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Storia del paesaggio perduto

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Academic year: 2021

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Storia del paesaggio perduto.

Oggi scrivere di paesaggio significa affrontare un oggetto che per molti anni è stato trascurato sia dal dibattito politico che dal dibattito culturale del paese.

Spinti dall’ossessione della crescita, dalla necessità di costruire, dalla meccanizzazione dell’agricoltura e dalla rincorsa sfrenata verso il progresso, abbiamo dimenticato di osservare quello che ci stava intorno e, forse ancora maggiormente, quello che abbiamo costruito.

Come tanti Edoardo Nottola, il protagonista negativo de Le mani sulla città di Francesco Rosi (1963), abbiamo costruito, cementificato, spostato il corso di fiumi e torrenti, occupando spazi destinati all’agricoltura o, peggio, modificando l’ambiente naturale che ci circondava.

La Sardegna non è stata esente da questo fenomeno: considerando l’endemico spopolamento, l’espansione delle principali città e dei paesi rurali nella seconda metà del XX secolo è stata significativa.

Dunque il paesaggio racchiude una gamma di problemi teorici e pratici: teorici per quanto riguarda l’evoluzione e la definizione dello stesso concetto, pratici per tutto ciò che il paesaggio stesso racchiude (suolo, ambiente, esseri umani).

La storia di un concetto.

Il concetto di paesaggio nell’età moderna ha avuto una caratterizzazione prettamente estetica, legato alla bellezza della natura, agli scorci pittorici e alle descrizioni letterarie. Lo storico dell’architettura Carlo Tosco ha recentemente indagato sul tema del paesaggio nelle arti prendendo come riferimento il poeta Petrarca, considerato uno tra i primi «scopritori» del paesaggio e della sua dimensione estetica1.

Nella seconda metà del XX secolo, la mera dimensione estetica del paesaggio perde progressivamente la sua importanza. Il concetto si evolve e lo storico Emilio Sereni associa l’attività agricola dell’uomo al lento modellamento del paesaggio:«il paesaggio agrario è quella forma che l’uomo, nel corso ed ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale2».

                                                                                                               

1 C. Tosco, Petrarca: paesaggi, città, architetture, Quodiblet, Macerata 2012. 2 E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Roma 2011, p. 29.

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Dal punto di vista normativo la Costituzione della Repubblica Italiana nell’articolo 9 nel secondo comma «Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». La Convenzione europea del paesaggio, firmata a Firenze il 20 ottobre 2000, fornisce una definizione «tecnica» del concetto: «paesaggio» designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni3.

Fuori dai tecnicismi ci sembra illuminante e comprensiva di tutti gli aspetti la definizione che ci fornisce il geografo Eugenio Turri:«Il paesaggio è la rappresentazione del nostro concreto spazio di vita, del territorio che abbiamo costruito e modellato in quanto nostra dimora. Quindi al paesaggio si connette l’ambiente, la cui tutela significa perciò stesso assicurare agli uomini un habitat più sano e vivibile»4.

Aggiungiamo quindi a questo breve, e sicuramente non esaustivo, excursus sul significato di paesaggio l’elemento della tutela e la consapevolezza della necessità di assicurare salubrità e vivibilità all’habitat umano.

Sulla scia di queste nuove prospettive lo storico Salvatore Settis ha recentemente inquadrato il paesaggio nel novero dei cosiddetti beni comuni5.

L’attuale concetto di paesaggio evolve quindi rispetto alle elaborazioni del secolo scorso: il paesaggio non è esclusivamente degli individui e delle comunità che lo hanno modellato, non è degli amministratori locali e tantomeno dei proprietari di terreni o edifici. Il paesaggio patrimonio comune di tutti, di chiunque lo osservi.

Metodi di ricerca per la storia del paesaggio.

Il paesaggio è il «documento» più importante che le azioni umane, individuali e collettive, lasciano sull’area in cui esse si realizzano, mutando e modellando il luogo secondo gli usi dello spazio agrario, le definizioni dello spazio sociale, i poteri dominanti nello spazio politico6. Il paesaggio è un «palinsesto» su cui l’uomo scrive,

sovrascrive, cancella e corregge attraverso il suo rapporto con il territorio e con l’ambiente.

                                                                                                               

3 «Convenzione europea per il paesaggio», Firenze, 20 ottobre 2000, art. 1 lett. a. 4 E. Turri, Il paesaggio e il silenzio, Marsilio, Venezia 2004, pp. 12-13.

