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Epigrafia greca

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Academic year: 2021

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(1)

Le fonti per la

storia antica

a cura di

Gabriella Poma

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Introduzione, di Gabriella Poma 000

I. Come scrivere la storia, di Riccardo Vattuone 000

II. La geografia storica del mondo antico, di Stefano Magnani 000

III. L’archeologia, di Jacopo Ortalli 000

IV. La topografia antica, di Lorenzo Quilici 000

V. Le fonti letterarie, di Riccardo Vattuone, Sara Giurovich e Gabriella Poma 000

VI. Le fonti del diritto greco, di Remo Martini 000

VII. Le fonti del diritto romano, di Paolo Lepore 000

VIII. L’epigrafia greca, di Enrica Culasso Gastaldi 000

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X. La papirologia, di Mario Capasso 000

XI. La numismatica, di Emanuela Ercolani Cocchi 000

XII. Sistemi cronologici e metrologia, di Sara Giurovich 000

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CAPITOLO

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L’epigrafia greca

L’epigrafia greca non costituisce una disciplina riservata a severi cultori di una materia tecnica e inaccessibile, incomprensibile ai più e impraticabile senza un austero e faticoso tirocinio. Essa è, in verità, disciplina tecnica e richiede una preparazione specifica, ma è in grado di ricompensare ampiamente gli studiosi, anche giovani, che a essa si vogliano dedicare, applicandosi con entusiasmo e, insieme, rigore metodologico. Il campo dell’epigrafia greca possiede, infatti, un’enorme capacità documentaria, inserendosi come fonte privilegiata in quel-la complessa interrequel-lazione reciproca tra comunità antiche e individui che noi chiamiamo storia greca.

Con il termine «epigrafe», in particolare, intendiamo generalmente un do-cumento iscritto su materiale non deperibile, che serva da supporto scritto-rio. La sua stessa non deteriorabilità, nel caso in cui il documento sia sfuggito all’azione distruttiva del tempo e all’incuria degli uomini, garantisce allo stu-dioso contemporaneo di poter fruire di un manufatto direttamente prodotto dall’uomo antico e di poter attingere, pertanto, la propria informazione storica alla fonte, evitando ulteriori mediazioni. Intendo, soprattutto, il pericolo delle interpretazioni o dei travisamenti da parte dei testimoni intermedi, siano essi storiografi, biografi, geografi o periegeti, che nella narrazione degli avvenimenti operano naturalmente un’azione di filtro e di elaborazione, che può precludere o alterare la genuinità dell’informazione originaria. D’altra parte, tuttavia, l’epi-grafia greca può trarre un grande vantaggio dal confronto con le altre serie do-cumentarie; ricordo innanzitutto quelle letterarie, alle quali si rivolge per offrire

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informazioni, ma anche per ricevere conferme: per ottenere, di fatto, il conforto di coordinate storiche di ampio respiro, all’interno delle quali la fonte epigrafica è in grado di ambientare con la massima efficacia l’apporto della propria testi-monianza documentaria, descrittiva di situazioni precise e puntuali nel tempo.

L’epigrafia greca, così come quella latina, si trova in una fase di continua espansione, dal momento che nuovi documenti giungono alla luce senza in-terruzione e consentono, di conseguenza, un rinnovamento e un ampliamento delle conoscenze che non ha paragoni rispetto ad altre serie documentarie. Non solo, infatti, i rinvenimenti fortuiti e gli scavi archeologici portano alla luce og-getti iscritti, ma anche e soprattutto i lavori pubblici, condotti in aree d’interesse archeologico, hanno permesso negli ultimi anni di reperire abbondante mate-riale epigrafico. Sia sufficiente portare l’esempio dei lavori delle nuove linee della metropolitana ad Atene, ma soprattutto a Napoli: qui, in piazza Nicola Amore (Stazione Duomo), sono venuti alla luce, nell’ottobre 2004, circa mille frammenti di un catalogo agonistico relativo ai vincitori delle competizioni pa-nelleniche, denominate Italikà Rhomaía Sebastà Isolýmpia; indette ogni quattro anni in onore di Augusto, esse durarono dal 2 d.C. fino alla seconda metà del III secolo. I frammenti, in via di ricomposizione da parte degli studiosi, costi-tuiscono solo una piccola parte della documentazione esistente, che è ancora in gran parte celata sotto la città moderna: essa, tuttavia, potrà essere restituita in futuro all’attenzione della comunità scientifica, fornendo nuove informazioni su un appuntamento agonistico, che richiamava i partecipanti da tutto il bacino del Mediterraneo orientale.

1. L’ACQUISIZIONE DELL’ALFABETO

Discorrere di epigrafia greca significa innanzitutto affrontare il grande tema dell’acquisizione di un sistema scrittorio di natura alfabetica, ossia di un siste-ma in cui i singoli segni riproducano in modo stabile i singoli suoni vocalici o consonantici della catena parlata, in modo tale che a ogni fonema (l’unità fone-tica minima) corrisponda un grafema (l’unità grafica minima). È utile, infatti, soffermare la nostra attenzione su un fenomeno assolutamente rivoluzionario, a noi talmente connaturato che in qualche modo possiamo non percepire adegua-tamente la grandiosa novità che esso ha comportato; con la scrittura alfabetica furono abbandonate, infatti, le precedenti forme di scrittura, ove i segni ancora rappresentavano un oggetto o un’idea (scrittura ideografica) oppure, con un evidente ma non sufficiente sforzo di astrazione, ove i segni rappresentavano

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una combinazione dei suoni in sillabe (scrittura sillabica). La scrittura in lineare B, a noi nota dagli archivi dei palazzi micenei e riconosciuta come una forma grafica di una lingua compiutamente greca, adoperò segni in parte ancora ideo-grafici e in parte già sillabici. Tale sistema di scrittura richiedeva, com’è eviden-te, competenze specialistiche per essere utilizzata e non poteva prescindere, per la sua stessa intrinseca complessità, dall’intervento di scribi professionisti, che lavoravano al servizio del sovrano. Dopo il tramonto della civiltà micenea (XII-XI sec. a.C.) seguì un lungo periodo, che giunge ad abbracciare tutto il IX secolo a.C., che è oscuro per noi a causa della carenza d’informazioni e in ragione dell’assenza di documenti scritti. Solo nella prima metà dell’VIII secolo si palesa, infine, una grande rinascita umana e culturale, che porta con sé anche la prova della riacquisizione della scrittura: un sistema, questa volta, compiuta-mente alfabetico, agile, provvisto di un numero minimo di segni, alla portata di chiunque volesse esercitarsi nella pratica scrittoria.

