• Non ci sono risultati.

Aesthetica fascistica II. Tradizionalismo e modernismo sotto l'ombra del fascio.

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Aesthetica fascistica II. Tradizionalismo e modernismo sotto l'ombra del fascio."

Copied!
23
0
0

Testo completo

(1)

IV COLOQUIO “ Tradição e modernidade no mundo iberamericano” Coimbra 1, 2, 3 de outubro de 2007

MASSIMO MORIGI

AESTHETICA FASCISTICA II . TRADIZIONALISMO E MODERNISMO SOTTO L’OMBRA DEL FASCIO

(2)

Salite in autocarro aeropoeti e via che si va finalmente a farsi “Fiat ars - pereat mundus” , dice il fascismo, benedire dopo tanti striduli fischi di ruote rondini criticomani e, come Marinetti ammette, vuole la guerra

lambicchi di ventosi pessimismi per fornire gratificazione estetica a un Guasto al motore fermarsi fra Italiani ma voi voi ventenni siete modo di percepire che è stato cambiato gli ormai famosi renitenti alla leva dell'Ideale e tengo a dirvi che dalla tecnologia. Questo è evidentemente spesso si tentò assolvervi accusando l'opprimente pedantismo la conseguenza finale dell’arte per l’arte. di carta bollata burocrazie divieti censure formalismi L’umanità che nei tempi di Omero era

meschinerie e passatismi torturatori con cui impantanarono il oggetto della contemplazione degli dei ritmo bollente adamantino del vostro volontariato sorgivo a olimpici ora lo è per se stessa. La sua mezzo il campo di battaglia autoalienazione ha raggiunto un tale grado Non vi grido arrivederci in Paradiso che lassù vi toccherebbe che può vivere la sua autodistruzione come ubbidire all'infinito amore purissimo di Dio mentre voi ora un piacere estetico di prim’ordine. Questa è smaniate dal desiderio di comandare un esercito di la situazione della politica che il fascismo ragionamenti e perciò avanti autocarri ha reso estetica. Il comunismo risponde Urbanismi officine banche e campi arati andate a scuola a politicizzando l’arte.

questi solenni professori di sociologia formiche termiti api

castori Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca

della riproducibilità meccanica

Io non ho nulla da insegnarvi mondo come sono d'ogni quotidianismo e faro di una aeropoesia fuori tempo spazio

I cimiteri dei grandi Italiani slacciano i loro muretti agresti nella viltà dello scirocco e danno iraconde scintille crepitano

impazienze di polveriera senza dubbio esploderanno esplodono morti unghiuti dunque autocarri avanti

Voi pontieristi frenatori del passo calcolato voi becchini cocciuti nello sforzo di seppellire primavere entusiaste di gloria ditemi siete soddisfatti d'aver potuto cacciare in fondo fondo al vostro letamaio ideologico la fragile e deliziosa Italia ferita che non muore

Autocarri avanti e tu non distrarti raggomitola il tuo corpo ardito a brandelli che la rapidità crudele vuol sbalestrarti in cielo prima del tempo

Scoppia un cimitero di grandi Italiani e chiama Fermatevi fermatevi volantisti italiani aveva bisogno di tritolo ve lo regaliamo noi ve lo regaliamo noi noi ottimo tritolo estratto dal midollo dello scheletro

E sia quel che sia la parola ossa si sposi colla parola possa con la rima vetusta frusti le froge dell'Avvenire accese dai

biondeggianti fieni di un primato

Ci siamo finalmente e si scende in terra quasi santa Beatitudine scabrosa di colline inferocite sparano Vibra a lunghe corde tese che i proiettili strimpellano la voluttuosa prima linea di combattimento ed è una tuonante cattedrale coricata a implorare Gesù con schianti di petti lacerati

Saremo siamo le inginocchiate mitragliatrici a canne palpitanti di Preghiere

Bacio ribaciare le armi chiodate di mille mille mille cuori tutti traforati dal veemente oblio eterno

Filippo Tommaso Marinetti, Quarto d’ora

di poesia della “X MAS” ( musica di sentimenti)

Terminato da Marinetti poche ore prima della morte, avvenuta a Bellagio (Como) il 2 dicembre 1944, il Quarto d’ora di poesia della “X

(3)

chiodate di mille mille mille cuori tutti/traforati dal veemente oblio eterno” come l’estremo congedo dalla scena della storia di quella parte del fascismo che aveva creduto nella fine dello stato liberale e nel successivo ventennio come ad un’autentica esperienza rivoluzionaria, una rivoluzione, per intenderci, non sulla falsariga di una “rivoluzione conservatrice” ( che invece fu la forma propria e definitiva, con l’aggiunta del totalitarismo, del fascismo) ma bensì decisa a volgere le spalle alla tradizione per proiettarsi verso una lirica modernità. E se in questa modernità “la guerra sola igiene del mondo” rappresentava l’ubi consistam della Weltanschauung futurista (da questo punto di vista le aspettative verso il fascismo di questa avanguardia politico-letteraria non andarono certo deluse), il Quarto d’ora

di poesia è anche la testimonianza della consapevolezza

dell’inequivocabile fallimento dell’estetizzazione della politica, vero cuore del “progetto futurista” nella sua collaborazione-osmosi col fascismo giunto al potere. Una collaborazione-osmosi che Benjamin nella parte finale dell’Opera d’arte nell’epoca della riproducibilità meccanica ha completamente smarrito a favore di una identificazione tout court fra

futurismo e fascismo1 ( Benjamin qui intese il fascismo solo come

momento di pura reazione e non come il contraddittorio contenitore politico di tutte le pulsioni antiilluministe e irrazionaliste - perciò pure di sinistra e avanguardiste ) e nella quale il Fiat ars - pereat mundus , non va inteso, contrariamente a quanto Benjamin giudicava, unicamente come il disvelamento delle pulsioni reazionarie del fascismo sotto il segno dell’estetizzazione della politica ma rappresenta anche la teleologia di tutte le avanguardie europee tese a tutto sacrificare pur di giungere alla fusione fra arte e vita ( mentre il fascismo non si accontentò di una trasfigurazione artistica ma intendeva annullare la vita e la personalità individuale nel

momento politico-totalitario).2

1

Sul fallimento del progetto futurista di egemonizzare la cultura fascista e sull’errore di identificare il fascismo politico con le spinte libertarie futuriste, fondamentale C. Salaris, Artecrazia. L’avanguardia futurista negli anni del fascismo, Firenze, La Nuova Italia, 1992.

