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eBook per la Scuola | Martino Menghi, Marina Marsilio | L'attività culturale in Roma antica 3 Dall'età di Traiano alla fine del mondo antico | Principato

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L’attività culturale

in Roma antica

Storia e testi

3

Dall’età di Traiano alla fine

del mondo antico

Martino Menghi

Marina Marsilio

Principato

L

i

M

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Dall’età di Traiano alla fine del mondo antico

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L’attività culturale

in Roma antica

Storia e testi

Dall’età di Traiano

alla fine del mondo antico

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Direzione editoriale: Franco Menin Redazione: Silvana Mambretti

Progetto grafico: Giuseppina Vailati Canta

Il progetto e la revisione generale dell’opera sono di Martino Menghi.

Sono opera di Martino Menghi: L’età di Traiano e degli Antonini (Quadro storico e Tema 1, 3-4; Tacito; Giovenale). Dai Severi ai Tetrarchi (Quadro storico; Lette-ratura cristiana del II-IIIsecolo: gli scrittori in lingua greca; Letteratura cristiana del II-IIIsecolo: gli scrittori in lingua latina, ad eccezione di Arnobio e Lattanzio). Verso la fine del mondo antico (Quadro storico; Tema 7-9; L’attività letteraria; Agostino). Verso il Medioevo.

Sono opera di Marina Marsilio: L’età di Traiano e degli Antonini (Tema 2; L’atti-vità letteraria; Plinio il Giovane; I poetae novelli e Floro; La seconda sofistica; Sve-tonio; Frontone, Aulo Gellio, Apuleio, Gaio e il diritto). Dai Severi ai Tetrarchi (Tema 5-6; L’attività letteraria; Letteratura cristiana del II-IIIsecolo: gli scrittori in lingua latina: Arnobio e Lattanzio; Gli orientamenti della poesia e della prosa pa-gane nel IIIsecolo). Verso la fine del mondo antico (Ambrogio; Girolamo; Altri autori cristiani; Le ultime voci della cultura pagana).

Le sezioni dei testi latini commentati sono a cura di Sergio Pennacchietti (Tertul-liano) e di Franco Sanna (Tacito, Giovenale, Agostino).

ISBN 88-416-2174-5 Prima edizione: marzo 2003

Ristampe

20011 2010 2009 2008 VII VI V IV III

Printed in Italy

© 2003 - Proprietà letteraria riservata. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun vo-lume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68 comma 4 della legge 22 apri-le 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, AIE, SNS e CNA, CONFARTIGIA-NATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni ad uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pa-gine non superiore al 15% di ciascun volume, solo a seguito di specifica autorizzazione rila-sciata da AIDRO, via delle Erbe 2, 20121 Milano, fax 02809506, e-mail [email protected]. Casa Editrice G. Principato S.p.A. http://www.principato.it Via G.B. Fauché 10 - 20154 Milano e-mail: [email protected]

Fotocomposizione: News - Milano

Stampa: Arti Grafiche Battaia - Zibido S. Giacomo - Milano

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L’età di Traiano

e degli Antonini

Il suicidio dei Daci. Rilievo della Colonna Traiana (part.).

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Il breve principato di Cocceio Nerva (96-98 d.C.) aveva aperto una fase di concordia e collaborazione tra il senato e il governo imperiale destinata a durare per quasi un secolo. Rispettando il principio della successione adotti-va, in pieno accordo con il senato, Nerva designò al soglio imperiale un va-lente generale di origine spagnola: Traiano. D’ora in poi gli Spagnoli, cui Ve-spasiano aveva concesso la cittadinanza, svolgeranno un ruolo di grande im-portanza nelle vicende dell’impero.

Traiano nel suo lungo regno (98-117) si pose due grandi obiettivi. All’in-terno della penisola diede un nuovo impulso all’agricoltura, risanando e ri-popolando le campagne italiche. All’esterno si impegnò in nuove conquiste territoriali, essenziali per l’acquisizione di nuove ricchezze e per l’approvvi-gionamento di schiavi.

Il problema delle campagne italiche, sempre meno produttive e sempre più spopolate, si era progressivamente aggravato nel Isecolo. Le plebi

roma-ne da tempo inurbate (già i Gracchi, a metà del IIsec. a.C., avevano

cerca-to di contrastare quescerca-to fenomeno con le loro riforme agrarie), avevano ab-bandonato le campagne e vivevano dei donativa in alimenti e in denaro che il senato e la corte erano disposti a concedere attingendoli dai tributi che confluivano dalle province. Ma questa situazione, accentuandosi nel tempo, aveva prodotto effetti preoccupanti: da un lato la progressiva dipendenza tri-butaria dell’Italia dalle ricchezze delle province con il conseguente pericolo di rivolte da parte dei provinciali, dall’altro l’impossibilità di reclutare legio-nari in Italia (le plebi inurbate non erano certo un serbatoio di reclutamen-to paragonabile a quelle contadine di arcaica memoria!). E quest’ultimo fat-to implicava un’altra pericolosa dipendenza dalle province. Per ovviare a questi gravi inconvenienti Traiano fondò le institutiones alimentariae, un si-stema di prestiti a basso interesse con cui si intendeva ripopolare le campa-gne e incrementare il tasso di natalità in Italia. Ed erano gli stessi interessi versati, in aggiunta al capitale, a finanziare questi fondi.

L’altro obiettivo fu, come si accennava, la ripresa delle conquiste, la fon-te di ricchezza tradizionale per finanziare le spese sociali e militari, ed i costi del grande apparato statale e burocratico. Traiano portò a termine tra il 101 e il 106 la conquista della Dacia, regione ricca di metalli preziosi che corri-sponde all’odierna Romania. Ad Oriente il principe riprese l’offensiva con-tro i Parti, riuscendo a trasformare in provincia romana il regno d’Armenia (114), spesso sottoposto all’influenza partica. L’intenzione era di occupare la Mesopotamia, ma una sollevazione degli Ebrei, forse sostenuta dai Parti, im-pedì a Traiano di portare a termine quella conquista. Così, l’ultimo periodo del suo regno fu impegnato nella repressione di quella rivolta: essa segna una definitivia rottura fra gli ebrei e i cristiani che dopo la predicazione di Paolo

L’età di Traiano

e degli Antonini

Quadro storico

Traiano La sua politica agraria La sua politica estera

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di Tarso – aperta, colta e innovativa – non auspicavano più, in generale, una frattura con l’impero.

A Traiano, morto nel 117, successe un altro spagnolo, Adriano, che re-gnerà fino al 138. Come vedremo più approfonditamente nelle pagine espres-samente dedicate a questo imperatore, il suo regno fu essenzialmente pacifi-co. Adriano rinunciò infatti a proseguire le conquiste e si limitò a consoli-darle. Lasciò al loro destino i territori oltre la linea dell’Eufrate, portò a com-pimento la costruzione del limes in Dacia, e edificò il famoso Vallo che da lui prese il nome nel nord della Britannia per separare i territori definitivamen-te romanizzati da quelli ancora “barbarici” della Caledonia. Tuttavia dovet-te indovet-tervenire nell’ultima grande rivolta degli Ebrei, scoppiata in Palestina nel 132. Si trattò di una rivolta sia contro i Romani sia contro i cristiani, nei quali gli ebrei vedevano ormai dei traditori che avevano rinunciato alla lot-ta contro il comune oppressore. Fu l’ultimo tenlot-tativo degli ebrei di ricon-quistare l’indipendenza e il proprio territorio in Palestina. D’ora in poi essi conosceranno per quasi due millenni la diàspora, cioè quella “dispersione” iniziata storicamente nel periodo in cui il re di Babilonia Nabucodonosor aveva deportato gli abitanti di Gerusalemme.

In politica interna Adriano si adoperò a creare un clima di concordia col senato e con l’esercito, con i pretoriani e le legioni stanziate lungo i confini. Egli inaugura la figura, di matrice stoica, del sovrano inteso come primo ser-vitore dello Stato. Suo obiettivo primario furono la pace, la giustizia e il be-nessere dei suoi sudditi. Viaggiò molto, non solo per dotare le città imperia-li di opere pubbimperia-liche che segnassero la loro appartenenza a un unico consor-zio, ma anche per controllare le difese dei confini. L’idea che ispira il suo principato fu, come vedremo meglio, quella di contrapporre la civiltà impe-riale greco-romana al variegato mondo dei barbari.

Gli successe Antonino, detto Pio, per la sua religiosa osservanza delle li-nee tracciate dal suo predecessore, e soprattutto della concordia con il sena-to. Anche il suo principato fu lungo (138-161) e pacifico.

L’età di Traiano e degli Antonini

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Adriano

La pax adrianea

Antonino Pio Resti della fortez-za di Vercovicium (od. Housesteads) lungo il Vallo di Adriano.

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Assai più tormentato fu invece il regno del suo successore, Marco Aure-lio (161-180), per problemi finanziari interni, per l’infuriare di una terribile peste, e infine per le continue sollecitazioni ai confini più caldi dell’impero. Come Adriano e Antonino Pio, anch’egli rivestì in pieno il ruolo di primo servitore dello Stato. E di un gravoso servizio, reso in nome della pace e del-la prosperità dei suoi sudditi, egli ci pardel-la neldel-la sua opera nutrita di stoicismo, i Ricordi, scritta in greco. Nonostante i continui impegni assunti a difesa del-le frontiere, amò circondarsi della compagnia di filosofi e scienziati. Fu ami-co del grande mediami-co e filosofo Galeno, e ami-continuò a sostenere quel meravi-glioso centro di ricerca che era il Museo di Alessandria, dove proprio in quel periodo operava, tra gli altri, il grande astronomo, matematico e geografo Claudio Tolomeo. Nella sua descrizione dell’universo civile, costui include-va per la prima volta i grandi spazi dell’Oriente indiano e cinese, con cui Marco Aurelio aveva stabilito rapporti commerciali più stretti, grazie anche alla recente scoperta di rotte marine (dal Mar Rosso all’Oceano Indiano, fi-no all’odierna Indocina) che permettevafi-no di evitare l’ostacolo dei Parti.