La fucina dell’apprendimento va individuata nell’Egeo orientale, all’interno di gruppi umani misti, composti da Greci, in particolare provenienti dall’Eubea, e da individui orientali, quelli che la tradizione antica e le consuetudini moderne hanno concordemente definito «Fenici». Ma in tale dizione, già impiegata da Erodoto (V, 58), va identificata una galassia composita di soggetti, che abitarono la costa asiatica, dalla Siria alla Fenicia propriamente detta, e che sperimenta-rono precocemente forme originali di scrittura, con notazione grafica non solo delle consonanti ma anche già parzialmente delle vocali (ambito aramaico). Le testimonianze archeologiche relative ai Greci euboici, sia in Eubea sia nel Medi-terraneo orientale (qui rappresentate soprattutto dalla presenza di coppe, dette

skýphoi, a semicerchi pendenti, considerate a ragione come un fossile-guida

dei commerci euboici), attestano la straordinaria esplosione d’energia di cui essi si fecero espressione, quando ancora gli altri Greci si attardavano silenti, prigionieri di forme insediative statiche e portatori di espressioni culturali meno innovative.

L’acquisizione della scrittura alfabetica comportò un suo adattamento alle esigenze fonetiche dei Greci, attraverso un efficace potenziamento dei segni vocalici. Il passaggio si realizzò, come si è detto, nel Mediterraneo orientale, in uno dei tanti centri nodali del commercio tra Grecia e Asia. Qui, in Oriente, i Greci euboici appresero certamente le informazioni necessarie a navigare in Occidente, grazie a un sapere codificato che fu l’erede delle antiche esperienze transmarine dei Micenei, dei Ciprioti e dei Fenici. Ma, tra Oriente e Occiden-te, lungo una linea continua di contatti e di esperienze, osserviamo il rapido propagarsi delle informazioni e non ci sorprende la constatazione che le più

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antiche testimonianze della nuova scrittura alfabetica siano emerse, al momen-to, proprio nel Mediterraneo occidentale, nell’area nevralgica del Tirreno cen-trale. Qui i Greci euboici, partendo dal loro primo insediamento di Pitecussa (Ischia), risalente alla prima metà dell’VIII secolo a.C., diffusero il nuovo sapere scrittorio lungo vie non solo marittime, ma anche di terraferma: un’irreversibile influenza culturale fu allora generata in area laziale e nei territori dominati dagli Etruschi, ove il duttile strumento scrittorio si diffuse tra le popolazioni italiche e si adattò rapidamente a esprimere lingue differenti da quella greca. Attualmente il più antico scritto in alfabeto greco proviene dalla necropoli di Osteria del-l’Osa, nell’entroterra laziale, ed è costituito da cinque lettere, il cui significato al momento è ancora da definire in modo convincente. La cronologia, sulla base di considerazioni archeologiche di sicuro riferimento, risale al 770 a.C. [Bietti Sestieri, De Sanctis e La Regina 1989-90, 83-88].

2. TEMPI, SCOPI E MODALITÀ DELL’ISCRIZIONE EPIGRAFICA

I documenti epigrafici più antichi, fatta eccezione per l’iscrizione prove-niente da Osteria dell’Osa, sono databili a partire dalla seconda metà dell’VIII secolo a.C. e provengono da molte località del mondo greco: non solo Pitecussa (Ischia), ma anche Eretria, Atene, Rodi, Egina, Corinto, Tera (Santorini), la Beozia. La quantità di documenti epigrafici venuti alla luce aumenta progres-sivamente a partire dall’età arcaica e per tutta l’età classica, per conoscere una vera proliferazione nell’età ellenistica, con prosecuzione nel periodo dell’impe-ro dell’impe-romano. Ad Atene, che rappresenta il caso a noi meglio noto per ricchezza e varietà della documentazione, possiamo osservare che le iscrizioni pubbli-che, incise per iniziativa della città, sono note in un numero ridotto di esem-plari a partire dalla fine del VI secolo per giungere fino alla metà del V secolo a.C.; in tale frangente poi, a seguito delle riforme di Efialte, che portarono a un potenziamento delle strutture democratiche attraverso la riduzione dei poteri tradizionalmente detenuti dall’Areopago, la capacità della città di comunicare per il tramite della scrittura epigrafica aumentò progressivamente in maniera esponenziale, tanto da suggerire un rapporto diretto tra scrittura e istituzioni democratiche. L’impiego della scrittura appare pertanto indissolubilmente lega-to alla società che la esprime, rispecchiando le esigenze della committenza, che può essere privata o pubblica.

Gli scopi che condussero al primo impiego della scrittura epigrafica non furono inizialmente di natura commerciale, per quanto essa sia nata in un

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am-biente dalle forti con-notazioni mercantili. Le finalità precipue sono pertinenti sicuramente a un ambito privato, ove l’utilizzo della scrittura intende sottolineare il possesso di un oggetto, sovente attraverso l’espe-diente di rendere parlan-te l’oggetto sparlan-tesso: tra i molti esempi disponibili

ricordo l’iscrizione proveniente da Rodi, ancora databile alla fine dell’VIII seco-lo a.C., che fa affermare al vaso: «Sono la kylix di Korakos [...]» (cfr. fig. 8.1). La scrittura persegue inoltre, fin dall’inizio, obiettivi di natura cultuale, intenden-do proclamare la dedica di un oggetto votivo a una divinità e promuoverne la protezione: una statuetta bronzea molto arcaica, proveniente probabilmente da Tebe e databile tra VIII e VII secolo, reca incisa la seguente dedica: «Mantiklos mi dedicò al dio che colpisce da lontano, dall’arco d’ar-gento, come decima. Tu però, o Febo, concedi a lui una graziosa ricompensa» (cfr. fig. 8.2).

