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L'Ottocento letterario italiano tra infanzia svelata e infanzia negata

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Durante gli anni settanta del diciannovesimo secolo assistiamo ad una accelera-zione e ad una ‘intensificaaccelera-zione’ dei rapporti tra letteratura e infanzia. Mentre, da un lato, autori come Ida Baccini e Carlo Lorenzini iniziano, mediante le sagome bambine dei loro piccoli personaggi, a scardinare la porta dell’infanzia, serrata in modo esasperatamente ‘prudente’ da letterati, pedagogisti, educatori troppo ‘adulti’ per essere prossimi alla visione fanciulla del vivere1, dall’altro si compie,

ad ampie distanze geografiche, sociali e culturali, una svolta narrativa in dire-zione della vera rappresentadire-zione del vivere: crudo, asciutto, cupo e sconfitto.

Ci si riferisce, ovviamente, alla scrittura verista; e alle ‘procedure’ narrative che, tramite la vena letteraria di alcuni dei più grandi esponenti di questa ‘inten-zione’ letteraria, denunciano ed amplificano, per la prima volta, la realtà.

Volendo rimanere a stretto contatto con l’infanzia, intesa come ‘regione’ del vivere da esplorare con tatto e prudenza, per coglierne istanze ed esigenze e met-terla al centro del grande racconto della vita degli uomini tutti, c’è bisogno di analizzare questa intensificazione di intrecci tra la stessa infanzia e la letteratura che la riguarda in senso lato, che ‘va occupandosi’ dell’infanzia non soltanto co-me potenziale fruitore ma anche coco-me soggetto e protagonista di storie e raccon-ti, lontani dall’ipocrita sotterfugio tendente a sottrarre agli occhi dell’età infanti-le ciò che poi, nei fatti e nella realtà, diviene dato concreto e inevitabiinfanti-le con cui dover fare sistematicamente i conti: la durezza – a volte implacabile – del vive-re2.

Sembrano, quelli sovraesposti, due ambiti letterari di scarsa compatibilità ma possono, nella interpretazione che ci si trova a sostenere nelle note di questo in-tervento, trovare incontro proprio nella visione d’insieme della prima fase della vita.

1 Cfr. V. Battistelli, La Moderna letteratura per l’infanzia, Vallecchi, Firenze, 1925; R. Bertacchini,

Col-lodi educatore, La Nuova Italia, Firenze, 1964; P. Boero, C. De Luca, La letteratura per l’infanzia,

La-terza, Bari, 1995.

2 Sui nessi e le possibili intersezioni tra il concetto di infanzia e la sua ‘prossimita’ alla letteratura (che si rivela non solo “per l’infanzia” ma anche dell’infanzia, sull’infanzia e nell’infanzia) cfr. D. Richter, Il bambino estraneo. La nascita dell’infanzia nel mondo borghese, La Nuova Italia, Firenze, 1992; A. Di Martino, La penombra toccata d’allegria, Mimesis, Milano-Udine, 2008.

L’Ottocento letterario italiano

tra infanzia svelata e infanzia negata

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Il concetto stesso di veridicità, infatti, così legato al disvelamento che ci conse-gna, ad esempio, la figura spontanea di Giannettino, e che si compie nei gesti in-cantati (e non per questo diseducativi) del sublime burattino di lì a pochi anni3,

risulta fondamentale nel sostegno di un altro disvelamento di natura differente, ma non per questo estraneo al precedente.

La rappresentazione della vita messa a fuoco dal punto di vista degli ultimi, dei vinti, degli umili diviene, nelle pagine di autori come Giovanni Verga e Luigi Capuana, rivelatrice di una realtà raccontata in ‘presa diretta’, dal vivo, davvero; rispetto alla quale si pone come ‘cupo’ disvelamento, quasi inevitabile nella sua efficacia priva di maschere e costrizioni sociali; lontana da ‘ammorbidimenti’ det-tati da necessità narrative e letterarie; asciutta nella sua sofferta sufficienza.

