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DIFESA DEI CLASSICI E POLEMICA ANTIROMANTICA

«Gridano che la poesia debba esserci contemporanea, cioè adoperare il linguaggio e le

idee e dipingere i costumi, e fors’anche gli accidenti dei nostri tempi. Come può il

poeta adoperare il linguaggio e seguire le idee e mostrare i costumi d'una generazione

d'uomini per cui la gloria è un fantasma, la libertà… la patria l’amor patrio non esistono,

e insomma le illusioni son tutte svanite, tutte le passioni estinte? Un poeta, una poesia,

senza illusioni senza passioni, sono termini che reggono in logica? [...] Perdono dunque

se il poeta moderno segue le cose antiche, se adopera il linguaggio e lo stile e la

maniera antica, se usa le antiche favole, se mostra di accostarsi alle antiche opinioni se

preferisce gli antichi costumi, usi, avvenimenti, se imprime alla sua poesia un carattere

d’altro secolo, se cerca insomma di essere o di parere antico. Perdono se il poeta

moderno non è e non si mostra contemporaneo a questo secolo, perché essere

contemporaneo a questo secolo è, o include essenzialmente, non essere poeta, non

essere poesia» (Zibaldone, 11 luglio 1823).

(7)

TEORIA DEL PIACERE

«L’anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente e mira

unicamente, benché sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola

bene, è tutt’uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perché è

ingenita o congenita coll’esistenza, e perciò non può avere fine in questo o quel piacere

che non può essere infinito, ma solamente termina colla vita. E non ha limiti: 1) né per

durata; 2) né per estensione. Quindi non ci può essere nessun piacere che eguagli: 1) né

la sua durata, perché nessun piacere è eterno; 2) né la sua estensione, perché nessun

piacere è immenso, ma la natura delle cose porta che tutto esista limitatamente, e tutto

abbia confini, e sia circoscritto» (Zibaldone, luglio 1820).

«Il piacere infinito che non si può trovare nella realtà, si trova così nella immaginazione,

dalla quale derivano la speranza, le illusioni, etc. Quindi bisogna considerare la gran

misericordia e il gran magistero della natura la quale, non potendo fornire gli uomini di

piaceri reali infiniti, ha voluto supplire: 1) colle illusioni, 2) coll'immensa varietà. Quindi

deducete le solite conseguenze della superiorità… degli antichi sopra i moderni in

ordine alla felicità» (Zibaldone, luglio 1820).

(8)

POETICA DELL'INDEFINITO E DEL VAGO. L'INFINITO.

«Quindi è manifesto: 1) perché tutti i beni paiono bellissimi e sommi da lontano, e

l’ignoto sia più bello del noto; effetto delle illusioni volute dalla natura. 2) Perché

l’anima preferisca in poesia e da per tutto, il bello aereo, le idee infinite [...]. Di questo

bello aereo, di queste idee abbondavano gli antichi, abbondavano i loro poeti, massime

il più antico, cioè Omero, abbondano i fanciulli [...] insomma la natura. La cognizione e il

sapere ne fa strage, e a noi riesce difficilissimo il provarne [...]. Alle volte l'anima

desidera una veduta ristretta e confinata. La ragione è il desiderio dell'infinito, perché

allora in luogo della vista, lavora l'immaginazione e il fantastico sottentra al reale.

L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli

nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe,

se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l'immaginario»

(Zibaldone, luglio 1820).

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sezione

3

Dal Congresso di Vienna

all’Unità d’Italia

© 2012 RCS Libri S.p.A., Milano/La Nuova Italia – M. Sambugar, G. Salà - Letteratura+

1

Anche questa lettera, scritta il 6 marzo 1820 e,

come molte altre dell’Epistolario, indirizzata a

Pietro Giordani, è un’accorata testimonianza

della “crisi” del 1819, segnata da problemi alla

vista e dal fallito tentativo di fuga da Recanati. In

essa è enunciato il nucleo del pessimismo

leopar-diano, basato sul contrasto tra natura e ragione,

tra bellezza del passato e aridità del presente, e

sulla scoperta del «nulla» come unica verità

uni-versale.

Come una canna secca

(

epistolario

)

Recanati, 6 marzo 1820

Mio carissimo. Dopo i 10 di Dicembre io ti ho scritto costà

1

due lettere invano:

della terza non so, perché ai

2

15 di Febbraio quando mi scrivesti l’ultima

vol-ta, non ti poteva essere arrivata. Sto anch’io sospirando caldamente

3

la bella

primavera come l’unica speranza di medicina che rimanga allo sfinimento

dell’animo mio; e poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra

della mia stanza, e vedendo un cielo puro e un bel raggio di luna, e sentendo

un’aria tepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si svegliarono

alcu-ne immagini antiche

4

, e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi

5

a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui

voce mi pareva di udire dopo tanto tempo

6

. E in quel momento dando uno

sguardo alla mia condizione passata, alla quale era

7

certo di ritornare subito

dopo, com’è seguìto

8

, m’agghiacciai

9

dallo spavento, non arrivando a

com-prendere come si possa tollerare la vita senza illusioni e affetti vivi, e senza

immaginazione ed entusiasmo, delle quali cose un anno addietro si

compo-neva tutto il mio tempo, e mi facevano così beato non ostante i miei travagli

10

.