5 S. Settis, Paesaggio, costituzione, cemento, Einaudi, Torino 2010. 6 G.G. Ortu, Analitica storica dei luoghi, Cuec, Cagliari 2007, pp. 61-67.

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L’oggetto «paesaggio» obbliga il mondo scientifico ad operare in modo assolutamente interdisciplinare, sia per quanto riguarda le metodologie che per la condivisione di obiettivi comuni.

La storia gioca un ruolo fondamentale nelle ricerche sul tema del paesaggio: essendo il risultato di azioni umane diacroniche è necessario un approccio di tipo storico che permetta un’adeguata conoscenza dei fenomeni di lunga durata e, nel contempo, delle strategie e delle condotte relative a gruppi di individui operanti in un dato territorio. La collaborazione degli storici con geografi, archeologi, naturalisti, biologi, architetti sta permettendo, in questi ultimi anni, l’affinamento dei metodi di ricerca, l’utilizzo di un’ampia tipologia di fonti e la definizione di nuove chiavi di lettura del paesaggio in termini di conservazione, valorizzazione e pianificazione7.

Emilio Sereni nella sua Storia del paesaggio agrario italiano elabora il metodo regressivo che, partendo dalla fotografia dell’esistente, indaga seguendo un approccio stratigrafico sui tanti percorsi che hanno portato alla formazione del paesaggio.

Il metodo regressivo si integra bene con l’approccio microstorico, o meglio analitico-storico: un metodo di indagine che si propone di ricostruire, sistematicamente e con approccio interdisciplinare, l’intero processo storico di costruzione di un luogo. Il processo di ricostruzione storico-analitico dei luoghi segue sia il tracciato «genealogico», la successione degli eventi, sia quello «situazionale», che considera il «luogo» un sistema di componenti ed elementi. La combinazione dei due tracciati, che è anche sintetizzabile con i concetti di sincronia e diacronia, crea un nesso inscindibile tra «evento» e «situazione», definibile come «dinamica di luogo»: l’effetto degli eventi sulla configurazione data. Altro concetto è l’«identità di luogo»,                                                                                                                

7 Nella copiosa letteratura sul tema del paesaggio si vogliono segnalare le recenti opere di Carlo Tosco

che hanno dato un primo riordino metodologico alla ricerca: C. Tosco, Il paesaggio come storia, Il Mulino, Bologna 2007; C. Tosco, Il paesaggio storico. Le fonti e i metodi di ricerca, Laterza, Roma-Bari 2009. Sul rapporto tra geografia, storia e paesaggio è imprescindibile l’opera di Lucio Gambi, tra cui si segnalano i saggi raccolti in L. Gambi, Una geografia per la storia, Einaudi, Torino 1973, e le fondamentali opere di Eugenio Turri, tra cui si segnalano Semiologia del paesaggio Italiano,

Longanesi, Milano 1979; La conoscenza del territorio. Metodologia per un’analisi storico-geografica, Marsilio, Venezia 2002. La Società Geografica Italiana ha dato risalto al tema del paesaggio nel rapporto annuale del 2009 a cura di M. Quaini, I paesaggi italiani fra nostalgia e trasformazione, Vado Ligure, 2009. Sulla storia del paesaggio agrario si è già ricordata l’opera fondamentale di E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, op. cit.; nel ricordo dell’opera di Emilio Sereni, l’Isituto Alcide Cervi, che ne custodisce la biblioteca e l’archivio, organizza annualmente una summer school sul tema del paesaggio agrario i cui atti sono stati pubblicati nei quaderni dell’Istituto: G. Bonini, A. Brusa, R. Cervi (a cura di), Il paesaggio agrario italiano protostorico e antico, Edizioni Istituto Cervi, Gattatico 2010; G. Bonini, A. Brusa, R. Cervi, E. Garimberti (a cura di), Il paesaggio agrario italiano medievale, Edizioni Cervi, Gattatico 2011; G. Bonini, A. Brusa, R. Cervi (a cura di), La costruzione del paesaggio agrario nell’Età Moderna, Edizioni Cervi, Gattatico 2012.

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intesa come il riflesso di resistenza del luogo al mutamento8, più o meno durevole nel tempo, da cui deriva la sua «riconoscibilità»9.

