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GIORNALISMO DI GUERRA AL FEMMINILE: LE TESTIMONIANZE DAL FRONTE DI MARIE COLVIN E ANNA POLITKOVSKAJA

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UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE

Corso di Laurea in Studi Internazionali

TESI DI LAUREA

GIORNALISMO DI GUERRA AL FEMMINILE:

LE TESTIMONIANZE DAL FRONTE DI MARIE

COLVIN E ANNA POLITKOVSKAJA

CANDIDATA

RELATRICE

Sara Valentina Natale

Prof./ssa Emanuela Minuto

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A Emanuele: mi hai regalato Pisa, il mio angolo di mondo.

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INDICE

INTRODUZIONE

1. GIORNALISMO DI GUERRA AL FEMMINILE: LE ORIGINI E LO SVILUPPO DEL FENOMENO

1.1 Le prime reporter di guerra 1840-1914

1.2 Primo dopoguerra e secondo conflitto mondiale 1.3 Il secondo dopo guerra: dalla Corea al Vietnam

1.4 Nuovi conflitti: dal journalism of attachment al news management

1.5 Questione di genere: essere una giornalista nel XXI secolo

2. IN PRIMA LINEA: IL CASO COLVIN

2.1 Marie Colvin: dalle classi di Yale alla UPI

2.2 L’esperienza parigina e i primi report dal Nord Africa

2.3 Primi anni al “Sunday Times”. Le corrispondenze dal Medio Oriente

2.4 La prima guerra del Golfo

2.5 L’illusione della pace in Medio Oriente

2.6 Guerre fuori e dentro casa: il terrorismo islamico e la guerra in Kosovo

2.7 Il coraggio non conosce genere: Timor Est 2.8 La difficile esperienza cecena

2.9 Il viaggio in Sri Lanka e il disordine post traumatico da stress 2.10 Le primavere arabe

2.11 L’ultimo viaggio: la Siria

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3.1 Le origini della resistenza cecena: dallo zarismo alla dominazione sovietica

3.2 Dalle rivendicazioni del 1957 al primo conflitto ceceno 3.3 La guerra del 1999 e l’ascesa di Vladimir Putin

3.4 Il ruolo dell’Islam: dal sufismo ad Al-Qaeda

3.5 Il controllo dei media: i dissidenti tra censura e manipolazione 3.6 Caso Politkovskaja: una donna al fronte e l’omicidio preannunciato

3.7 I racconti di guerra: Proibito parlare

CONCLUSIONI BIBLIOGRAFIA SITOGRAFIA

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INTRODUZIONE

L’argomento centrale dell’elaborato è il giornalismo di guerra al femminile. L’intento è quello di comprendere se possano sussistere delle differenze nello svolgere la professione di reporter di guerra, in base al genere di quest’ultimo. Due sono i casi studio portati per analizzare tale questione.

La tesi è articolata in tre capitoli. Nel primo capitolo si offre una panoramica generale del fenomeno delle reporter di guerra: si spiega quando le donne entrarono per la prima volta nelle redazioni, quali furono le sfide iniziali che dovettero affrontare e come avvennero le prime assegnazioni in un territorio di guerra. Segue un excursus storico sui conflitti principali del ventesimo secolo dalla prima guerra mondiale alle guerre degli anni novanta, per poi finire con la seconda guerra del Golfo dei primi anni Duemila. Parallelamente si analizzano i cambiamenti che avvennero nel mondo del giornalismo di guerra e le evoluzioni nei ranghi delle reporter, che divenivano sempre più numerose con il passare degli anni. Viene quindi presentato un quadro delle giornaliste di maggiore rilievo, da Edith Wharton a Orianna Fallaci. Chiude il primo capitolo una breve analisi di cosa significhi essere una giornalista nel ventunesimo secolo, in special modo dopo l’avvento dei nuovi media. Si fa riferimento alla necessità di garantire la digital security per le giornaliste vittime di attacchi in rete, come si sottolineano le difficoltà ancora riscontrate sul campo.

Al primo capitolo introduttivo seguono poi i due capitoli che analizzano i casi studio: il primo tratta della giornalista americana Marie Colvin e il secondo della russa Anna Politkovskaja. Oltre che per la loro innegabile bravura e per l’importanza che ebbero nel mondo del giornalismo di guerra, le due giornaliste sono state scelte per offrire due modalità operative differenti nell’ambito del giornalismo di guerra: Marie Colvin coprì quasi tutti i conflitti determinanti, dagli anni ottanta del Novecento fino alla guerra in Siria, dove perse la vita nel 2012. Politkovskaja invece

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si specializzò su un’unica regione e un unico conflitto, rimanendo sempre di base a Mosca.