Ora sono stecchito e inaridito

11

come una canna secca, e nessuna passione

trova più l’entrata di questa povera anima

12

, e la stessa onnipotenza eterna e

sovrana dell’amore è annullata a rispetto mio

13

nell’età in cui mi trovo. Intanto

io ti fo questi racconti che non farei a verun altro

14

, in quanto mi rendo certo

che non gli avrai per romanzeschi

15

, sapendo com’io detesti sopra ogni cosa

la maledetta affettazione corruttrice di tutto il bello di questo mondo

16

, e che

tu sei la sola persona che mi possa intendere, e perciò non potendo con altri,

1. costà: a Piacenza, dove viveva

Giordani.

2. ai: il.

3. sospirando caldamente:

aspet-tando con impazienza.

4. antiche: risalenti al periodo

dell’infanzia.

5. mi posi: cominciai.

6. domandando… tanto tempo:

chiedendo pietà alla natura, di

cui, dopo tanto tempo, mi

sem-brava di udire la voce. La natura

è vista qui come una madre

beni-gna, contrastata dalla ragione.

7. era: ero; forma arcaica della

prima persona singolare

dell’im-perfetto indicativo.

8. seguìto: accaduto.

9. m’agghiacciai: mi raggelai.

10. delle quali cose… travagli:

cose che l’anno passato

occupa-vano tutto il mio tempo e mi

ren-devano così felice, nonostante

tutti i miei problemi («travagli»).

11. stecchito e inaridito: i due

ter-mini formano quasi una

dittolo

-gia

, che esprime il senso di vuoto

interiore provato da Leopardi.

12. trova… anima: non riesce più a

penetrare nel mio povero animo.

13. a rispetto mio: nei miei

con-fronti.

14. verun altro: nessun altro.

15. mi rendo certo…

romanze-schi: sono sicuro che non li

riter-rai inventati («romanzeschi»,

come appunto le storie

raccon-tate nei romanzi).

16. la maledetta… mondo: quello

sciagurato modo di comportarsi

artificioso e ostentato

(«male-detta affettazione») che rovina

(«corruttrice») tutto ciò che di

bello c’è al mondo.

5

10

15

20

CONTENUTI

La necessità delle illusioni

ELEMENTI

DI PENSIERO

E DI POETICA

La scoperta del «vero»

(11)

Unità 12

Giacomo Leopardi

e i Canti

© 2012 RCS Libri S.p.A., Milano/La Nuova Italia – M. Sambugar, G. Salà - Letteratura+

2

discorro con te di questi miei sentimenti, che per la prima volta non chiamo

vani

17

. Perché questa è la miserabile condizione dell’uomo, e il barbaro

inse-gnamento della ragione, che i piaceri e i dolori umani essendo meri inganni,

quel travaglio che deriva dalla certezza della nullità delle cose sia sempre e

solamente giusto e vero

18

. E se bene

19

regolando tutta quanta la nostra vita

secondo il sentimento di questa nullità, finirebbe il mondo e giustamente

sa-remmo chiamati pazzi, a ogni modo è formalmente certo che questa sarebbe

una pazzia ragionevole

20

per ogni verso, anzi che a petto suo tutte le saviezze

sarebbero pazzie

21

.

Giacché tutto a questo mondo si fa per la semplice e continua dimenticanza

di quella verità universale, che tutto è nulla. Queste considerazioni io vorrei

che facessero arrossire

22

quei poveri filosofastri che si consolano dello

smisu-rato accrescimento della ragione, e pensano che la felicità umana sia riposta

nella cognizione del vero

23

, quando non c’è altro vero che il nulla, e questo

pensiero, ed averlo continuamente nell’animo, come la ragion vorrebbe, ci

dee

24

condurre necessariamente e dirittamente

25

a quella disposizione che ho

detto, la quale sarebbe pazzia secondo la natura, e saviezza assoluta e perfetta

secondo la ragione.

I miei nervi stanno all’ordinario

26

. Ti abbraccio e ti bacio, e prego buon fine

alle tue fatiche per mettere alquanto più vita in cotesta tua patria

27

. Addio.