Senza filtri di opportuno (o opportunistico?) buonismo, senza accomoda-menti di natura diplomatica rispetto al rappresentabile, poiché si supera la fase della scansione selettiva rispetto a ciò che può (o non può) essere rappresentato letterariamente, ed il vero diventa contenitore e contenuto, senza che l’imperso-nale (in senso narratologico e sostanziale) scrittore possa intervenire a sostegno di una più o meno evidente ‘adeguatezza’ della storia ad essere narrata. La sto-ria, con la sua ineludibile verità, diviene spazio narrativo, contesto nel quale ogni microstoria ha diritto di essere raccontata, palesata, scoperta, denunciata, svelata.

Resta da esplorare – e comprendere – il possibile collegamento con l’infanzia, con l’adolescenza e con la giovinezza, che, così poste in rapida successione, si possono intendere quale ‘traccia’ preparatoria di un compimento esistenziale che, laddove non venga ‘interrotto’, dovrebbe di norma portare alla maturità del-la vita adulta.

Il collegamento insiste su un duplice registro.

Da un lato, infatti, mediante uno sguardo sincronico minimamente analitico rispetto alle vicende culturali e letterarie della seconda metà dell’Ottocento, si co-glie in modo evidente una corrispondenza – cui già si faceva riferimento all’ini-zio di questa riflessione – nella quale si ‘condensano’ e, in un certo qual modo, si mettono insieme una serie significativa di esperienze letterarie – riguardanti l’in-fanzia – che, a cavallo di quel 1875 in cui prendevano vita l’animaletto piumato della Baccini ed il sorprendente (quanto!) bambino di Collodi, sembrano quasi ufficializzare il “diritto ad esistere” della infanzia vera nella letteratura e di una vera letteratura dell’infanzia, ed una svolta in direzione verista della lettura pro-fonda della realtà degli uomini, messa in atto da Giovanni Verga, pioniere di una nuova intenzione narrativa, che proprio a partire dal 1874, con le pagine di Ned-da, consegna ai lettori una differente e dolente delineazione del vivere mediante il racconto degli umili, attraverso la vita – a volte non vita – dei semplici.

Questa prima prospettiva permetterebbe già di rivelare una sorta di recipro-ca propedeuticità, se non si dovesse necessariamente cedere, troppo spesso, al-l’accettazione di una casualità figlia delle dogmatiche recinzioni disciplinari dei nostri tempi, e lontana da più ampie e reticolari chiavi di lettura maggiormente

3 Cfr. L. Acone, Il fanciullino di legno. Immagini letterarie dell’infanzia tra Collodi e Pascoli, Pensa, San Cesario di Lecce, 2012.

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adeguate alla complessità del contesto letterario dell’Ottocento, molto più deci-frabile quando non ingabbiato in incoerenti posizioni di generi e correnti. Si po-trebbe avere, così, una visione più allargata anche della geografia letteraria del-l’Italia, che non può non cogliere una evidente contemporaneità tra fenomeni culturali che, nell’Italia centro-settentrionale, vedono un vivace fermento edito-riale con riviste e periodici, nuove narrazioni (e figure) dell’infanzia, ritrovata dif-fusione delle raccolte di fiabe4e, verso il Meridione della penisola, la

destinazio-ne del tragitto di ricollocamento letterario destinazio-nel vero che uno scrittore come Verga compie proprio partendo da quel Nord Italia (e letterariamente lasciandolo) per approdare sulla cruda realtà degli scogli di Aci Trezza.

Dall’altro lato, il collegamento in oggetto, tendente ad indagare le possibili connessioni tra infanzia e verismo, potrebbe cogliere il consolidamento di questa reciproca dipendenza tra letteratura riguardante l’infanzia e verismo stesso pro-prio grazie ad una differente modalità interpretativa delle prime, importanti te-stimonianze della nuova poetica narrativa.