Nel secondo capitolo viene ripercorsa la vita di Marie Colvin; la ricostruzione offre la possibilità di presentare tutti i conflitti a cui lavorò. Un’attenzione particolare è riservata alle guerre del Medio Oriente, seguite assiduamente da Colvin nella prima fase della sua carriera, e ai momenti più salienti della sua vita lavorativa: la missione in Sri Lanka, in cui perse la vista dell’occhio sinistro, il lavoro a Timor Est, e il suo ultimo viaggio in Siria. Lo spazio che viene riservato alla narrazione della vita privata della giornalista aiuta a comprendere le terribili conseguenze che il lavoro di reporter di guerra può comportare e il coraggio e la tenacia necessarie per svolgere questo tipo di mestiere. Colvin è un ottimo esempio di giornalista che ha sacrificato la possibilità di vivere una vita “comune” in nome dell’esigenza di raccontare gli orrori della guerra per dar voce alle vittime dirette dei conflitti, che altrimenti sarebbero rimaste inascoltate.

Il terzo capitolo ha come protagonista Anna Politkovskaja, che decise di dedicarsi al conflitto russo-ceceno. Molto spazio infatti è riservato alla ricostruzione storica di tale guerra. Si risale ai primi contrasti tra le due regioni, che ebbero inizio nel Sedicesimo secolo, quando i russi si interessarono ai territori caucasici per la prima volta. Dopo aver introdotto la lunga serie di scontri che videro russi e ceceni contrapporsi, ci si sofferma sulle vicende di maggior interesse: i due conflitti mondiali, il passaggio dall’epoca zarista a quella sovietica e gli anni della Guerra Fredda, fino ad arrivare alla nascita dell’odierna Federazione russa. All’inizio degli anni Novanta, i ceceni proclamarono a loro volta la nascita della Repubblica cecena di Ichkeria, dando il via ai due conflitti del 1994 e del 1999, conosciuti come prima e seconda guerra cecena, di cui si presenta l’evoluzione. Da Stalin a Krusciov, da Eltsin a Putin, si cerca di spiegare come la Russia si sia rapportata alla piccola regione cecena nel corso di tutto il Ventesimo secolo. Un paragrafo è invece dedicato interamente al ruolo che la religione islamica ha giocato quasi fin da subito nella resistenza caucasica e quale moderna interpretazione ne abbia offerto Vladimir Putin quando ha dichiarato nel 1999 di voler condurre una lotta contro il terrorismo islamico.

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La seconda metà del capitolo è dedicata infine all’interpretazione che le due fazioni hanno offerto del conflitto, come russi e ceceni hanno manipolato l’informazione e come hanno diffuso le proprie versioni. Dopo aver definito in quale modo la censura di Putin abbia modellato la cronaca della seconda guerra cecena e aver fornito diverse testimonianze di giornalisti, si giunge all’esame del secondo caso studio: Anna Politkovskaja. La giornalista russa, come l’americana Colvin, perse la vita a causa del suo lavoro, che non aveva mai smesso di fare, neanche dopo i sequestri e gli avvelenamenti intimidatori. Viene presentata brevemente la sua vita, mentre ci si concentra sugli eventi successivi alla sua morte: i funerali, le indagini e la reazione russa e internazionale. L’ultimo paragrafo si concentra principalmente su una delle sue opere, Proibito parlare, attraverso cui si offre una panoramica sulle condizioni di vita in Cecenia quanto in Russia grazie alle testimonianze raccolte da Politkovskaja.

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GIORNALISMO DI GUERRA AL FEMMINILE:

LE ORIGINI E LO SVILUPPO DEL FENOMENO

1.1 Le prime reporter di guerra 1840-1914

Nella società occidentale di fine Settecento e inizio Ottocento, il mondo del giornalismo era composto esclusivamente da impiegati di sesso maschile. Gli editori fino ad allora avevano considerato le donne al più come lettrici del loro giornale, ma mai come possibili dipendenti. Solo quando, nelle ultime decadi dell’Ottocento, la pubblicità divenne fondamentale per il finanziamento delle testate giornalistiche, si cominciarono ad assumere donne che potessero promuovere oggetti targettizzati su un pubblico femminile. Le prime giornaliste furono quindi assunte esclusivamente per trattare tematiche concernenti il mondo domestico, che i loro colleghi non si sarebbero mai abbassati ad affrontare.