Paolina e Carlo

28

ti amano e ti salutano.

da Tutte le opere, cit.

17. vani: inutili.

18. che i piaceri… vero: che,

essendo i piaceri e i dolori

dell’uomo semplici («meri»)

inganni, l’infelicità («travaglio»),

che nasce dalla certezza che

tutte le cose terrene sono

desti-nate a svanire nel nulla, è

sem-pre giusta (cioè nasce da un

motivo reale) e vera (e quindi

diversa dagli “inganni” e dalle

“illusioni”). Attraverso

l’afferma-zione del materialismo, Leopardi

afferma l’illusorietà del piacere

e del dolore a cui si

contrappo-ne l’infelicità, unico sentimento

reale e motivato per l’uomo.

19. se bene: sebbene.

20. una pazzia ragionevole: si

tratta di un

ossimoro

che

conden-sa in due parole tutto il

ragiona-mento di Leopardi: la presa di

coscienza dell’infelicità umana

rischia di condurre alla pazzia,

ma appunto una pazzia

«ragio-nevole» perché basata su

ele-menti inoppugnabili.

21. anzi… pazzie: e anzi, al suo

confronto («a petto suo») tutte

le cose che si ritengono sagge

sarebbero pazzie.

22. arrossire: vergognare.

23. quei poveri… cognizione del

vero: Leopardi polemizza contro

i filosofi illuministi, convinti che

la felicità consista nella scoperta

della ragione («la cognizione del

vero») e che il genere umano

sia destinato a evolversi e a

pro-gredire grazie a un uso

sem-pre maggiore della ragione (lo

«smisurato accrescimento della

ragione»).

24. dee: deve.

25. dirittamente: giustamente.

26. all’ordinario: come al solito.

27. per mettere… patria: per

vivacizzare la vita culturale di

Piacenza.

28. Paolina e Carlo: la sorella e il

fratello di Leopardi.

25

30

35

40

PER LAVORARE SUL TESTO

La lettera prende avvio dalla descrizione di un notturno

lunare anticipatore della primavera, che ispira un senso di

pacata dolcezza. È la voce della natura, che il poeta dice di

udire dopo tanto tempo e alla quale leverà un grido

invocan-do “misericordia”. Sono immagini e suoni della natura che

giungono da lontano, come l’abbaiare di «certi cani», che

suscitano un senso di indefinito e indeterminato. L’autore

ricorda la sua vita passata, piena di illusioni e speranze e

par-la del presente, arido e vuoto. Le riflessioni scaturiscono da

sofferenze personali, sia di natura fisica (il male agli occhi),

sia di natura psicologica (lo sconforto dopo il fallito tentativo

di fuga da Recanati).

Egli si sente«stecchito e inaridito» dentro, una «povera

anima» che soffre priva di passione e di amore. Ma da questa

angosciante condizione personale, la sua visione si allarga

all’intera dimensione umana, contrassegnata dal «barbaro

insegnamento della ragione» che svela gli inganni e apre la

strada alla consapevolezza dell’impossibilità del piacere e

della vanità di tutte le cose. Nasce da qui la polemica nei

con-fronti dei «filosofastri» che esaltano la ragione e il progresso.

Questa lettera costituisce un’importante testimonianza

delle dolorose vicende personali dello scrittore e un

interes-sante documento del suo impegno di intellettuale che lotta

contro il pensiero dell’epoca, imbevuto di falso ottimismo,

al quale egli contrappone una visione tragica della vita

uma-na basata sulla dolorosa scoperta che «non c’è altro vero

che il nulla».

La lettera presenta una disposizione degli argomenti che

ricorre anche negli Idilli: a un iniziale momento descrittivo

in cui si intrecciano qui elementi visivi (il cielo puro; il bel

raggio di luna), uditivi (i cani che abbaiano) e tattili (l’aria

tiepida), subentrano amare considerazioni sulla propria vita

e su quella del genere umano.

(12)

Unità 12

Giacomo Leopardi

e i Canti

© 2012 RCS Libri S.p.A., Milano/La Nuova Italia – M. Sambugar, G. Salà - Letteratura+

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COMPRENSIONE

Dall’idillio alla riflessione

1.

Qual è la scoperta che riempie Leopardi di sgomento (che lo «agghiaccia»)?

... ... ... ... ...

La riflessione su di sé

2.

Come descrive il poeta il proprio stato d’animo, la propria condizione di vita? Di che cosa lamenta la mancanza, di

quale «forza» la sua vita è desolatamente vuota?

... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ...

3.

Nella prima parte della lettera, l’autore accenna alla sua condizione di «un anno addietro». Ricostruiscila con l’aiuto

delle note e della biografia (vedi pp. 560-562).

... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ...

