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Guarda Il regno del nonno (traduzione di V. Contessa, M. Sanfile, F. Startari, S. Volpini, R. Zappaterra)

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Josefina de Diego

Il regno del nonno

traduzione di V. Contessa, M. Sanfile, F. Startari, S. Volpini, R. Zappaterra

PRESENTAZIONE

Eliseo Alberto

L’Arroyo Naranjo che io e i miei fratelli conoscemmo da bambini ora non esiste più. Era uno di quegli strani paesi di cui parla papà nelle sue poesie, lungo e stretto, a metà strada tra la città e la campagna. Aveva solamente tre porte d’accesso: la Calzada de Bejucal, prolungamento di quella di Jesús del Monte; un ponte di ferro, quasi centenario, chiamato Cambó; e una ferrovia a due binari con una stazione dipinta di azzurro e giallo. Queste uniche vie d’accesso delimitavano un rettangolo di terra fertile dove si trovavano, in rapporti di buon vicinato, tre grandi proprietà familiari. Noi vivevamo a Villa Berta, la casa nel mezzo, quella che aveva costruito a suo gusto Constante de Diego, il nonno asturiano che tantissimo sapeva di alberi da frutta e di legni pregiati. Laggiù, nelle oscure mani dell’oblio, papà passò da solo i primi anni della sua vita, molto più tristi dei nostri. All’inizio degli anni cinquanta, la mamma propose di tornare a Villa Berta, dove noi tre figli avremmo potuto godere pienamente dei suoi giardini. Papà accettò: forse voleva recuperare, insieme a noi, il tempo perduto della sua infanzia. Ad Arroyo facemmo la prima comunione, imparammo a leggere e a scrivere; attraversammo, tenendoci per mano, le spiagge dell’adolescenza e fummo, senz’ombra di dubbio, più che felici. Soprattutto le domeniche. Prima ancora dell’alba, la nonna Josefina, pazzerella, ci svegliava con una zarzuela ben eseguita al pianoforte del salotto. Poco dopo arrivavano gli zii, e con loro, ovviamente, anche i cugini del cuore, e a quel punto saremmo andati avanti a oltranza. Nel pomeriggio facevano capolino tra gli alberi i poeti della rivista Orígenes ed era festa grande, fino a tarda notte. Non è stato ancora scritto niente sull’importanza di quello strano paese nella poesia cubana del XX secolo, ma posso senz’altro anticipare che senza la Villa di nonna Berta, la storia sarebbe stata diversa e probabilmente peggiore. El reino del abuelo rievoca quei giorni irripetibili. Nessuno meglio di mia sorella Fefé avrebbe potuto provare a rianimare le cose, a far risorgere i bambini e a salvarne il ricordo: lei non è solo la più intelligente di noi, ma anche la più buona.

Questo libro ci comprende e ci perdona: è stato scritto da una bambina. Bisogna dirlo una volta per tutte: un brutto giorno del 1968 quella felicità all’improvviso svanì, e ci svegliammo

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con le valigie pronte, i mobili sul camion del trasloco, i quadri staccati dalle pareti e le lucertole che ci fissavano dritte negli occhi, perché non potevano credere a ciò che stava succedendo. Per ragioni troppo tristi da raccontare, dovemmo fuggire, più che trasferirci, nella grande città. Fu inevitabile. I camaleonti ci dissero addio sventolando i fazzoletti delle loro gole. Il pozzo andò in malora. I pini rinsecchirono. Le colombe, disperate e furiose, si persero nelle trappole del cielo. Lasciammo la casa al suo destino. Chiudemmo le porte. Le voltammo le spalle. La tradimmo. Sì: la tradimmo. Da quella sera, l’ultima della nostra infanzia, tutti, assolutamente tutti, ci portiamo il peso di quella enorme colpa. Di aver voltato le spalle ad Arroyo. Di avere abbandonato lì anche i bambini che io, Rapi e Fefé eravamo stati, con le faccine contro le sbarre della cancellata, senza capire perché diamine li avessimo abbandonati.

Questo libro, come ho detto, ci comprende e ci perdona. Sono passati molti anni, il paese di Arroyo Naranjo non è più lo stesso. Noi nemmeno. Quando era nostro, quando eravamo suoi, aveva esattamente tutto il necessario per accontentare i suoi abitanti: una chiesa con un campanile e un organo a pedali, una magnifica scuola e un cimitero. Un piccolo cimitero che mordeva appena l’angolo destro di un isolato alla periferia del paese, con trenta tombe nella terra, qualche croce di ferro e un paio di angeli di gesso posati, come uccellini, su piedistalli di cemento. Non so perché mi ricordo con tanta precisione di quel santo camposanto, visto che era abbastanza lontano da Villa Berta. Raramente entravamo nel cimitero, e quando finalmente ci decidemmo ad oltrepassarne il portone intimorente, lo facemmo più sedotti dai reali misteri della vita che dai reali dolori della morte. Perché la morte ci importava così poco, a quell’epoca, che nemmeno sapevamo che esistesse. Mia sorella menziona il cimitero in qualche pagina del suo libro. Attraversa lentamente il giardino dei defunti; lo vedo con la coda dell’occhio. Mi fermo lì. Oggi nessuna tomba mostra i suoi fiori. Gli angioletti hanno perso le ali. Le croci ancorate nella terra umida, come resti di un naufragio. I morti sono più morti che mai, seppelliti nel fondo senza fondo dell’oblio. E allora intraprendo il mio ritorno per l’unica strada possibile, quella del nonno Constante, del libro di Fefita e ricomincio a camminare sulla mappa di questo libro, pagina dopo pagina, molto lentamente, ripercorrendo nuovamente le stradine di parole precise, fermandomi davanti ai portali delle case, ricostruite parola per parola da mia sorella. In questo libro sono in salvo; nel paese, sperduto. Nessuno mi riconosce. La chiesa oggi è in rovina. Eppure le campane suonano e suonano ancora, grazie a Fefé. Anche la scuola è in rovina. Ma, grazie a mia sorella posso sentire i nostri amici che giocano durante l’intervallo. La stazione dei treni è in rovina. Eppure al di sopra delle cime degli alberi si eleva il fumo di una locomotiva impossibile. Finalmente arrivo a Villa Berta. In questo libro tutto è come tanti anni fa. Ci sono due bambini che mi aspettano. Sono Rapi e Fefé. Sembrano felici di vedermi. Hanno le faccine premute contro le sbarre della cancellata. Manco solo io.

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“Ti ricordi?”, chiede mia sorella, e mi mette il libro in mano. Rapi ci passa un braccio sulle spalle.

Si riapre la porta. Il libro comincia.

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A mio nonno Constante, l’asturiano. Ai miei genitori, Bella ed Eliseo. Ai miei fratelli, Rapi e Lichi. Ai miei nipoti, Ismael e María José.

Chi concepisce per sempre la poesia non è chi la fa. Fece il regno il nonno che oggi dorme, non nella fredda terra del cimitero, ma nei pini che seminò per tutti, e nel tenero, profondo, adorato, generoso oblio!