Prima della dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti vi erano stati in realtà diversi casi di donne impiegate nei giornali, ma la loro presenza era dovuta al fatto che padri, fratelli o mariti lavorassero come giornalisti; solo negli anni ottanta dell’Ottocento le donne cominciarono ad avere un ruolo indipendente nelle redazioni. I dati del censimento statunitense dimostrano che nel 1880 su 12.308 giornalisti, solo 288 erano donne. Tuttavia già nel 1900 di 30.098 giornalisti le “quote rosa” erano salite a 2.193 e i dati continuarono a migliorare: nel 1920 le donne rappresentavano il 16,8% di reporter e redattori e, nel 1950, arrivarono a rappresentare il 32% dei giornalisti statunitensi1.

In Gran Bretagna e negli Stati Uniti, le donne che a inizio Novecento si affacciarono al mondo del giornalismo avevano tutte ricevuto un’educazione superiore, erano tutte bianche e soprattutto erano provenienti esclusivamente dalle fila della borghesia. In ogni caso, quando furono ammesse nelle redazioni, si videro comunque relegate in una sorta di ghetto: si occupavano di moda, faccende domestiche e di gossip, non collaborando mai con la parte maschile del giornale, essendo prevista addirittura la divisione degli spazi di lavoro.

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Le ladies non erano infatti ancora ritenute idonee a coprire il ruolo in senso pieno; come sostenne Edwin Shuman (1899), giornalista statunitense, autore di due volumi sul mestiere giornalistico:

The work of news-gathering, as a rule, is too rude and exacting for women. […] Local reporting work deals too exclusively with men and the affairs of men to give women a fair chance in it2.

Anche quando cominciarono a scrivere di argomenti altri rispetto alla cura della casa, trattando ad esempio fatti di cronaca, le giornaliste non erano comunque incaricate di informare il lettore; piuttosto si chiedeva loro di suscitarne l’empatia, ponendo l’accento sulla parte più “emozionale” delle notizie. Alla donna insomma non veniva assegnato un pezzo in quanto giornalista, ma perché appartenente al genere femminile.

Due donne che rappresentarono un’eccezione in questo contesto furono la statunitense Margaret Fuller e l’inglese Harriet Martineau. Le due giornaliste, conosciutesi quando la Martineau era andata negli States per la campagna contro la schiavitù, condividevano lo stesso background sociale ed educativo ed entrambe beneficiavano del sostegno delle famiglie. Fuller era cresciuta a Cambridge, Massachusetts, dove il padre l’aveva introdotta ad un rigido regime educativo, facendole imparare a tradurre Virgilio all’età di sei anni. Dopo la morte di questi, a soli venticinque anni, Fuller fu costretta a doversi occupare del sostentamento della famiglia, trasformando la scrittura in una professione. Cominciò a lavorare come curatrice letteraria per il quotidiano “New York Tribune” nel 1844 e due anni dopo fu la prima donna americana a ricoprire la carica di corrispondente estero. Nel 1846 Horace Greeley la mandò infatti in Europa per fornire notizie sulla campagna di Garibaldi in Italia e per riportare anche le condizioni sociali in cui versavano Francia e Inghilterra. In questa occasione Fuller intervistò personaggi eminenti della politica e della letteratura italiana e fornì testimonianze di prima mano sull’assedio francese di Roma, che mirava a restaurare il ruolo del Papa. Fuller inoltre co-diresse il “Dial”, una rivista letteraria fondata nel 1880 a Chicago, e pubblicò due libri, incluso un saggio pionieristico sui diritti delle donne: Woman in the Nineteenth Century (1885). Grazie alla sua relazione con l’aristocratico Giovanni Angelo Marchese D’Ossoli, divenne poi una fervente sostenitrice degli indipendentisti italiani. Nonostante fosse ormai un’intellettuale acclamata, gli scandali legati alla sua vita personale continuarono però ad influire negativamente sulla sua reputazione. Anni dopo la sua morte, i suoi cari distrussero una

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sostanziosa parte delle sue corrispondenze e dei suoi lavori, sostenendo di voler proteggere il suo onore. Come molte donne che ricevettero un’educazione e non seguirono i dettami sociali, non curandosi della disapprovazione pubblica, Fuller offrì l’esempio di come i meriti potevano essere eclissati dalle “trasgressioni morali”3. Solo negli anni sessanta del

Novecento la sua reputazione fu riabilitata.