(13)

Unità 12

Giacomo Leopardi

e i Canti

© 2012 RCS Libri S.p.A., Milano/La Nuova Italia – M. Sambugar, G. Salà - Letteratura+

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Guida allo studio e alla scrittura

ANALISI

Analizzare il lessico

4.

In questa lettera Leopardi esprime il contrasto tra la natura e il proprio stato d’animo. Ricerca nel testo gli aggettivi

che descrivono queste due realtà contrapposte e completa la tabella.

Natura

Stato d’animo

Cielo puro

Stecchito

... ...

... ...

... ...

La riflessione sull’esistenza

5.

Nella seconda parte della lettera il poeta passa a esporre la sua nuova visione della vita: la ragione ha fatto cadere il

velo delle illusioni e mostrato il vero volto dell’esistenza. Quale? Che cosa insegna la ragione e perché è «barbara»?

... ... ... ... ... ... ... ...

APPROFONDIMENTO

L’opposizione tra natura e ragione

6.

La conversione filosofica del 1819 porta Leopardi ad abbracciare una filosofia nichilista secondo cui “tutto è nulla”;

ma se l’uomo con la sola ragione accettasse questa verità, il mondo – dice l’autore – finirebbe. Che cosa si

contrap-pone alla tragica verità della ragione secondo cui “tutto è nulla”? Dalle parole della lettera ti sembra che il poeta, in

questa fase del suo pensiero, abbia rinunciato del tutto alle illusioni e agli affetti o piuttosto viva una sorta di

contrad-dizione? Rispondi alle domande cercando di ricostruire il suo pensiero basandoti su quanto hai studiato nella parte

introduttiva di questa unità (pp. 566-569).

... ... ... ... ... ... ... ... ...

(14)

L’INFINITO

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,

e questa siepe, che da tanta parte

dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.

Ma sedendo e mirando, interminati

spazi di là da quella, e sovrumani

silenzi, e profondissima quiete

io nel pensier mi fingo, ove per poco

il cor non si spaura. E come il vento

odo stormir tra queste piante, io quello

infinito silenzio a questa voce

vo comparando: e mi sovvien l'eterno,

e le morte stagioni, e la presente

e viva, e il suon di lei. Così tra questa

immensità s'annega il pensier mio:

(15)

ALLA LUNA

O graziosa luna, io mi rammento

Che, or volge l'anno, sovra questo colle

Io venia pien d'angoscia a rimirarti:

E tu pendevi allor su quella selva

Siccome or fai, che tutta la rischiari.

Ma nebuloso e tremulo dal pianto

Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci

Il tuo volto apparia, che travagliosa

Era mia vita: ed è, né cangia stile,

O mia diletta luna. E pur mi giova

La ricordanza, e il noverar l'etate

Del mio dolore. Oh come grato occorre

Nel tempo giovanil, quando ancor lungo

La speme e breve ha la memoria il corso,

Il rimembrar delle passate cose,

(16)

LA SERA DEL DI' DI FESTA

Dolce e chiara è la notte e senza vento,

E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti

Posa la luna, e di lontan rivela

Serena ogni montagna. O donna mia,

Già tace ogni sentiero, e pei balconi

Rara traluce la notturna lampa:

Tu dormi, che t'accolse agevol sonno

Nelle tue chete stanze; e non ti morde

Cura nessuna; e già non sai nè pensi

Quanta piaga m'apristi in mezzo al petto.

Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno

Appare in vista, a salutar m'affaccio,

E l'antica natura onnipossente,

Che mi fece all'affanno. A te la speme

Nego, mi disse, anche la speme; e d'altro

Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.

Questo dì fu solenne: or da' trastulli

Prendi riposo; e forse ti rimembra

In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti

Piacquero a te: non io, non già, ch'io speri,

Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo

Quanto a viver mi resti, e qui per terra

Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi

In così verde etate! Ahi, per la via

Odo non lunge il solitario canto

(17)

Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;

E fieramente mi si stringe il core,

A pensar come tutto al mondo passa,

E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito

Il dì festivo, ed al festivo il giorno

Volgar succede, e se ne porta il tempo

Ogni umano accidente. Or dov'è il suono

Di que' popoli antichi? or dov'è il grido

De' nostri avi famosi, e il grande impero

Di quella Roma, e l'armi, e il fragorio

Che n'andò per la terra e l'oceano?

Tutto è pace e silenzio, e tutto posa

Il mondo, e più di lor non si ragiona.

Nella mia prima età, quando s'aspetta

Bramosamente il dì festivo, or poscia

Ch'egli era spento, io doloroso, in veglia,

Premea le piume; ed alla tarda notte

Un canto che s'udia per li sentieri

Lontanando morire a poco a poco,

Già similmente mi stringeva il core.

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