Ci si chiede, in fin dei conti, quanta infanzia possa entrare, essere contenuta o divenire indispensabile all’interno della storia viva e disperata dei personaggi di una letteratura che sembra immensamente distante dai registri che dovrebbero – ad una prima, superficiale occhiata – rientrare nello ‘spazio protetto’ della pros-simità infantile e giovanile.

E la risposta va cercata, come capita spesso, nel testo e nella scrittura che ci ri-velano sorprendenti (almeno a guardarle sotto questa ottica) presenze. A livello storico-letterario Nedda apre la strada del verismo in uno sforzo di ricerca quasi inconsapevole, generato forse da un momento di sconforto dello scrittore che, in una Milano in cui non riesce a trovare una dimensione narrativa esaustiva e flui-da, si accomoda nella reminiscenza e in una elaborazione dei ricordi dell’isola lontana: “In realtà Nedda è una sperimentazione inconsapevole: un soggetto ori-ginale, affiorato da ricordi lontani, è realizzato in una struttura narrativa canoni-ca: premessa – sfondo paesistico – presentazione generale dei personaggi – mes-sa a fuoco della protagonista e della sua vita personale (si veda la minuta desczione fisica di Nedda, quasi manzoniana, come manzoniana è la sequenza del ri-torno a casa) – fasi evolutive della storia d’amore con Janu. L’esperimento è con-segnato all’impacciata e faticosa mimesi dei dialoghi di personaggi «plebei», [...] negli incerti accenni di discorso indiretto libero, [...] nel lessico sostanzialmente normale [...] in cui si inseriscono nomi e parole siciliani”5.

Nella valutazione di un importante snodo culturale “certo” e “incerto” si me-scolano e si confondono, ma non si può certamente trascurare il fatto che, se an-che si dovesse definire incerta la forma (quasi esclusivamente a livello linguisti-co-costruttivo, a dire il vero), non si potrebbe fare altrettanto con il contenuto, che invece dimostra certezza intenzionale nella decisione di voler percorrere strade narrative alternative; posizione che porta il Verga ad allontanarsi da un com-plessivo contesto (e mai come in questo caso il termine si avvale di ampia

ambi-4 Basti pensare, tra le altre, alle raccolte di Pitré, Imbriani, Nerucci etc.

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guità semantica) rispetto al quale sente di dover ‘ripiegare’ letterariamente – con un piccolo scritto buttato giù in tre giorni (Nedda) – e, subito dopo, anche fisica-mente, tornando in Sicilia, in un tragitto che si potrebbe interpretare come un’e-sigenza di collocare in uno stato di concreta verifica ambientale, sociale, storica ed esistenziale la propria rinnovata visione della realtà e della modalità lettera-ria attraverso cui raccontarla: “Verga mostra di aver rinunciato alla retorica, al lusso, alla grandeur del bel mondo che gli aveva servito da sempre la materia nar-rativa, per avvicinarsi alla vita vera, quella della gente comune, degli umili, con problemi concreti, privi di inutili velleitarismi e di sterili evanescenze di sogno”6.

Ma arrivando al dato ‘certo’ che riguarda più da vicino il rapporto con l’in-fanzia, risulta evidente che la svolta verista di Verga si poggia su alcuni perso-naggi-chiave che, guarda caso, sono bambini o ragazzi, e che non lo sono per ca-so, almeno secondo l’avviso di chi scrive.