La scrittura può, infine, tramandare memoria del-l’artigiano che ha realizzato un oggetto, annotando, ad esempio, il nome dell’artista che ha plasmato un vaso e ne ha curato la decorazione pittorica: anche in questo caso, come testimonia un esempio pitecussano risalen-te all’ultimo quarto dell’VIII secolo, l’oggetto proclama in prima persona: «[...]inos mi fece» (cfr. fig. 8.3). Con grande frequenza, fin dalle prime iscrizioni arcaiche, la scrittura può assumere forme metriche (sovente esametri o distici elegiaci), attraverso cui sono veicolate espressio-ni tratte dalla dizione omerica o epica.

Inizialmente la scrittura epigrafica si adatta agli ogget-ti che cosogget-tituiscono il suo supporto scrittorio, talvolta de-turpandone la decorazione originaria; il documento iscrit-to risulta, d’altra parte, arricchiiscrit-to dal valore aggiuntivo dei segni grafici: è il caso di un piccolo arýballos proveniente da Cuma, risalente alla prima metà del VII secolo a.C.,

fig. 8.1.

Fonte: Guarducci [1987, 75-76, n. 1].

fig. 8.2.

Fonte: Guarducci [1987, 48,

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ove l’epigrafe, con direzione trasver-sale rispetto alla decorazione a cerchi concentrici, afferma imperiosamente: «Io sono la lékythos di Tataie. Chi mi ruberà, sarà cieco» [Jeffery 19902, 238, 240, n. 3]. In modo analogo, tre esame-tri d’intonazione epica corrono lungo il fianco sinistro di una statua, che fu offerta, nel santuario di Delo, da una fanciulla di Nasso alla dea Artemide (ca. metà del VII secolo a.C.); nell’oc-casione della dedica, forse coincidente con il matrimonio della giovane donna, costei enuncia

semplicemente la sua condizione giuridica di eterna mi-norenne, la cui autonomia finisce dove inizia la tutela dei membri maschi della sua famiglia: «Alla dea che colpisce da lontano e che riversa dardi mi dedicò Nikandre, figlia di Deinodikes di Nasso, eccellente tra le altre, sorella di Deinomenes, e ora (?) moglie di Phraxos» (cfr. fig. 8.4).

Solo successivamente, a partire dalla metà del VII secolo a.C., con il consolidarsi dei legami comunitari nel-l’orizzonte della pólis, la scrittura epigrafica esce dai con-fini di un uso solo privato e diventa un mezzo privilegiato di comunicazione politica. Inscindibilmente legata al suo supporto scrittorio, la scrittura epigrafica pubblica è allo-ra esposta nei luoghi di maggior frequentazione, ostenta-tamente esibita all’attenzione della popolazione, sia citta-dina sia straniera. I testi di legge, che conobbero a Creta una loro precoce codificazione, furono iscritti sulle pareti e sui gradini dei templi, come a Dreros nel santuario di Apollo Delfinio (metà circa del VII sec. a.C.) e a Gortina in quello di Apollo Pizio (seconda metà del VII secolo a.C.; Guarducci [1967-78, I, 184-188, nn. 1, 2, 4]).

Con l’avanzare dell’uso pubblico della scrittura epi-grafica, il supporto scrittorio si configura sempre più come una superficie appositamente preparata per ospita-re un testo iscritto: debitamente approntato in botteghe

fig. 8.3.

Fonte: Guarducci [1987, 433].

fig. 8.4.

Fonte: Guarducci [1987,

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lapidarie, esso sovente assume l’aspetto di una stele, ossia di un manufatto ca-ratterizzato principalmente da una superficie liscia e regolare, da uno sviluppo in altezza rispetto alla larghezza e da una conformazione adatta a essere esposta in posizione verticale; in tal modo la scrittura ufficiale della città, tracciata con lettere regolari per opera di lapicidi professionisti, aumenta efficacemente la propria capacità comunicativa.

3. GLI ALFABETI ARCAICI

Il passaggio dall’alfabeto fenicio a quello greco richiese complessi adatta-menti, che riguardarono il valore fonetico da attribuire ai segni che si voleva-no importare. Ogni lettera in fenicio ha un proprio voleva-nome e pertanto proprio attraverso il nome della lettera si stabilì il suo valore fonetico: il principio che guidò l’adattamento fu di tipo acrofonico, per cui il valore fonetico della lettera corrispose alla prima consonante o alla prima vocale del nome, con cui il se-gno fenicio era chiamato. Evidentemente tale processo consentiva una grande discrezionalità per l’ignoto o per gli ignoti adattatori: se, infatti, il nome della maggior parte delle lettere iniziava in modo non ambiguo con una consonante ben riconoscibile (ad esempio, bet, gimel, dalet, rispettivamente la seconda, la terza e la quarta lettera dell’alfabeto fenicio; cfr. fig. 8.5), altri nomi invece pote-vano suggerire indicazioni più oscillanti, come il numero otto della serie fenicia

fig. 8.5.

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(het), la cui iniziale poteva essere percepita ugualmente bene come una aspirata o come una e lunga aperta. Dopo aver operato, attraverso il principio acrofoni-co, una corrispondenza tra i segni dell’alfabeto fenicio e i fonemi della catena parlata della lingua greca, i Greci individuarono anche gli opportuni caratteri che esprimessero in modo stabile i cinque timbri vocalici e semplificarono il sistema di notazione delle sibilanti. Da ultimo furono aggiunti altri segni, che chiamiamo «complementari» e che furono inseriti alla fine della serie alfabetica, per notare graficamente le consonanti aspirate e i nessi consonantici (rispettiva-mente Φ, X, Ψ): il risultato fu un alfabeto di ventisette lettere, che comprendeva cinque caratteri in più rispetto all’originale serie fenicia di ventidue lettere.