Nello studio del paesaggio è necessario mettere a fuoco principali permanenze, dirette e indirette, che le azioni e le strategie umane hanno lasciato sul paesaggio contemporaneo. Con il termine permanenza si vogliono intendere tutti quei manufatti che, pur non avendo in origine la funzione di tramandare la memoria, rivestono questo ruolo per la popolazione e per gli osservatori, in senso aggiuntivo o complementare10.

Occorre allargare il senso del termine anche ai prodotti della cultura immateriale che attribuiscono significati a oggetti, spazi, percorsi riferibili a costruzioni materiali nel territorio.

I termini temporali per una storia del paesaggio sono necessariamente di lungo periodo, inteso nel senso braudeliano, tenendo conto che la storia del paesaggio spesso travalica la distinzione classica dei periodi storici, basandosi soprattutto sulle

fratture che intervengono nello spazio locale riguardo l’uso del suolo, le dinamiche

dell’insediamento, i mutamenti sociali e politici. Secondo la corrente di pensiero, legata al geografo britannico Denis Cosgrove, è nel periodo di passaggio dall’economia feudale a quella capitalistica agraria, nel quale si producono tensioni e lotte per la definizione di nuovi rapporti di produzione, che si determina la moderna idea occidentale di paesaggio, eternamente sospesa nell’ambiguità tra significati e simboli sociali e individuali11.

Il paesaggio perduto.

Il paesaggio sardo è il frutto del lungo utilizzo della risorsa fondiaria da parte dell’uomo. È fondamentale quindi affrontare una breve ricostruzione delle vicende legate al sistema fondiario sardo nella storia dell’Isola.

Nel periodo romano lo spazio agrario sardo è dichiarato «ager publicus»: il sistema fondiario è caratterizzato dalla presenza delle ville, su cui il dominus esercita il suo potere. Il territorio compreso all’interno del dominio padronale, la pars dominica, ha un’estensione molto vasta, tanto da comprendere terme, edifici rustici, piccoli insediamenti, mentre nella pars rustica si svolgono le attività legate ai lavori                                                                                                                

8 G.G. Ortu, Attraversamenti di luogo. Teorie e pratiche della storia locale, in G. Mele (a cura di), Tra

Italia e Spagna. Studi e ricerche in onore di Francesco Manconi, Cuec, Cagliari 2012, p. 204.

9 G.G. Ortu, Analitica storica dei luoghi, Cuec, Cagliari 2007, pp. 10-15.

10 C. Tosco, Il paesaggio storico. Le fonti e i metodi di ricerca, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 31-32. 11 D. Cosgrove, Realtà sociali e paesaggio simbolico, Unicopli, Milano 1990, pp. 72-75.

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agricoli12. La discontinuità degli scavi archeologici non ci permette di avere un quadro d’insieme sulle ville romane in Sardegna: dalle costruzioni emerse si possono ipotizzare strutture abbastanza grandi e dotate di magazzini, strutture produttive, ma anche di tutti i confort per l’otium.

Dopo la caduta dell’impero romano, la Sardegna vive una breve parentesi vandalica, finendo successivamente nell’orbita di Bisanzio. La ricostruzione del sistema fondiario sardo nel periodo altomedievale è particolarmente difficle: il diritto romano inizia a liquefarsi in tanti usi locali, che stabiliscono nuovi modi di accesso alla terra, sfociando in una gradualità di possessi dall’uso più o meno durevole (esercitati da gruppi di parentela stabili o da enti ecclesiastici) e in una pluralità di pretese, anche sugli stessi fondi, da parte di chi li utilizza. Questo pluralismo possessorio crea confusione e incertezza, ma nello stesso tempo genera consuetudini su spazi e territori altamente frammentati, tanto da portare ad altrettanti «microsistemi normativi» sull’uso della terra13.

Nei primi secoli del secondo millennio, quando si afferma il potere dei quattro giudicati, il centro produttivo del sistema fondiario sardo è la domus, che organizza, sovrintende e produce in uno spazio agrario e giuridico su cui esercita il controllo, assumendo le caratteristiche della signoria fondiaria. I grandi proprietari delle domus sono i donnos che costituiscono un’aristocrazia fondiaria di oscura origine, almeno quanto le radici del potere giudicale, al quale però appaiono legati da vincoli di parentela e di fedeltà. Il loro accesso alla risorsa fondiaria avviene con lo strumento della secatura: l’azione, sancita dalla pubblica autorità, di segnalazione e confinamento di saltus, o di altre superfici, che vengono così sottratte agli usi comuni. Quando la secatura avviene su spazi demaniali si ha la secatura de rennu. Il rennu è una derivazione delle terre pubbliche romane, forse anche imperiali o fiscali, su cui il giudice opera secondo logiche di carattere privatistico, distribuendo terre ai suoi parenti (donnikellos). Su Rennu è però distinto dai beni personali del giudice e della sua famiglia, che sono individuati col termine di pecujares. La cessione delle terre demaniali avviene con una solenne cerimonia di delimitazione alla presenza del