Lo sono perché Verga sembra avvertire la necessità di ricostruire una ‘integri-tà’ della sconfitta che, come un paradigma esistenziale cui è impossibile sottrar-si, va rappresentata in senso sincronico – nella delineazione ritrattistica quasi ‘manzoniana’ che fotografa situazioni e contesti con una secca e cruda ‘presa dal vivo’ – ed in senso diacronico, laddove la linea del tempo non incontra traumi o fratture che portino la vita dei personaggi verghiani ad un peggioramento (che, per sua natura, in quanto trauma, potrebbe essere almeno immaginato come evi-tabile), ma restituisce una ineluttabilità della vita che sembra connaturata alle esistenze stesse dei protagonisti. Vinti da sempre; fin da piccoli. Vinti per sempre. Potrebbe sembrare una lettura fin troppo ‘crudele’ della pagina verghiana, ma è innegabile che personaggi come Nedda, Rosso, Jeli ed altri, rappresentino una ‘presa di posizione’ che fotografa la tragedia del vivere non avendo paura di col-locarla in uno stato di indigenza manifesta ed ‘eccessiva’ fin dai primi anni del-la vita.

Nel ‘laboratorio’ dove, negli stessi anni di cui si sta parlando, prendono vita le sagome abbozzate dei Malavoglia, si costruisce una nuova lettura della realtà e la si affida, in diversi casi, ai più piccoli, ai più giovani.

La povera Nedda è una ragazza, una “ragazza bruna, vestita miseramente”, che ci si presenta già vestita, appunto, di tutto il peso – quasi ontologico – di ne-gatività che la vita può caricare sulle troppo esili spalle di una giovane creatura. Nasce dovendo accudire (la madre) e si spegne nell’impossibilità di accudire (la figlia)7. Il tutto diviene una sorta di storia della ‘negazione’, percorso di

impossi-bile ‘compimento’ attraverso il quale i timidi tentativi di collocarsi in un giusto cammino di maturazione e di ‘regolare’ adultizzazione – l’innamoramento, la speranza di formare un nucleo familiare con Janu – vengono frustrati dalla cieca spietatezza di eventi e circostanze.

6 L. Reina, Percorsi del Romanzo tra Ottocento e Novecento, Lepisma, Roma, 2012, p. 122.

7 L’impossibilità di portare avanti l’accudimento della figlioletta, che le spira tragicamente tra le braccia, colloca forzatamente Nedda in una situazione di prossimità rispetto agli “uomini-roba” verghiani (zio Crocifisso, Mazzarò, Gesualdo, etc.): senza figli, senza legami profondi di natura emotivo-affettiva, partecipi di un convulsivo meccanismo di frustrata sopravvivenza. Sull’argo-mento cfr. S. Campailla, Anatomie verghiane, Patron, Bologna, 1978.

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È come se la categoria della sconfitta fosse una entità immune da collocazio-ni in età e vicende storiche che legano uomicollocazio-ni ed eventi; eventi nei quali potreb-bero, almeno, avere l’illusione o l’inganno di poter essere minimamente prota-gonisti, anche se spesso votati alla sconfitta.

Questa sorta di predestinazione alla caduta, sembra ricordarci Verga, attra-versa la povera vicenda esistenziale di tutti, e forse proprio per questo risulta tanto più efficace ed ‘implacabile’ quando la si colloca sul capo di piccoli perso-naggi. Tramite l’infanzia dolente, incompiuta ed interrotta di figure come Nedda lo scrittore può connaturare all’atto stesso del “venire al mondo” la propria, ve-ra, considerazione del vivere: negativa, vinta, disperata.

I bambini partecipano alla giostra macabra del vivere, non ne sono allontana-ti, non sono cautelati nemmeno rispetto alla possibilità di essere ‘messi in scena’ nella pagina del racconto. Tutt’altro! Viene il sospetto che l’utilizzo dei bambini renda più vero il sistema di rappresentazione letteraria; che il fatto stesso di non ‘evitare’ la descrizione della crudezza del vivere ‘persino’ dei bambini risulti una sorta di ‘epifania della malasorte’, rispetto alla quale è inutile, a quanto pare, pre-servare delle categorie e far pensare ad una qualche speranza di positività riferi-bile almeno ad età che potrebbero, in tal modo, immaginarsi felici. Così non è, e non può essere. La verità narrata sospende quindi la temporalità di una evolu-zione minimamente rispettosa di età, generi, momenti o quant’altro; e nella vi-cenda degli uomini si sviluppa una consapevolezza di sconforto che coglie qua-lunque stadio evolutivo: piccoli, grandi, vecchi e giovani. Anzi, funziona meglio quanto più accompagna, fin da bambini, le storie stanche ed afflitte delle povere persone.