Fu un viaggiatore instancabile, soprattutto per accorrere ai confini in pe-ricolo. Attraverso Lucio Vero, suo co-reggente, mosse un’offensiva contro i Parti, il cui potente Stato militare era giudicato troppo pericoloso, posto com’era ai confini sud-orientali romani. Non solo, ma Roma aveva sempre più bisogno, per finanziare se stessa, delle favolose ricchezze già appartenute ai Persiani, ad Alessandro, e infine ai Seleucidi, custodite in quelle regioni: così, tra il 161 e il 164, riuscì a fare della Mesopotamia partica un paese tri-butario dell’impero. Ma si trattò di un fragile successo, perché una terribile peste che era dilagata in Oriente colpì anche le truppe romane che contri-buirono a diffonderla in Occidente; né, inevitabilmente, si riuscì a indivi-duare alcun rimedio efficace. Galeno stesso si preoccupò di evitare il conta-gio più che di combatterlo. La conseguenza fu che in due decenni metà del-la popodel-lazione imperiale cadde vittima di questo fdel-lagello. Seguì una grande carestia, aggravata da un’acuta crisi finanziaria, dovuta agli spaventosi costi della macchina imperiale.

Gli ultimi anni del regno di Marco Aurelio sono segnati da emergenze ai confini. Nel 168 è la volta dei Quadi e dei Marcomanni che sfondano il

li-mes danubiano e scendono fino nel nord d’Italia. Fermati quei barbari, si

sol-levano le legioni in Asia (176): appena domata la rivolta, il principe deve accorrere di nuovo sul Danubio per sottomettere definitivamente i Marco-manni. Mentre consegue discreti successi a Vindobona, muore, probabil-mente di peste, nel 180. Già tre anni prima Marco Aurelio si era affiancato come co-reggente il figlio Commodo, rompendo di fatto il principio della successione adottiva. Costui, poco più che diciannovenne al momento del-la morte del padre, dopo aver concluso una pace con i Marcomanni e i Qua-di (un accordo Qua-di mutua protezione, con cui costoro Qua-diventavano in via de-finitiva dei clienti dell’impero di fronte alla spinta sempre più pressante di altre popolazioni barbariche), si ritirò nella capitale. A Roma Commodo si preoccupò di compiacere la plebe con una forsennata politica di donativa, tra cui l’istituzione di spettacoli sempre più frequenti per assicurarsene il favore. Si distanziò decisamente dal senato adottando la figura del monarca assolu-to e dispotico. Circondaassolu-to da collaboraassolu-tori di infimo ordine, fu il bersaglio di continue congiure, fino ad essere avvelenato nel 192, forse con l’aiuto di sua moglie Marcia.

Marco Aurelio, l’imperatore filosofo

Il “tiranno” Commodo

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Tema 1

Adriano e Marco Aurelio, due imperatori viaggiatori

Le figure di Adriano (117-138) e di Marco Aurelio (161-180) non com-petono solo alla storia politica dell’impero, ma segnano profondamente, co-me abbiamo detto, anche la cultura del IIsecolo d.C.

I due imperatori sono accomunati in primo luogo dall’adesione alla fi-losofia stoica che impronta di sé non solo la loro attività di governo, ma anche i loro interessi culturali; in secondo luogo sono due sovrani “viag-giatori”, ossia continuamente presenti nelle più diverse parti di un impero che con Traiano aveva raggiunto la sua massima espansione. Pur trattan-done separatamente la figura, cercheremo qui di illustrare le loro affinità e il loro ruolo nella cultura e nella civiltà greco-romana. Con essi, del resto (ma già con Traiano) la fusione tra la cultura ellenistica e quella romana si completa.

Adriano

Adriano nacque ad Italica in Spagna nel 76, da una famiglia dell’aristo-crazia provinciale imparentata con Traiano. Questi volle che fosse educato a Roma e che si sottoponesse ad un severo tirocinio militare. Accompagnò Traiano nella spedizione in Oriente, dove l’imperatore, ammalatosi, lo adottò come successore. Venne acclamato imperatore dalle legioni siriache prima ancora che il senato fosse informato della morte di Traiano. Giunto al soglio imperiale nel 117, impose rapidamente una svolta alla politica del suo pre-decessore. È questo uno degli aspetti più interessanti del suo principato su cui soffermarci.

Adriano decide di abbandonare al loro destino i territori appena conqui-stati ad Oriente oltre la linea dell’Eufrate, cioè l’Assiria, la Mesopotamia, l’Armenia. Il suo intento è di rinunciare alla politica espansionistica di Traia-no, che si risolveva in definitiva in una serie di guerre di conquista, e di in-staurare in modo nuovo e durevole la pax romana, imponendo la fine dei di-sordini, delle rivolte, dei conflitti. Riesce così a domare le rivolte giudaiche, quelle in Mauritania e nella regione danubiana, e si impegna a consolidare i confini dell’impero. Viene portata a termine la costruzione del limes, inizia-to da Domiziano in Dacia, e viene intrapresa la costruzione del gigantesco muro difensivo lungo ben 117 chilometri per separare la Scozia dalla Bri-tannia romanizzata, il cosiddetto Vallo di Adriano, di cui ancor oggi si pos-sono ammirare le rovine.

Già questi dati ci consentono di fare una prima riflessione. Rinuncia alla conquista, pace nell’impero, rafforzamento dei confini rappresentano infat-ti scelte poliinfat-tiche ispirate alla rivisitazione dello stoicismo operata da Pane-zio e Posidonio tra il IIe il Isecolo a.C.

Secondo la potente immagine proposta da questi filosofi e ripresa da Se-neca, infatti, l’impero romano poteva essere visto come la replica in terra dell’ordine universale che regge il mondo. Esso pertanto, grazie al vigore delle sue leggi, alla diffusione di una cultura comune, alla riconoscibilità delle opere pubbliche di cui era costellato, doveva risultare omogeneo pur nella diversità dei suoi popoli. All’interno dunque, d’ora in poi, avrebbe dovuto regnare l’ordine, l’armonia, la giustizia e la civiltà; al di fuori dei

li-L’età di Traiano e degli Antonini

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Adriano e una nuova politica estera Una nuova visione dell’impero: kósmos vs kaos

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mina, dei confini, avrebbe continuato a sopravvivere una moltitudine di

culture altre, barbariche, riflesso assai più debole e imperfetto del Logos di-vino. Il rapporto che veniva ad instaurarsi fra mondo “civile” e mondo “barbarico” non era più quello della conquista per il possesso di nuovi ter-ritori, di nuove ricchezze, di schiavi, ma diventava ora un rapporto di esclu-sione e di rinuncia al mondo non romanizzato. Mai come ora la dottrina stoica, che ancora con Seneca aveva predicato la sostanziale uguaglianza tra gli uomini (Lettera 47), era scivolata verso l’accettazione di una dico-tomia così radicale dell’humanitas, quella dell’impero da una parte, e della barbarie dall’altra.

Di questa nuova visione dell’impero Adriano ci ha lasciato almeno due grandi testimonianze. La prima è costituita dai suoi continui viaggi in varie province romane. Lo troviamo in Dacia, in Britannia, in Grecia, in Sicilia, lungo il Nilo, in Oriente, nell’intento di prendere visione dei problemi e di provvedervi direttamente. Lo scopo era di assicurarsi dell’efficienza dell’am-ministrazione, della sicurezza dei confini, delle condizioni materiali dei suoi sudditi, ma anche di far sentire la forza simbolica della sua presenza e, attra-verso i suoi atti e le sue opere, l’appartenenza di popoli tra loro diversi ad un unico destino.

Quanto poi alla sua figura, Adriano seppe conciliare lo statuto divino (particolarmente sentito nella parte orientale dell’impero) con il ruolo caro al senato di primus inter pares, di principe, appunto, rispettoso delle preroga-tive di questo collegio. Quell’armonia che egli cercava di realizzare nelle pro-vince rappresentava un suo preciso obiettivo anche in politica interna: una stretta collaborazione col senato e con i vertici militari. Si inaugura con

Adriano ricerca l’equilibrio anche a Roma Il Canopo della villa di Adriano, a Tivoli.

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L’età di Traiano e degli Antonini

12

Adriano la nuova figura di monarca, anch’essa di derivazione medio-stoica, come primo servitore dello Stato e dell’humanitas che gli obbedisce.