2

Sulle analogie ( e sui rapporti) fra le avanguardie artistiche del Novecento e le pulsioni modernizzanti che furono patrimonio anche del fascismo cfr. A. Hewitt,

Fascist Modernism, Aesthetics, Politics, and the Avant-Garde, Stanford (Calif.),

(4)

Una identificazione fra futurismo e fascismo che , se da un lato, non rende giustizia dell’alterità dei propositi dei futuristi e di Marinetti rispetto al fascismo, dall’altro risulta pure parziale nei riguardi dei rapporti del fascismo colla modernità artistica e letteraria, che non furono limitati solo al futurismo ma che, per oltre il primo decennio del regime, furono dal fascismo attivamente cercati e coltivati, riservando al futurismo il ruolo della pubblica certificazione dell’origine rivoluzionaria del regime, un inizio che per quanto frutto di una elaborazione mitologica delle origini faceva certamente gioco nei primi anni di consolidamento della dittatura. Una dittatura la quale si rese subito conto che se voleva aspirare a durare doveva assolutamente cercare di incanalare nel suo alveo tutte quelle forze intellettuali ed artistico-letterarie che erano state ostili ed estranee allo stato liberale ma che non per questo esprimevano un rifiuto della modernità. In altre parole, Mussolini era ben deciso a non ripetere l’errore che aveva minato alle fondamenta l’Italia giolittiana, l’assoluta indifferenza dello stato verso il momento intellettuale per concentrarsi solo verso quelle che oggi noi chiameremmo i problemi strutturali ( lo sviluppo industriale in un quadro interno di libera competizione fra le forze economico-sociali). Il risultato era stato un’assoluta ostilità degli intellettuali verso lo stato liberale , ostilità che sarebbe stata uno dei fattori decisivi per il suo tramonto.

Successore dello stato liberale e fermamente determinato a crearsi un consenso su tutte quelle forze che avevano contribuito alla sua fine (escluse quelle socialiste, ovviamente), i primi anni della dittatura di Mussolini saranno segnati dal tentativo non tanto di creare uno stato totalitario ma bensì di esercitare verso queste un’egemonia di fatto, intesa in senso gramsciano.

Ecco allora che, per stare nel campo dell’arte, nell’anticamera del dittatore vedremo passare non solo i futuristi ( i quali, a buon ragione, potevano vantare il merito di “precursori” del fascismo) ma anche novecentisti, strapaesani, esponenti della pittura metafisica, astrattisti e via dicendo. E non bisogna pensare che tutto questo affollamento nella suprema stanza del potere fosse il frutto del classico saltare sul carro del vincitore, perché questo carro era stato appunto faticosamente costruito da quella gran parte dell’intellettualità che ora spingeva e faceva a gomitate di fronte al

(5)

dittatore. Si trattava, in altre parole, non tanto di prostrarsi di fronte al dittatore, ma più semplicemente di andare a reclamare di fronte al proprio superiore (Mussolini) i dividendi della riuscita impresa ( la morte dello stato liberale e l’instaurazione della dittatura).

I primi anni della dittatura mussoliniana non potevano quindi che tenere conto di questa sincera ( ed allo stesso tempo assai interessata) volontà di condivisione delle sorti del regime. Era pertanto da escludere a breve l’edificazione di uno stato totalitario, il cui risultato immediato non sarebbe stato altro che introdurre all’interno del regime tutte quelle violente e mutualmente contraddittorie volontà di partecipazione che al momento risultavano assai più utili attraverso una libera e darwinistica competizione di fronte all’autocrate e non ricorrendo ad un loro casermesco inquadramento.

Questo sul piano delle arti significò non solo che inizialmente non era possibile affrontare il problema di un’arte di stato ( perché ciò avrebbe comportato scegliere una corrente artistica scontentando tutte le altre) ma anche che, per quanto possibile, tutte le forme artistiche andavano sostenute e sovvenzionate ( questo, a scanso di equivoci, purché la libertà di ricerca formale non fosse accompagnata da una eguale libertà contenutistica).

Visto con gli occhi non ottenebrati dalla partigianeria e con l’immeritato distacco che ci viene dal considerare vicende ormai trascorse da molti anni, è evidenza storica che il rinvio della costruzione della megamacchina

totalitaria3 ( verso la quale spingevano e la biografia politica del dittatore

ed anche le sue più intime pulsioni) a favore di un autoritario mecenatismo di stato non risultò del tutto negativo per l’arte italiana.

Dal punto di vista degli artisti, costretti nel vecchio stato liberale ad essere totalmente esposti alle forze del libero mercato e quindi sovente a fare letteralmente la fame, l’essere inquadrati sindacalmente ed essere inseriti nello stato corporativo - potendo così accedere a commesse di stato e/o di partito o comunque usufruire di un contesto relazionale intenzionato all’acquisto delle loro opere - costituì in molti casi un drammatico

3

I. Golomstock, Arte totalitaria: nell’ URSS di Stalin, nella Germania di Hitler,

(6)

miglioramento nelle condizioni di vita.4 Ma sarebbe del tutto errato limitarsi a considerare unicamente il miglioramento della vita materiale di molti artisti perché l’incontro-egemonia del regime con l’arte generò - almeno fino a quando non avvenne la sua ultima ed ineluttabile evoluzione nel totalitarismo - esiti che furono sicuramente non banali sul piano espressivo e che racchiudono anche potenzialità euristiche per la comprensione delle società postmoderne e postindustriali.

Quello che cioè si vuol qui sostenere è che se l’estetizzazione della politica così come fu effettuata dal regime fascista e nella quale l’arte rivestì un ruolo - come vedremo - non secondario fu certamente un’esperienza negativa e che, in ultima istanza, non poteva non evolvere verso il totalitarismo ( estrema ed ultima deviante estetizzazione che invece che produrre un atto creativo totale, come avrebbero voluto le avanguardie,

genera il suo simmetricamente contrario negativo fotografico

dell’asservimento allo stato totalitario ), certamente l’assenza di un qualsiasi momento estetico nelle liberaldemocratiche democrazie industriali è altrettanto un fatto negativo, una negatività in cui l’indicazione benjaminiana per una “politicizzazione dell’arte” non può essere certo considerata una risposta non fosse altro perché le rivoluzioni rosse hanno prodotto, al di là della non secondaria conseguenza dell’eliminazione di ogni forma di libertà pubblica e privata, una accentuazione del momento auratico, accentuazione che storicamente si è manifestata non attraverso creazioni artistiche ma attraverso la sacralizzazione del potere politico.

La mostra del decennale della rivoluzione fascista del 1932 rappresenta

forse il culmine di quei momenti espressivo-estetici di alto valore.5 Per

l’allestimento della mostra, assumendo una decisione assai rischiosa ma che alla fine si rivelò vincente, Mussolini decise che era necessario ricorrere al linguaggio del modernismo, il solo in grado di garantire una

4

M. S. Stone, The State as Patron: Making Official Culture in Fascist Italy, in M. Affron, M. Antliff (eds), Fascist Visions. Art and Ideology in France and Italy, Princeton (N.J.), Princeton University Press, 1997, p. 216.

5

M. S. Stone, The Patron State. Culture & Politics in Fascist Italy, Princeton (N.J.), Princeton University Press, 1998, pp. 129-176.