E allora i bambini di Verga cessano di essere bambini e cristallizzano l’essen-za della loro esperienl’essen-za in una età negata, in cui le coordinate ‘regolari’ riferibili all’infanzia, alla giovinezza e alla maturità si confondono lacerandosi a vicenda; e Rosso Malpelo, ad esempio, diviene al contempo disperatamente bambino ‘in-terrotto’ ed adulto incompiuto; mai fanciullo come desidererebbe; mai bambino come dovrebbe essere di diritto. Diritto che non reclama affatto, proprio perché calato in una realtà che glielo misconosce come possibilità di appartenere ad una ‘fascia protetta’; perché parte integrante di un racconto che contempla l’osserva-zione spietata – e la conseguente narral’osserva-zione – della vita intera come se fosse tut-ta compresa in ogni singolo momento; tuttut-ta ‘spiegatut-ta’ senza riparo né tutela al-cuna.

Il piccolo Rosso, sul quale la maestria narrativo-descrittiva di Verga si eserci-ta in maniera così sopraffina da non farci più capire se Rosso sia cattivo perché rosso oppure rosso perché cattivo (in un virtuosismo dialettico carico di denun-cia sodenun-ciale per un’arretratezza ed una spietatezza popolare di cui fanno le spese, spesso, proprio i più piccoli, gli ultimi, gli indifesi), diviene, da fanciullo dispera-to che si spezza le unghie nella “rena” cercando di salvare il padre (unico lega-me d’affetto sincero, spietatalega-mente presentato soltanto in absentia dallo scrittore), addirittura ‘maestro’ di vita in una esperienza di ‘pedagogia negativa’ allor-quando, trovandosi di fronte un ragazzo più disgraziato di lui, gli spiega – da adulto consumato (non solo metaforicamente) – quanto sia dura la vita ed il si-stema imperscrutabile che regge le cose del mondo e degli uomini: “E in Rosso

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Malpelo si ricanta questa salomonica verità, questa nenia funebre, in uno dei pas-si decipas-sivi della narrativa verghiana, a conclupas-sione della «lezione» che il maestro Malpelo fa al discepolo Ranocchio, di fronte al carcame del grigio in fondo al bur-rone: «Ecco come vanno le cose! Anche il grigio ha avuto dei colpi di zappa e delle guidalesche ...» [...] Il mondo e il vitamorte sono dei fatti enormi, troppo avvol-genti perché i personaggi verghiani, tanto arretrati antropologicamente e cultu-ralmente, tanto degradati dai bisogni elementari della sopravvivenza e della con-correnza (ma non sprovvisti di una loro dignità e persino grandezza) possano farsene una ragione. I fenomeni naturali avvengono, imprevedibili e incontrolla-bili”8.

E la dignità, la grandezza umana, barlumi effimeri (e potenti) che si intrave-dono negli occhi feriti di piccoli uomini come Rosso, si ritrovano nella spartana umanità di cui egli riesce a condire i ‘ruvidi’ gesti di fratellanza ed accudimento per chi, seppur con brutale franchezza, egli riconosce inferiore, meritevole quin-di quin-di una certa forma quin-di rude misericorquin-dia. Poca cosa, sicuramente, ma tanto più vera, anch’essa, nella sperdutezza di sentimenti che nega orizzonti più sereni a cuccioli d’uomo già smarriti.