L’altra grande testimonianza è rappresentata dalle opere architettoniche da lui volute in vari punti dell’impero oltre che a Roma, alcune delle quali seguì personalmente come architetto. Ci limitiamo qui a ricordare la mera-viglia di Villa Adriana a Tivoli, a una trentina di chilometri dalla capitale. Percorrendo i resti di questo grande tesoro archeologico ci troviamo in un microcosmo che raccoglie ed esalta tutti gli elementi culturali più interes-santi dell’impero multietnico che Adriano si era trovato a reggere. Vi è il Teatro greco, l’Odeon, il Liceo, l’Accademia, le Terme, la Biblioteca, lo Sta-dio, il Pecile, una vasta area con grande piscina centrale; vi è poi il Ninfeo, ossia la grotta semicircolare che chiudeva il lato lungo del Canopo, la pisci-na che riproduceva in miniatura la valle e il capisci-nale che univa Alessandria d’Egitto alla città di Canopo; vi è ancora il Teatro marittimo, un’isoletta cir-condata da un canale circolare che doveva rappresentare l’abbraccio attor-no al mondo del grande Oceaattor-no, cui si accedeva o a nuoto o attraverso un sistema di ponti levatoi. Ma vi era anche il culto del giardino, poiché tutte le scuole filosofiche greche, di cui il centro simbolico dell’impero doveva rap-presentare la sintesi, avevano il loro giardino.

Quel kosmos stoico, chiuso, finito e divino, di cui l’impero doveva essere l’immagine in questo nostro mondo, con le sue frontiere sicure, con l’armo-nia che vi regnava all’interno, trovava una replica simbolica nei 56 ettari di superficie della Villa di Tivoli.

Marco Aurelio

Marco Aurelio è l’imperatore-filosofo per antonomasia, colui che affidò le sue riflessioni sull’uomo e sulla vita ai 12 libri dei Ricordi.

Nipote per parte di madre dell’imperatore Antonino Pio (138-161), vie-ne da questi adottato assieme a Lucio Vero per volontà di Adriano, che nu-triva per il giovane Marco Aurelio un affetto particolare. Era il 138, e da que-sto momento comincia la carriera del futuro imperatore. Fu prima queque-store, e nel 140 console. Nel 145 fu nuovamente console e in quella stessa data spo-sò la figlia di Antonino Pio, Faustina. Fino a questo momento i suoi interes-si culturali erano prevalentemente orientati verso l’oratoria, soprattutto per l’influenza del maestro Frontone. Ma dopo il 145, si fa sentire sempre più for-te il suo infor-teresse per la filosofia stoica, cui fu iniziato dal maestro Diogneto e dalla lettura dell’opera di Epitteto. La sua adesione allo stoicismo avrebbe rappresentato il carattere più saliente della sua personalità. Stoica, propria-mente del medio-stoicismo, fu la sua visione dei compiti dell’uomo in que-sto mondo; e sempre que-stoica fu la sua concezione dell’impero e della figura del principe quale primo servitore dell’humanitas imperiale, una concezione mol-to vicina a quella di Adriano, quantunque la situazione sia all’interno sia ai confini stesse rapidamente deteriorandosi.

Se infatti Adriano nel corso della sua vita di sovrano si era limitato a ispe-zionare la sicurezza dei confini, e si era impegnato a realizzare al suo interno quell’armonia tra sudditi e potere di cui si è parlato, Marco Aurelio si trovò a fronteggiare una situazione radicalmente diversa. Fu sì, come Adriano, un imperatore-viaggiatore, ma soprattutto nel senso che partecipò a vere e pro-prie campagne di guerra difensiva. Successo ad Antonino Pio nel 161, lo tro-viamo già l’anno successivo impegnato contro i Caledoni in Britannia

(no-Tivoli, la replica del kósmos stoico

Continue emergenze

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LA PAROLA AI TESTI



Marco Aurelio, Ricordi, V, 1; tr. G. Paduano

nostante appunto la costruzione dei “valli” di Adriano e di Antonino Pio), e contro i Catti in Germania. Nello stesso tempo dovette mandare in Orien-te il co-reggenOrien-te Lucio Vero contro i Parti che minacciavano di sfondare i confini dell’impero. Le sue truppe tornarono in patria portando i germi di una delle più spaventose pesti che la storia di Roma ricordi.

Nel 166 Marco Aurelio è nuovamente impegnato sul fronte germanico e lo sarà per ben otto anni. Conclusa questa lunga campagna, eccolo in Orien-te, in Egitto, in Siria, in Asia Minore allo scopo di ristabilire la normalità della situazione, e di qui in Grecia, ad Atene dove tra l’altro fu iniziato ai mi-steri eleusini. Dopo un breve intervallo di pace, nel 177 dovette ritornare sul fronte nord-orientale per respingere nuovi attacchi delle tribù germaniche dei Quadi e dei Marcomanni, fino alla sua morte avvenuta nel campo di Vin-dobona (180). Gli ultimi anni del suo regno furono anche funestati da gravi problemi finanziari. Come ricorda il Paduano, la peste, la conseguente care-stia, le continue spese militari lo avevano costretto già nel 169 a vendere al-l’asta i tesori imperiali, ma poiché questo non bastava, dovette ricorrere a nuove imposizioni straordinarie, che contribuirono a determinare una grave crisi economica in diverse province.

La sua adesione allo stoicismo è chiaramente visibile nel distacco che egli, pur nella tensione continua alla sapienza, frappone alla realtà che lo circon-da, instabile ed effimera per eccellenza, nella convinzione che il solo vinco-lo che conta è quelvinco-lo, divino, dell’uomo con l’universo.

L’occasione di questi pensieri – Ricordi o (Libri) a se stesso – forse tratti e trascritti dopo la sua morte dagli appunti personali in cui erano stati anno-tati, è l’esame di coscienza quotidiano già raccomandato da Seneca.

Riportiamo qui di seguito due brani della sua opera, il primo sui compiti di ogni uomo, come parte di un universo perfetto e divino; l’altro, ispirato al ricordo di Antonino Pio, sui doveri del buon sovrano.

All’alba, quando sei pigro a svegliarti, tieni sempre presente che ti svegli per fare il tuo lavoro di uomo. Posso lamentarmi se vado a fare ciò per cui sono nato e sono stato inserito nel mondo? Sono stato forse fatto per starmene al calduccio nel letto? “Ma è più piacevole!” Ma sei nato per godere, e insomma per essere passivo e non attivo? Non vedi che le pianticelle, i passerotti, le for-miche, i ragni, le api, compiono le loro specifiche funzioni, contribuendo al-l’ordine universale? E tu non vuoi svolgere le funzioni che toccano agli uo-mini? Non ti precipiti a fare quello che richiede la tua natura? “Ma bisogna anche riposarsi!”. Sì, bisogna, lo dico anch’io, ma anche di questo la natura ha fissato la misura, come del mangiare e del bere, e tu vai al di là di quello che è sufficiente, mentre invece quando si tratta di agire resti sempre al di sot-to delle tue possibilità. Tu non ami te stesso, altrimenti ameresti anche la tua natura e ciò che essa richiede. Altri, che amano le loro arti, si consumano ad esercitarle rinunciando per questo a mangiare o a lavarsi. Tu dunque stimi la tua natura meno che il cesellatore il cesello, il ballerino la danza, l’avaro i sol-di, il vanaglorioso la fama? Quando la passione li prende, loro non vogliono più né mangiare né dormire piuttosto che progredire in ciò di cui si occupa-no, e a te lavorare per la comunità sembra una cosa di minor conto e degna di minor cura?

L’imperatore viaggiatore

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L’età di Traiano e degli Antonini

14

Non cesarizzarti, non immergerti nella porpora: succede. Conservati semplice, buono, schietto, dignitoso, modesto, amante della giustizia, pio, benigno, af-fettuoso, forte nel tuo lavoro. Lotta per restare quale ha voluto renderti la fi-losofia. Rispetta gli dei, aiuta gli uomini. La vita è breve, e l’unico frutto del-l’esistenza terrena è una disposizione pia e le azioni utili alla comunità. Fa’ tut-to da discepolo di Antut-tonino: la sua energia nell’agire secondo la ragione, il suo contegno sempre costante, la sua religiosità, la serenità del suo volto, la sua dolcezza, la sua mancanza di vanità, la sua volontà di capire; come non avreb-be mai abbandonato una questione prima di averla esaminata e capita chiara-mente; come sopportava quelli che gli rivolgevano ingiusti attacchi senza at-taccarli a sua volta; come non faceva mai niente affrettatamente; come non ascoltava le calunnie; com’era giudice scrupoloso delle azioni e dei comporta-menti; come non era né offensivo, né allarmista, né sospettoso né sofistico; co-me si accontentava di poco, per esempio nell’alloggio, nel letto, nell’abbiglia-mento, nell’alimentazione, nel servizio; com’era laborioso e paziente; com’era capace, grazie alla sua dieta frugale, di restare nello stesso posto fino a sera sen-za dover soddisfare i suoi bisogni fuori dell’ora consueta; com’era saldo e co-stante nelle amicizie; come sopportava chi liberamente si opponeva alle sue opinioni e com’era contento se gli si suggeriva qualcosa di meglio; com’era re-ligioso senza superstizione – perché l’ultima ora ti colga come lui con la co-scienza tranquilla.

Marco Aurelio,

Ricordi, VI, 30; tr. cit. Marco Aurelio ri-ceve l’omaggio dei barbari sotto-messi. Rilievo, 176-177 d.C.

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Tema 2

Roma e gli Ebrei

I rapporti tra i Romani e il mondo giudaico, come vedremo, furono sem-pre difficili. Anche Tacito, esponente dell’ideologia imperiale, ne offrì un quadro in linea con la forte diffidenza che ci fu sempre fra i due popoli.