La documentazione epigrafica in nostro possesso ci dimostra che i Greci dell’età arcaica condivisero solo in parte il valore fonetico attribuito ai segni mediati dai Fenici e pertanto attesta grandi differenze nell’uso locale delle let-tere. Se, infatti, i segni vocalici ritornano uguali in ogni località della Grecia, appoggiando la tesi di un unico e simultaneo passaggio dell’alfabeto tra i Greci, viceversa le discordanze altrimenti riscontrabili rilanciano la possibilità che tale passaggio si sia realizzato attraverso una mediazione multipla, in più località e forse non in sincronia reciproca. Nonostante tale incertezza interpretativa, per la quale non esiste una risposta univoca, le differenze nell’utilizzo fonetico di determinati caratteri (soprattutto aspirate e nessi consonantici) consentono una riflessione sugli alfabeti arcaici e sulla loro diffusione. Nel 1887 Adolph Kirchhoff (Studien zur Geschichte des griechischen Alphabets) osservò che gli alfabeti arcaici della Grecia si lasciano raggruppare in grandi famiglie, che egli rappresentò su una mappa con differenti colori: verde, rosso, azzurro scuro e azzurro chiaro. Tali alfabeti, che da allora in poi furono definiti con il colore impiegato da Kirchhoff per distinguerli, mostrano un livello progressivo di fun-zionalità e di elaborazione. Il più semplice è l’alfabeto verde, che caratterizzò le isole di Tera (Santorini), Creta e Melo e che non usa i segni complementari. Il più diffuso è l’alfabeto rosso, che contraddistingue, in prevalenza, le zone occidentali del mondo greco, ampie aree della Grecia continentale, quasi tutto il Peloponneso e, inoltre, l’Eubea e Rodi. L’alfabeto azzurro, infine, caratteriz-za piuttosto le aree orientali del mondo greco, ma si differenzia al suo interno nelle due varianti: l’azzurro scuro, che rappresenta l’alfabeto culturalmente più avanzato e che si riscontra nelle zone abitate dai Greci asiatici (e, segnatamen-te, dai Milesi) e che, inoltre, fu impiegato a Corinto, Argo e Megara; l’azzurro chiaro, che fu l’alfabeto di Atene, di Egina, di Sicione e delle Cicladi, meno ela-borato dello scuro e più ambiguo nella notazione delle vocali épsilon e ómicron. Ovviamente i confini geografici nell’utilizzo degli alfabeti arcaici non furono

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mai rigidamente invalicabili, ma si crearono sovente condizioni di osmosi e di capillarità, in cui possiamo ancora riconoscere la grande mobilità dei Greci e gli scambi culturali attivamente operanti all’interno delle comunità.

Sul lungo periodo l’alfabeto azzurro scuro fu vincente e s’impose, a partire dal IV secolo a.C., nel resto della Grecia: innanzitutto, perché la fertile terra milesia, che dette i natali a filosofi e scienziati e fu nel VI secolo il centro della cultura ionica, aveva elaborato uno strumento alfabetico più preciso ed efficace; in secondo luogo, perché Atene lo adottò nel 403/402, nell’anno dell’arcon-te Euclide, in un grande clima di rinascita, quando la città ricuperò il proprio ordinamento democratico dopo la cacciata dei Trenta Tiranni. Nel desiderio di rinnovamento, che portò al superamento delle lotte civili e a una faticosa concordia civica, anche l’acquisizione dell’alfabeto azzurro scuro fu un segno di cambiamento e di progresso. Il fascino culturale di Atene, il prestigio del suo passato, la fama delle sue scuole filosofiche e dei suoi poeti fecero il resto e portarono a diffondere, in forme progressive di comunanza alfabetica (koiné), il sistema scrittorio dei Milesi.

La storia della scrittura è anche la storia degli uomini che se ne fecero por-tatori, come risulta evidente osservando le molteplici rotte marittime che i Gre-ci batterono alla ricerca di nuove terre e di nuovi mercati. La diffusione della scrittura s’intreccia strettamente, infatti, alla storia della diaspora greca in terra coloniale, ove i migranti portarono con sé anche le loro pratiche scrittorie, che preservarono in forme simili a quelle della madrepatria. La diffusione degli alfa-beti consente, pertanto, una suggestiva mappatura in cui si riconoscono anche gli itinerari dei coloni, con poche eccezioni alla regola generale, che sono dovute alla presenza di realtà locali: ricordiamo qui solo il caso di Siracusa che, colonia di Corinto, abbandonò l’originario alfabeto azzurro scuro della madrepatria per abbracciare l’alfabeto rosso, utilizzato in forme dominanti in Magna Grecia e Sicilia.

4. DIREZIONE DELLA SCRITTURA, PALEOGRAFIA,

IMPAGINAZIONE DEL TESTO

Nelle epigrafi arcaiche la direzione di scrittura può presentarsi retrograda, cioè con un orientamento da destra a sinistra, che ricorda molto da vicino il modello fenicio, oppure può essere progressiva, cioè con un orientamento da sinistra verso destra, oppure può esibire entrambi gli orientamenti, alternati in linee successive. In quest’ultimo caso essa è detta bustrofedica, dal momento

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che richiama il movimento di un bue (boús) che, arando un campo, si volge (stréphein) in senso inverso alla fine di ciascun solco. Allo scadere dell’età arcai-ca la scrittura retrograda inizia a declinare, per scomparire poi nel corso del V secolo a.C., quando si afferma in modo irreversibile la scrittura progressiva.

L’aspetto paleografico delle lettere (cioè relativo all’evoluzione formale dei segni) variò grandemente nel lungo arco cronologico in cui si produssero do-cumenti iscritti. Nell’ambito dell’età arcaica, pur tra differenze e oscillazioni di vario genere, ricordiamo che le lettere presentano una paleografia molto ricono-scibile, con una forte accentuazione, per esempio, dei tratti orizzontali in forma obliqua (épsilon, álpha). Nel corso del V secolo, specialmente ad Atene, le lettere raggiungono poi una grande compostezza e perfezione formale, che comincia a corrompersi lievemente nel corso del IV secolo e, in modo più evidente, a partire dal III secolo, quando si osserva un graduale incurvarsi delle linee rette e un rimpicciolimento delle lettere tonde. All’incurvamento delle linee rette segue un progressivo ingrossarsi delle estremità dei tratti, che conduce in breve tempo alla moda delle lettere apicate, un fenomeno che gode di grande popolarità per tutta l’età imperiale romana. Accanto a mode più di nicchia, quali quelle delle lettere quadrate, angolate o allungate, merita uno specifico richiamo la comparsa, in età ellenistica, delle lettere lunate, che spadroneggiano per tutta l’età imperiale. Tale particolare paleografia riguarda solamente le lettere épsilon, sígma e ómega (cfr. fig. 8.6).