Da Rosso Malpelo si può facilmente passare (e pensare) a Jeli il pastore, e non soltanto perché parte della grande critica letteraria, già dagli anni settanta, ha consolidato una lettura d’insieme del dittico Rosso-Jeli9, ma anche perché Jeli

raf-forza una visione tendente a mettere l’infanzia al centro della ‘vicenda verista’. Capovolgendo lo sguardo ed ampliando il campo d’osservazione, protagonista della novella risulta essere – prima ancora del piccolo pastore – proprio l’infan-zia, che entra in scena categorizzando in maniera molto più definita il protago-nista: “Jeli, il guardiano di cavalli, aveva tredici anni quando conobbe don Al-fonso, il signorino; ma era così piccolo che non arrivava alla pancia della bianca, la vecchia giumenta che portava il campanaccio della mandra”10. Un cucciolo

d’uomo, dunque, così piccolo da non arrivare alla pancia degli animali di cui, pe-rò, è guardiano! Di cui ha già la responsabilità. Ma qui prende vita il capovolgi-mento di cui sopra: sembrerebbe l’ennesimo caso di adultizzazione precoce e for-zata, dettata dalle dure esigenze che scansano età e doveri, che piegano le ossa e la schiena (Nedda), e che inghiottono frammenti d’affetto (Rosso ed il padre Mi-sciu); ma non è così, o almeno non soltanto. Jeli, infatti, sembra farcela. Ma non tanto perché regge l’urto del rigido apprendistato lavorativo (magari un po’ me-no duro rispetto alle due precedenti sagome, ineluttabilmente tragiche fin da pic-cole) quanto per il fatto che egli ‘resta bambino’ rispetto a tutte le pulsioni emo-tive, alle relazioni sociali e sentimentali, a codici e comportamenti; rispetto a tut-to ciò cui egli oppone la sua – infantile – mansuetudine. Non sembra aver rag-giunto una compiutezza adulta tale da reagire agli accidenti amari del vivere

ma-8 S. Campailla, Mal di luna e d’altro, Bonacci, Roma, 1993, p. 41.

9 Cfr. G. Ragonese, Interpretazione del Verga, Bulzoni, Roma, 1977; A. Asor Rosa, “Il primo e l’ulti-mo uol’ulti-mo del l’ulti-mondo. Indagine sulle strutture narrative e sociologiche in «Vita dei campi»”, in Il

caso Verga, Palumbo, Palermo, 1974; S. Campailla, Anatomie verghiane, cit.

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turo. Arriva a farsi chiamare corna d’oro perché incapace di concepire l’affronto, l’onore ferito, l’orgoglio e la dignità; “cose da grandi”, sembra pensare, come penserebbe, appunto, un bambino. E la sospensione rispetto all’età adulta divie-ne, di fatto, un dilatamento ed un prolungamento di una visione incantata, inge-nua ed innocente della vita adulta: don Alfonso? In fondo è il suo amico d’in-fanzia. Mara? In fondo è così bella ed egli l’amava fin da bambino. Tutto l’uni-verso di Jeli si configura come un evanescente – ed ingannevole – prolungamen-to dell’infanzia, che ‘deve’ salvare l’immagine di tutti, e permettere al bambino, che ‘non vuol sapere’, di nascondere la testa sotto la sabbia di fronte alla realtà, cattiva, dei grandi.

E grande, Jeli, lo diventa in un giorno solo: quando arriva all’amara consape-volezza che don Alfonso è un uomo bello grosso, e che quindi (sorprendente-mente!) tutte le voci, le ingiurie, le malelingue non si riferivano al piccolo amico di un tempo, ma all’uomo irriconoscibile che si trova di fronte. L’infanzia protet-tiva di Jeli si specchia nell’aspetto adulto del suo rivale, e la conseguenza è una esplosione d’ira nella quale si condensa una ‘violenta’ ed immediata adultizza-zione che diviene trauma, eccesso, rabbia. Jeli è cresciuto, è divenuto grande e, come scrive Verga, “come vide che don Alfonso [...] prese Mara per la mano per ballare, solo allora, come vide che la toccava, si slanciò su di lui, e gli tagliò la go-la di un sol colpo”11. Un’infanzia cristallizzata, dunque, che non riesce a

‘tutela-re’ il suo bonario ospite cautelandolo dalle traversie del vivere adulto.