Dopo una serie di trattati attestati fin dall’inizio del IIa.C., la Giudea e

Gerusalemme erano state conquistate nel 63 a.C. da Pompeo, che si era in-serito nella contesa fra i due figli della principessa giudaica Alessandra Sa-lomè, Ircano e Aristobulo. L’intrusione romana fu giudicata da questo popo-lo fin dall’inizio come un evento catastrofico, al punto che il fatto che il co-mandante fosse entrato nel tempio fino al Sancta Sanctorum fu considerato dalla coscienza religiosa giudaica una profanazione, benché Pompeo – come testimonia lo storico Giuseppe Flavio – non avesse assolutamente toccato gli Arredi.

Evidentemente il mondo romano, pagano e politeista per eccellenza, era profondamente estraneo a questa complessa cultura legata alla concezione di un unico dio. E così, mentre l’atteggiamento di Roma verso i culti e le abi-tudini di vita degli altri popoli conquistati era stato, per lo più, tollerante, proprio questa resistenza da parte degli Ebrei ad abbracciare i costumi roma-ni venne interpretata come politicamente pericolosa e spinse gradualmente verso un atteggiamento di intolleranza nei loro confronti.

Tale pregiudizio non sfociò apertamente, e nel senso moderno, in forme di razzismo vero e proprio, tuttavia portò a prese di posizione spesso dure nei confronti degli Ebrei. Un primo provvedimento fu adottato da Tiberio, che nel 19 d.C. espulse i Giudei sicuramente da Roma e forse (le fonti sono piut-tosto controverse) da tutta l’Italia; le cause non sono chiarissime, ma sono probabilmente legate all’intensificarsi di un proselitismo che stava pene-trando negli strati sociali più elevati della società romana, e che sfociava ta-lora in episodi di rifiuto a prestare il servizio militare. Un episodio simile ac-cadde durante il regno di Claudio.

La situazione giudaica inoltre fu sempre più complessa rispetto a quella di altre terre conquistate dai Romani. Qui, in particolare, era l’antichissima cul-tura religiosa ebraica che, continuamente riletta e interpretata, dava adito alla nascita di movimenti settari antiromani. Si può dire che ogni governante della provincia aveva contribuito a fomentare attraverso queste riletture ve-tero-testamentarie proprio l’odio e l’avversione contro i Romani.

È il caso ad esempio delle interpretazioni messianiche della profezia di Giacobbe, secondo le quali il regno di Israele si sarebbe realizzato quando si fosse trovato sotto una dominazione straniera; tali riletture alimentavano an-che l’attesa messianica di un liberatore. Queste spinte si accentuarono dopo la trasformazione della Giudea in provincia (6 d.C.) e dopo il relativo cen-simento, che fu interpretato da alcuni come un provvedimento di riduzione in schiavitù. Questi fatti diedero il via a una serie di moti indipendentisti, alimentati da continue rivolte, in particolare da parte della corrente politi-co-religiosa ultraconservatrice degli Zeloti.

Le attese messianiche furono il crogiolo in cui si alimentò, ed ad un cer-to puncer-to esplose, la ribellione del 64, ancora sotcer-to Nerone, che affidò l’in-carico di sedare la rivolta al futuro imperatore Vespasiano e a suo figlio Tito;

Un rapporto difficile Le ragioni di un contrasto insanabile L’attesa di un liberatore La guerra giudaica

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L’età di Traiano e degli Antonini

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questo, all’elezione ad imperatore del padre, rimase il solo responsabile del-le operazioni belliche.

Complessa è anche la storia di questa terribile guerra, costellata di episo-di sanguinosi, tra cui è il caso episo-di ricordare quello episo-di Masada, la fortezza i cui abitanti sotto assedio, pur di non consegnarsi vivi al nemico, si lasciarono morire. La guerra terminò nel più terribile dei modi per i Giudei: Gerusa-lemme, anch’essa dopo una tenace difesa, fu conquistata, il tempio di Salo-mone, simbolo assoluto non solo della religione, ma anche dello stesso po-polo ebraico, fu dato alle fiamme, e moltissime furono le vittime. Un gran numero di Ebrei fu deportato e altri alimentarono la diàspora, la dispersione per il mondo.

Tra gli autori della letteratura latina del periodo di cui ci occupiamo che trattarono la questione in esame ci fu Tacito, che dedicò un lungo excursus di ben tredici capitoli delle Historiae agli Ebrei, discutendo delle loro origi-ni, della società, delle usanze religiose ed, infine, dei loro rapporti col mon-do romano fino all’avvento di Tito, che assoggettò definitivamente Gerusa-lemme.

La posizione tacitiana è perfettamente in linea con la convinzione che da lungo tempo percorreva la cultura romana: egli infatti non solo accoglie tut-ti i pregiudizi che gravavano sul popolo ebraico e che si possono ritrovare in autori come Cicerone, Orazio, Marziale e Svetonio, ma, anzi, non nasconde un’avversione verso questo popolo che egli disprezza, ritenendolo presun-tuoso, portato all’odio nei confronti degli altri uomini, e, per finire, esclusi-vista a proposito dei propri culti. Questi dati si ricavano in particolare dai pa-ragrafi 4 e 5 del Vlibro delle Historiae (cfr. pp. 61-62). Qui ora vogliamo

in-vece far riferimento ad un’altra fonte, interessante se paragonata proprio al-le pagine testé citate di Tacito.1

Stiamo parlando di Giuseppe Flavio, un nobile giudeo che fu testimone, anche per aver militato nell’esercito giudaico, degli eventi catastrofici che portarono alla caduta definitiva di Gerusalemme. Fatto prigioniero dai Ro-mani, egli si trasferì a Roma, dove fu tenuto in particolare considerazione da Vespasiano e Tito (il nomen Flavio è un omaggio ai suoi patroni). Tra le mol-te, la sua opera principale è La guerra giudaica, scritta in due versioni, la pri-ma in arapri-maico (andata perduta), la sua lingua pri-madre, la seconda in greco, diretta ad ambienti greci colti, per offrire loro una versione filogiudaica del conflitto. Giuseppe si trovò nella situazione di un giudeo che doveva, però, in qualche modo tentare una conciliazione fra l’elemento romano (da cui era appoggiato) e la sua appartenenza. La guerra giudaica in questo modo contie-ne, come ha affermato Giulio Guidorizzi, «un’audace sintesi intellettuale tra

LA PAROLA AI TESTI



1Dobbiamo anche sottolineare che l’antisemitismo romano, interpretato in modo reciso da

Ta-cito, fu dettato sì da ragioni razziali e religiose, ma mai, come invece nel caso del nazismo, “ge-netiche”. E tuttavia, le testimonianze tacitiane delle Historiae, unitamente alle descrizioni del popolo germanico nella Germania, volutamente fraintese e reinterpretate in senso antistorico, servirono ad alcuni storici del regime nazista per radicare anche nel passato la loro politica an-tirazziale. Fu in particolare all’ideologo razzista H. Stewart Chamberlain, un inglese “tedeschiz-zato”, imparentato con il musicista Richard Wagner e consigliere del Kaiser Guglielmo II, che i testi di Tacito, spesso storpiati nella loro traduzione, offrirono validi spunti per l’esaltazione del concetto di “razza pura”.

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elementi propri della tradizione giudaica (la predestinazione e l’intervento di Dio nella storia), altri desunti dalla storiografia greca (in particolare il tema della tyche [sorte] che con le sue alterne vicende governa la storia), altri infi-ne decisamente ideologici e politici, incentrati sulla infi-necessità delle classi di-rigenti di contenere le istanze fanatiche della massa e di giungere a una paci-ficazione sociale, sostanzialmente fondata sul mantenimento dello statu quo». Vogliamo proporre in questo contesto la narrazione dell’incendio del tem-pio di Gerusalemme, un passo che è la sintesi degli atteggiamenti storiogra-fici dell’autore. Infatti l’incendio di quello che era considerato fino a questo momento il simbolo di una nazione e della sua religione, da una parte è vi-sto come voluto da Dio, adirato col popolo ebraico, ma dall’altra come cau-sato dalla furia degli stessi Romani. Nel brano che proponiamo si intreccia-no dunque interpretazioni fideistiche e storiche, miste ad una intreccia-notevole par-tecipazione affettiva per un simbolo, il cui crollo segnerà la diaspora defini-tiva di un popolo, disposto a tutto pur di difenderlo:

Tito si ritirava nell’Antonia,2deciso a scatenare all’alba del giorno dopo un

as-salto con tutte le forze per investire da ogni parte il tempio. Questo già da pa-recchio tempo era stato dal dio condannato alle fiamme, e col volger degli evi ritornò il giorno fatale, il dieci del mese di Loos,3quello in cui una volta esso era

già stato incendiato dal re dei Babilonesi.4Le fiamme ebbero inizio e furono

cau-sate a opera dei Giudei; infatti, ritiratosi Tito, i ribelli dopo un breve riposo si scagliarono di nuovo contro i Romani e infuriò uno scontro fra i difensori del santuario e i soldati intenti a spegnere il fuoco nel piazzale interno. Costoro, vol-ti in fuga i Giudei, li inseguirono fino al tempio, e fu allora che un soldato senza aspettare l’ordine e senza provare alcun timore nel compiere un atto così terri-bile, spinto da una forza sovrannaturale, afferrò un tizzone ardente e, fattosi sol-levare da un commilitone, lo scagliò dentro attraverso una finestra dorata che dava sulle stanze adiacenti al tempio sul lato settentrionale. Al levarsi delle fiam-me i Giudei proruppero in un grido terrificante cofiam-me quel tragico mofiam-mento e, incuranti della vita e senza risparmio di forze, si precipitarono al soccorso perché stava per andar distrutto quello che fino allora avevano cercato di salvare. Qualcuno corse ad avvisare Tito, che s’era anch’egli ritirato sotto la tenda per concedersi un po’ di riposo dopo la battaglia; balzato in piedi, egli corse, come si trovava, verso il tempio per cercare di domare l’incendio. Lo seguivano tut-ti i generali e, dietro a questut-ti, le legioni in preda all’eccitazione, fra grande schiamazzo e confusione, com’era inevitabile nel muoversi disordinato di for-ze così numerose. Sia con la voce, sia con la mano, Cesare diede ordine ai com-battenti di spegnere il fuoco, ma essi né udirono le sue parole, assordati dai clamori più forti, né badarono ai segni della mano, essendo tutti presi, alcuni dal combattimento, altri da una smania furiosa.