Fina García Marruz

E nominerò le cose, così lentamente che quando perderò il Paradiso della mia strada e i miei oblii me la restituiranno sogno potrò chiamarla all’improvviso con l’alba.

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I

Ti ricordi, fratello mio, del boschetto di canne davanti casa? E del misterioso sentiero che attraversava tutto quell’oscuro giardino e che si illuminava, proprio alla fine, quando, scostando le foglie, ci imbattevamo nella casa di Maria?

Ti ricordi delle amache a casa di Palenque e dell’elegante cavallo di Capote, di come lo portavano a spasso, così docile?

E del benzinaio di Colado? Della drogheria di Marcelino, del chioschetto di Yoyo? C’era anche la ferramenta. Lì, nei primi anni Sessanta, si vendevano giocattoli ed io, ogni Natale, desideravo la stessa cosa: una bambolina cinese. Forse perché mi dava un senso di sicurezza che con lei mi volevo garantire. O forse, semplicemente, perché aveva un sorriso molto dolce. Non so.

Ma tutto questo esisteva fuori dalla casa.

II

La casa era dietro, in fondo, nascosta. Era come una fortezza, casa mia. Sicura, ampia, fresca, accogliente. Solo alcune finestre, quelle della sala, avevano le sbarre, ed erano belle e servivano per giocare, perché erano come gradini per arrivare alle finestre più in alto, dove c’erano le camere. La scala e il pavimento delle camere erano in legno. Il legno scricchiolava leggermente, e subito capivamo chi stava salendo, su quale gradino si era fermato a riposare, se stesse salendo di fretta o lentamente. Lo potevamo indovinare, come se lo stessimo vedendo attraverso una sfera di cristallo. “Arriva la mamma, svelto, nasconditi Tobi!”. E Tobi scivolava sotto uno dei nostri tre letti, spaventato, complice. La sua coda sempre incontrollabile, inquieta e birichina.

III

L’aroma del Natale inondava tutto. La casa profumava di presepe e mandarini. Apparivano nuove stelle attorcigliate alle cime dei pini del giardino. Era il momento di aprire quelle scatole polverose che avevamo conservato l’anno prima in garage. Con estrema delicatezza, la mamma toglieva la carta e le stanche statuine uscivano dalle sue mani come nuove, come appena fatte, solo per noi, i suoi tre figli. “Aspettate che torni vostro padre” ci diceva. E il presepe iniziava.

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IV

Il boschetto di areche era a fianco della casa, vicino le stanze. Era difficile vedere la casa da fuori perché le areche stavano lì, immense, come quattro severi guardiani.

Non vi era nascondiglio migliore.

La gallinella chicchirichì, con ostinata impertinenza, costruiva il suo nido sotto l’areca più frondosa. “Non c’è nascondiglio migliore”, pensava di certo, mentre scostava il fogliame e si accomodava tra i suoi eleganti tronchi.

V

“Le Sorgenti!”, annunciava il conduttore con voce tonante e la corriera si fermava di fronte al garage di Colado.

Le sorgenti attraversavano l’appezzamento da un estremo all’altro e lo abitavano con il loro rumore sotterraneo. Il pozzo, un pozzo vero, umido, buio, pericoloso, era l’orgoglio del nonno asturiano. “Prima, molto tempo fa, qui c’era un’osteria”, assicurava il nonno. Il pozzo dimostrava i suoi anni. Quando riuscivamo ad andargli sufficientemente vicino gli parlavamo, è l’eco ci restituiva le nostre voci confuse, estranee, invecchiate.

Implacabile, Lázaro lanciava il secchio nel vuoto e la corda scendeva tra le sue poderose mani. Dal profondo, lentamente, riappariva la confortante sagoma del secchio con il suo prezioso contenuto.

L’acqua era fresca e cristallina, come quella dei lontani fiumi asturiani.

VI

La casa (costruita sul limitare di Arroyo Naranjo, a circa trenta chilometri dall’Avana) si chiamava Villa Berta, come la nonna paterna, la moglie di nonno Constante, l’asturiano. Il nome era scritto sui due battenti di ferro che si aprivano, accoglienti, per dare il passo alle auto e anche i venditori di frutta e verdura e di giornali, che entravano sui carretti a cavallo. Sulla destra c’era una porta per le persone, ma non la usava nessuno. Forse, pensavo io, perché i battenti di ferro erano come le braccia della casa, la prima cosa che i tanti visitatori vedevano e, se si entrava dalla porta piccolina, anche l’abbraccio sarebbe stato più piccolino. A sinistra c’era una panchina di cemento su cui ci sedevamo ad aspettare la corriera per andare a scuola, riparati dall’ombra discontinua di una bouganville viola.

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VII

La nonna Berta era autoritaria e dominante. Sapeva dare ordini, ma con noi era dolce e generosa. Era cresciuta negli Stati Uniti e pregava e parlava nel sonno in inglese, lingua che aveva imparato prima dello spagnolo. Adorava Dickens e recitava a memoria “Alice nel Paese delle Meraviglie”.

Alla nonna piaceva ripetere questa storia: “Tica, Tica, ci sono carrozze che si muovono senza cavalli!”, mi avvisò, agitata, la mia compagna di stanza. E quando ci affacciammo dalla porta in punta di piedi, la vedemmo: una macchina splendida, che andava velocissima e faceva un rumore assordante”. Era l’anno 1897 e mia nonna versione bambina contemplava, stupefatta e affascinata, dalla porta della sua scuola a New York, la prima automobile a motore.

Un giorno, già quasi cieca, mi diede l’unico ordine della sua vita: “Voglio che mi incornici questo”. Era un’immagine abbastanza comune, dai colori sbiaditi. Ma lei non si sentì tranquilla finché non l’ebbe fra le mani. L’immagine era il disegno di una carrozza trainata da quattro robusti cavalli. La nonna rimaneva molto tempo a guardarla e, a volte, piangeva sommessamente, a lungo, da sola.

VIII

La voce della nonna Chifón era melodiosa, un po’ acuta (anche se non molto) come quella dei toni alti delle note del suo pianoforte. Era calda, la sua voce, dolce e canterina, sempre giovane, come quella di un adolescente. Noi tre la chiamavamo “Chifón" per una canzone in francese con cui ci faceva addormentare. I cugini la chiamavano per nome , nonna Josefina. Suo padre, Rosendo Badía, catalano, era stato maestro e aveva avuto una scuola a Cárdenas, un paese in provincia di Matanzas. La nonna, da bambina, imparò il pianoforte che fu la sua grande passione. Le danze di Cervantes e Saumel assumevano un senso speciale suonate da lei. Era come se l’isola intera passasse dalle sue mani, trasformata in una musica prodigiosa. Sentirle suonare il pianoforte era sempre una festa, ma una festa incantata, perché c’era qualcosa di magico, misterioso in quell’istante in cui si sedeva sullo sgabello, alzava le mani e le lasciava cadere, dolcemente, sull’amata tastiera.