curatore, l’ufficiale delegato dal giudice per l’area di pertinenza14.

                                                                                                               

12 A. Mastino, Storia della Sardegna antica, Il Maestrale, Nuoro 2005, pp. 180-183. 13 P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 96. 14 G.G. Ortu, Analitica storica dei luoghi, Cuec, Cagliari 2007, pp. 33-34.

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L’articolazione della domus riflette un'organizzazione funzionale e un’impostazione «giuridica». I territori di maggiore rilevanza e produttività sono identificati come

curtes, quelli più marginali sono dette domestias. La frazione aziendale condotta

direttamente dal donnos prende il nome di curtis. Altre frazioni possono essere appaltate o concesse a servi o coloni. Data la vastità dell’azienda e la pluralità di condizioni di utilizzo del territorio, la domus, oltre al suo corpo centrale, si diffonde sul territorio attraverso tanti piccoli insediamenti sparsi. I villaggi ricadenti all’interno dell’influenza della domus sono detti indonnikaus, in contrapposizione a villaggi di uomini liberi esistenti nell’area interna della Barbaria15.

Tra X e XI secolo la configurazione dei villaggi sardi, le biddas, ha confini poco definiti, rispetto al ruolo che gli stessi avranno in maniera determinante nei secoli successivi.

Dal XIII secolo il controllo e lo sfruttamento del territorio sardo è oggetto di un sostanziale mutamento: l’eclissi della signoria fondiaria, o la sua parziale mutazione in signoria territoriale, lascia maggiori spazi alle comunità di villaggio. Lo strumento delle «carte di franchigia» si perfeziona: gruppi sempre più numerosi di servi ottengono la libertà in cambio della corresponsione di tributi e prestazioni lavorative. Quando le concessioni d’uso riguardano territori spopolati si parla di «carte di popolamento», che prevedono particolari condizioni favorevoli per i coloni.

L’insieme di questi strumenti crea un nuovo diritto agrario: il rapporto delle comunità con la terra si fa più stabile, concreto e continuativo. Nasce la piccola azienda contadina a conduzione famigliare, inscritta e regolata nella macro-azienda «villaggio».

I nuovi rapporti fondiari sono improntati alla struttura giuridica e fisica del

fundamentu. Il concetto di fundamentu identifica la dotazione fondiaria necessaria alla

sopravvivenza del villaggio e della comunità che lo abita, ma anche i diritti sullo stesso territorio16. Il concetto è giuridicamente e fisicamente elastico: con la crescita

della popolazione i confini del fundamentu tendono ad allargarsi, viceversa si restringono quando il villaggio è in crisi, fino all’estremo gesto dell’abbandono. Il

fundamentu di un villaggio scomparso può essere inglobato dalle comunità di

villaggio confinanti, solitamente quelle ove i superstiti hanno trovato rifugio. Gli

                                                                                                                15 Ibidem.

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spazi eventualmente rimasti «vuoti» possono essere soggetti a ripopolamento (fenomeno che avviene in piena età moderna).

In mancanza di documenti che possano attestare l’abbandono o il ripopolamento di un villaggio e la relativa dotazione fondiaria, restano sul territorio importanti segni o usi tradizionali.

Con il sistema feudale sardo, la comunità di villaggio ha il suo pieno riconoscimento giuridico: è la stessa comunità ad avere un rapporto di vassallaggio con il barone. Essendo il demanio dello Stato, e quindi del sovrano, con le concessioni feudali si affida il dominio diretto (giurisdizionale) al feudatario, mentre il dominio utile è un diritto della comunità del villaggio.