A frenare l’impeto delle legioni non valsero né esortazioni né minacce, ma tut-ti si lasciavano trasportare dalla furia. Accalcandosi intorno alle entrate, mol-ti si calpestarono fra loro, e molmol-ti furono anche quelli che, sospinmol-ti verso le

ro-2Si tratta della fortezza così chiamata da Erode in onore di Antonio; sovrastava Gerusalemme. 3Decimo mese del calendario macedone: siamo nel luglio-agosto del 70 d.C.

4Nabucodonosor aveva distrutto il tempio una prima volta nel 586 a.C.; si noti come alla

fi-ne del brano l’autore rilevi una sinistra coincidenza temporale fra le date delle due distruzio-ni, secondo uno schema storiografico che si richiama ad un ritorno ciclico degli eventi.

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L’età di Traiano e degli Antonini

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vine ancora calde e fumanti dei portici, subirono la stessa sorte dei vinti. Quan-do poi furono vicini al tempio fecero mostra di nemmeno udire gli ordini di Cesare, e a quelli che stavano davanti a loro gridavano di scagliarvi dentro il fuoco. I ribelli ormai non potevano più mettere riparo, e dovunque era strage e fuga. La maggior parte degli uccisi furono popolani deboli e inermi, tutti tru-cidati sul posto dove venivano presi; intorno all’altare si accumulò un mucchio di cadaveri mentre lungo la scalinata del tempio correva un fiume di sangue e rotolavano i corpi di quelli che venivano massacrati su in alto.

Cesare, nell’impossibilità di arginare la furia dei soldati, mentre d’altro canto l’incendio si sviluppava inesorabilmente, accompagnato dai suoi generali entrò nel tempio per vedere il luogo sacro e gli oggetti in esso contenuti, che supera-vano di gran lunga la fama che ne correva fra gli stranieri e non erano inferio-ri al vanto e alla gloinferio-ria che se ne facevano i Giudei. Poiché le fiamme non era-no ancora penetrate da nessuna parte all’interera-no del tempio, ma stavaera-no deva-stando solo le stanze adiacenti tutt’intorno, Tito giudicò che l’edificio poteva ancora essere salvato, come in realtà era, e, affrettatosi a uscire, si mise a esor-tare personalmente i soldati a spegnere l’incendio dando ordine contempora-neamente a Liberale, centurione dei suoi lancieri di guardia, di mettere a posto a colpi di bastone chi non ubbidiva. Ma, nei soldati, sull’ossequio a Cesare e sul timore per le minacce del centurione avevano il sopravvento il furore, l’odio contro i Giudei e un incontenibile ardore guerresco; inoltre i più erano spinti dalla speranza di far bottino, convinti che dentro ci fosse un ammasso di tesori, anche perché fuori vedevano tutto incorniciato d’oro. Improvvisamente uno di quelli che erano entrati nel tempio, quando già Cesare era uscito per cercare di fermare i soldati, gettò nell’oscurità un tizzo sopra i cardini della porta; all’im-provviso balenare del fuoco all’interno, i duci insieme con Cesare si ritirarono e più nessuno impedì ai soldati che stavano fuori di propagare l’incendio. E co-sì, contro il volere di Cesare, il tempio fu distrutto dalle fiamme.

Chi fosse afflitto dal più vivo rimpianto per un capolavoro che per la sua strut-tura e per la sua grandiosità, nonché per la magnificenza di tutte le sue parti e per la fama del suo luogo santo, era mirabile al di sopra di tutti quelli che noi abbiamo visto o di cui abbiamo sentito parlare, potrebbe trovare un

grandissi-Il trasporto del candelabro a sette bracci del tempio di Gerusalemme. Rilievo (part.) dell’Arco di Tito nel Foro romano.

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mo conforto pensando al fato, a cui come gli esseri viventi, così anche le co-struzioni e i luoghi non possono sottrarsi.

Una cosa che colpisce è poi il corso preciso della ruota del destino, infatti, co-me ho già notato, esso attese il ritorno dello stesso co-mese e dello stesso giorno in cui il tempio era stato precedentemente incendiato dai Babilonesi. Dalla sua prima fondazione, a opera del re Salomone, fino alla presente distruzione, av-venuta nel secondo anno di regno di Vespasiano, si ha un totale di millecen-totrent’anni, sette mesi e quindici giorni; dalla seconda fondazione, fatta da Aggeo nel secondo anno di regno di Ciro, fino alla distruzione sotto Vespasia-no, passarono seicentotrentanove anni e quarantacinque giorni.

Tema 3

I cristiani e l’impero: tolleranza o persecuzione?

All’interno del mondo ebraico si era sviluppata sotto il regno di Tiberio la predicazione di Gesù, detto il Cristo, ossia l’Unto da Dio e da questi in-viato tra gli uomini. Cristo aveva raccolto attorno a sé una “comunità di san-ti”, gli apostoli (da lui mandati [dal greco apo-stello] a predicare i contenuti della fede), che avevano scelto l’umiltà della fede e la forza dell’amore con-tro la superbia del potere; l’innocenza e la purezza dell’anima concon-tro ogni coinvolgimento nella società dell’ingiustizia e dell’oppressione; l’annuncio e la diffusione nel mondo della “buona novella”, il Vangelo.

Cristo e gli apostoli credevano nel prossimo avvento del regno di Dio in terra. Per questo motivo gli Ebrei avevano accusato Gesù di essere il falso Messia; per questo e altri contenuti della sua predicazione le autorità roma-ne in Palestina lo avevano crecefisso intorno al 30 come ribelle. Tuttavia, la forte vocazione egualitaria del primo cristianesimo, l’attesa di una liberazio-ne universale con l’avvento immiliberazio-nente del regno di Dio, l’appello infiliberazio-ne a sentimenti comuni e profondi dell’uomo, come la speranza, la fede e l’amo-re, spiegano la rapida diffusione di questa religione fra gli oppressi, gli esclu-si e i diseredati della società imperiale.

Presto tuttavia il cristianesimo dovette porsi il problema dei suoi rappor-ti con il mondo ebraico da un lato, e con lo Stato romano e i pagani dall’al-tro. E tale problema ruotava attorno al senso da dare all’avvento del regno di Dio in terra: se considerarlo imminente e quindi liberatorio per l’uomo an-che se inevitabilmente eversivo dell’ordine costituito (questa ipotesi era fa-vorevolmente accolta dalla setta ebraica degli Zeloti che vedevano nell’av-vento del regno di Dio la liberazione dal dominio di Roma), o se vederlo spo-stato in una dimensione temporale al di fuori della vicenda storica.

Vi furono sette cristiane che continuarono a predicare l’imminenza di que-sto regno, mentre altre optarono per la seconda ipotesi. Tra i sostenitori di un regno celeste fuori del nostro tempo storico si distinse l’apostolo Paolo, atti-vo nei maggiori centri del Mediterraneo verso la metà del Isecolo. Egli separò

radicalmente il destino del cristianesimo da quello del mondo ebraico, affer-mando che la liberazione dall’oppressione e dal male di questo mondo dove-va avvenire in primo luogo nelle coscienze e nella fede, non nella società; che il regno di Dio era di là da venire; che i fedeli dovevano aspettare la ricom-pensa alle sofferenze patite nella sopravvivenza ultraterrena dell’anima.

Pao-Giuseppe Flavio, La guerra giudaica, VI, 249-270; tr. G. Vitucci Il regno di Dio in terra Paolo di Tarso

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L’età di Traiano e degli Antonini

20

lo si spinse così a chiedere ai cristiani l’obbedienza allo Stato imperiale, il ri-conoscimento della sua autorità terrena, comunque voluta da Dio. Egli, pur predicando spesso ancora nelle sinagoghe ebraiche, rivolgeva la sua parola an-che ai pagani, a tutti i cittadini greci e romani dell’impero. Il Cristo per con-to del quale parlava non era dunque più il Messia del popolo di Israele, ma Dio fatto uomo, dunque il salvatore di “tutti gli uomini di buona volontà”. La dif-fusione di questo messaggio fu rapida in molte regioni dell’impero, non solo presso gli umili e i diseredati, ma anche in categorie sociali via via più alte, sia perché costituiva una risposta alle inquietudini più sentite dall’uomo, sia per-ché, specialmente nei ceti più colti, presentava non poche affinità con alcu-ne indicazioni etiche ed escatologiche del platonismo e dello stoicismo, o di altre religioni di salvezza anch’esse di origine orientale. Sorsero così, accanto alle comunità ebraiche, molte comunità cristiane in vari centri dell’impero.