Ebbe sei figli, ma i primi due morirono molto piccoli. Al ritorno dal funerale del suo primo figlio, la nonna rimase tutto il pomeriggio e tutta la notte a suonare il pianoforte. Suonando tutto ciò che piaceva ascoltare al figlio morto, suonando tutto ciò che le sarebbe piaciuto suonare per il resto della sua vita, inventando per il suo piccino le canzoni più belle del mondo. Suonò fino all’alba.

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Fu uno scandalo in paese.

IX

La canzone faceva così: “Ansi font, font, font, Les petites marionettes, Ansi, font, font, font, Trois petits tours Et puis s’en vont!” Ma noi sentivamo: “Le chifon, fon, fon...”

X

“Lunedì, martedì, mercoledì, giovedì, venerdì, sabato e Arroyo!” ripeteva sorridente il cugino più piccolo, José María, quando gli chiedevamo di dirci i giorni della settimana. Questo perché non c’era niente di meglio, e mai ci sarà più, delle domeniche nella nostra casa. Nonna Chifón arrivava il venerdì con i cugini Cuchi e Chelita e la sua immancabile borsa piena di scampoli di ogni dimensione e colore che la mamma conservava gelosamente in un armadio. Quegli scampoli si sarebbero trasformati poi in colli di camicie, fazzoletti, tovaglie, grembiuli e camicette per zia Fina e per me.

La domenica mattina presto venivamo svegliati da nonna Chifón al pianoforte e noi cinque cugini ci precipitavamo giù per la scala di legno e il corrimano cercando di fare più rumore possibile. Il pianoforte si trovava accanto alla scala e, sul lato del pianoforte, sotto la scala, c’era il ripostiglio dei giochi, una sorta di caverna piena di insospettabili tesori.

Dopo colazione, la messa nella chiesa del paese, bianchissima, costruita al centro della piazza. Mi piaceva la messa, soprattutto la lettura dei Vangeli, che ascoltavo come se fossero episodi di un libro di storie senza fine. Al ritorno ci cambiavamo di vestito e cominciavano i giochi che si arricchivano via via che arrivava il resto dei cugini.

Il cancello di ferro rimaneva aperto tutto il giorno. Dal fondo della casa si vedevano sopraggiungere le automobili: “Stanno arrivando gli zii Cintio e Fina!”; “Maria, fai altro caffè”; “É in arrivo lo zio Felipe con i suoi musicisti”; “Sergio, canta ancora ‘Stars Fell on Alabama’”; “Ecco zio Agustín con le sue “creaturine”; “Bella, i ragazzi non ci lasciano parlare, fai un’urlata delle tue!”

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Al tramonto il sole si nascondeva dietro gli alberi, al di là della ferrovia. Le voci, tra i saluti, si mescolavano all’inconfondibile suono delle auto in ritirata e uno strano silenzio si impadroniva della casa. L’eccitazione della giornata ci accompagnava per gran parte della notte e solo il fruscio sereno delle areche riusciva a farci addormentare.

Il pianoforte, la messa di mattina presto, i giochi con i cugini, gli zii, gli amici, la voce pacata di papà, la possente locomotiva e il suo fischio enigmatico. Frammenti di ricordi tanto amati, miei.

XI

Non c’erano né ruscelli né aranci. Solo stradine strette e piacevoli, protette da alberi molti vecchi e frondosi. Il ponte di ferro sopra i binari, che era stato costruito dal fratello del mio bisnonno Eliseo Giberga, si poteva paragonare al ponte levatoio dei castelli e delle fortezze antiche in quanto costituiva l’unica via d’accesso al paese. Dal ponte si vedevano le chiome dei pini e il fondo della casa, giusto al bordo della scarpata che finiva sulla ferrovia.

La via principale, la Calzada de Bejucal, segnava, da nord a sud, l’inizio e la fine del paese, mentre paralleli correvano sentierini e strade lastricate. I loro nomi erano molto curiosi perché non avevano alcun rapporto con la realtà. In calle Pinar non c’era nemmeno un pino e la calle Mangos non aveva mai visto un albero da frutto. La calle Luz era buia, circondata da edifici misteriosi e casette di campagna che si nascondevano dietro a dei veri e propri boschi. Forse era un modo per esprimere un disagio, un’aspirazione.

Apparentemente il paese, come diceva sempre nonna Berta, “era stato abbandonato da Dio”, ma percorrendolo con attenzione ci si accorgeva che non mancava niente e anzi aveva il suo fascino, i suoi labirinti e i suoi segreti.

Nessun paese in tutta la provincia aveva un vero e proprio osservatorio con una cupola e un telescopio che si ergeva, possente, tra gli alberi. L’osservatorio si trovava nella villa della famiglia Del Cristo e apparteneva al dottore Mery, uno dei migliori oculisti della nazione. C’era una fabbrica di cartone, “la cartonera”, che diffondeva in paese un peculiare odore di cose secche, e apparteneva ai GarcíaVasallo. Non potevano mancare i gelati alla frutta che facevano i cinesi e che ti vendevano sempre con quel sorriso accattivante e burlone che sembrava dire: “Sì, veniamo dalla lontana Cina ma sappiamo fare gelati al mango, alla banana, alla guava, all’annona, alla guanabana…”. Oltre alla chiesetta, l piazza, le sorgenti, la ferramenta, la drogheria, il benzinaio, c’erano anche l’elegante stazione – in stile inglese dato che lo era la compagnia ferroviaria – la panetteria, l’efficiente ufficio postale, una merceria, una casetta in legno con in basso la farmacia (i proprietari vivevano al piano

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superiore) che ricordava quelle dei film western, un ospizio per anziani, un istituto per malati mentali, il barbiere e una sala da biliardo.

C’erano anche due scuole elementari e una media. Una delle elementari era privata ma la retta scolastica era così modesta che poteva frequentarla chiunque lo volesse. Si chiamava Escuela Hogar Consuelo Serra (in onore di Rafael Serra, l’amico di José Martì) e aveva i migliori insegnanti del mondo, tutti neri o mulatti. L’uniforme era molto sobria: pantaloni e casacca color cachi con cravatte e fiocchi viola. Nella scuola c’era una torre misteriosa su cui non potemmo salire mai e un cortile trascurato e affascinante a cui si poteva accedere soltanto in giorni molto speciali. Nella scuola, pulita, ordinata, sempre impeccabile, entrava una luce tenue, delicata. Non esiste più. Crollò anni dopo la nostra partenza. Le sue rovine sono ancora lì, silenziose, signorili.

All’uscita del paese, molto piccolo, come se si sentisse un po’ a disagio, il vecchio cimitero con le croci di legno e i suoi rampicanti fioriti.

Di certo non vi erano né ruscelli né aranci, ma il paese con l’elegante distinzione degli umili, conservava, orgoglioso, i suoi tesori più cari: la brezza leggera, la luce affettuosa, l’angolino tranquillo, il mormorio dei pini.