L’uso delle risorse non deve però trascendere il principio del fundamentu: l’accesso allo spazio agrario per la semina, il pascolo, il legnatico, la raccolta, le attività di caccia e pesca, è sempre e comunque collegato alla sopravvivenza della famiglia17. Lo spazio agrario del villaggio è dominato dalla biddazzone, cioè l’insieme della terra destinata all’aratura. Questa ampia porzione di territorio è situata solitamente in prossimità del villaggio e si alterna al paberile, la terra destinata al pascolo, dal quale è separata dalla cosiddetta frontera, ovvero una siepe o dei pali che segnano il confine. All’interno della biddazzone sono ritagliati alcuni spazi per il pascolo degli animali da lavoro (pradu de siddu, pradu de s’egua, segada de sa jua, pradu de

mindas). Una parte del territorio è diviso in tanche, dei terreni chiusi da muretti a

secco, siepi o fossi. I terreni destinati al pascolo sono suddivisi in padru per il bestiame ammansito e in saltu per il bestiame rude. Gli sconfinamenti sono frequenti e spesso il bestiame finisce sui terreni coltivati danneggiando il raccolto e scatenando le furiose e, spesso, sanguinose liti fra contadini e pastori.

Nel periodo sabaudo, con l’introduzione della proprietà perfetta, il possesso individuale sulla terra si fa più stabile e duraturo. Le strategie successorie, improntate alla tendenza egualitaria tra i figli (maschie e femmine) contribuisce alla formazione di un reticolo di campi, spesso di modeste dimensioni, che riflettono le scelte divisorie della famiglia contadina sarda.

Gli effetti sono permanenze che giungono fino ai nostri giorni: l’open field diffuso delle zone cerealicole è interrotto dai muretti a secco delle grandi tanche nelle zone a prevalenza pastorale. piccole proprietà. Orti e vigne (cungiaus) continuano ad essere                                                                                                                

17 Sull’evoluzione dell’insediamento in Sardegna si veda G.G. Ortu, La storia dell’insediamento in

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elementi di discontinuità rispetto all’open field: essi hanno rappresentato nel passato dei piccoli embrioni di proprietà privata chiusi con muretti o siepi. La chiusura con siepi (cresura) è ancora praticata, seppure con minore frequenza rispetto al passato, utilizzando le essenze della macchia mediterranea: lentischio (modditzi), tamerice (tramatzu), rovo comune (orrù), lillatro (arrideli), corbezzolo (oioi), ramolaccio selvatico (embua), oppure da essenze come il fico d’india (figumurisca). Dal 1806, anno in cui fu emanato da Carlo Felice l’Editto degli olivi, le chiusure a siepe furono utilizzate per la protezione dal vento degli alberi di ulivo.

Dimenticare la storia, distruggere il paesaggio.

L’azione umana, e quindi la storia di individui e comunità, è la modellatrice del paesaggio, seguendo le esigenze del periodo storico in cui essa si realizza. Gran parte delle azioni e dei modelli di uso del territorio sono stati legati nel passato a un concetto ecologico e sostenibile di sfruttamento delle risorse.

Il XX secolo ha introdotto nuovi bisogni e nuovi modelli: il compimento del processo di industrializzazione, l’aumento demografico, i processi di produzione agroindustriale hanno inciso profondamente sul territorio e sul paesaggio.

Se il progresso ha portato tanti aspetti positivi, alcune distorsioni legate ad una spinta verso l’ipercapitalismo hanno provocato danni al territorio che manifestano la loro gravità negli eventi atmosferici di particolare straordinarietà.

Nell’ultimo decennio il tema del paesaggio è tornato alla ribalta, dopo lustri di oblio, quando è stato approvato il Piano Paesaggistico Regionale della Sardegna. La definizione di vincoli e di regole edificatorie, soprattutto lungo le coste ma non solo, ha scatenato il dibattito tra i difensori dell’ambiente e i sostenitori dello sviluppo edificatorio. Ancora nella recente attualità si ripropone il tema dell’abbattimento di una parte dei vincoli con la discussione del nuovo Piano Paesaggistico della Sardegna. Analizzando i dati sul consumo del suolo in Sardegna si può osservare un incremento del suolo urbanizzato, dal dopoguerra ad oggi, di circa 11 volte rispetto agli anni cinquanta (1154%, circa tre ettari al giorno)18, per la maggior parte concentrato nelle aree costiere. Dal 2003 al 2008 il suolo urbanizzato è aumentato di 11.642 ettari, mentre il suolo naturale perso è pari a 36.636 ettari, con una media di circa 6 ettari di nuovo suolo urbanizzato al giorno. Nello stesso periodo la popolazione sarda è                                                                                                                

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aumentata di poco più di 28.000 abitanti: mediamente per ogni nuovo abitante sono stati costruiti 4 ettari19. La mania edificatoria però non si ferma: dal 1995 al 2009 sono stati autorizzati oltre 120 milioni di metri cubi da edificare, pari a circa 8 milioni l’anno20.