(7)

partecipazione intensa, emotiva e coinvolgente all’evento. L’organo ufficiale del partito vantò l’impiego di una “schiera di artisti dell’avanguardia” e la mostra come disse Mussolini fu “estremamente moderna e … audace, senza la malinconica raccolta di passati stili

decorativi.”6 Un’audacia che ancor prima di entrare, doveva essere

percepita dal visitatore attraverso la rinnovata facciata del Palazzo delle esposizioni di Roma dove si teneva la mostra. Gli architetti razionalisti Adalberto Libera e Mario De Renzi vollero infatti che la vecchia facciata del palazzo fosse interamente nascosta da una immensa parete metallica e che questa fosse frontalmente ritmata da quattro giganteschi fasci di venticinque metri di altezza sempre metallici e che ai due estremi della stessa fossero poste due imponenti X , ancora metalliche ed alte sei metri. Si trattava di un assolutamente impegnativo incipit ma i momenti espositivi che sarebbero seguiti a questo shock estetico-emotivo si sarebbero mostrati assolutamente all’altezza di quanto esibito all’entrata. La sala del 1922 voleva simboleggiare la lotta fra il caos e il principio ordinatore rappresentato dal fascismo e l’architetto razionalista Giuseppe Terragni, cui era stata affidata la realizzazione di questa sala, pur non essendo un futurista, ne tenne ben presente la lezione nell’intimo dinamismo delle soluzioni adottate che rappresentavano un felice compromesso nella dialettica astrattismo-figurativismo. L’entrata alla sala era stata volutamente intesa per ingenerare un fortissimo shock negativo al visitatore fervente fascista. La prima cosa che questi doveva infatti notare erano autentici vessilli e bandiere dei dissolti partiti sovversivi. Ma l’angoscia così suscitata veniva immediatamente dissipata dall’immediata osservazione che questi simboli sovversivi stavano appesi al soffitto in virtù di fascistissimi pugnali dai quali erano trafitti.

Il culmine espressivo della sala del 1922 era però la parete denominata

Adunate. Nella parte inferiore della parete erano rappresentate tre eliche

d’aereo la cui immagine era composta dalle foto delle adunate di massa. Il resto della parete era infine ricoperto da una marea di mani in rilievo aperte nel saluto romano, a suggerire che il fascismo (saluto romano) promanava direttamente dal dinamismo delle masse, le eliche d’aereo composte con le foto delle adunate ( la realtà ed anche il giudizio che

6

(8)

Mussolini aveva delle masse, lo sappiamo, era diametralmente opposto ma qui non a caso siamo di fronte ad un tipico caso di arte totalitaria, cioè ad una rappresentazione esattamente opposta a quella che è la realtà).

Le critiche da parte fascista spesso entusiastiche a questa sala non riuscivano però a celare un elementare quanto imbarazzante dato di fatto. Le influenze dell’avanguardia europea e, in particolare, che la tecnica del fotomontaggio, che era uno dei punti di forza della sala, era di diretta ispirazione dei futuristi-costruttivisti sovietici Melnikov e El Lissitzky e del dadaismo tedesco ( dadaismo non certo in odore di fascismo). Inoltre, la marea di mani aperte nel saluto romano altro non era che una diretta citazione del manifesto elettorale Lavoratori, tutti devono votare nelle

elezioni dei Soviet del costruttivista Gustav Klutsis per le elezioni

sovietiche del 1927.

Mentre il contributo di Terragni7 alla mostra fu tutto inteso nella

costruzione di un’estetica che rappresentasse il dinamismo del fascismo e delle masse ricorrendo ad un simbolismo che traeva dalla modernità

artistica i suoi spunti, nelle sale affidate a Sironi,8 l’espressione di questo

dinamismo fu affidato ad una rilettura in chiave futurista ed avanguardista di vecchie e consolidate simbologie. Nella sala della marcia su Roma affidata a Sironi si poteva ammirare un bassorilievo di un’aquila in volo stilizzata affiancato dal tricolore. L’accostamento della bandiera col bassorilievo generava il profilo del fascio, antico-nuovo simbolo politico la cui tradizione promanava direttamente da Roma antica (l’aquila) ma la

7

Sull’innovativo ( ed utopico) linguaggio architettonico di Giuseppe Terragni, disperatamente proteso a conciliare la lezione modernista con gli stilemi fascisti classico-romani, cfr. T.L. Schumacher, The Danteum: Architecture, Poetics, and

Politics under Italian Fascism, New York, Princeton Architectural Press, 1993.

8

Su Mario Sironi inteso non come massimo rappresentante di una presunta pittura fascista ma, più correttamente, come il maggiore pittore del ventennio fascista che, proprio in virtù della sua convinta e disinteressata adesione al regime, subì, dopo la seconda guerra mondiale, un assurdo ed immeritato ostracismo ( e questo a fronte dello scarso apprezzamento che a più riprese gli manifestò Mussolini e dei conseguenti intermittenti appoggi ottenuti dal regime), cfr. E. Braun, Mario Sironi’s

Urban Landscapes: The Fusturist/Fascist Nexus, in M. Affron, M. Antliff (eds), Fascist Visions, cit., pp. 101-133.

(9)

cui modernità politica, si intendeva suggerire, era una diretta emanazione dei più consolidati valori patriottici , la bandiera nazionale.

Il culmine della maestria sironiana fu però raggiunto nella Galleria dei Fasci, un allestimento dove l’artista fascista della prima ora riuscì effettivamente a creare un ambiente totalmente coinvolgente. Siamo qui in presenza di un lungo corridoio scandito da due energiche e massicce file di fasci . Questo doppio colonnato, che intendeva richiamarsi alla romanità e che aveva assunto come motivo ispiratore il principale simbolo del fascismo, conduceva ad un classicheggiante bassorilievo di un cavallo e del suo cavaliere col braccio destro proteso in avanti. La direzione indicata dal cavaliere era quella che il fascismo aveva impresso all’Italia ed era anche il percorso verso il momento culminante di tutta l’esposizione: l’entrata nella Cappella dei Martiri.

La realizzazione della Cappella dei Martiri fu affidata agli architetti Adalberto Libera ed Antonio Valente. Indubbiamente affidare il climax del percorso liturgico della mostra ai due architetti razionalisti fu una scelta rischiosa ma che si dimostrò vincente. Invece di una tradizionale e cimiteriale commemorazione il cui unico risultato non sarebbe stato altro che confermare un inseparabile iato fra i vivi e i morti, Libera e Valente concepirono un ambiente ispirato a criteri minimalisti e di assoluta economia e concentrazione simbolica. La Cappella dei Martiri ( i caduti, cioè per la causa fascista) era costituita da una sala circolare la cui parete era ricoperta dalla parola “presente” ripetuta senza soluzione di continuità. A risposta di questa parola scritta all’infinito, al centro della sala era posta una croce con la dicitura “Per la patria immortale”. Mentre spettralmente la sala continuamente riecheggiava di voci registrate che senza posa ripetevano “presente”, una crepuscolare illuminazione a luce rossa avvolgeva l’intero ambiente.