La paleografia delle lettere è in grado di suggerire, a un attento ed esperto osservatore, indicazioni d’ordine cronologico a un livello, tuttavia, puramente orientativo. Sarebbe sbagliato voler dedurre precisi riferimenti cronologici da una materia molto sfuggente, soggetta alle mode e soprattutto dipendente dalla personalità del lapicida.

La metodologia comparativa può, al contrario, produrre risultati affidabi-li, quando si vogliano confrontare molti documenti epigrafici con lo scopo di rintracciare e distinguere le mani dei differenti lapicidi, sulla base proprio delle loro caratteristiche paleografiche, ed eventualmente procedere poi a classifica-zioni cronologiche sulla base di qualche fortunato caso di cronologia assoluta, che si possa rendere disponibile [Tracy 1995].

Un’iscrizione, soprattutto se affidata a lapicidi professionisti, può presenta-re forme evidenti d’impaginazione del testo. La pratica s’impone, in particolar modo, quando l’epigrafe corra su una superficie circolare, ove la successione delle lettere deve iniziare e terminare necessariamente nel punto richiesto dalla conformazione del supporto. Ricordiamo, per esempio, la più antica iscrizione greca di prossenia (un individuo, residente nella propria città, era nominato

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fig. 8.6.

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fig. 8.7.

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«prosseno» da un’altra comunità, affinché si prendesse cura, nella propria città di residenza, dei cittadini e degli interessi della comunità emanante la prosse-nia). Si tratta del decreto deliberato, probabilmente nella prima metà del VI secolo a.C., dalla città di Corcira (Corfù) per Menekrates di Oiantheia, cittadino della Locride, che, nell’espletamento del proprio ruolo, morì per un naufragio. L’iscrizione corre sulla superficie circolare di un cenotafio, perfettamente co-perta dai caratteri alfabetici, senza accavallamenti di lettere e senza spazi anepi-grafi, e il suo inizio è segnato da una losanga che vuole aiutare intenzionalmente il lettore a riconoscere il punto d’avvio del testo. Esso così suona: «Questo è il monumento di Menekrates, figlio di Tlasiavos, di Oaintheia d’origine; questo monumento a lui erigeva il dámos. Egli era infatti un prosseno caro al dámos; ma sul mare [...] perì, sciagura del dámos [...]. Praximenes, giunto dalla terra patria, a lui consanguineo, erigeva questo segnacolo insieme al dámos» [Guarducci 1987, 389-391, n. 1].

Ad Atene poi, nel corso dell’età classica, fu portato a grande perfezione for-male un metodo caratteristico di impaginazione del testo, detto «stoichedico»; la definizione è descrittiva dell’aspetto finale assunto dall’iscrizione, che si pre-senta come una scrittura continua allineata secondo linee (stoíchoi), sia verticali sia orizzontali (cfr. fig. 8.7). In sostanza ogni linea presenta un uguale numero di lettere e ciascuna di queste appare iscritta nella cella di una scacchiera, in modo tale che ogni lettera di ciascuna linea sia disposta sulla verticale rispetto alla cor-rispondente lettera della linea successiva. La preparazione della griglia di base talvolta si conserva sulla superficie scrittoria e consente di riconoscere modalità diverse nell’approntamento dell’impianto stoichedico.

5. TECNICHE DI RICOSTRUZIONE DEL TESTO

E D’INTEGRAZIONE

La prima difficoltà che incontra uno studioso che voglia accostarsi a un documento epigrafico è quella, ovviamente, della lettura del testo. Sarebbe utile conoscere sempre il luogo di provenienza dell’iscrizione, in modo tale da essere informati sulle caratteristiche alfabetiche potenzialmente impiegate nel docu-mento (soprattutto se ci troviamo di fronte a un docudocu-mento arcaico) e, in ogni caso, in modo tale da prepararsi alla presenza di eventuali variazioni dialettali o lettere caratteristiche. Ciascuna area del mondo greco risentì, infatti, di si-stemi linguistici suoi propri, validi all’interno di un ambito geografico limitato (dialetti), e conobbe anche l’uso di lettere dalla paleografia caratteristica, che

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talvolta contraddistinsero singole città. È il caso di Corinto e delle sue colonie, che utilizzarono lo speciale béta «a meandro», è il caso, soprattutto, del lámbda «calcidese», che presenta l’angolo in basso, il quale passò alle colonie euboiche (in Occidente dette origine poi alla corrispondente lettera latina) e influenzò per osmosi anche le comunità confinanti, a largo raggio, nella Grecia continentale.

Lo studioso che abbia pratica di lettura di testi epigrafici sa, tuttavia, che la vera difficoltà è legata allo stato di conservazione del documento, la cui superfi-cie scrittoria è frequentemente abrasa o consunta o offesa, in molti modi, dallo scorrere del tempo e degli eventi umani. Nella maggior parte dei casi, inoltre, il documento è frammentario, per cui solo una parte, più o meno ridotta, del-l’originaria iscrizione può essere leggibile. Partendo, dunque, dalle lettere o dalle linee visibili l’epigrafista deve tentare di ricostruire la parte mancante. La via obbligata è quella di ricorrere alla formularità della scrittura epigrafica, che consente di proporre un completamento del testo mancante, basandosi sulla conoscenza delle formule presumibilmente impiegate nel contesto in esame. Ovviamente il testo mancante, che avremo ipotizzato, deve avere un suo rigo-roso allineamento con le linee, precedenti o successive, che siano al momento ancora leggibili sulla pietra. Nel caso di un testo stoichedico, l’epigrafista avrà un valido sussidio nel suo lavoro d’integrazione proprio dalla griglia usata per l’impaginazione; questa, infatti, prevede un numero sempre uguale di lettere per linea e, qualora si conosca l’ampiezza dello stoichedón, perché conservata in una porzione interamente leggibile di testo oppure perché altrimenti ricavabile, la lacuna andrà riempita con il numero esatto di lettere mancanti. Per dimostrare, tuttavia, che la matematica non è sempre applicabile, da sola, al campo della storia antica, l’epigrafista sa che la fantasia è sempre in agguato e deve mettere in conto le variabili, come l’accavallamento di due lettere in un solo spazio oppure di tre lettere in due spazi. Al giovane studioso deve pertanto giungere un preciso messaggio: rigore e fantasia.