Per quanto riguarda invece Harriet Martineau anche nel suo caso fu il padre, appartenente ad un circolo letterario d’élite, ad insistere sulla necessità di fornirle un’educazione e dopo la scomparsa di quest’ultimo dovette occuparsi lei del mantenimento della madre. Essendo sorda e non potendo dunque lavorare come istitutrice come le sue sorelle, Martineau decise di intraprendere la carriera da scrittrice, componendo un saggio sulla ricerca sociologica: How to observe morals and manners (1838). Considerata la prima giornalista inglese, Martineau cominciò a guadagnare il suo stipendio come scrittrice professionista e con il suo Illustration of Political Economy dimostrò come le donne si potessero sostenere da sole. Nel 1852 divenne una fondista del “Daily News” e, non essendosi mai sposata, suppose che non avrebbe mai avuto lo stesso successo se avesse condotto la vita prevista per una moglie in epoca vittoriana.

Come per Fuller, anche per Martineau l’educazione, l’estrazione sociale borghese, il bisogno di sostenere la famiglia e soprattutto il fatto di non essere sposata risultarono fattori decisivi per la riuscita della sua carriera da giornalista, scrittrice e femminista.

Un altro esempio di una giornalista di guerra ante litteram è offerto dalla storia di Jane McManus Storms. La giornalista scrisse occasionalmente per varie testate, ma specialmente per il “New York Sun” di Moses Yale Beach, il quale fu un forte sostenitore della politica espansionista del presidente statunitense James Polk. Per questo motivo nel 1846 Beach fu scelto per essere inviato in Messico ad adempiere una missione di pace segreta, decidendo di portare con sé Storms, perché ispanofona. Durante questo viaggio, la giornalista scrisse 31 lettere per il “Sun”. Narrò degli avvenimenti legati alle due battaglie tra le truppe messicane e statunitensi, così come della guerra civile, decidendo di rimanere in Messico anche quando Beach tornò a casa, con il disappunto dei militari. Nel frattempo i suoi report di guerra erano stati pubblicati anche su altri giornali, ottenendo il rispetto di numerosi colleghi uomini. Non mancarono tuttavia contestazioni come quella del senatore Thomas Hart Benton, il quale non approvava il “masculine stomach for war and politics”4

della giornalista.

3 Ivi, p. 200. 4 Ivi, p. 201.

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Tornata in patria nel 1847 divenne l’anno successivo redattrice di “La Verdad”, un opuscolo clandestino distribuito a Cuba per sostenere la liberazione dell’isola dalla Spagna (e l’annessione agli USA). I libri e le opere che scrisse furono da quel momento pubblicati sotto lo pseudonimo Cosa Montgomery. Durante la guerra ispano-americana del 1898 diversi giornali americani pubblicarono articoli di giornaliste. In questi report, generalmente etichettati come aventi un woman’s angle, ci si concentrava sugli effetti del conflitto e sulle condizioni della popolazione, mentre gli articoli scritti dagli uomini vertevano quasi esclusivamente sulle tecnologie militari, sulle tattiche e sulle strategie.

Quindi, seppure le donne cominciavano ad entrare nelle redazioni e a scrivere di argomenti non prettamente femminili, si trattava pur sempre di casi isolati e le resistenze ad assumerle erano sempre molto forti. A testimonianza del persistente clima ostile per le donne nel mondo del giornalismo, nel 1898, nel manuale Giornalismo per le donne, Arnold Bennett scrisse:

“Non si tratta di due sessi ma di due specie: i giornalisti e le donne-giornaliste. I primi sono diversi dalle seconde quanto i cani dai gatti”.5

Benché respinte e ostacolate dalle loro stesse redazioni e condannate dal pubblico per la loro audacia, alcune giornaliste riuscirono a lavorare come corrispondenti di guerra durante il primo conflitto mondiale.