XII

“Fazzoletti, cerca dei fazzoletti per tua madre!”. María apriva tutti i cassetti, li rovistava, li lasciava aperti, in disordine. Io non capivo ma cercavo comunque i fazzoletti, i più carini, con i pizzi e i bordi ricamati, quelli che piacevano di più alla mamma, con il suo nome e i fiorellini sui bordi. Il telefono suonava e María rispondeva a voce molto bassa, sussurrando. Il giorno dopo, nel pomeriggio, arrivò la mamma. Sembrava molto stanca e triste. Io non capivo e mi spaventai molto. Cosa poteva essere successo nel mondo da provocarle così tanto dolore? Entrò nella nostra stanza e parlò a noi tre, molto lentamente, con una tristezza che sembrava venire da molto lontano, e faceva male.

Per molto tempo non si suonò il pianoforte, né di domenica né a Natale. Sono passati molti anni e mi manca ancora la sua voce che era come un rifugio, la sua allegria, il delirante disordine della sua borsa degli scampoli, la delicatezza delle sue mani. E continuo a non capire.

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XIII

La mamma cuciva i nostri nomi sulle zanzariere e sulle coperte che usavamo d’inverno. Realizzava tutti i miei vestiti con la sua macchina da cucire elettrica, e a volte, quando le si rompeva, usava quella di María, che era meccanica, a pedali.

Ricopriva i quaderni di scuola con carta arancione che comprava nella merceria del paese, e poi li decorava con fotografie molto carine che ritagliava dalle sue riviste.

Realizzava la pignatta per i compleanni con vasi di terracotta che ricopriva con carta velina dai colori pastello e li riempiva di caramelle, stelle filanti e sorprese che solo lei conosceva.

Realizzava tutto sulla tavola rotonda della sala da pranzo, la tavola di sempre. Le forbici, tutto il tempo impegnate a ritagliare le stoffe compiacenti, la carta, il legno.

Di chi erano i giochi?

“Mia sorella è come un uccellino”, pensa la zia Fina e lo annota su un pezzetto di carta.

XIV

Era come un allarme, come un avviso carico di presagi, remoto, estraneo, antico.

Era come l’annuncio dell’irreparabile, dell’inafferrabile, di ciò che non sarebbe stato più. Era come la certezza della felicità, la convinzione della quiete, la possibilità dell’incontro, l’eco dei nostri giochi.

Era come il rumore solitario del mare, il fremito amoroso delle foglie, la nostalgia dei nostri sogni.

Ma come spiegare com’era, l’incantesimo del tubare delle colombe selvatiche nel giardino.

XV

Un po’ di freddo, pioggerellina. I maglioni e i soprabiti dai colori brillanti sostituivano i leggeri vestiti estivi. I copriletto con i nostri nomi per evitare di confonderli: il mio era rosso, quello dei miei fratelli, verde. I pigiami gialli di flanella con disegni di pagliacci e bastoni di caramelle. La Vigilia e il Natale si avvicinavano e bisognava preparare ogni cosa perché tutto andasse bene: scegliere il pino migliore, le palle, le ghirlande, la stella. Le palle che si rompevano – qualcuna senza volerlo ma altre le lasciavamo cadere dopo un rapido scambio di occhiate – si trasformavano in una polvere luccicante sparsa sulla neve di ovatta.

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Il nostro albero di Natale doveva essere alto, frondoso, ma solo la mamma ne conosceva le esatte dimensioni e l’angolo della casa dove si sarebbe dovuto mettere.

La preparazione del presepe era più solenne. La collezione delle statuine, di origine italiana, non si poteva rompere. Trattenevamo il fiato ogni volta che toglievamo ognuna delle figure dalle scatole e la posavamo, con molta attenzione, sul tavolo. Il presepe era molto grande, più grande di quello dei cugini Sergio e José María.

Ogni anno nel medesimo modo – forse ogni anno un po’ più lenta, la sua voce - papà ci raccontava com’era andata, cos’era successo: l’Annunciazione, la Fuga in Egitto, l’Annunciazione ai Pastori, il lungo viaggio dei tre Re Magi, Gesù Bambino nella mangiatoia. Ogni statuina aveva la sua storia; ogni momento, il suo mistero. I pastori, circondati dalle pecore, davanti al fuoco vicino al lago; l’angelo che appare nel cuore della notte e loro che indietreggiano spaventati. I tre Re Magi si inchinano davanti al Bambino e Maria sorride loro piena di gratitudine. Le figure cominciano a muoversi. La voce di papà, stanca, affannosa, attraversa il tempo.

XVI

Quando il cielo si rannuvolava gli occhi dello zio Rosendo brillavano in un modo speciale. Continuava a parlare senza però smettere di guardare il cortile attraverso i vetri delle finestre della sala da pranzo. Si alzava con un pretesto qualsiasi alla ricerca di un secchio e di un vecchio asciugamano e continuava con i suoi racconti: di come aveva vinto quel campionato di charleston sui pattini, dell’immortalità del granchio, dell’angelo che non poteva volare perché era un pulcino. Ma noi tre sapevamo e aspettavamo ansiosi. Le prime gocce dell’acquazzone erano il segnale, e lo zio usciva sotto l’acqua, tra lampi e tuoni. “Rosendo, entra, cosa dirà la gente?”, gli diceva la mamma. Lo zio, però, come posseduto da un demone tiranno, non si fermava. Indaffaratissimo, portava la sua macchina sotto la pioggia battente, strizzava con forza l’asciugamano nel secchio traboccante d’acqua e continuava ad asciugare la sua Lincoln Continental color verde limone, facendo uno sforzo improrogabile affinché risultasse lucida, sfavillante.

Da dietro i vetri delle finestre della sala da pranzo lo contemplavamo orgogliosi. Lo zio Rosendo sudava copiosamente.

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XVII

Il nonno asturiano aveva diviso il giardino in recinti irregolari e incantati ognuno dei quali era un luogo di inesauribili sorprese. La luce e l’ombra tra gli alberi disegnavano figure inquietanti che sembravano provenire da luoghi lontani per mostrarci un nuovo gioco, un angolo dimenticato. Ancora mi risveglia il ricordo della brezza che sbatteva delicatamente contro le nostre finestre, come un invito a non perderci i misteri della notte.

Avrà mai sospettato, il nonno asturiano, che era proprio così che i suoi tre nipoti cubani avrebbero desiderato fosse il loro giardino? Sarà stato per questo motivo che abbandonò le sue montagne, per costruire a suo figlio e ai tre nipoti questo boschetto bizzarro e fatato? In quale strano momento del tempo glielo avremo descritto? Perché il nonno anticipò i nostri sogni e ci regalò ciò che sapeva ci sarebbe mancato per tutta la vita.

Il nonno di certo lo sapeva. Lo doveva sapere.