6. CONSIDERAZIONI CRONOLOGICHE

La seconda difficoltà che un epigrafista si trova a dover affrontare riguarda la valutazione cronologica del documento. Ancora una volta risulta di grande aiuto conoscere il contesto esatto di rinvenimento, per poter acquisire indicazio-ni archeologiche datanti (in termiindicazio-ni di cronologia assoluta oppure di cronologia relativa), sia che l’oggetto si trovi in giacitura primaria sia che emerga in condi-zioni di reimpiego. In secondo luogo anche l’osservazione del documento può

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suggerire valide indicazioni preliminari (paleografia [ma vedi supra], dimensio-ni della griglia stoichedica, eventuale decorazione iconografica). La lettura del testo può, infine, offrire le indicazioni definitive, qualora contenga la segnala-zione di un magistrato eponimo, come l’arconte ad Atene; tale riferimento può infatti acquistare un valore di datazione assoluta, dal momento che disponiamo, per evidenza esterna, di un elenco di tali magistrati ordinato cronologicamente. Conosciamo molti altri magistrati eponimi nel mondo greco, quali per esempio i sacerdoti del santuario di Atena Lindia a Lindos oppure i damiourgoí a Kamiros (Rodi), di cui si conservano anche cataloghi epigrafici.

La citazione, inoltre, di un individuo nel documento epigrafico può con-sentire confronti prosopografici (cioè in relazione ai personaggi) in altre fon-ti esterne e può pertanto permettere sviluppi all’indagine. In ambito ateniese l’onomastica di un cittadino prevedeva che il nome individuale fosse seguito dal patronimico e dal demotico (l’indicazione, cioè, della circoscrizione terri-toriale, di norma ereditaria, in cui ogni cittadino era registrato). L’abbinamento di questi tre elementi rende sicuramente riconoscibile un individuo e permette di ricercarne eventualmente le tracce in altre fonti antiche. La tradizione tutta greca, infine, di imporre lo stesso nome individuale a personaggi appartenenti a generazioni alterne (nonno e nipote) consente di collegare tra loro soggetti che, anche distanti nel tempo, condividano nome, patronimico e demotico, creando così alberi genealogici di profondità diacronica.

In un documento epigrafico, infine, il riferimento a un avvenimento storico o a un personaggio datante può costituire un sicuro termine post quem. Ricordo un esempio di epistola ufficiale che Dario I, re di Persia (522-486 a.C.), indi-rizzò a Gadatas, satrapo della Lidia. Il documento, rinvenuto in Asia Minore, costituisce una copia tarda dell’originale che, inizialmente redatto in lingua per-siana, fu tradotto in greco per essere recepito e diffuso tra la popolazione locale ellenica. La cronologia è evidentemente stabilita dal riferimento a Dario, che si definisce «figlio di Istaspe, re dei re», il quale severamente redarguisce il suo «servo Gadatas» per non aver obbedito ai suoi ordini, pretendendo un tributo dagli agricoltori sacri di Apollo e costringendoli a lavorare una terra profana. Lo scrupolo religioso del re e la sua indignazione non sono attenuati neppure dalla consapevolezza che il satrapo abbia coltivato con profitto la terra e sperimenta-to con successo il trapiansperimenta-to di alberi da frutsperimenta-to [Guarducci 1987, 104-106].

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7. CAPACITÀ DOCUMENTARIA DELLA SCRITTURA EPIGRAFICA

La scrittura epigrafica fu impiegata in documenti d’ambito privato e pub-blico, interessando tutti gli aspetti della vita individuale e collettiva, ivi compre-so lo spazio del sacro e del rapporto con la divinità. La scrittura epigrafica è per-tanto connessa all’intero campo dell’esperienza umana e sfugge a ogni tentativo di classificazione che abbia ambizioni di sistematicità. Per lo stesso motivo essa possiede una capacità documentaria ad ampio spettro di cui suggeriamo, qui di seguito, solo qualche esempio.

Le iscrizioni possono testimoniare in molti modi le occasioni in cui i Greci entrarono in contatto con le popolazione non greche, lungo un ampio arco cro-nologico. Ricordo una tavoletta in avorio, proveniente dalla necropoli etrusca di Marsiliana d’Albegna (Grosseto), databile alla prima metà del VII secolo a.C (cfr. fig. 8.8). L’oggetto, opportunamente spalmato di cera, era finalizzato al-l’apprendimento della scrittura alfabetica: sul bordo superiore rialzato, infatti, è conservata una sequenza alfabetica, scritta con direzione retrograda, che com-prende ventisei lettere. Tale serie ci testimonia l’antichità dell’alfabeto, fortemen-te conservatore, dal momento che sono notafortemen-te tutfortemen-te le letfortemen-tere fenicie, anche quel-le non usate e dunque considerate morte, e inoltre quattro segni suppquel-lementari, introdotti dai Greci. L’oggetto, dunque, testimonia un sapere molto prossimo al momento dell’acquisizione dell’alfabeto dai Fenici, ma

contemporaneamen-fig. 8.8.

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te denuncia anche, attraverso la paleografia delle lettere (lámbda calcidese e my a cinque tratti), che il sistema scrittorio giunse tra gli Etruschi direttamente da-gli Euboici stanziati tra Pitecus-sa e Cuma.

Al medesimo milieu etrusco, ma d’ambito campano, riporta l’iscrizione conservata sul fondo di una coppa (kýlix) attica fram-mentaria, ma impreziosita dalla scrittura epigrafica, che si è pre-servata integralmente. L’oggetto, che fu originariamente inciso in un ambiente simposiastico gre-co, fece poi parte del corredo di una tomba etrusca a

Pontecagna-no, da cui proviene (520-510 a.C.). Il testo, impaginato correttamente sul fondo circolare e tracciato in alfabeto rosso acheo (rapportabile a Poseidonia, colonia di Sibari), afferma in prima persona: «Io sono di Parmenon e di Strinpon. Nessuno mi rubi» (cfr. fig. 8.9).