Nella cappella siamo di fronte alla soluzione finale del dramma rappresentato dalla mostra e dal fascismo. Nelle sue varie sale ( ne abbiamo descritte solo alcune) , il visitatore era stato posto di fronte a simbologie negative cui trionfalmente si contrapponevano i segni del fascismo vincitore ( dalla rappresentazione della simbologia fascista all’esibizione di vere e proprie “reliquie” squadriste: vennero mostrate camicie nere, gagliardetti, armi adoperate dalla squadracce, etc, e con

(10)

modalità espositive aperte: i “sacri” reperti erano anche materialmente alla portata del visitatore non ricorrendo mai alla soluzione di rinchiuderli in teche trasparenti e questo favoriva immensamente l’immedesimazione con gli eventi rappresentati) ma di fronte al sangue che era stato necessario versare per redimere l’Italia ( la luce rossa) siamo di fronte al più profondo disvelamento : il fascismo culto di sacrificio e di morte e in cui l’angoscia che questa suscita si annulla con il sorgere qui ed ora (presente ) di una superindividualità collettiva (il presente ripetuto senza soluzione di continuità) che trascende la vita e la morte. In fondo, la megamacchina totalitaria che in quegli anni cominciava ad aumentare i suoi giri, prendeva coscienza di sé e si annunciava con un messaggio che aveva più di un’analogia con quello portato avanti dalle avanguardie ( e non a caso la realizzazione della Cappella dei martiri fu affidata a chi era ben a conoscenza dei procedimenti linguistici che potevano veicolare il progetto di un superamento dell’individualità). Solo che nel caso delle avanguardie si trattava di superare il confine fra arte e vita per la creazione dell’ opera d’arte totale mentre nel caso del fascismo si volle creare la megamacchina totalitaria, la suprema forma di arte dove sì sarebbe avvenuto un superamento totale del vecchio modo di intendere la vita e l’individualità ma questo superamento si sarebbe mostrato non attraverso una trasfigurazione artistica ma con la nascita di in una ipostatica comunità di tutti coloro (viventi e non ) che avevano combattuto e si riconoscevano nell’idea fascista.

I primi anni Trenta rappresentano, in effetti, l’inizio di una vera e propria luna di miele del fascismo con le opinioni pubbliche dei paesi industrializzati ed anche le élite culturali ed artistiche estere cominciavano a guardare con crescente simpatia all’esperimento “rivoluzionario” fascista. Di fronte ad un capitalismo selvaggio che dopo la crisi del ’29 aveva dimostrato solo di saper unire al massimo della spietatezza sul destino del proletariato anche il massimo di inefficienza economica dilapidando a vantaggio di nessuno immensi patrimoni e di fronte ad un comunismo sovietico che agli osservatori più avvertiti e smaliziati già si profilava come un pauroso balzo all’indietro per la civiltà umana, era forse possibile una terza via ? e forse questa speranza di fuoruscita dalle strette di una modernità sempre più disperante e soffocante poteva essere costituita dal fascismo italiano? In molti allora, e non solo in Italia, lo pensarono ; molti che vengono oggi - e giustamente - indicati

(11)

come capisaldi della cultura democratica ed erede dell’illuminismo del Novecento non vollero certo convertirsi alla “luminosa” idea che si irradiava dall’Italia ma ritennero che almeno fosse saggio mantenere aperte con questo fenomeno politico (proficue) linee di contatto e comunicazione. E non intendiamo qui riferirci alla disgraziatissima vicenda di Ezra Pound ( la cui incomprensione della natura vera del fascismo fu pari solo a quella di Marinetti e che continua post mortem a pesare come un macigno: nei confronti dei suoi denigratori, dai quali è visto come l’archetipo del pensiero reazionario moderno, e da parte dei suoi odierni sostenitori, le destre estreme e razziste, che accettano appunto con gioia questo stereotipo ) e nemmeno ad un Waldemar George, il quale pur partendo da posizioni moderniste, nel 1928 in una monografia sul pittore Filippo de Pisis, era arrivato ad affermare che “l’Italia ha creato una ideologia. Contro l’imperialismo del pensiero francese che domina l’universo nel campo dell’arte, Roma oggi proclama un’opposta ed autentica estetica italiana. Questa esasperazione dell’idea nazionale, questo conscio ed appassionato sentimento etnico, questo attaccamento alle origini, può generale una vitale, pulsante ed attiva forma di espressione? Io fortemente lo credo. Il fervore ha sempre offerto un terreno favorevole per

il fiorire dei movimenti artistici.”9 Intendiamo, ancor più

significativamente, volgerci verso un’ icona democratica e progressiva del secolo che si è appena congedato, a Charles Edouard Jeanneret, meglio noto come Le Corbusier, che sul numero 2 di “Stile Futurista” dell’agosto 1934, nell’articolo L’esprit romain et l’estétique de la machine, affermava : “ Io comprendo molto bene che, per quanto riguarda l’architettura e l’urbanistica, la questione è, in Italia, posta sotto il segno “Romano” . “Romano” significa intraprendere, amministrare, ordinare. […] Lo spettacolo attuale dell’Italia, lo stato della sua potenza spirituale, annunciano il fiorire imminente dello spirito moderno. Il suo splendore, in ragione della sua purezza e forza, farà luce sulle strade rese confuse dai vili e dai profittatori. E questo significherà un magnifico entusiasmo nella gioventù del paese, la quale, piena d’ardore, schiuderà l’aurora di una

9

M. Affron, Waldemar George: A Parisian Art Critic on Modernism and Fascism, in M. Affron, M. Antliff ( eds), Fascist Visions, cit., p.185.

(12)

civiltà macchinista […] . Fare il viso del paese. Farlo bello. Farlo

coraggiosamente.”10

Si tratta di parole molto impegnative, che se difficilmente potrebbero essere confinate sul versante di un giudizio positivo riservato solo alle realizzazioni estetico-urbanistiche del regime ( si tratta di un giudizio globalmente positivo sull’operato del fascismo , un apprezzamento che in parte è da ritenersi sincero e , in parte, è da considerare tributario della speranza di Le Corbusier di poter contribuire professionalmente all’edificazione delle nuove città rurali che si stava compiendo in quegli anni soprattutto nell’agro pontino), sono per altro rivelatrici che la collaborazione-egemonia del regime con il mondo dell’arte ( nello specifico con gli architetti modernisti alla Terragni o alla Libera o più conservatori e classicisti come Marcello Piacentini) aveva dimostrato una fortissima efficacia propagandistica all’estero come in Italia.