XVIII

Il sentierino delle palme si trovava tra il bosco trascurato dei manghi e il primo recinto, all’ingresso, che aveva sempre un’aiuola di prato ben tagliato circondata da fiori e piantine La piccola scala di pietra alla fine del sentiero, scortata da due giare, interrompeva il decrepito muro di mattoni che divideva il giardino in due metà quasi uguali ma su due livelli diversi. In prossimità del muro rinvenivamo cocci di piatti spagnoli, statuette votive, fossili di conchiglia, provenienti dall’osteria o dal convento che secondo nonno Constante era esistito prima della casa. Poi c’era il bosco di pini con la fontana circondata da plumbago e campanule. Di fianco, un po’ sulla destra, l’altra fontana con la statua dell’elegante signora e la sua brocca. Sopra, altri pini ed areche, accanto al pozzo. Ovunque manghi, guanabane, annone, sapotiglie, prugni. In fondo c’era la stalla, dove molti anni prima il nonno teneva il suo cavallo. La tenebrosa boscaglia, umida e piena di ragnatele, in curva, sul ciglio della strada.

Il treno scuoteva la casa quando passava in fondo alla scarpata e spaventava le colombe che cercavano rifugio sull’alto tetto di tegole rosse.

XIX

Mi sono sempre piaciuti i giardinieri, con quel modo silenzioso di avvicinarsi. Li si vede sempre lontani, con i loro attrezzi, confusi tra il fogliame, taciturni. Il giardiniere di casa

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mia, Betancourt, era alto e magro, slanciato come un tronco sottile. Con le sue cesoie da potatura ghigliottinava le punte dei crotos, con una violenza rara. Ma poi passava tutto il pomeriggio ad innaffiarli, sistemargli la terra, pulirgli le foglie, come per scusarsi con loro di essere stato così rude.

Io lo osservavo alcune volte tra i pini, altre con il plumbago, e a volte lo perdevo di vista o mi sembrava di vederlo in diversi luoghi allo stesso tempo. È che i giardinieri conoscono il linguaggio delle piante, e anche quello degli animali. E sono sempre esistiti e sempre esisteranno, perché hanno l’incarico di evitare che si rompa il fragile vincolo tra l’uomo e la saggia compiacenza della natura.

XX

Nella fontana del plumbago, in mezzo ai sei pini, nascondevamo dei tesori. Era il luogo ideale, protetto dalla piccola statua del “niño-vigía”. Nascondevamo monete e oggetti dal valore inestimabile, come le lettere che avremmo scritto ai tre Re Magi l’anno seguente, perché non volevamo dimenticarci neanche di uno dei giocattoli che vedevamo nelle riviste e nei negozi. Preparavamo una mappa perfetta, come quelle che disegnavano i pirati, per poterci ricordare con esattezza il luogo prescelto. Tobi ci accompagnava sempre e scavava la terra per aiutarci. Era anche il luogo preferito della mamma per farci le foto. Timorosi, stavamo in piedi sopra la terra smossa, per evitare che se ne accorgesse. Betancourt ci sgridava perché gli rovinavamo il plumbago, ma non scoprì mai quello che nascondevamo in quella fontana di cui tanto si prendeva cura.

Chissà se è ancora sepolto là lo scrigno dei tesori. Chissà se conserva le nostre lettere e i tre Re Magi le stanno ancora aspettando. Chissà se quei giocattoli sono nostri e non lo sappiamo.

XXI

“Dove vai, Teresa?”. “Chez Tobi!”, rispondeva con infantile impertinenza la figlia maggiore di Roberto e Adelaida. I suoi genitori avevano voluto che studiasse il francese sin da piccola, e una delle prime cose che imparò a dire fu “chez Tobi”. Non “chez Bella”, né “chez Rapi”, né “chez Lichi”. No. “Chez Tobi!”, e gli occhi le s’illuminavano come stelle.

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XXII

Mi piaceva arrampicarmi sugli alberi con mio fratello Rapi. Lichi, più tranquillo, rimaneva a giocare da solo con i soldatini, mentre io e Rapi salivamo e salivamo, quasi suicidi, per vedere chi arrivava al ramo più alto. Di fronte alla casa c’erano due alberi immensi, due ficus, con tronchi possenti e liane, e un fitto fogliame. Noi preferivamo quello che stava davanti al portone e alle stanze, “l’albero ciccione”. Rapi, con il suo sorriso furbetto, saliva molto in alto, tanto in alto che io mi spaventavo perché pensavo che potesse cadere allo spezzarsi di un ramo sotto il suo peso. Lui rideva e continuava a scalare, come inebriato, e mi chiedeva di seguirlo fino alla fine, perché vedessi quanto era bella la casa da quella altezza.

Sono tornata di recente in quel luogo. Quando ho visto l’albero ho sentito un impulso strano e non ho potuto fare altro che salire. Mi sono aggrappata agli stessi tronchi, adesso più piccoli, ho messo i piedi negli stessi punti, e mi sono arrampicata, con un’agilità dimenticata. Per un momento mi è sembrato di riconoscere l’ombra di un bambino che si nascondeva tra i rami, e come in un sussurro, mischiata con il vento, la voce allegra di Rapi: “Sali sorellina, sali fino in cima, non avere paura, ti aiuto io!”

XXIII

“Josefina, non penserai di uscire vestita così, perché non te lo permetto!”, gridò papà, brandendo minacciosamente la pistola. La mamma aspettò che si addormentasse e scappò saltando da un muro. Lo chiamò per telefono da un bar vicino e papà, furioso, uscì a compiere quello che aveva promesso. Ritornarono a casa abbracciati. Si adoravano”.

La mamma ripete e ripete questo aneddoto. Nonno Sergio, medico illustre che si era laureato nel 1905 a 19 anni – il più giovane della sua classe – come ginecologo e ostetrico. Il nonno, che modificò il proprio cognome perché tutti sapessero che suo figlio – che non era ancora nato ma che sarebbe stato medico come lui – era suo figlio, García-Marruz y Badía. “il Dottor Marruz”. Il nonno, che fondò la scuola per ostetriche e iniziò, insieme al Dottor Vitalta, la tecnica del cesareo basso. Professore all’università, simpatico, intraprendente, spettacolare.

La mamma non fa che parlarci di suo padre; vuole che lo ricordiamo, anche se non lo abbiamo conosciuto. “Questo è tuo nonno Sergio, il medico. Era molto bello”, ci mostra foto, ritagli di giornale. Nonno, che si tolse la maschera dell’ossigeno per dire addio ai suoi figli quando capì che non gli restava più vita da vivere.

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XXIV

Come rendere a parole le note del motivo musicale con il quale lo zio Felipe iniziava le sue esibizioni? Quel momento unico in cui tutti stavamo zitti, circondati da fumo, penombra e rum, per godere dell’incanto di Felipe, del suo pianoforte e dei suoi musicisti. Il motivo, una melodia nostalgica, soave, grata, breve, era un avviso delicato, al quale tutti rispondevamo con un silenzio assoluto; e lo zio, con il suo sorriso sbieco, ci ammaliava e rallegrava.