Da ultimo, segnalo che furono soprattutto i documenti bilingui o trilingui a documentare forme operanti di sincretismo culturale e a testimoniare la coa-bitazione di individui, che furono culturalmente ed etnicamente eterogenei. Un’iscrizione corre sopra un plinto quadrato di una base bronzea, proveniente da un centro cultuale posto a circa 50 km a nord-est di Cagliari (Pauli Gerrei, successivamente S. Nicolò Gerrei). Il testo, composto da cinque linee di scrit-tura, presenta in successione la lingua latina, quella greca e, infine, quella puni-ca, con cui il dedicante offriva al dio guaritore Aescolapius-Asklepios-Eshmun un’importante offerta votiva (cfr. fig. 8.10; Culasso Gastaldi [2000]; Pennac-chietti [2002]). L’iscrizione, databile all’interno del I secolo a.C., ci trasmette molte informazioni sulle condizioni politiche dominanti, sullo stato sociale del dedicante e sulle componenti culturali operanti all’interno del santuario. Leg-giamo infatti:

Cleone, schiavo degli appaltatori delle saline, ad Asclepio Merre offrì in dono volentieri, a buon diritto, meritatamente [lingua latina].

fig. 8.9.

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A Escolapio Merre, come offerta votiva rizzò questa base Cleone, colui che è preposto alle saline, secondo l’ordine del dio [lingua greca]. Al signore Eshmun Merre. Cippo di bronzo del peso di libbre cento che ha dedicato Cleone, quello dei concessionari che (operano) nelle saline. Ha ascoltato la sua voce, lo ha guarito. Nell’anno dei suffeti Himilkot e Abdeshmun figlio (figli) di HMLN [lingua punica].

Attraverso la versione trilingue del testo, in un crescendo di informazio-ni, apprendiamo la composizione articolata e plurietnica dell’insediamento umano nell’area di Cagliari: la lingua latina denuncia la presenza di Roma e la condizione servile del dedicante, il testo greco e l’idionimo Cleone testimo-niano la sua origine etnica, il testo punico infine, che appare il più completo, è imposto dalla matrice culturale del mondo fenicio, che continua a prevale-re nell’aprevale-rea cagliaritana ancora in un momento di avanzata romanizzazione. Per tornare a un campo d’osservazione ateniese, possiamo constatare come le consuetudini funerarie mutino profondamente dall’età arcaica al V secolo e poi ancora al IV secolo a.C., con progressive oscillazioni tra la sfera del privato e quella del pubblico. Nell’età arcaica, dominata dalla competizione tra le grandi aristocrazie, in lotta per la spartizione del potere e minacciate dall’emergere del potere dei tiranni, la ritualità funeraria costituisce un momento importante di autovalutazione e di rappresentazione del potere della famiglia. Tale è il

messag-fig. 8.10.

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gio affidato alle statue funerarie, che recano sovente, sulla base, il loro appello, scandito dalla sequenza metrica. Per esempio ricordiamo: «Fermati e prova pietà presso il tumulo di Kroisos, morto, il quale un tempo, combattendo nelle prime file, fu travolto dalla furia di Ares» (IG, I3, 1240).

L’esaltazione del singolo combattente, caduto in circostanze ignote del-l’agone aristocratico, lascia il posto, nell’età periclea, al funerale collettivo che viene celebrato dalla pólis nella necropoli di stato del Ceramico (Demósion

Séma): le ceneri dei combattenti morti al servizio della città sono trasportate

nelle dieci bare di cipresso assegnate a ciascuna tribù, seguite dall’undicesima cassa, destinata simbolicamente a ricordare i dispersi in guerra. Le indimen-ticabili pagine scritte da Tucidide e il discorso messo in bocca a Pericle per commemorare i morti del primo anno del conflitto peloponnesiaco (inverno 431-430 a.C.; Thuc., II, 34 ss.) accompagnano e illuminano la nostra lettura delle iscrizioni pubbliche erette sul luogo della sepoltura. «Degli Ateniesi co-storo morirono nel Chersoneso... Degli Ateniesi coco-storo morirono a Bisanzio... Costoro morirono nelle altre guerre...» (IG, I3, 1162, 1-3, 49-51, 41-42). Segue un elenco di nomi, di semplici nomi non accompagnati né da patronimico, né da demotico, come prova la loro disposizione in colonne ordinate sotto ciascu-na tribù di appartenenza. I magistrati militari precedono, poi seguono i citta-dini, infine quanti, a vario titolo, abbiano combattuto con la città anche senza esserne membri di pieno diritto. Il legame con la tradizione passata, di esaltare con distici elegiaci il valore del singolo combattente, sopravvive nell’iscrizione metrica che ricorda in modo collettivo tutti i caduti: «Costoro presso l’Elle-sponto persero combattendo la splendente giovinezza, ma glorificarono la loro patria, in modo tale che i nemici gemettero, riportando la messe di guerra. A se stessi innalzarono un monumento immortale di valore» (IG, I3, 1162, 45-8). La fama imperitura è scambiata con le ceneri dei caduti, secondo la testimonianza che fu già dell’Agamennone di Eschilo (vv. 433-436: «Ricordiamo i visi di colo-ro che abbiamo visto partire, ma in cambio di uomini vivi, solo urne e cenere ritornano alle case»).

Con la fine dell’età periclea e con l’indebolirsi dell’ideologia della pólis descritta da Tucidide, ancora leggiamo dediche collettive della città per i suoi morti, ordinati tribù per tribù (394 a.C.): «Degli Ateniesi costoro morirono a Corinto e in Beozia» (IG, II2, 5221; cfr. 5222); ma, nella stessa occasione bellica della guerra di Corinto (395 a.C.), i parenti di Dexileos, caduto all’età di venti anni, vollero erigere un loro monumento funebre, ospitato nel Ceramico; sotto l’iconografia di un cavaliere vittorioso sul nemico, l’iscrizione si riappropria di una sua dimensione privata e famigliare: «Dexileos, figlio di Lysanias, di

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Tho-rikos, nacque sotto l’arconte Teisandros, morì sotto Eubulides, a Corinto, uno dei cinque cavalieri» (IG, II2, 6217).