E che non solo di propaganda nel senso classico e riduttivo della parola si trattasse, viene storicamente evidenziato da due incontrovertibili dati di fatto. Primo. Dopo una iniziale fase di mera presa di possesso e controllo delle istituzioni culturali ed artistiche, periodo in cui il regime si disinteressò sostanzialmente di instaurare un rapporto organico con le correnti artistico-letterarie italiane, assistiamo successivamente al progressivo formarsi di un vero e proprio atteggiamento mecenatesco del regime, il quale pur non arrivando ancora a formulare una dottrina per una vera e propria arte di stato ( a rigore non vi si arriverà mai), attraverso la bocca dei suoi principali esponenti ( nel caso in specie Mussolini e Bottai)

10

E sempre sotto il segno romano può essere interpretato il seguente giudizio di Le Corbusier sulla neoedificata città pontina di Sabaudia, che in effetti può essere considerata il miglior successo della politica fascista di edificazione di nuove “città”( le virgolette sono d’obbligo perché, in realtà, non furono edificate città ma, per essere più precisi, grossi villaggi rurali) : “ Un dolce poema, forse un poco romantico, segno evidente d’amore”( cit. da M. Sernini, Ancora sull’urbanistica del periodo fascista, in G. Ernesti (a cura di), La costruzione dell’utopia. Architetti e urbanisti nell’Italia

fascista, Roma, Edizioni Lavoro, 1988, p.227. ). Sui “segni romani” cui Le

Corbusier, comunque, non fu mai indifferente e sul suo rapporto col fascismo, argomento fino a non molto tempo fa tenuto debitamente “coperto”, cfr. M. McLeod,

Urbanism and Utopia: Le Corbusier from Regional Sindacalism to Vichy, tesi di

(13)

pur affermando (e praticando) la più ampia libertà e possibilità di espressione formale, cercherà di far leva sullo strumento della commissione e degli incarichi per indirizzare gli artisti verso le soluzioni che di volta riteneva più opportune. Siamo quindi di fronte ad un atteggiamento totalmente eclettico da parte di Mussolini e del suo regime, che, come nel caso della mostra del decennale della rivoluzione fascista, portando alla collaborazione-sovrapposizione fra le espressioni più moderne del modernismo architettonico di Libera e Terragni con le migliori istanze novecentiste-tradizionaliste (Sironi), diede alla luce un evento estetico di assoluta rilevanza anche internazionale, ma che in altre assai meno felici circostanze, come nel caso dell’edificazione delle città pontine, accanto a risultati di buon rilievo, vedi Sabaudia, originò veri e propri disastri urbanistici, ridicole sovrapposizioni fra la retorica

antiurbanistica della ruralità e quella dell’allora incipiente romanità.11

Secondo. Al di là degli insuccessi o dei disastri, l’eclettico mecenatismo di stato di questi primi anni Trenta non risultò mai una cappa soffocante per le ricerche formali. Nelle varie esposizioni , provinciali, regionali fino a giungere alla prestigiosa Biennale di Venezia, accanto a pittori novecentisti esponevano futuristi, espressionisti fino a giungere agli assolutamente ostici ( certamente così agli occhi del regime) e figurativamente idiosincratici astrattisti. E se vi erano artisti, fra i meno dotati e affermati, comunque, che per compiacere i desiderata del regime si producevano in opere di pura oleografia propagandistica ( vedi per es. l’Incipit novus ordo vincitore della biennale di Venezia del 1930 nella sezione a tema sponsorizzata direttamente dal partito fascista, una piatta allegoria pittorica di Arnaldo Carpanetti dove le quadrate schiere fasciste sbaragliano una scomposta marmaglia sovversiva - e dove però per eterogenesi dei fini la marmaglia risulta più interessante ed umanamente ricca delle quadrate schiere ), vi erano anche dei Mario Sironi che, sempre alla Biennale di Venezia del 1930, presenterà Pascolo, dipinto sicuramente pervaso di intenso lirismo ma che non risparmiò all’artista fascista per antonomasia gli stizziti commenti di Mussolini che non gradiva

11

Per i fasti e i nefasti dell’edificazione delle nuove “città” volute dal regime, cfr. R. Mariani, Fascismo e “città nuove”, Milano, Feltrinelli, 1976; L. Nuti, R. Martinelli,

Le città di strapaese. La politica di “fondazione” nel ventennio, Milano, Franco

Angeli, 1981 e G. Iuffrida, Territorio e città nell’Italia fascista. Un caso di sintesi: la

(14)

assolutamente le deformazioni anatomiche sulla figura umana operate di solito da Sironi e particolarmente evidenti nell’opera in questione. Per non citare i soliti futuristi che non contenti dei buffi ed inquietanti automi di Fortunato Depero o delle “stravaganze” ( sempre agli occhi di Mussolini, che per soprammercato sul futurismo per ragioni di opportunità politica era costretto a tacere e quando parlava non poteva far altro che elogiarlo) delle aeropitture come Aeroarmonie del futurista Osvaldo Peruzzi, presentata alla Biennale di Venezia del 1934 nel salone appositamente dedicato agli aeropittori futuristi, arrivano nella rappresentazione del duce ad involontari effetti caricaturali, come in DUX di Ernesto Michahelles, detto Thayhat, una sorta di busto in ferro e acciaio dove il viso di Mussolini subisce una così profonda stilizzazione da perdere qualsiasi tratto umano e finisce coll’assomigliare ad un elmo corinzio ( ed il comico fu che Mussolini dichiarò - e ci piacerebbe veramente sapere se sinceramente o no ma quando si trattava di futuristi il duce era sempre molto diplomatico - “questo è Mussolini come piace a Mussolini” ) o come nella Sintesi plastica del Duce del futurista Prampolini, ritratto dove la comicità è assolutamente voluta ( anche se ovviamente non derisoria) e dove la rappresentazione stereotipizzata del volto di Mussolini è ottenuta , come in una sorta di Arcimboldo cubista, tramite l’accostamento, anziché di elementi naturali, di piani geometrici; per finire con il veramente al di là del bene e del male L’impero balza dalla testa del Duce di Ferruccio Vecchi, dove sul capo di un Mussolini dall’aspetto tanto feroce e deformato da sembrare una testa imbalsamata di cinghiale da appendere al muro, si erge un altro Mussolini , nudo a figura intera con muscolatura da

culturista, che brandisce un fascio littorio e una spada.12

Di fatto, in nessun altro regime del periodo, fosse questo tendenzialmente autoritario o totalitario o democratico, le arti figurative e plastiche ( non parliamo della letteratura, è evidente, perché la parola, è ovvio, necessitò sin dall’inizio della dittatura di un regime “particolare” di tutt’altro segno) furono finanziate ed anche lasciate (relativamente) libere come accadde nei primi anni Trenta sotto il regime fascista. Ma quello che poteva costituire un unicum della storia del Novecento, cioè un regime

12

Si può prendere visione di questi “capolavori” in L. Malvano, Fascismo e politica

dell’immagine, Torino, Bollati Boringhieri, 1988, che contiene una bella sezione

iconografica con alcune delle principali opere scultoree e pittoriche prodotte nel corso del ventennio.

(15)

dittatoriale e reazionario nella sfera delle politiche pubbliche che però in fatto di arte si tramuta in munifico ed anche amante della libertà espressiva, si rivelò in brevissimo tempo una amara illusione.

