevano poi aggiungersi dei doveri supererogatori. Per i bhikkhu esistono regole molto più dettagliate e stringenti.

Il centro organizzativo del buddhismo è il saägha, che, in sanscrito, significa assemblea. L’origine del saägha risale allo stesso Buddha e ai suoi primi discepoli. Nella sua definizione più ampia, il saägha è composto da quattro assemblee di monaci (bhikïu; in pali, bhikkhu), monache (bhikïuãî; in pali, bhikkunî), seguaci laici di sesso maschile (upâsaka) e femminile (upâsikâ). In senso stretto, l’espressione si riferisce solo alle prime due assemblee. La regolamentazione della vita del saägha è dovuta allo stesso Buddha, il quale non nominò un suo successore e, secondo la tradizione, affermò che le regole per la vita del saägha sarebbero stata sufficienti a garantirne la continuità.

Queste regole costituiscono il vinaya, termine sanscrito che può essere tradotto genericamente come disciplina e deriva da una radice che significa differenziazione o allontanamento30. Basandosi su questo

significato etimologico si può ritenere che il vinaya rappresenti il modello di condotta che differenzia e definisce i bhikkhu, oppure che attraverso questa disciplina i monaci si allontanano dagli stati mentali non corretti e dai vizi nella loro condotta. Il vinaya è dedicato in particolare alla condotta appropriata (ðîla) e incorpora le cinque regole fondamentali del non uccidere, non fornicare, non rubare, non mentire, in particolare in questo contesto non vantare falsi raggiungimenti spirituali, e non prendere sostanze intossicanti. Il vinaya comunque si preoccupa anche dello sviluppo della consapevolezza attraverso meditazione e conoscenza, perché si basa sull’idea che controllo della mente e controllo dell’azione siano interconnessi. Le regole del vinaya sono contenute nel Vinayapiõaka, una delle parti fondamentali del canone buddhista31 e in particolare nel

29 Su questi temi si veda Reynolds, F.E. e R. Campany, “Buddhist Ethics”, cit.

30 Per un’introduzione alle problematiche connesse al vinaya si veda Holt, J.C., “Vinaya”, in The Encyclopedia of Religion, a cura di Mircea Eliade, vol. 15, New York, Macmillan, 1987, p. 266.

31 Per una descrizione della letteratura buddhista si veda Boccali, G., Piano, S. e S. Sani, Le letterature dell’India, Torino, Utet, 2000, pp. 78-121. Si tratta di una letteratura molto ricca, composta in una pluralità di lingue, in particolare il pali e il sanscrito ma anche le lingue degli altri paesi asiatici in cui si diffuse. Il Canone pali, appartenente al buddhismo meridionale Theravâda, si è conservato meglio del Canone sanscrito del buddhismo settentrionale Mahâyâna. Il Canone pali si chiama Tipiõaka, perché è composto da tre raccolte (“canestri”) di testi: il Vinayapiõaka, il Suttapiõaka e l’Abhidhammapiõaka.

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Pâõimokkha (in sanscrito, Prâtimokïa). Questo testo raccoglie, a seconda delle versioni, da 218 a 263 regole di comportamento e si è mantenuto sostanzialmente stabile nelle diverse scuole buddhiste. Questa stabilità nelle regole di comportamento, a fronte di numerose differenze in campo dottrinale, indica come per il buddhismo l’ortoprassi rappresenti un importante fattore di unità32.

Il saägha non ha propriamente una struttura gerarchica. In linea di principio, i bhikkhu sono considerati su un piano di parità nelle attività del saägha, fermo restando che l’anzianità di ordinazione può essere un criterio per distribuire i compiti tra i diversi monaci e che differenze di rango e autorevolezza possono derivare dal livello di perfezionamento spirituale. Inoltre, anche se Buddha non nominò il suo successore ritenendo che la sua “regola” da sola sarebbe stata capace di guidare il saägha, con il tempo si arrivò a cariche elettive. L’elettività delle cariche, d’altra parte, conferma la struttura ugualitaria del saägha, che sembra essere un carattere comune a diverse esperienze di comunità religiose. Su questo punto si può osservare che il diritto del Vinayapiõaka è “molto ugualitario [...] e assolutamente non-democratico: nasce non da un consenso, ma da una rivelazione superiore che manifesta la verità; non potrebbe quindi essere modificato da nessuna, comunque composta, maggioranza storica. E d’altra parte l’ordine è fondato su un vero e proprio “contratto sociale” volontario e revocabile, in qualsiasi momento il monaco può “disavow the training” [...] e con ciò rientrare nella moralità inferiore del padre di famiglia”33.

Per quel che riguarda la struttura e i contenuti, il Pâõimokkha si compone di otto sezioni ed è costruito come un elenco di infrazioni e sanzioni collegate. La prima sezione contiene le quattro regole pârâjika, sulla cui osservanza si basa lo stesso status monastico. Si tratta del divieto di uccidere, di fornicare, di rubare e di vantare realizzazioni spirituali, e quindi di quattro delle cinque regole fondamentali che abbiamo visto precedentemente. La violazione di queste regole viene considerata talmente grave che la sanzione è la perdita dello status di bhikkhu nel momento stesso in cui viene compiuta l’infrazione. In altri termini, l’accertamento della violazione non ha carattere costitutivo e quindi la persona che commetta una di queste violazioni sarà considerato un non

32 Questo testo fondamentale è incorporato nella prima sezione del Vinayapiõaka, il

Suttavibhaüga, che accompagna le regole formulate in modo secco e formale nel Pâõimokkha con narrazioni sulle origini di ogni regola e discussioni su casi ipotetici e

questioni interpretative. Le altre due sezioni del Vinayapiõaka sono i Khandhaka, composti da Mahâvagga e Cullavagga, e il Parivâra. Queste altre sezioni contengono una serie di regole e spiegazioni ulteriori, in particolare quelle relative agli atti del saägha, le procedure per la soluzione delle controversie e le procedure per l’ordinazione di nuovi monaci.

33 Lombardi Vallauri, L., “Vinaya-Pithaka, o il diritto come tecnica di comunicazione dell’ineffabile, in Id., Terre, Milano, Vita e Pensiero, 1989, p. 471.

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bhikkhu sin dal momento del compimento della trasgressione, indipendentemente dal suo accertamento34.

Questi principi generali non hanno rilevanza solo per i monaci ma sono in grado di informare le concezioni e le regole alla base dei concreti ordinamenti delle comunità buddhiste nelle loro diverse componenti. Il concetto di soggettività e la rilevanza degli status viene quindi concretizzato nei singoli diritti che sono stati più o meno influenzati dal buddhismo, da quello birmano a quello tibetano35.

In conclusione, le classificazioni sulla base degli status sono strettamente legate sia per l’induismo che per il buddhismo a un’intera “cosmologia giuridica” in cui è centrale una visione della posizione dell’uomo nel cosmo e una intuizione della sua natura.

34 Per una breve analisi delle altre sezioni si veda F. Beconcini, “Il Patimokkha. Alle origini del sistema sanzionatorio monastico”, in Concezioni del diritto e diritti umani:

confronti Oriente-Occidente, a cura di A. Catania. e L. Lombardi Vallauri, Napoli, E.S.I.,

2000, pp. 231-257.

35 Sul diritto tibetano si veda R.R. French, The Golden Yoke. The Legal Cosmology of

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