Le parole non mi bastano, ma la melodia mi accompagnerà sempre. E insieme ai miei migliori e più innamorati ricordi, l’incedere elegante dello zio, il suo sorriso sbieco, la sua musica generosa, la sua galanteria.

XXV

Ogni anno tornava il circo. Noi venivamo a saperlo dagli amici del quartiere che arrivavano, trafelati, a raccontarci quello che avevano visto: la donna barbuta, l’uomo forzuto, i pagliacci, gli acrobati, il leone. Oltre al circo venivano montati diversi giochi, giostre, il “calcinculo”, la ruota. Il paese si scrollava di dosso la propria monotonia e si riempiva di bandierine e manifesti. Un’automobile vecchia, tutta colorata, percorreva le strade con gli altoparlanti, annunciando meraviglie e sorprese.

Non potei mai andarci perché la mamma non mi lasciava, ma i miei fratelli sì che ci andavano. Quando ritornavano, a tarda notte, mi svegliavano per raccontarmi. Ricordo che i loro occhi brillavano, come se le luci del circo vi fossero penetrate attraverso un misterioso e complicato incantesimo; e io mi addormentavo ascoltandoli, immaginando le acrobazie, i salti mortali, l’equilibrista sulla fune, lo spaventoso ruggito del leone.

XXVI

“Di che cosa ride la nana?” Il suo corpo deforme, brutto, si scuote dalle risate. Le mani tozze gesticolano allegre mentre alza la testa per rispondere all’amica gigante. La sua ombra minuta si confonde con quella dell’amica, si allunga e si perde tra le ombre degli alberi. Si tappa la bocca, con un gesto inconsapevole per nascondere i denti, e continua a ridere, spensierata, felice. Il suo corpo deforme si scuote dalle risate. Sta morendo dal ridere.

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XXVII

L’unica di tutta la famiglia che aveva senso pratico era Nonna Berta. Arrivò ad essere nominata ispettrice della lingua inglese a livello nazionale per la sua profonda conoscenza della materia, e scrisse un libro di testo in tre volumi: “Exercises in Functional Grammar”. I diritti d’autore del libro le diedero denaro sufficiente per soddisfare qualsiasi capriccio dei suoi unici tre nipoti, e ci comprava tutti i giocattoli che le chiedevamo. La casa sembrava un parco dei divertimenti: amache, altalene, scivoli, biciclette, pattini, case delle bambole. Gli amici del quartiere si divertivano, insieme a noi, con tutti i giocattoli, e la nonna sembrava disposta ad accontentarci in tutto e per tutto.

Pianificò anche, meticolosamente, tutto il futuro della famiglia. La casa di Arroyo Naranjo sarebbe diventata luogo di villeggiatura quando i bambini sarebbero cresciuti e andati all’università; si sarebbe costruita una grande casa nella capitale e case sulla spiaggia di Varadero e ad Alamar.

I piani della nonna crollarono, uno dopo l’altro, come il castello di carte di Alice: nuove leggi, create nel 1959, impedirono di avere due case in città. L’entrata dei “Barbudos” all’Avana, che a noi sembrò una grande festa, la rese triste per sempre. La sua famiglia andò a vivere negli Stati Uniti e la nonna rimase sola con noi. Mi ci vollero molti anni per capirla e per capire la tristezza che la accompagnò fino al giorno stesso della sua morte.

XXVIII

La mamma sta guardando un film di Ginger e Fred alla televisione. Se la ride, come una bambina. Non si muove. È attenta, ammaliata. Non si fa sfuggire un gesto, un secondo. Canticchia le canzoni, sottovoce. I suoi capelli, bianchissimi, brillano e cambiano colore con le immagini in movimento.

La mamma è di nuovo una ragazzina: balla insieme a loro. È più bella che mai.

XXIX

“La nonna Chifón ha vinto alla lotteria!”, pensai quando vidi il tavolo della sala pieno di dolci di qualsiasi tipo e dimensione: “eclairs” al cioccolato, “señoritas”, crostatine, pasticcini di guava e cocco, ipanetelas borrachas.

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La nonna era appena rientrata e dalla sua borsa continuavano a uscire i dolci più invitanti del mondo.

Il mistero si svelò quando uscimmo a giocare in giardino e vedemmo come un carro attrezzi si portava via il camioncino di una pasticceria che era andato a sbattere contro uno degli alberi all’entrata della casa. L’autista, disperato, aveva deciso di regalare i dolci al primo passante, che per nostra fortuna era stata la nonna.

Mangiammo dolci per una settimana.

XXX

Il padrino di Rapi, Constantico, regalò a mio fratello una puledra molto carina, grigio chiara, chiamata La Mora, che secondo alcuni aveva “le sue lune” La Mora era elegante, fiera, molto agile e forte. Con noi tre e i nostri cugini era mite, ma quando si avvicinava un altro cavallo si indispettiva e iniziava a sgroppare in modo preoccupante. Una volta in cui la cavalcavo con mio cugino Sergio, La Mora s’impennò ed io ne uscii illesa solo grazie a una manovra acrobatica di mio cugino. La Mora ci osservava da lontano, nervosa e un po’ in imbarazzo, ma decisa a rifarlo se un altro cavallo si fosse permesso di avvicinarsi. Era orgogliosa e affettuosa, arrogante e tenera.

La gelosia irrefrenabile de La Mora ci metteva in serio pericolo e i miei genitori decisero di rinchiuderla, per un periodo, in una stalla lì vicino. L’ultima cosa che sapemmo di lei fu che morì cercando di saltare una recinzione di filo spinato, in un disperato tentativo di fuga.

XXXI

“Bella, dove sei!”, chiede papà, nel suo solito modo di chiamarla, a volte senza alcun motivo. “Hai visto tua madre?”, mi domanda e continua a cercarla in tutte le camere da letto, in soggiorno, in sala da pranzo, in cucina. La mamma non gli risponde, forse perché con gli anni non sente più molto bene, forse perché conosce le sue crisi da tutta una vita, o forse, semplicemente, perché non è in casa. Papà continua a chiamarla, sempre più ansioso e agitato. Alla fine, si lascia andare su una poltrona, si passa la mano in testa e mormora, disperato: “Dove si sarà cacciata quella ragazzina?”.

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XXXII

Ogni volta che contemplo il cielo di notte penso a zio Octavio. Gli piaceva insegnarci le costellazioni e le stelle e, quando faceva buio, ci sottoponeva a degli esami molto severi: “Allora vediamo, nipoti, chi trova per primo l’Orsa Maggiore?”, e noi ci affrettavamo ad indicargli un punto nell’infinito. “Molto bene, molto bene”, ci diceva sorridente, e ci mostrava nuove figure nello spazio.

Era un avvocato e un poeta. Ogni domenica, lui e papà ci facevano divertire inventando canzoni e inscenando rappresentazioni teatrali. Se la ridevano, come bambini, fino a perdere il fiato.

Penso sempre a lui, quando contemplo il cielo di notte.