Note sono le ragioni che portarono a questo tragico risveglio. Innanzitutto la natura composita del fascismo che se, solo per rimanere nel campo dell’arte, fra le sue fila poteva annoverare all’ “ala sinistra” novecentisti bontempelliani, novecentisti sarfattiani, futuristi e architetti razionalisti, nel settore di destra comprendeva gruppi che vedevano come fumo negli occhi il “generoso” mecenatismo di regime dei primi anni Trenta. E se i rondisti e i selvaggi strapaesani rappresentavano in fondo la minoranza dell’intellettualità che dava appoggio al regime, costoro non erano affatto in posizione subordinata in fatto di rappresentatività del sentire profondo del partito fascista, che decisamente spingeva per porre fine prima possibile al regime del mecenatismo di stato e alla possibilità di libera sperimentazione in campo artistico al fine di imporre come arte di stato un tradizionalistico e piatto figurativismo intrinsecamente più adatto a propagandistiche manipolazioni romano-imperiali.

La seconda ragione è più di tipo politologico e riguarda le dinamiche interne dei regimi autoritario-dittatoriali che generalmente spingono successivamente all’edificazione di sistemi totalitari. Durante i primi anni Trenta la scelta di Mussolini, ritenuti acquisiti il consolidamento della dittatura e la sconfitta delle opposizioni, era stata allargare la base di consenso del regime. In quest’operazione il mecenatismo di stato aveva rivestito un ruolo di primaria importanza ed anche in ragione di questa scelta “illuminata” nel campo dell’arte, il regime aveva acquisito un “pieno” di consenso ( la mostra del decennale della rivoluzione fascista, vero proprio trait d’union fra momento politico di autorappresentazione del regime e ricerca formale artistica, era stata un travolgente successo in termini di partecipazione popolare e di apprezzamenti positivi, anche all’estero). Ma oltre a questo “pieno” non era possibile andare e insistere in questa direzione avrebbe rischiato di minare le fondamenta stesse della dittatura ( che senso avrebbe avuto infatti un regime reazionario dove tutti avessero preteso una effettiva libertà espressiva, come era accaduto nel campo dell’arte?). Era perciò necessario mettere a frutto il consenso riscosso e passare ad una successiva fase. Si trattava quindi ora di dare finalmente ascolto a quanti nel partito, la maggioranza, non avevano mai

(16)

digerito il mecenatismo di stato, ed apprestarsi alla costruzione di quanto da sempre era stata la teleologia vera e più intima , anche se mai del tutto disvelata, del fascismo e di Mussolini : la costruzione della megamacchina totalitaria, vera e propria traduzione - ma anche simmetrico negativo rovesciamento - nel momento politico di quello che era sempre stato il programma delle avanguardie storiche, il superamento cioè dell’arte in un

momento più alto e significativo.13 Con una piccola differenza. Mentre per

le avanguardie storiche, compreso il futurismo, il superamento dell’arte avrebbe significato il supremo momento creativo ma a livello individuale ( la fusione fra arte e vita), per il fascismo giunto alla sua maturazione totalitaria il superamento doveva riguardare sia l’arte che l’individuo per attingere al superindividuale ed olistico momento creativo rappresentato dallo stato totalitario.

Più che nella versione benjaminiana secondo cui il fascismo si presenterebbe come il sostituto di un’auraticità messa in crisi dall’entrata in scena dei mezzi di riproduzione meccanica ( foto e cinematografia in

primis), l’evidenza storica ci presenta una situazione dove lo stato fascista

è l’agente primario del trasferimento auratico all’interno della megamacchina totalitaria. In questo senso, l’estetizzazione della politica

pur rimanendo forse il concetto fondamentale per capire il fascismo14 ( e a

nostro giudizio tutti i totalitarismi), dà anche ragione - oltre al finale precipitare nella guerra del fascismo, come indica Benjamin, in cui la morte stessa è evento spettacolare agli occhi di un’umanità esteticamente fascistizzata e oltre alle necessità meramente propagandistiche e di inquadramento delle masse - della vera e propria ossessione dell’ultima fase del regime per lo stile e per la forma. L’uomo nuovo fascista non solo doveva essere atletico e attendere a tutti i numerosissimi esercizi paramilitari e celebrazioni che infestavano il calendario ( come questo dispendio emotivo-fisico-energetico fosse compatibile con il ridotto apporto calorico cui aveva accesso il popolo e con la retorica ufficiale

13

Per comprendere il problema insoluto ( ed insolubile) delle avanguardie in cui il superamento dell’arte contiene in sé anche il germe dello svuotamento dell’avanguardia stessa, fondamentali, R. Poggioli, The Theory of the Avant-Garde, Cambridge (Mass.), Belknap, 1968 e P. Bürger, Theory of the Avant-Garde, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1984.

14

(17)

della frugalità alimentare solo Dio lo sa) ma doveva altresì adottare uno stile epistolare più rapido e parlare in modo più diretto abolendo il voi in favore del tu ( veramente comiche a questo proposito le circolari staraciane ma meno comiche ed anzi lugubri le vignette a favore del tu che comparvero sui principali quotidiani nazionali, dove di solito il voi veniva

fatto giacere sotto una pietra tombale).15

E che si trattasse di qualcosa che andava oltre la propaganda ma della realizzazione di qualcosa di più intimo e profondo, la concretizzazione insomma dell’intima pulsione fascista di estetizzazione della politica attraverso la realizzazione della megamacchina totalitaria, lo apprendiamo dalle fonti interne dello stesso regime, come quando un passo del Diario di

Ciano ci restituisce un Mussolini che personalmente crea e progetta nei

dettagli una sfilata militare e poi, per paura che le sue indicazioni non vengano rispettate alla lettera, si mette a spiare le evoluzioni militari dietro le tende del suo studio.

La surreale e voyeuristica scena del duce che osserva e spia nascosto da pesanti tendaggi è del resto del tutto conforme allo spirito dell’ultima fase del regime prima della guerra, quella cioè dell’alleanza con la Germania. Un’alleanza dove il regime immolò sull’altare di una folle intesa militare e della conseguente imitazione dei tratti più bestiali e deteriori dell’alleato nazista ( fatta salva, ovviamente, l’efficienza militare tedesca, del tutto irriducibile alla pappagallesca - ma tragica - scopiazzatura ideologica e stilistica operata dal fascismo sul nazismo), quelli che erano stati i (pochi) tratti non del tutto ignobili di solo qualche anno prima.

Difficile in questa ultima evoluzione del regime individuare la vicenda che meglio si presta ad illustrare il rapporto fra arte e fascismo in seguito all’alleanza con la Germania. Se anche in Italia non si giunse alla cosiddetta esposizione dell’Entartete Kunst (arte degenerata), e questo soprattutto per merito di Marinetti che si impegnò personalmente presso il

15

Sullo stile fascista che il regime voleva inculcare agli italiani e quanto queste pretese di estetizzazione della politica fossero in lancinante contraddizione con le condizioni socioeconomiche dell’Italia del ventennio, cfr. S. Falasca-Zamponi,

Fascist Spectacle. The Aesthetics of Power in Mussolini’s Italy, Berkeley, University

(18)

duce perché non si ripetesse in Italia questo sconcio,16 anche sul versante artistico l’Italia non era altro ormai più che una pallida e ridicola caricatura della più forte alleata. ( E chi inserire fra l’altro fra gli artisti degenerati? : alla luce dei canoni estetici che calavano ora dalla Germania, secondo i quali tutto ciò che si allontanava da un agiografico e piatto figurativismo era da considerare degenerato, la maggior parte degli artisti che sinceramente in passato avevano accondisceso alle “glorie” del regime sarebbero stati ora da considerare degenerati senza possibilità d’appello. Questo anche per significare lo stato confusionale mentale, culturale e politico in cui in quel periodo piombarono Mussolini e il suo regime).