Ma quale fu l’atteggiamento dell’autorità imperiale nei confronti della re-ligione cristiana, che già all’inizio del IIsecolo contava numerose comunità in

diverse parti dell’impero? I cristiani conobbero problemi analoghi a quelli del-le comunità ebraiche, ma accresciuti dalla loro presenza più diffusa sul terri-torio romano. Il loro monoteismo, come del resto quello ebraico, non con-sentiva ai fedeli di sacrificare agli dei pagani, e tra questi all’imperatore, l’uni-co dio che doveva essere universalmente ril’uni-conosciuto. E questo fu il solo pun-to su cui l’aupun-torità imperiale, normalmente pun-tollerante nei confronti di culti e credenze straniere e in più rappresentata non di rado da persone di grande cul-tura e sensibilità, si trovò a dover intervenire duramente.5Tuttavia le poche persecuzioni e condanne che si succedettero da Traiano al 250 d.C., non van-no viste come un atto di intransigenza nei confronti dei cristiani a causa del loro credo. Scrive acutamente Lane Fox: «A nessuno importava granché co-sa credessero o non credessero i cristiani. Tutto ciò che si richiedeva loro era rendere onore agli dei e conformarsi alla tradizione», e questo solo in occa-sione di fatti particolarmente gravi, come siccità, pestilenze, carestie. «Queste […] spingevano le città a consultare gli oracoli e a ricevere il parere del dio circa i riti coi quali placare una collera improvvisa del cielo. Questi riti com-portavano sacrifici, atti ai quali i cristiani non potevano partecipare. Può dar-si che edar-sistesse spesso un legame indiretto tra gli oracoli e gli scoppi locali di persecuzione. Durante le crisi prendeva vita il timore dell’ira degli dei, soste-nuto dagli oracoli, dalle epifanie e dalla cultura tradizionale delle città: anche il più filosofico dei governatori e dei magistrati civici ci avrebbe pensato due volte prima di scatenare una possibile sommossa».6E quindi accettava di or-ganizzare la cattura dei cristiani e di presiedere ai processi contro di loro. Fu dunque l’ateismo imputato ai cristiani da folle fanatiche della loro religione a determinare in molti casi la condanna e la persecuzione, più che uno scontro politico tra l’autorità romana e i sostenitori del credo cristiano.

Del resto gli imperatori del IIsecolo, anche perché sensibili alla nuova

vi-sione dell’humanitas e al concetto di philanthropía propri della contemporanea

koiné filosofica platonico-stoica, erano più inclini a proteggere i cristiani che

5Di qui in poi viene ripresa, con alcune modifiche, una parte del saggio introduttivo a

Ter-tulliano, Ad Martyras, De Spectaculis, a cura di M. Menghi, Mondadori, Milano 1995.

6R. Lane Fox, Pagani e Cristiani, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 456-457.

L’“ateismo” dei cristiani

La tolleranza del potere

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LA PAROLA AI TESTI



a perseguitarli ed estirparli. Traiano nel suo celebre rescritto7al governatore del Ponto e della Bitinia Plinio (che gli chiedeva lumi su come dovesse com-portarsi con i cristiani, e in particolare rispetto alle denunce che venivano fatte a loro carico) aveva stabilito che essi dovessero avere un regolare pro-cesso davanti ai loro accusatori, e che i giudici non dovessero prendere in con-siderazione gli attacchi anonimi; infine che gli apòstati (ossia quanti rinne-gavano la propria fede) dovessero essere immediatamente perdonati.

Adriano nel 122-123 confermò nella sostanza questo rescritto, fissando così la “cornice legale” dei processi contro i cristiani, ossia offrendo loro una protezione tutt’altro che trascurabile. Dunque, solo dietro una spinta popo-lare e non di propria iniziativa gli imperatori e i loro funzionari si vedevano costretti a decretare provvedimenti di tipo legale e persecutorio verso i cri-stiani. Ma anche quando persecuzioni e condanne erano inevitabili, in sede processuale spesso l’autorità romana tentava di recuperare, e quindi di di-fendere gli accusati, proponendo loro ogni sorta di compromesso pur di po-terli prosciogliere. Una semplice dichiarazione di pentimento, un semplice giuramento prestato al “genio” dell’imperatore era sufficiente a salvarli. Ma la caparbia determinazione di alcuni cristiani non voleva ascoltare ragioni: si poteva pregare per la salus dell’imperatore, intesa alla maniera cristiana co-me sua “salvazione”, ma per nient’altro. Solo a questo punto, ma in certi ca-si offrendo un’ulteriore posca-sibilità di ripensamento (come fu data ai martiri scillitani in Numidia nel 180 d.C.), scattava la condanna definitiva e i cri-stiani andavano al martirio.

Dietro ogni martirio stava come esempio il sacrificio di sé dello stesso Ge-sù, ed essere cristiani voleva dire riconoscere il supremo valore di questa mor-te. Ma il martirio, come ricorda sempre il Lane Fox, presentava anche due indiscutibili vantaggi: da un lato apriva direttamente le porte del Paradiso, dall’altro fruttava una grande pubblicità e l’ammirazione pressoché genera-le. I premi e il prestigio del martirio esercitarono un’attrazione così forte su alcuni cristiani da provocare non pochi fenomeni di imitazione, con la ri-chiesta alle autorità romane (non sempre soddisfatta) dell’estremo sacrificio. Ma tanti cristiani non erano persuasi ad offrire volontariamente la propria vita. Clemente e Origene (II-IIIsecolo) lanciarono moniti contrari a questa

pratica, e lo stesso Matteo, per bocca di Gesù, aveva invitato i fedeli a fug-gire e salvarsi in caso di persecuzione (Matteo, X, 23).

Per esemplificare i concetti espressi proponiamo la lettura di tre testi. Il primo è uno stralcio della lettera inviata da Plinio il Giovane a Traiano, con cui il governatore chiedeva lumi e conferme sul comportamento da tenere nei confronti dei cristiani e delle accuse che venivano fatte a loro carico; se-gue il rescritto del principe.

Il terzo è la parte conclusiva del processo svoltosi a Cartagine contro i martiri scillitani (Acta martyrum Scillitanorum: [TEMA5] e p. 252) che

anda-rono incontro all’estremo sacrificio pur di non rinnegare la loro fede. Si po-tranno leggere le possibilità offerte dall’autorità romana pur di salvare que-sti “teque-stimoni della fede”.

7È la risposta scritta che l’imperatore dava su questoni giuridiche a lui sottoposte.

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L’età di Traiano e degli Antonini

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Scrive Plinio al suo principe:

Non ho mai assistito a delle inchieste sui cristiani: per questo non so che cosa, di solito, si punisca o si metta sotto inchiesta, e fino a che punto. Fui assai in-certo se si dovesse fare qualche differenza a seconda delle età, oppure se le per-sone, anche di tenerissima età, debbano essere trattate nello stesso identico mo-do delle persone più adulte; se, inoltre, si possa permo-donare a chi si pente, op-pure se sia del tutto inutile, per chi sia stato cristiano, l’aver smesso di esserlo; se si debba punire il nome stesso di “cristiano”, qualora esso sia esente da col-pe, o se si dabbano punire le colpe implicite nel nome di “cristiano”. Nell’in-certezza, ho seguito questa procedura verso coloro che mi venivano differiti sot-to l’accusa di cristiani. Li interrogai personalmente, se fossero tali. Allorché lo professavano, ripetei la mia domanda una seconda e una terza volta, minac-ciando di punirli. Quelli che insistevano li condannai alla pena capitale. Que-sto, perché ero sicuro che, qualunque fosse la loro fede, si doveva in ogni caso punire la loro pertinacia e la loro inflessibile ostentazione. Vi furono altri, paz-zi allo stesso modo, che però, siccome erano cittadini Romani, li annotai per mandarli a Roma. Poi però, siccome, come sempre capita, col progredire del-l’inchiesta le accuse aumentavano, si sono presentati casi di vario genere. Mi fu presentata una denuncia anonima, che conteneva i nomi di molte perso-ne. Quelli che negavano di essere o di essere stati cristiani, li rilasciai dopo che, seguendo il mio esempio, essi ebbero invocato gli dei ed ebbero supplicato con vino ed incenso alla tua immagine: proprio per questo motivo l’avevo fatta por-tare nel tribunale insieme con le immagini degli dei. Inoltre, essi dovettero an-che maledire Cristo, dato an-che – a quanto si dice – coloro an-che sono veramente cri-stiani non li si può assolutamente costringere a fare nessuna di queste cose. Altri tra quelli nominati dalla denuncia, dissero, sì, di essere cristiani, ma poi ritratta-rono: lo sarebbero stati una volta, ma poi avevano cessato di esserlo; alcuni già da tre anni, altri da più ancora, qualcuno addirittura da vent’anni. Anche tutti costoro veneravano la tua immagine e le statue degli dei e maledissero Cristo. Dicevano, del resto, che tutta la loro colpa (o il loro errore) si riduceva a que-sto, che erano soliti riunirsi all’alba, in un giorno convenuto, e di cantare tra di loro un carme a Cristo, come se fosse un dio, e a legarsi con reciproco giu-ramento non a commettere qualche delitto, ma a non commettere furti, rube-rie, adulteri, a non ingannare e a non rifiutarsi di restituire un deposito rice-vuto in prestito. Dicevano che, terminati questi riti, se ne andavano di nuovo e si riunivano per prendere cibo insieme: un cibo, tuttavia, comune e inno-cente. Anche questo, tuttavia, essi avevano smesso di farlo dopo il primo edit-to, nel quale, secondo le tue disposizioni, avevo proibito che si istituissero con-venticole.8Pertanto stimai necessario domandare, anche con la tortura, cosa

ci fosse di vero, a due serve che si diceva che fossero ministre di quel culto. Ma non ho trovato nient’altro se non una superstizione stolta e smisurata.