XXXIII

Nonna Berta adorava viaggiare: era una nonna viaggiatrice. Era convinta che la vita avrebbe avuto senso solo se si fossero conosciuti altri paesi. Aveva visitato tutta l’Europa e gli Stati Uniti.

La Prima Guerra Mondiale la sorprese ad una stazione ferroviaria della Germania, in viaggio per Parigi. Nonna notò un’agitazione strana tra la gente; li vedeva camminare di fretta, con le facce serie, spaventate. La stazione era piena di militari e i giornali, con grandi titoli, finivano in un istante. Sua zia le chiese di provare a capire che stesse succedendo e nonna, che non parlava tedesco, scese dal treno, che stava per partire, e si rivolse al primo ufficiale trovato con il suo miglior francese, nella speranza di essere capita: “Qu’est que c’est, Monsieur l’officiel?”, domandò ansiosa. “C’est la Guerre, Mademoiselle”, le rispose cortesemente l’ufficiale.

Arrivarono in Francia, e da lì salirono su una nave che le portò a L’Avana. Nonna raccontava che la nave ritardò la partenza di vari giorni, perché la baia era circondata da mine.

Quando tornai dal mio primo viaggio in Messico nonna mi fece domande per molte ore. Aveva 89 anni e si era rotta l’anca. Per non perdere alcun dettaglio, mi avvicinava il suo apparecchio acustico alla bocca, come se fosse un microfono, e continuava a farmi domande senza interruzione riguardo le Piramidi di Teotihuacan, la Basilica della Virgen di Guadalupe, la politica, il petrolio, il clima, il cibo, le usanze. Per concludere il quasi crudele interrogatorio, diede un forte colpo di bastone sul pavimento e disse, con quella voce potente tipica dei sordi: “Non posso morire senza prima aver visitato questo paese!”. Io pensavo

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scherzasse, ma non era così. Mi chiese di cercarle il suo passaporto, scaduto da più di vent’anni, e di prepararle i vestiti. Morì pochi mesi dopo.

XXXIV

Di seguito la lista dei nomi:

Cintio, Fina, Sergio, Felipe, Bella, Eliseo, Octavio, Rolando, Agustín.

Lezama, Gaztelu, Pochi, Eddy, José María, Cuchi, Chelita, Virtudes, Berta, Chifón.

Henry, Chachi, Wiwi, Sonia, Anarminda, Carlos, Marta, Dinorah, Angelina, Sergito, María Luisa, Jorní.

Roberto, Adelaida, Cleva, Zio Félix, Otto, Iván, Agustinito, Hugo, Alina, Samuel. Ovidio, Jorge, Belén, Rapi, Lichi, Oscar, Betancourt, Juana, Augusto, Rosendo, Loló. María, Lázaro, Cuca, Constantico, Araceli, Helga, Yara, María Julia, Panchitín. Tangui, Julián, Mario, Annabelle, Joaquín.

Nomi che sono la mia compagnia.

XXXV

“In questa casa si pensa che zio Augustín sia Gregory Peck”, protestava infastidito mio fratello Lichi. Si avvicinava il compleanno dello zio –avrebbe fatto quarant’anni- e i festeggiamenti promettevano essere in grande stile. La drammatica gelosia di mio fratello lo accecava e faceva sparire, solo per un istante, la dolce espressione del suo volto.

Lichi parla poco, gioca da solo, preferisce il silenzio dei suoi soldatini muti o la compagnia dei cugini più piccoli. Ha creato un mondo di meraviglie, solo per sé; lo esplora e poi ritorna, e io non so come accompagnarlo.

Mio fratello gioca con i suoi sogni, conosce la sua felicità, immagina sua figlia. Per questo sorride in questo modo, così dolcemente.

XXXVI

Anche i grandi giocavano. Quello che più li divertiva era il croquet, e lo prendevano molto sul serio. Alzavano la voce, si insultavano, si davano nomi strani. La cosa strana era che, ogni volta, dopo un insulto terribile, si sentiva la risata di papà, di Octavio, di Cintio, di Agustín. Oppure passavano il tempo a leggere poesie, traduzioni, articoli, ascoltando musica,

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giocando a fare gli attori. Noi preferivamo altri giochi, però, a volte, ci sedevamo con loro, ridevamo insieme e gli facevamo compagnia per un po’.

Così trascorrevano le domeniche nella casa.

XXXVII

Lo studio di papà era separato dalla casa, sopra al garage, di fianco al pollaio. Si raggiungeva tramite una scala di cemento, da un lato. Davanti aveva due balconcini con le grate di legno e dietro si trovava la scarpata dove passava il treno.

Il garage era ampio, con lo spazio per due auto, ma per metà era occupato da mobili rotti, pezzi di giocattoli, un tavolo da falegname dello zio Rosendo, scatole con le statuette del presepe e le decorazioni del nostro albero di Natale. Aveva un odore caratteristico ed era uno dei luoghi che preferivamo per giocare e nasconderci.

Papà lavorava nello studio fino a tardi. Il suono della sua cara macchina da scrivere si sentiva per ore, mescolato al canto dei grilli e dei gufi; era uno dei tanti suoni della notte. Ma non sempre scriveva. Uno dei suoi passatempi preferiti era dipingere, con un pennello fine, le uniformi dei soldatini di piombo della sua collezione esclusiva: gli eserciti inglesi della Prima Guerra Mondiale, gli eserciti prussiani e degli zar russi. Riproduceva campi di battaglia copiati da vere e proprie carte geografiche e li completava con montagne, fiumi, ponti e gallerie fatti con cartone, fil di ferro, vetri rotti, carta.

Riproduceva anche tutte le scene del presepe, in un’opera di grande ingegneria. Su diversi livelli - che otteneva collocando libri sotto alla speciale carta dalle tonalità rocciose -e con un’illuminazione sorprendente, realizzava ogni dettaglio con la precisione di un orafo di professione.

Molti anni dopo trovai quella stessa perfezione e cura nelle sue poesie. E capii perché le sue mani da bambino cresciuto costruivano il presepe e i campi di battaglia con tanta attenzione, con tanto rispetto. “Bisogna fare le cose per bene”, ci diceva.

XXXVIII

“Claxon, quali claxon, ma se a Cuba non ci sono claxon dal 1959!”, mi rispose irritata nonna Berta quando la rimproverai perché ci era scappata di casa. In quel momento mi resi conto

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con terrore che sentiva meno di quanto immaginassimo. Le avevamo proibito di uscire da sola, ma lei, abituata a una grande indipendenza, non lo sopportava.

Una volta mi venne l’idea di raccogliere i suoi racconti su New York, ma per un problema al registratore andarono perse quasi due ore di conversazione. A volte, a furia di ricordarla, mi sembra di sentire la sua voce. Ed è tanto reale questo ricordo, che non riesco a capire perché non mi risponde quando le parlo, quando le chiedo di raccontarmi ancora delle macchine che si muovono senza cavalli, di ripetermi frammenti di David Copperfield, di parlarmi nuovamente di suo fratello Sandy.