Il premio Cremona istituito da Farinacci a partire dal ’39 costituisce il tentativo più evidente del fascismo di assumere gli stilemi estetici nazionalsocialisti. Ai partecipanti alla rassegna - artisti sempre poco quotati e assolutamente ligi ai diktat del regime - non era concessa alcuna libertà espressiva dovendo essi limitarsi ad illustrare temi e soggetti stabiliti in anticipo. Ad imitazione di quanto in similari mostre veniva fatto in Germania, il tema da illustrare poteva riguardare l’ascolto del discorso del duce - anziché di Hitler - alla radio, tema assegnato alla prima edizione della rassegna nel ’39, oppure nell’edizione del ’41, la rappresentazione della gioventù del littorio.

Solo per limitarci alla critica estetica di queste due edizioni, nei dipinti del ’39, la rappresentazione della auscultazione del discorso del duce viene di solito effettuata ricorrendo ad una pittura esemplata su moduli giotteschi, con semplici e statiche composizioni di masse umane cui fanno da sfondo scenari naturali che richiamano indeterminate e quasi metafisiche località collinari o montane di un indeterminato centro Italia. Nonostante sia da supporre che non rientrasse nelle intenzioni degli autori, il senso prevalente di queste opere è un senso di gelida staticità.

Nel ’41 con la rappresentazione della gioventù italiana del littorio, ci si volle avvicinare agli stereotipi estetico-razziali ariani. Operazione miseramente fallita, se teniamo conto che il primo classificato di questa edizione è un dipinto dove si vede un gruppo di giovani donne e uomini prima ( o dopo, questo non è ben chiaro ) dell’esecuzione di esercizi

16

(19)

ginnici. Sulle donne nulla di particolare da rilevare mentre è attraverso la rappresentazione dei ragazzi ( in pantaloncini da ginnastica e a torso nudo) che si disvela persino l’incapacità imitativa rispetto allo stereotipo razziale tedesco. La muscolatura dei ragazzi, in effetti, è in rilievo ma questa definizione non è quella di corpi abituati a duri esercizi sportivi ma è il triste frutto di una quasi impressionante magrezza; in pratica questi giovani fascisti sono quasi ridotti a pelle e ossa. Addirittura in un torso di un ragazzo che ci volge le spalle rinveniamo i segni del paramorfismo delle

scapole alate.17

Se non ci fosse da piangere, verrebbe da ironizzare sul fatto che la retorica di regime sulla nazione preparata anche razzialmente e nella umana fisicità alla guerra nulla poteva di fronte alle ristrettezze alimentari del periodo che in maniera così crudele affliggevano il corpo non solo della gioventù ma anche del resto del popolo italiano.

Ma assolutamente nessun sorriso possono strappare gli odiosi e dementi articoli che Pensabene ed Interlandi rovesciavano sulle pagine di

Quadrivio e de Il Tevere. Per questi due zelanti interpreti della fase

terminale del fascismo nazificato, i nomi più famosi e illustri del Novecento italiano, come Carrà, De Chirico, De Pisis dovevano essere liquidati come arte inquinata razzialmente ( di ispirazione ebraica) e comunque non fascista, internazionalista, in altre parole degenerata; uguale giudizio subiva l’espressionismo della scuola romana; tutti i futuristi, con in testa il per loro incomprensibile e certamente scomodo Marinetti, venivano gettati fra gli inferi delle forme d’arte verso le quali il fascismo avrebbe dovuto separare decisamente le proprie sorti; stesso destino bisognava riservare all’architettura razionale dei Terragni e dei Libera e poco importa se in un recentissimo passato l’architettura razionale italiana era stata uno dei biglietti da visita che il regime aveva ritenuto di spendere all’estero per dissipare definitivamente la propria fama di anticultura e di brigantaggio politico ( istruttivo a tal proposito il già citato episodio di Le Corbusier) e se la relativa libertà espressiva dal punto di vista formale degli artisti italiani era stata al contempo e una esperienza unica nel panorama mondiale del Novecento di un proficuo - anche se pesantemente eterodiretto dal potere politico - rapporto fra arte e potere ed anche un

17

Il dipinto che illustra questa disgraziata e affamata “Gioventù italiana del Littorio” può essere osservato a pagina 186 di M. S. Stone, The Patron State, cit.

(20)

indiscutibile segno - poi smentito miseramente dai fatti - della “normalità” del fascismo rispetto alle democrazie industriali dell’epoca; regimi democratici i quali, anche in virtù della liberalità dell’inizio degli anni Trenta del fascismo nel campo delle arti, erano stati indotti a considerarlo solo come una sorta di rude reazione contro il sovversivismo rosso e non certo quella drammatica catastrofe della civiltà che si manifestò in seguito attraverso il tentativo di edificazione della megamacchina totalitaria.

“L’umanità che nei tempi di Omero era oggetto della contemplazione degli dei olimpici, ora lo è per sé stessa. La sua autoalienazione ha raggiunto un tale grado che può vivere la sua autodistruzione come un piacere estetico di prim’ordine”. Il giudizio che Benjamin dava sulle pulsioni autodistruttive e suicide indotte dalla estetizzazione della politica nata sotto il segno del fascismo totalitario, non furono sopite dalla dipartita dalla storia dei regimi che l’avevano generata. E se già sarebbe altamente discutibile attribuire al defunto regime sovietico l’intento di “politicizzazione dell’arte” ( a rigore una radicale politicizzazione dell’arte vollero compiere anche la Germania nazista e la fase terminale del fascismo ma se vogliamo riferirci all’edificazione della megamacchina totalitaria come suprema forma d’arte, allora in fatto di “estetizzazione della politica” l’ex Unione sovietica e gli analoghi regimi più o meno appartenenti al blocco sovietico del secondo dopoguerra nulla ebbero da imparare dalla Germania nazista e dall’Italia fascista), non si può nemmeno affermare che le moderne democrazie occidentali siano proprio al riparo dai fantasmi del passato. In aggiunta alla comprovata incapacità delle liberaldemocrazie di saper ottemperare a livello di efficaci politiche pubbliche ai loro stessi enunciati ideologici ( fornire cioè alle popolazioni da questi regimi governate quel minimum di libertà, prosperità, cultura ed appartenenza che rendano la vita all’interno della civitas degna di essere vissuta, in altre parole la versione ammodernata e privata della schiavitù della polis di aristotelica memoria), la nostra attuale era della iperriproducibilità elettronica, oltre a mettere in radicale discussione le estetiche kantiane in misura ben oltre maggiore di quello che tentarono le avanguardie novecentesche ( non possiamo nemmeno concepire una fusione fra arte e vita perché se l’auraticità aveva forse secondo Benjamin una sua estrema ridotta nel culto delle stelle del cinema, oltre che naturalmente nella fascistica “estetizzazione della politica”, ora con le tecnologie informatiche l’assoluta autonomia dell’immagine risulta da un