Si noterà come, al di là della durezza con cui Plinio disponeva l’interven-to, non ci fosse da parte sua alcun interesse ad organizzare una vera e propria “caccia” ai cristiani. Le misure prese dal governatore sono sempre conse-guenti alla denuncia di una comunità. E del resto, questo atteggiamento è confermato dalla risposta del principe:

8Riferimento alle eterìe, associazioni vietate dalle autorità romane per motivi politici.

Plinio il Giovane,

Epistole, X, 96; tr. C. Moreschini

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Tu hai seguito il giusto procedimento, mio caro Plinio, nell’esaminare la cau-sa di coloro che ti erano stati denunciati in quanto cristiani. Non si può infat-ti stabilire una norma universale che abbia, per così dire, una forma precosinfat-ti- precosti-tuita. Non debbono essere ricercati; se sono denunciati e convinti, allora deb-bono essere puniti, a condizione, tuttavia, che colui che abbia negato di esse-re cristiano e lo abbia esse-reso pubblico coi fatti, vale a diesse-re, supplicando ai nostri dei, abbia diritto al perdono, grazie a questo pentimento, anche se sospetto per il passato. Le denunce anonime, però, non debbono avere alcun ruolo in nes-suna accusa. Costituiscono, infatti, un pessimo esempio e sono cose che ai no-stri giorni non son tollerate.

Nella parte conclusiva del processo di condanna dei martiri scillitani, che qui di seguito riportiamo, si potranno notare, come si accennava sopra, i rei-terati quanto inutili tentativi di recupero dell’autorità romana nei confron-ti di quesconfron-ti “tesconfron-timoni”.

Sotto il consolato di Presente (per la seconda volta) e Claudiano, il 17 luglio, in Cartagine, essendo stati condotti nell’ufficio giudiziario Sperato, Nartzalo e Cittino, Donata, Seconda, Vestia, il proconsole Saturnino disse: «Voi potete ottenere l’indulgenza del governatore nostro signore se volete ritornare a pro-positi saggi».

Sperato disse: «Noi non abbiamo mai fatto del male, e non abbiamo atteso ad alcuna azione malvagia, giammai detto male di qualcuno, ma pur se trattati male, ne abbiamo reso grazie; per la qual cosa onoriamo il nostro imperatore». Saturnino proconsole disse: «Anche noi siamo religiosi, e semplice è la nostra religione, e giuriamo per il genio dell’imperatore nostro signore e preghiamo per la sua salute, e anche voi dovreste fare così».

Sperato disse: «Se mi presterai ascolto tranquillamente, ti spiego il mistero del-la semplicità».

Saturnino disse: «Se ti proponi d’insolentire contro i nostri culti, non ti pre-sterò ascolto; ma piuttosto giura per il genio dell’imperatore nostro signore». Sperato disse: «Io non conosco impero di questo mondo, ma piuttosto sono ser-vitore di quel Dio, che nessun uomo vide né può vedere con questi occhi. Io non ho mai rubato, e se faccio qualche commercio, pago regolarmente la tas-sa; perché conosco il mio Signore, re dei re e imperatore di tutte le genti». Saturnino proconsole disse agli altri: «Smettete dal professare siffatte opinio-ni». Sperato disse: «È cattiva opinione (ammettere che si possa) commettere omicidio o fare falsa testimonianza».

Saturnino proconsole disse: «Non vogliate farvi complici di questa follia». Cittino disse: «Noi non abbiamo altri da temere, all’infuori di Dio, nostro Si-gnore, che sta nei cieli».

Donata disse: «A Cesare l’onore in quanto Cesare, ma il timore (solo) per Dio». Vestia disse: «Sono cristiana».

Seconda disse: «Quel che sono voglio rimanere».

Saturnino proconsole disse a Sperato: «Persisti nell’essere, cristiano?» Sperato disse: «Sono cristiano». E a lui tutti si associarono.

Saturnino proconsole disse: «Desiderate una certa dilazione per deliberare?» Sperato disse: «In una causa così giusta non v’è nulla da deliberare». Saturnino proconsole disse: «Che cosa conservate nella vostra cassetta?» Sperato disse: «I libri sacri e le lettere di Paolo, uomo giusto».

Plinio il Giovane,

Epistole, X, 97; tr. cit.

(25)

L’età di Traiano e degli Antonini

24

Saturnino proconsole disse: «Accettate una dilazione di trenta giorni e ripen-sateci».

Sperato di nuovo disse: «Sono cristiano». E tutti gli fecero eco.

Saturnino proconsole lesse sulla tavoletta la sentenza: «Sperato, Nartzalo, Cit-tino, Donata, Vestia, Seconda e tutti gli altri che hanno ammesso di vivere se-condo la religione cristiana, poiché, pur essendo loro offerta la possibilità di tornare ai costumi romani, ostinatamente perseverano, sono condannati a mo-rire di spada».

Sperato disse: «Rendiamo grazie a Dio».

Nartzalo disse: «Oggi siamo martiri in cielo: grazie a Dio».

Saturnino proconsole fece annunziare per mezzo dell’araldo: «Ho ordinato che Sperato, Nartzalo, Cittino, Veturio, Felice, Aquilino, Letanzio, Ianuaria, Ge-nerosa, Vestia, Donata, Seconda siano condotti al luogo del supplizio». Tutti dissero: «Grazie a Dio».

E così tutti insieme furono incoronati del martirio, e regnano col Padre e col Figlio con lo Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Tema 4

Galeno e la medicina al servizio dell’impero

Tra la fine del Isecolo e nel corso del IIsi affermano a Roma insigni figure

di medici che affiancano alla propria attività clinica la stesura di una vasta opera teorica, il cui interesse non di rado trascende l’aspetto medico stretta-mente inteso e sconfina nella definizione di un’etica solidale con i valori del-l’impero, quali la temperanza, il controllo dei propri impulsi e delle proprie passioni. Stiamo parlando di Sorano, Areteo, Rufo, e di Galeno. Partiremo da quest’ultimo, che non solo fu l’intellettuale più eminente sulla scena ro-mana della seconda metà del IIsecolo, ma che più di tutti si adoperò a

trac-ciare il “profilo alto” del medico, di un professionista che, grazie ad un sape-re ora non più solo medico, ma anche filosofico, avsape-rebbe potuto psape-resentarsi ai ceti colti contemporanei come il vero garante della salute dell’umanità.

Galeno nasce a Pergamo intorno al 130 sotto il principato di Adriano. Fi-glio di un tipico gentiluomo dell’età imperiale (il padre Nikon esercitava la professione di architetto per diletto, potendo contare su cospicue rendite per le sue necessità), fu avviato a ricevere un’educazione di prim’ordine. Agli stu-di filosofici, che non avrebbe mai abbandonato, affiancò ben presto quelli stu-di medicina cui si era sentito predestinato in sogno.

Da Pergamo si mosse a Smirne e di qui, dopo qualche tempo, ad Alessandria, allora il centro culturale più ricco di fermenti di tutto il territorio imperiale. Vi rimase cinque anni ed entrò a contatto con gli scienziati del Museo, di quel-l’impareggiabile centro di ricerca nelle più diverse branche del sapere che i To-lomei avevano fondato nel IIIsecolo a.C. Tornò quindi a Pergamo dove iniziò

la sua pratica clinica presso il tempio di Asclepio, come chirurgo dei gladiatori. Approdato quindi a Roma nel 160, Galeno si acquistò, anche grazie alla sua de-terminazione, una fama così straordinaria come medico e conferenziere da met-tere in ombra diversi suoi colleghi già affermati. Nel 169 è Marco Aurelio a vo-lerlo come medico, prima al seguito del suo esercito, quindi (abbandonato il campo per l’imperversare di una terribile pestilenza) come medico di corte.

Acta Martyrum Scillitanorum;

tr. F. Corsaro

Una formazione di prim’ordine

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Galeno fu il primo scrittore dell’antichità a lasciarci una bibliografia (De

libris propriis) della sua vasta produzione teorica che spazia, solo per le opere

che ci sono pervenute, dall’anatomia (De anatomicis administrationibus) alla fisiologia (De usu partium), dal commento all’opera del medico greco Ippo-crate e a quella di Platone (De placitis Hippocratis et Platonis) alla filosofia, e addirittura alla letteratura e alla retorica, conoscenze essenziali anche queste per il buon medico.

Queste notizie biografiche su Galeno sono necessarie per cogliere meglio il senso della sua proposta culturale. Come si accennava sopra, egli volle trac-ciare il “profilo alto” del medico, affrancandolo dal ruolo di technítes, di “gua-ritore”, in cui progressivamente era scaduto, per fargli assumere quello di ga-rante della salute non solo fisica, ma anche psicologica dell’uomo. Di qui l’im-portanza accordata a un’adeguata preparazione medica (anatomica e fisiolo-gica in primo luogo, e solo dopo clinica), ma insieme anche filosofica e logi-ca, perché il nuovo medico, di cui lui era naturalmente l’esempio, potesse scendere da padrone sul terreno normalmente battuto dalle contemporanee scuole filosofiche, quello dell’anima appunto, e dei dibattiti volti ad indivi-duare un’etica consona con le esigenze della società imperiale. Di qui anche le aspre polemiche di Galeno non solo con quei medici sprovvisti di un’op-portuna preparazione biologica, ma anche con quei filosofi privi di un sape-re razionale, e in grado soltanto di partorisape-re teorie fragili e inconsistenti.