Un primo esempio è offerto dalla scrittrice e attrice teatrale Colette, pseudonimo di Sidonie-Gabrielle Colette. Nel 1914 la scrittrice francese, già redattrice de “Le Matin”, partì per il fronte al seguito del marito, il barone Henry de Jouvenel des Ursins. I due raggiunsero Verdun, svelando il fenomeno poco noto delle donne che avevano seguito i mariti al fronte vivendo nascoste per non essere rispedite a casa. Durante questa sua permanenza, Colette inviò a Parigi svariati reportage che tuttavia non riuscirono a superare gli ostacoli posti dalla censura. La giornalista seguì il marito in altri viaggi in Francia e in Italia, durante in quali riuscì a registrare gli umori delle truppe in partenza e le reazioni delle donne rimaste a casa. Come emerge da Les Heureus longues, una raccolta di saggi e articoli da lei scritti in quegli anni, Colette non fu un’osservatrice neutrale degli avvenimenti; dai suoi scritti si intuisce chiaramente un odio per i tedeschi vivacemente manifestato.6

5 A. Chiodi, Donne reporter: le amazzoni del giornalismo di guerra, 2015

https://vitadifrontiera.com/2015/10/07/donne-reporter-le-amazzoni-del-giornalismo-di-guerra/; consultato il 16/9/20.

6 V. Palumbo, Prima guerra mondiale: il racconto delle donne, 2014

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Un altro celebre caso di una giornalista al fronte durante il primo conflitto mondiale è quello di Nellie Bly, pseudonimo di Elizabeth Jane Cochran. La giornalista statunitense, già famosa per aver compiuto un giro del mondo in 72 giorni, emulando il protagonista del romanzo di Jules Verne, coprì il fronte orientale, quello austro-russo e quello serbo-austriaco. Nata nel 1864 in Pennsylvania, Nellie Bly era la tredicesima di 15 figli di un facoltoso giudice e uomo d’affari. Si appassionò presto al giornalismo investigativo e si interessò più volte delle difficili condizioni in cui erano costrette le lavoratrici nelle fabbriche. Nel 1884 fu una delle poche giornaliste ad intervistare Belva Ann Lockwood, la prima donna candidata alle elezioni presidenziali negli States. A causa delle pressioni degli industriali, poco inclini a sopportare che una donna si occupasse di questioni sindacali, due anni più tardi si trasferì in Messico come corrispondente estera. Qui iniziò a scrivere sulle condizioni sociali del paese prima di essere respinta in patria dal governo di Porfirio Dìaz.

Nel 1887 lasciò il suo posto di lavoro al “Dispatch” e si trasferì a New York con la speranza di ottenere un posto presso il “New York World”, di Joseph Pulitzer. Una volta assunta, fu inviata a scrivere delle condizioni in cui vivevano le donne nell'ospedale psichiatrico New York City Mental Health Hospital. Qui ebbe il colpo di genio: la Bly si finse pazza per essere internata potendo così essere testimone diretta della terribile situazione che vivevano le pazienti nella struttura. Venne dimessa dopo10 giorni grazie all'intervento della redazione. La sua inchiesta fece scalpore: descrisse il manicomio come più simile a un luogo di reclusione che di cura, dove peraltro venivano internate donne sane di mente ma rifiutate dalla società, come le migranti in difficoltà economiche o le donne ripudiate dai familiari.

Con il suo giro del mondo, compiuto a cavallo tra il novembre del 1889 e il 1890, dimostrò ancora una volta l’impossibile: una donna sola poteva compiere un’impresa tanto audace7. Una volta rientrata aveva continuato a pubblicare le sue inchieste e le sue interviste sul “New York World”, quotidiano statunitense pubblicato tra il 1860 e il 1931.

Fu tra il 1914 e il 1915 che arrivò in Austria inviando al “New York Evening Journal” una serie di articoli dal fronte serbo. Tra i suoi numerosi titoli dunque, aggiunse anche quello di corrispondente di guerra, non risparmiandosi i momenti peggiori del conflitto. Nella sua terza corrispondenza dal fronte raccontò dei corpi straziati, dei volti terrorizzati i cui occhi infossati la seguivano ovunque sotto l’artiglieria, mentre lei scivolava nel fango insieme ai soldati8.

7 Ibidem.

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Dal fronte francese invece fu la statunitense Edith Wharton a mandare dei reportage. Discendente di un'antica e ricca famiglia di New York, fu istruita da precettori privati, i quali si concentrarono sullo studio dei grandi autori del passato. Nel 1907 abbandonò gli Stati Uniti, trasferendosi definitivamente in Francia, dove rimase fino alla morte. La maggior parte dei sui numerosi lavori affrontava il problema della relazione tra il singolo e il gruppo sociale di appartenenza e in particolare la questione della rottura delle convenzioni sociali.