Lasciando da parte la grande epigrafia monumentale, anche i documenti apparentemente più umili ci descrivono l’uomo greco e il suo mondo. Ricordo i cippi (hóroi) che erano infissi sul terreno e che, con caratteri trascurati su una superficie rozza, ricordavano che una proprietà era gravata da un prestito, af-finché la terra o la casa servissero da garanzia per la restituzione della somma al creditore. In tale documentazione si affollano nomi, cifre, transazioni di vario genere che ci confermano la complessità delle operazioni finanziarie, di cui be-neficiavano le grandi famiglie, per soddisfare scopi di rappresentanza, ma anche individui di più modesto livello sociale, tramite operazioni di microcredito.

Anche i cocci di ostracismo, che recano un semplice nome su un supporto scrittorio di fortuna, possiedono una grande potenzialità documentaria. La loro caratteristica di costituire un dato seriale (si conoscono ad Atene più di diecimi-la óstraka) consente preziose osservazioni: innanzitutto sull’uso deldiecimi-la lingua; in secondo luogo sull’identità dei protagonisti dell’agone politico, quelli, cioè, che furono maggiormente votati dall’assemblea, in una gara di popolarità al con-trario (i «vincitori» lasciavano Atene); consente, infine, un’analisi paleografica delle mani di coloro che iscrissero i nomi dei candidati all’ostracismo, rivelando forme diffuse di precostituzione del voto ad opera di gruppi di sostenitori po-litici.

8. LA STELE: INSCINDIBILITÀ DI SCRITTURA E SUPPORTO

SCRITTORIO

Abbiamo già fatto riferimento alla stele come supporto scrittorio per ec-cellenza, delegato a trasmettere la comunicazione ufficiale della pólis proprio per le sue caratteristiche fisiche; la sua superficie ampia e lisciata ad opera dei lapicidi, la conformazione adatta all’infissione nel terreno, la coniugazione con una scrittura ordinata e chiaramente impaginata, la presenza (soprattutto per Atene) di una preparazione stoichedica del testo costituiscono le caratteristiche più adatte ad assicurare la leggibilità dell’iscrizione. La pratica, poi, di premet-tere, in testa alla stele, una o più linee tracciate a caratteri più grandi e con spazi maggiormente allargati, è pensata per catturare maggiormente l’attenzione del viandante e per comunicargli i contenuti essenziali del messaggio: frequente-mente, infatti, troviamo espressa nelle linee iniziali una specie di intitolazione, contenente gli elementi cronologici essenziali o il contenuto stesso del testo che

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segue sulla pietra. Il nostro anonimo viandante, abituato ad Atene a una demo-crazia diretta e naturalmente interessato alla conduzione della pratica politica, è l’individuo cui è rivolta la scrittura epigrafica, esposta proprio «per essere vista da colui che lo voglia» (skopeín tò bouloméno ctrl). «Colui che vuole» è natural-mente da intendersi come colui che vuole partecipare ed essere una parte attiva del tutto. Costui, che interpreta l’essenza della democrazia attraverso la volontà e la partecipazione politica, troverà nella stele ogni informazione necessaria. Sull’acropoli, nella piazza del mercato, presso i maggiori santuari cittadini ed extraurbani, nei grandi centri di culto panellenico, il cittadino greco può repe-rire un grande archivio all’aria aperta, all’interno del quale egli potrà orientarsi leggendo, forse con qualche fatica, i titoli principali e poi sopperendo con la memoria individuale e collettiva dei fatti avvenuti: di questi la stele continua a rappresentare il «segno», cioè la personificazione stessa, affidata a un mate-riale non deteriorabile che vuole durare per sempre, esattamente come vuole essere imperitura la deliberazione politica che ha condotto all’approvazione del provvedimento. In altre parole, possiamo affermare che la stele rappresenta la trasposizione su pietra della volontà politica emanante e incarna non solo la delibera stessa, ma anche l’autorità dell’organismo responsabile dell’approva-zione e della successiva iscridell’approva-zione. Tale proprietà transitiva, operante tra au-torità politica, testo iscritto e stele, giustifica molti procedimenti che nel corso del tempo possono interessare la stele: si tratta d’interventi di correzione o di ammodernamento, senza finalità politiche, oppure anche di attualizzazioni, for-temente connotate politicamente e finalizzate a imporre i quadri di riferimento del presente. Il testo iscritto, infatti, è talvolta corretto oppure eraso oppure ancora abbattuto, con provvedimenti graduali o totali di damnatio memoriae. Nell’Atene classica, ove le istituzioni democratiche godono di lunga stabilità, interrotta solo per brevi intervalli dalla tirannide dei Trenta e dall’oligarchia di Antipatro, conosciamo processi molto significativi: i documenti della zia sono infatti abbattuti nel cambio di regime e, con il ritorno della democra-zia, sono successivamente ripristinati, per affermare con forza la restituzione delle condizioni politiche precedenti, di cui il documento lapideo rappresenta la certezza monumentale. L’espressione «abbattere la stele», così come la sua omologa e corrispondente «riscrivere la stele abbattuta», poggia su un medesi-mo assunto: la stele non ricorda un’azione politica, ma è l’azione politica stessa. Tale identificazione si coglie molto bene nel mondo greco, con un raggio d’applicazione anche al di fuori del caso ateniese. Creta, ad esempio, già nota dall’età omerica come l’isola «dalle cento città» (Il., II, 649) e continuamente afflitta da discordie e lotte intestine, seppe anche giungere a processi

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federa-tivi sotto la stretta di avvenimenti esterni o sotto la pressione esercitata dalle due principali città, Gortina e Cnosso. Alleati, dunque, per necessità e non per vocazione, i Cretesi svilupparono un linguaggio diplomatico ove l’espressio-ne «rimal’espressio-nere fedeli alla stele», l’espressio-nel senso di «rimal’espressio-nere fedeli al trattato», pare costituire una particolarità del formulario isolano. La fedeltà, cioè, alla stele, propiziata da rituali letture della medesima, da compiersi ogni anno alla pre-senza degli ambasciatori delle città interessate e al cospetto degli efebi (i giovani maschi che si preparavano a divenire cittadini di pieno diritto), era proclamata solennemente: lo scopo fu quello di ripetere, per autoconvincimento, la volontà di adempiere ai patti che nella stele erano materializzati e per allontanare, se si vuole, lo spettro della violazione del trattato, che era pratica ricorrente a Creta.

9. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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