Dopo diversi anni toccherà a Luigi Capuana, sempre nell’alveo verista, ricol-locare nella giusta successione le vicende delle diverse età della vita. E sebbene lo scenario si mantenga in un registro di ‘certificata’ indigenza e profonda soffe-renza, ai piccoli protagonisti di alcuni dei suoi più bei racconti, il grande scritto-re/teorico verista regalerà la prospettiva di una speranza. Una luce che se non ri-esce ad illuminare le mille difficoltà del povero vivere fanciullo, si pone almeno quale luce riflessa – quasi luna protettiva nelle troppo tenebrose notti bambine – ad indicare una remota via d’uscita, un sogno, una possibilità.

Ed ecco allora che Scurpiddu, ad esempio, diviene il racconto di una sofferen-za in ascesa verso una declinazione almeno ‘normale’ del vivere. E se all’inizio del racconto troviamo il piccolo Mommo accovacciato su una pietra, privo di so-stentamento e solo, l’immagine non può non far pensare alla giovane Nedda, ac-covacciata anch’essa, col pensiero alla madre morente. Ma mentre la scia esisten-ziale di Nedda si ‘riavvolge’ in un circolo chiuso di sconfitta, Capuana concede a Scurpiddu la traiettoria di una speranza, di una ‘non vittoria’ (sarebbe eccessivo) che si tramuta, per dis-incanto, in normalità: “otto giorni dopo, Scurpiddu diven-tava Scaglio Girolamo, nel 3° reggimento bersaglieri”12. L’infanzia, nella

‘mitiga-ta’ visione verista di fine secolo di Capuana, arriva a immaginare la possibilità di un ‘compimento’ adulto, rafforzando ulteriormente la centralità della

fanciullez-11 Ivi, p. 161.

12 L. Capuana, “Scurpiddu”, in Narratori dell’Ottocento e del primo Novecento, Ricciardi, Milano-Na-poli, 1962, p. 376.

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za in un’esperienza letteraria che ne ha colto essenza e sofferenza, e di cui ‘ha avuto bisogno’ per definirsi poeticamente.

Riferimenti bibliografici

Acone L., Il fanciullino di legno. Immagini letterarie dell’infanzia tra Collodi e Pascoli, Pensa, San Cesario di Lecce, 2012.

Asor Rosa A., “Il primo e l’ultimo uomo del mondo. Indagine sulle strutture narrative e sociologiche in «Vita dei campi»”, in Il caso Verga, Palumbo, Palermo, 1974.

Battistelli V., La Moderna letteratura per l’infanzia, Vallecchi, Firenze, 1925. Bertacchini R., Collodi educatore, La Nuova Italia, Firenze, 1964.

Boero P., De Luca C., La letteratura per l’infanzia, Laterza, Bari, 1995. Campailla S., Anatomie verghiane, Patron, Bologna, 1978.

Campailla S., Mal di luna e d’altro, Bonacci, Roma, 1993.

Di Martino A., La penombra toccata d’allegria, Mimesis, Milano-Udine, 2008. Ragonese G., Interpretazione del Verga, Bulzoni, Roma, 1977.

Reina L., Percorsi del Romanzo tra Ottocento e Novecento, Lepisma, Roma, 2012. Riccardi C., Introduzione a G. Verga, Tutte le novelle, Mondadori, Milano, 1984.

Richter D., Il bambino estraneo. La nascita dell’infanzia nel mondo borghese, La Nuova Italia, Firenze, 1992.

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