Lo scoppio della guerra nel 1914 la colpì profondamente, facendole nascere la volontà di impegnarsi in prima persona. Inizialmente si cimentò nella creazione di laboratori per lavoratrici disoccupate e senza assistenza; successivamente si recò al fronte per osservare in prima persona l’evoluzione del conflitto. Fornì rapporti a diversi giornali americani, come il “The Saturday Evening Post”, e si schierò a favore dell’entrata in guerra degli Stati Uniti. In Francia, inoltre, creò i primi ostelli americani per rifugiati, soprattutto per chi fuggiva dal Belgio, che costituirono uno dei primi modelli di intervento umanitario moderno. Per questo e per il suo incredibile impegno umanitario, Wharton fu decorata dalla Francia con la Légion

d’honneur, mentre i suoi articoli furono raccolti nel volume Fighting France: From Dunkerque to Belfort. Wharton fu anche la prima donna insignita del premio Pulitzer nel

1921 per il suo romanzoL'età dell'innocenza9.

Tra le donne che scrissero del primo conflitto mondiale è da menzionare anche l’italiana Annie Vivanti, la quale svolse il doppio ruolo di reporter e scrittrice. Vivanti affrontò per prima, nel dramma L’Invasore (1915), il tema degli stupri delle donne belghe durante l’occupazione tedesca, tema che riprese anche nel romanzo Vae victis (1917). Entrambe le opere tuttavia subirono una censura quasi totale.

“Immondi soldati ubriachi avevano soddisfatto su di lei le loro lubriche brame — ed eccola lì, spezzata, contaminata, perduta!” 10

Nel romanzo più che nella pièce teatrale, i tedeschi sono ritratti come diabolici, perfidi e traditori, oltre che viziosi. L’esercito tedesco viene stigmatizzato in quanto un’orda che niente poteva fermare, pronto a brutalizzare la popolazione civile per rispettare gli ordini e per lasciare il sego della dominazione tedesca sul paese, così come sulle donne belghe11.

9 R. F. Nelson, The almanac of American letters, 1ª ed., W. Kaufmann, NY, 1981, p. 9. 10 A. Vivanti, Vae Victis, Quintieri editore, Milano, 2013, p. 194.

11https://www.academia.edu/36681803/Annie_Vivanti_e_la_grande_guerra_stupro_aborto_e_redenzione_in_

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Durante la guerra Vivanti si impegnò inoltre a difendere la causa italiana sulle colonne dei principali giornali inglesi, mentre nell'immediato dopoguerra abbracciò la causa delle nazionalità oppresse principalmente in chiave antibritannica, avvicinandosi sempre di più a Mussolini e al nascente fascismo. Contemporaneamente, sostenne col marito la causa dell'indipendenza irlandese, pubblicando articoli in favore della causa su varie testate giornalistiche europee e facendo da assistente alla delegazione irlandese a Versailles nel 191912.

Vi furono poi due casi di donne che per essere mandata al fronte si spacciarono per un uomo. Così fece la russa Marina Yurlova, nata nel 1901 in un paesino sui monti del Caucaso. A 14 anni, facendosi passare per un ragazzo, si arruolò nell’esercito zarista e fu quasi subito mandata sul fronte turco. Alla fine del primo conflitto mondiale, durante il quale era stata ferita numerose volte, si congedò e decise di emigrare negli Stati Uniti. Lì pubblicò due autobiografie: Cossack Girl del 1934 e Russia Farewell pubblicato due anni dopo, in cui raccontò la sua esperienza sul campo e gli avvenimenti salienti della guerra13.

L’altra donna sotto copertura fu la giornalista britannica Dorothy Lawrence. Dopo essere riuscita a pubblicare alcuni articoli sul “Times”, allo scoppio della guerra scrisse a diversi giornali di Fleet Street nella speranza di essere inviata al fronte per seguire il conflitto, non avendo tuttavia alcuna risposta positiva. Nel 1915 si recò in Francia dove si offrì volontaria come dipendente civile del Voluntary Aid Detachment, ma anche in questo caso non ebbe successo. Decidendo di entrare nella zona di guerra attraverso il settore francese come corrispondente di guerra freelance, fu arrestata dalla polizia a Senlis, a 3,2 km dalla linea del fronte, e le venne intimato di andarsene. Tornata a Parigi concluse che avrebbe potuto raggiungere il suo scopo solo sotto mentite spoglie: riuscì quindi a ottenere un'uniforme da soldato, insieme a documenti falsi che la presentavano come Denis Smith14.