Così Galeno ci ha lasciato almeno uno scritto di carattere squisitamente mo-rale, Le passioni e gli errori dell’anima, dove l’intento è quello di contribuire con i suoi aneddoti e le sue riflessioni a tracciare il profilo dell’uomo “temperato”, in grado di tenere sotto controllo l’espressione più vistosa e degradante delle proprie passioni, di costruirsi un comportamento irreprensibile in una società che non è più in grado di sopportare eccessi di qualunque genere. Il retroterra filosofico del grande medico è quella koiné platonico-stoica, propria dei ceti col-ti contemporanei. I casi presi in considerazione sono, come vedremo, le esplo-sioni di collera da un lato, e l’insaziabilità nel cibo e nelle bevande dall’altro. Il rimedio indicato, per non incorrere nei danni dell’ira o del cibo, è la presenza di un supervisore, di una persona saggia e specchiata che ci guidi verso la mo-derazione, per poterci un giorno valere solo del nostro autocontrollo razionale. Ma vi furono altri medici, come si accennava all’inizio, che contribuirono anch’essi, accanto ai filosofi (Seneca, Plutarco, Epitteto, Marco Aurelio), alla creazione della figura di un soggetto “temperato” in un altro ambito

fonda-La proposta di Galeno Il problema della temperanza Un’operazione chirurgica. Rilie-vo (part.) d’età imperiale.

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L’età di Traiano e degli Antonini

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mentale nella vita sociale e di relazione, quello dell’eros. Rufo di Efeso, Areteo di Cappadocia, ma soprattutto Sorano, che pur essendo nativo di Efeso si formò ad Alessandria e visse a Roma sotto il principato di Traiano e poi di Adriano, attestano chiaramente nella loro opera la nocività fisica e psicologica di ogni eccesso nella vita sessuale. Agisce, seppure alla lontana, nell’approccio di que-st’ultimo alla tematica dell’eros, la lezione epicurea, ovvero l’invito a elimina-re o a severamente controllaelimina-re i desideri non necessari che facilmente porta-no, per essere soddisfatti, ad uno stato di sofferenza. La raccomandazione di So-rano (autore tra l’altro di un trattato di ginecologia ancora apprezzato nel XVIII

secolo per la ricchezza delle sue informazioni di anatomia, fisiologia e patolo-gia femminile), è quella di una verginità prolungata e quindi di un’attenta mo-derazione erotica sia per l’uomo che per la donna, poiché, secondo questo me-dico, per entrambi i partners ogni emissione di seme è dannosa.

Sulla preziosità della sua sostanza insiste anche Areteo, affermando che «il seme della vita è fondamentale per la salute e la forza del corpo, per la salute della mente e per la procreazione (es ghénesin)».9Ora, poiché ogni emissione di seme è dannosa, e al contrario la sua conservazione ci rende forti e robusti, la raccomandazione di Sorano è praticamente quella di limitare l’atto sessuale alla sola procreazione. Una posizione che lo avvicina curiosamente alle rifles-sioni di Seneca ed Epitteto sulla vita di coppia [PERCORSO3], o a quanto verrà

predicato in materia da un padre della Chiesa come Tertulliano. Se il risulta-to è la costruzione di un soggetrisulta-to ideale per la matura società imperiale, la fi-gura appunto di un uomo disciplinato e sobrio nei suoi comportamenti, osser-viamo che a contribuirvi furono insieme medici, filosofi e pensatori cristiani.

Intendiamo attestare i concetti su esposti riferendoci, com’era stato anti-cipato, a due passi tratti da un’opera morale di Galeno, uno sull’ira, l’altro sull’insaziabilità nell’assunzione di cibi e bevande. Per quanto riguarda poi le ragioni biologiche di una vita rigorosamente sobria e moderata dal punto di vista sessuale, presentiamo qualche breve passo dell’opera di Sorano.

Nella parte del suo opuscolo morale dedicata alle passioni, Galeno ricor-da un episodio di ira di cui fu personalmente spettatore e nel quale ebbe mo-do di esercitare la sua parola terapeutica.

Tornando da Roma, viaggiavo in compagnia di un amico di Gortina di Creta, una persona lodevole sotto ogni aspetto – era infatti semplice, amabile, onesto e generoso nelle spese quotidiane – ma a tal punto irascibile che menava le ma-ni coi servi, quando non li prendeva a calci, e molto più spesso usava la cinghia o qualsiasi pezzo di legno gli venisse a tiro. Trovandoci dunque a Corinto, deci-demmo di mandare per nave da Cencrea ad Atene tutti i bagagli e i servi, e noi di andare via terra passando per Megara su un carro preso a nolo. Quando ave-vamo passato Eleusi e ci trovaave-vamo nella pianura triasia, costui chiede ai servi che ci scortavano di un suo bagaglio, ma questi non sanno che cosa rispondere. Allora, sconvolto dalla collera, poiché non aveva nient’altro con cui colpire quei giovanotti, prende il lungo coltello che teneva nel fodero e con l’arma nel-la guaina colpisce entrambi i servi alnel-la testa, ma non di piatto – che non gli

9Nel Trattato sui sintomi, le cause e la cura delle malattie acute e croniche (

IV, 5).

LA PAROLA AI TESTI



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avrebbe arrecato alcun danno – bensì di taglio. Il fodero si squarciò per il colpo ferendo quei due alla testa in modo gravissimo, e per di più la ferita fu doppia, dato che li colpì due volte ciascuno. Costui, quando vede scorrere una gran quantità di sangue, lasciatici lì, riparte a piedi per Atene in gran fretta non vo-lendo assistere alla morte di uno di loro. Noi allora li portiamo ad Atene e li sal-viamo. Ma l’amico di Creta, riconosciuta la sua colpa, mi prende per mano e mi porta in casa; qui mi dà una cinghia e, levatisi i panni di dosso, mi prega di fru-starlo per ciò che aveva fatto vittima di una maledetta collera: fu lui a definir-la così. E siccome io, com’è naturale, ridevo, costui mi prega in ginocchio di fa-re proprio quello che stava chiedendo. Naturalmente, quanto più insisteva con le sue preghiere per essere frustato, tanto più mi faceva ridere. Passato un po’ di tempo in queste trattative, gli prometto di batterlo a patto che lui mi conceda una piccola cosa che stavo per chiedergli. Datami la sua parola, lo invito a se-guire il discorso che stavo per fare. Promessomi che avrebbe fatto così, conver-sai a lungo con lui spiegandogli che è evidente che bisogna educare con la ra-gione e non con la frusta la nostra parte collerica. Costui allora, essendosi ap-plicato in questo esercizio, nel giro di un anno divenne molto migliore.

Ad essere condannata, in questo come in altri casi, più ancora del fatto che si sia potuto mettere in pericolo la vita di due schiavi, è l’espressione di una collera che non si riesce a governare; essa appare come la manifestazione più evidente e insieme più degradante dell’incapacità di esercitare la ragione sui nostri impulsi. Le esplosioni di collera, inoltre, possono addirittura assumere aspetti esteticamente ripugnanti come nel caso di un uomo che non riuscen-do ad aprire una porta perse la pazienza fino a «mordere la serratura, prenderla a calci, bestemmiare gli dei sconvolto nell’aspetto come un pazzo, con la ba-va che staba-va per uscirgli di bocca come a un capro» (16; tr. cit.).

Aderendo alla visione platonica di un’anima tripartita (razionale, emoti-va, concupiscibile), Galeno non si spinge a considerare l’ira alla maniera stoi-ca come una passione che debba essere del tutto estirpata, ma si limita ad af-fermare: «Non si può […] diventare insensibile all’ira per il solo fatto di vo-lerlo, ma si può senz’altro tenere a freno le manifestazioni indecorose di que-sta passione. Se ti applichi a ciò con coque-stanza, a un certo punto riconoscerai in te una persona meno irascibile di prima, di modo che non ti adirerai né per le piccole cose né per quelle grandi» (16-17; tr. cit.).

È interessante ricordare che nella costruzione di questo soggetto ideale sempre in grado di governare i propri impulsi emotivi, Galeno raccomanda, prima di raggiungere una vera autonomia, il controllo altrui, l’occhio di quel-la società che non tollera più abusi di alcun genere. Lo si vede nell’invito ri-volto al proprio destinatario a lasciare la porta di casa sempre aperta, di mo-do che chiunque, in qualsiasi momento, possa avervi accesso e impedirgli, per il solo fatto di visitarlo, di abbandonarsi agli eccessi delle proprie passio-ni. Ma lo si vede ancora nella raccomandazione di affidare la diagnosi dei no-stri erronei comportamenti a supervisori che siano degni di questo ruolo, non solo per la loro buona reputazione, ma anche grazie ad una nostra diretta os-servazione del loro comportamento. Si auspica insomma una società dove il controllo sia incrociato, reciproco e costante.

In questo secondo invito possiamo anche trovare la chiara condanna di Galeno degli eccessi della tavola, di quella gastrimargía e oinoflygía

(rispetti-Galeno,

Le passioni e gli errori dell’anima,

18-20; tr. M. Menghi

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