Non è solo il cemento a minacciare l’ambiente e il paesaggio: negli ultimi quarant’anni 37.000 ettari all’anno di superficie è andata in fumo a causa degli incendi. Solo negli ultimi cinque anni la media si è fortunatamente abbassata: ma circa 18.500 ettari annui restano una cifra esageratamente preoccupante21.

Anche le multinazionali dell’energia sembrano aver messo gli occhi sulla Sardegna, mettendo in cortocircuito l’interesse pubblico generale per la produzione di energia da fonti rinnovabili con l’interesse pubblico per la tutela e la salvaguardia del paesaggio e dell’ambiente.

In periodi recenti si è assistito a una proliferazione dei cosiddetti «parchi eolici» e di grandi estensioni coperte da impianti fotovoltaici. A fine 2011 risultavano operativi nell’isola 39 impianti fotovoltaici per una potenza stimata di circa 960 MW e una produzione di poco più di 1.000 GWh (complessivamente la produzione da fonti rinnovabili ammontava a circa 2500 GWh pari al 19% del consumo finale lordo)22, in una regione che ad oggi è autosufficiente dal punto di vista energetico.

L’installazione di questo tipo di impianti è fortemente impattante dal punto di vista paesaggistico (e per questo sono previste le cosiddette «compensazioni» per il danno ambientale), tuttavia la necessità di produrre energia «pulita» è una delle strade principali che porta verso la sostenibilità ambientale.

Per questo sembra quanto mai necessario che gli organismi politici si attivino per la predisposizione di un piano energetico regionale che fissi le regole e individui le zone più adatte e meno impattanti dove sistemare gli impianti, e inoltre favorisca tutte le azioni di autoproduzione e autoconsumo che permettono una maggiore sostenibilità ambientale, sottraendo lo spazio a multinazionali dell’energia che utilizzano le regole di un mercato dopato dai certificati verdi.

                                                                                                               

19 P. Pileri, Presentazione del rapporto 2010 sul consumo del suolo, Centro ricerca sui consumi di

suolo, Milano 2011.

20 E. Giovannini, Audizione del Presidente dell’ISTAT alla XIII commissione del Senato della

Repubblica “Territorio, ambiente e beni culturali”, allegato statistico, Tavola 6, Roma 18 gennaio 2012.

21 Regione Autonoma della Sardegna, Piano regionale di previsione, prevenzione e lotta attiva contro

gli incendi boschivi 2011-2013, Relazione di sintesi, Revisione 2013, pp. 2-3.

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Conclusioni

Un popolo che si richiama continuamente alla propria storia e alla propria identità ha rischiato in questi decenni di depauperare uno degli elementi portanti del proprio essere: il paesaggio.

Il paesaggio è dunque un elemento fondamentale nella formazione dell’identità di un luogo, in quanto racchiude gli effetti delle azioni di singoli e comunità nella storia. La prospettiva storica, integrata in maniera interdisciplinare, resta quindi imprescindibile per lo studio del paesaggio rurale.

Il processo di industrializzazione che ha interessato la Sardegna nel secondo dopoguerra, ha di fatto «inaridito» l’azione umana nelle campagne. Questo ha comportato una «secolarizzazione» delle campagne, a cui non è seguito un sostanziale ammodernamento dell’attività agricola.

Se da un lato il progressivo abbandono dell’agricoltura ha mantenuto inalterati i tratti fondamentali del paesaggio rurale, dall’altro ha contribuito a far perdere la «sacralità» dello stesso.

La riscoperta del significato e della storia del paesaggio devono servire da stimolo per la società civile e per la politica affinché vengano poste in essere tutte le azioni di tutela e di valorizzazione.

Per tornare al concetto di Eugenio Turri, un paesaggio rispettato e tutelato garantisce un ambiente sano e sicuro per gli uomini e le donne che lo abitano.

Tutte le forzature portano irrimediabilmente a gravi danni, forse immediatamente non visibili ma che possono manifestarsi improvvisamente in tutta la loro drammaticità.

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