Una volta arruolatasi tuttavia, la vita in trincea ebbe gravi conseguenze sul suo stato di salute, cosa che la portò a confessare tutto temendo che, se avesse avuto bisogno di cure mediche, la verità sarebbe in ogni caso emersa mettendo in pericolo chi l’aveva aiutata. Dopo la sua rivelazione seguì un periodo di prigionia, poiché erano sorti dei sospetti sul suo reale

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https://web.archive.org/web/20180301230155/https://www.lib.uchicago.edu/efts/IWW/BIOS/A0051.ita.html;

13 V. Palumbo, Prima guerra mondiale: il racconto delle donne, 2014

http://www.giornalismoestoria.it/racconto-dal-fronte-guerra-versione-delle-donne/; consultato il 21/9/20

14 L. Marzouk, Girl who fought like a man, “Times”, retrieved 12 January 2014

https://www.times-series.co.uk/photos/picture_gallery/archive/2003/11/20/Features+(features)/432132.Girl_who_fought_like_a _man/;

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obiettivo e schieramento. Tacciata di spionaggio e dichiarata prigioniera di guerra, alla fine fu rimandata a casa al cessare delle ostilità, con il rigido accordo di non pubblicare le sue esperienze. Una volta a Londra, cercò comunque di divulgare i suoi report per “The Wide World Magazine”, un mensile illustrato che dovette rinunciare a pubblicare il suo lavoro sulle istruzioni del War Office, il quale aveva invocato il Defense of the Realm Act per metterla a tacere.

La prima guerra mondiale creò le condizioni per un incremento delle fila dei giornalisti di guerra, data la necessità delle nazioni di avere quante più penne possibili che veicolassero racconti positivi a sostegno dello sforzo bellico. Allo stesso modo erano richiesti molti più fotogiornalisti rispetto al passato, per offrire delle prove visive di ciò che i loro colleghi raccontavano. Ovviamente solo gli uomini erano ritenuti all’altezza di questa sfida. Una delle poche donne che riuscì ad essere accreditata come fotoreporter fu Alice Schalek per il War Press Office austroungarico, la quale fu mandata a coprire il fronte italiano dal 1915 al 1917. Pur avendo riscosso molto successo tra i lettori, alcuni critici sostennero che i reportage della Schalek offrivano una versione troppo romantica del conflitto, con un’indebita prospettiva soggettiva.

Un’altra possibilità, per le fotogiornaliste che non erano riuscite ad ottenere l’accreditamento ufficiale, era quella di essere ingaggiate direttamente dalle forze armate per svolgere compiti particolari15.

1.2 Primo dopoguerra e secondo conflitto mondiale

Come si è appena visto, il primo conflitto mondiale aveva aperto le porte alle prime audaci reporter. Tuttavia si tratta ancora di pochi casi isolati e quasi sempre seguiti da una forte critica e da scetticismo, che provenivano in gran parte dai colleghi maschi che erano adesso ‘costretti’ ad ammettere la presenza delle donne in redazione.

In ogni caso la prima guerra mondiale fu un evento che costituì per molti aspetti un punto di rottura nel giornalismo di guerra come era inteso fino ad allora. In realtà è considerato uno dei periodi più vergognosi nella storia del giornalismo16. Questo perché in quei quattro anni si verificò un totale assoggettamento dei mezzi di comunicazione

15 S. Allan, Women and war photography, in EBook collection “Journalism, Gender and Power”, Routledge,

NY, 2019, p. 317.

16 O. Bergamini, Specchi di Guerra. Giornalismo e conflitti armati da Napoleone a oggi, Laterza, Bari, 2009,

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alle volontà nazionali: per la prima volta tutti i paesi si impegnarono a creare in modo massiccio delle strutture capillari con cui controllare e manipolare i mezzi di informazione. Gli avvenimenti bellici furono sempre più spettacolarizzati, spostando l’informazione commercializzata verso forme più “emotive”17.