(21)

lato come il definitivo de profundis verso la tradizione generatrice di auraticità e dall’altro introduce una assoluta autoreferenzialità tecnologica generatrice di senso ben al di là della agognata e mai veramente raggiunta unione di arte e vita di avanguardistica memoria), è anche percorsa da incubi e fantasmi la cui aiesthesis se certamente deve molto alla nuova frontiera elettronica è anche parimenti debitrice di quella aesthetica

fascistica che per Benjamin rischiava di rendere la fine del mondo uno

spettacolo gradevole.

Per scendere nel concreto: quale inquietante ed eversivo segno estetico unisce il necrofilico e raccapricciante plastinatore Gunther von Hagens al retoricamente efficace In remembrance of the Wehrmacht ? quale legame con le immagini della vita di Benito Mussolini con sottofondo della

canzone Io di Gianna Nannini o con il Capitan Harlock,18 la cui effige e il

jingle italiano del manga animato giapponese è impiegato come veicolo di promozione politica da un gruppo xenofobo di estrema destra ? ( e innumeri altri esempi di inquietanti presenze internettiane a cavallo fra culto della morte e/o politica estremistica di estrema destra e nuova

aiesthesis potrebbero essere fatti).19

18

Per chi voglia avventurarsi nell’orrore della plastinazione dei corpi umani ad opera dell’ineffabile Ghunther von Hagens, non rimane che cliccare su http://www.bodyworlds.com/en.html .Su You Tube, all’indirizzo http://it.youtube.com/watch?v=rgxth0DbHN0 si possono assistere alle peripezie, con incisiva colonna sonora, della Whermacht. Puro straniamento (garantito) presso http://www.youtube.com/watch?v=nFvI9mXpEik , dove la canzone Io interpretata da Gianna Nannini fa da tappeto musicale a foto dell’ “indimenticabile” duce degli italiani. Infine, presso http://it.youtube.com/watch?v=LqtM00_CTlw il Capitan Harlock, il pirata spaziale idolo dei bimbi italiani di qualche lustro fa, viene arruolato, con tanto di suo motivetto da Zecchino d’Oro, nell’estrema destra fascista. Una nota metodologica. Vista la volatilità delle fonti internet, tutti questi siti e/o video musicali sono stati debitamente “scaricati” presso l’Archivio Storico Digitale Massimo Morigi – Stefano Salmi e perciò devono essere considerati fonti primarie a tutti gli effetti.

19Un ultimo clic. All’indirizzo http://www.francocenerelli.com/antologia/artenaz.htm

incontriamo il sito “L’arte nazionalsocialista – L’estetica al potere”. E così, visitando questo sito, ovunque seguiti da un ipnotico motivetto arpeggiato stile musica medievale, possiamo ammirare le “migliori” opere di Sepp Hilz, Werner Peiner, Oscar Martin Amorbach, Adolf Ziegler, Konrad Hommel, Arno Breker e altri. In altre parole, di tutti i maggiori pittori e scultori preferiti da Hitler per la creazione

(22)

Verrebbe facile rispondere che sebbene attraverso altre vie rispetto a quelle temute da Benjamin ( la vittoria del fascismo), alla fine l’estetizzazione della politica sta prendendo la sua rivincita e prima dimorando e poi risalendo attraverso i nervi virtual-internettiani delle moderne società industriali si appresta a colpire in un futuro più o meno lontano le sfiancate liberaldemocrazie che finora seppero resistere alla sfide portate dai totalitarismi ma che non seppero dare un senso alla vita delle popolazioni da esse ( e attraverso esse ) governate.

Ma sarebbe una risposta con - riteniamo - una analisi giusta ( le potenzialità catastrofiche rispetto alla civiltà giudaico-cristiana di una

aiesthesis svincolata attraverso l’ iperriproducibilità elettronica dalla

tradizione e con unico punto di riferimento fascistiche pulsioni estetiche ed autodistruttive) ma viziata da un pessimismo così profondo la cui ultima conseguenza non sarebbe altro che il rifugio nelle cupe postmodernistiche utopie alla Fukuyama.

“Bacio ribaciare le armi chiodate di mille mille mille cuori tutti/traforati dal veemente oblio eterno”. Con un oblio eterno non accettato passivamente, trasfigurato dall’amore fraterno e la cui ineluttabilità ci trasmette il senso drammatico ( ed eticamente denso ) della condizione umana, si concludeva l’ aiesthesis e la vita di Filippo Tommaso Marinetti. L’Angelus Novus trascinato lontano dall’umanità che vorrebbe soccorrere da un impetuoso vento contro cui non può opporsi è , in un certo senso, il sigillo tragico della vita di Walter Benjamin spesa per l’utopia. Forse non tutte le estetizzazioni della vita e della politica sono malvagie e dell’utopia condividono il destino e la profonda moralità.

della sua arte nazista. Dalla lettura dei commenti alle opere, formalmente il sito prende ( gelidamente) le distanze dalle opere esposte e dal nazismo. In realtà, proprio in ragione della indiscutibile raffinatezza estetica dello stesso, che fa sì che il giudizio positivo su come formalmente sono presentate le opere si riverberi subliminalmente anche su queste, siamo in presenza di una sottile apologia del nazionalsocialismo e della sua arte. Aesthetica fascistica, quindi, allo stato puro, anche se abilmente dissimulata.

(23)

Riferimenti

Documenti correlati

Il metodo morfologico si porrà appunto in questa considerazione dell’i- dea, intimamente legata allo sviluppo del concetto di rappresentazione (Vorstellung) da Leibniz a Herder,

MSCs have been isolated from different tissues including trabecular and cortical bone, synovial membranes, adipose tissue, tendons, skeletal muscle, peripheral blood,

C’è poi da chiarire cosa si intende per valutazione; la politica non ha nella maggior parte dei casi un’idea corretta: occorre chiarire alcuni punti che definiscono cosa è

12 Tra il 2010 e il 2014 l’Istituto ha realizzato delle rilevazioni sulle organizzazioni non profit iscritte nei registri del Terzo settore per conto del Ministero del Lavoro:

__l__ sottoscritt__ dichiara di aver letto e di approvare in ogni suo punto il bando di ammissione alla Scuola per le Politiche Pubbliche, di essere in possesso di tutti i

Il calo delle fami- glie molto numerose è probabilmente un cambiamento strutturale e duraturo della popolazione che ha importanti conseguenze per la partecipazione al mondo

Dipartimento di Culture, Politica e Società dell’Università di Torino.