XXXIX

Niente gli piaceva di più che giocare con noi a letto, ma la mamma gli aveva proibito di salire nelle camere. In tutti gli anni che ci tenne compagnia non si diede mai per vinto, e ogni momento lo vedevamo scendere le scale, con la coda tra le gambe e l’ombra dell’indice implacabile e severo della mamma intravista tra le sbarre.

Un giorno che riuscì a salire, mentre si accingeva a raggiungere uno dei nostri letti, si sentì la voce adirata della mamma: “Tobi, giù!”. Come colpito da un fulmine, si lasciò cadere sul pavimento e non si mosse nonostante la mamma lo scuotesse da una parte all’altra. In quell’istante arrivò papà, che iniziò ad accarezzarlo, mentre diceva il suo nome, molto piano. All’improvviso un rumore strano, come di un tamburo nervoso, riempì la stanza: era la sua coda, che batteva di felicità sul pavimento.

Non mi resi conto di quando iniziò a invecchiare e, in più di un’occasione, lo rimproverai ingiustamente perché non obbediva ai miei ordini. La sua morte, inaspettata, ci lasciò sconsolati. Lo seppellimmo nel boschetto di palme, di fianco alla casa, molto vicino alle finestre della nostra stanza.

XL

Povere, infelici lucertole! Perché tanto accanimento contro di loro? Ci potranno perdonare un giorno? Strappavamo loro la coda, le impiccavamo agli alberi di mango, facevamo loro complicate operazioni chirurgiche, le affogavamo nella fontana. C’erano ragni, bisce, scorpioni! Perché proprio loro, le povere, sfuggenti lucertole!

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XLI

Ci piaceva guardare la pioggia da dietro le finestre della sala da pranzo. Rapi e Lichi dicevano che le gocce d’acqua che rotolavano giù dalla collina davanti al portone erano soldatini che andavano in guerra. Costruivamo barchette di carta che navigavano, traballanti, finché non le perdevamo di vista, alla fine della stretta stradina di asfalto. La nostra casa si oscurava con l’acquazzone; le foglie delle palme cadevano fragorosamente e l’edificio sembrava sopportare, solo lui, tutta la furia del temporale.

Una volta cadde un fulmine su uno dei pini, vicino al pozzo, e lo seccò all’istante. Il fuoco era strano, trasparente, molto diverso dai falò che facevamo con le foglie secche. “E’ il fuoco del Diavolo!”, assicurarono Rapi e Lichi, molto seri. Il pino rimase per sempre come nudo, vuoto, sventrato, e fu per me, per molto tempo, segnale inequivocabile dell’esistenza del Maligno e del suo temibile potere.

XLII

Giocavamo sempre a nascondino. Le palme, la curva, il garage, il muretto di mattoni, erano i luoghi più sicuri. Giocare di giorno era divertente; di notte, affascinante. La paura del buio e quella di non essere trovati si fondevano in una sola.

Mi piaceva provare quella paura, mi attraeva. A volte vorrei potermi nascondere, come allora. Ma ti trovano sempre. Ed è questa, adesso, la mia paura.

XLIII

Ci facevano addormentare con delle canzoni molto curiose. La preferita di papà era quella dell’asinello: “È già morto l’asino,/che aceto portava,/Iddio lo ha salvato/ da questa vita grama”.

Oppure: “Non piangere, no,/ che la vita è molto breve,/ tutto passa,/ come un’ombra lieve”. A nonna Berta piaceva moltissimo quella della tragedia della nave a vapore “León”: “Lontano laggiù/ si vede un cadavere,/ e quel cadavere/ di chi sarà? E’ di un marinaio/ che triste è naufragato,/ è di un marinaio della nave “León”

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XLIV

Arrivava finalmente la Vigilia di Natale. Quel giorno, già all’alba, nonna Berta mi chiedeva di mettere sul giradischi i canti di Natale. Seduta sotto il portico, mentre noi aiutavamo la mamma a mettere in ordine la casa, li canticchiava tutti: Holy Night, White Christmas, Jingle Bells. Maria, molto indaffarata, preparava la cena: maiale arrosto, riso, fagioli neri, insalata con lattuga, pomodori e ravanelli, banane fritte, torrone, noci, nocciole, vino e sidro. Il tavolo della sala da pranzo si apriva a metà, si allungava e si trasformava in un tavolo immenso, ovale. Al pomeriggio iniziava ad arrivare la famiglia: nonna Chifón, i cugini, gli zii, gli amici. Ci vestivano in modo speciale per l’occasione, molto eleganti, e ci permettevano, quella sera, di stare svegli fino a tardi, come “le persone adulte”. Appena terminata la succulenta cena, passavamo in sala e ci sedevamo vicino al pianoforte, al presepe e al nostro albero. Nonna Chifón cominciava a suonare canti di Natale, zarzuelas, danze e canzoni cubane e zio Sergio, il medico, l’accompagnava con la sua stupenda voce tenorile. Quella notte si fermavano a dormire da noi nonna Chifón e i cugini Cuchi e Chelita. La nonna dormiva nella nostra camera per impedire che facessimo rumore e spaventassimo Babbo Natale.

Al nostro risveglio, l’albero – immaginato e desiderato tutto l’anno – circondato da giocattoli, gioco dei grandi, nostra felicità. Non c’era mattina più bella di quella di Natale. Vero che non c’è, nonne?

ULTIMO

Nel 1968, e per molte ragioni diverse – difficili da riassumere e da accettare– dovemmo

abbandonare la casa. Non ricordo nulla di quel giorno, né dei preparativi precedenti al trasloco. Solo anni dopo seppi che tutti, in qualche modo, avevamo cercato di preservare la casa nella nostra memoria. Zio Cintio la nominò, con particolare tenerezza, nel suo romanzo De Peña Pobre; Cleva, poetessa e pittrice, grandissima amica, si rifugiava nello studio di papà e realizzava schizzi del giardino; mio fratello Lichi scrisse quello stesso anno un libro meraviglioso, La Quinta de los Comienzos; io ritraevo gli angoli che non apparivano nelle foto della mamma; zia Fina scrisse poesie strazianti: “Smantellano la casa, ci smantellano a tutti l’anima”

Mani estranee trasformarono la casa, costruirono palazzi, sistemarono i vialetti, eliminarono fontane, palme, bouganville, cambiarono porte e finestre, ruppero l’equilibrio perfetto delle recinzioni, misero in ordine il giardino.

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Per molti anni non ci sono voluta ritornare. Temevo che i miei ricordi si alterassero, si confondessero, si smarrissero e che non li avrei recuperati mai più perché si sarebbe interposta l’immagine della casa che non era. Ma non è stato così. La casa e le sue recinzioni si mantengono intatte, nitide. Posso ricostruirle centimetro per centimetro e minuto per minuto. Mi accompagnano l’aroma del giardino, il rumore dei pini, il tubare delle colombe. Non li ho mai persi e continueranno a esistere e ad accompagnarmi, fintanto che “potrò chiamarli all’improvviso con l’alba”.

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