Dopo questa deludente esperienza giornalistica, un banco di prova per il giornalismo bellico fu la guerra civile spagnola. Legata a questo conflitto è la fotogiornalista tedesca Gerda Taro, prima donna morta sul campo mentre lavorava, dopo essere stata schiacciata da un carro armato. I suoi lavori venivano pubblicati sotto lo pseudonimo di “Capa”, nome divenuto celebre nella storia del fotogiornalismo di guerra per lo scatto The falling soldier. All’insaputa del pubblico, Robert Capa era un personaggio inventato dalla Taro insieme al suo compagno André Friedman. Il nome era stato scelto perché suonava meno “straniero” in un clima xenofobo come quello degli anni trenta.

Taro è stata per decenni dimenticata, subendo il destino più crudele di essere scomparsa dietro l’ombra di Capa. Fu solo nel 1990 che si riconobbe il suo lavoro, grazie ad un approfondito lavoro di ricerca sulla guerra civile spagnola18.

La traduzione in italiano del volume di Irme Schaber, Gerta Taro.

Fotoreportererin im spanischen Bürgerkrieg. Eine Biografie (Marburg, Jonas Verlag,

1994), è molto interessante, testimoniando come attraverso la narrazione della vita della fotoreporter, molti aspetti della società a lei contemporanea possono essere esaminati. Dal volume si comprende quante difficoltà occorre affrontare per ricostruire “un’esistenza femminile”19, le cui tracce vengono nascoste molto più spesso rispetto a

quanto non avvenga per le vite degli uomini. Attraverso lo studio delle diverse fonti è stato possibile restituire spessore alla vita di una donna, la cui storia e la cui produzione fotografica erano state oscurate dalla figura del compagno, secondo una serie di dinamiche che non riguardano esclusivamente la tendenza a inglobare i percorsi femminili in quelli di uomini noti, ma anche gli interessi commerciali delle agenzie nell’attribuire gli scatti della Taro al più noto fotografo Capa, così da attribuirgli maggior rilievo20.

17 Ivi, p. 70.

18 S. Allan, Women and war photography, cit., p. 318.

19 S. Galli, Gerda Taro e le altre, in «Storicamente», vol.4, 2008, p. 319

https://storicamente.org/galli_2;

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Nonostante le donne si affacciassero sempre di più al mondo del giornalismo ancora nel 1938 A. J. Ezickson scriveva nel suo libro Get a picture! The story of the news

cameramen:

Humph! Woman? Impossible! That job was too risky, too dangerous. Women photographers are ending in, overcoming all objections, believing the popular illusion as to their frailty, lack of nimbleness in covering a spot news assignment, inability to handle weighty equipment21.

Eppure negli anni trenta del Novecento si verificarono casi in cui le giornaliste arrivarono perfino prima dei loro colleghi ad ottenere delle notizie. Clare Hollingworth, ad esempio, fu la prima giornalista a scoprire e a dare notizia dell’imminente invasione della Polonia ad opera dell’esercito della Germania nazista. Nata vicino a Leicester, fin da molto giovane scoprì e coltivò il suo interesse per le guerre, visitando insieme al padre i luoghi dove si erano tenute le battaglie storiche inglesi. Dopo la scuola frequentò un corso di economia domestica, cosa che le fece subito odiare le mansioni casalinghe. Inizialmente aveva quindi tentato la carriera politica, diventando segretaria dell’ente britannico League

of Nations Union, che si occupava della promozione della giustizia nel mondo. Nel frattempo

sviluppò la passione per la scrittura, collaborando con varie riviste e scrivendo i suoi primi articoli, nonostante l’opinione contraria della madre. Decise di iscriversi all’università che frequentò prima a Londra e poi a Zagabria, e si sposò nel 1936 con un ex collega della

League: i due cominciarono ad allontanarsi durante la Seconda guerra mondiale per poi

divorziare qualche anno dopo.

Alla fine degli anni trenta Hollingworth era a Varsavia per distribuire aiuti umanitari ai profughi che avevano lasciato l’area della Repubblica Ceca annessa dalla Germania. In questo periodo aiutò molte persone a scappare dalla Germania nazista, occupandosi dei loro visti per il Regno Unito. Nel frattempo aveva continuato a scrivere alcuni articoli per il “New Statesman”, ma durante una sua visita a Londra fu assunta dal direttore del “Daily Telegraph”, colpito profondamente dalla sua esperienza in Polonia. Fu infatti per questo giornale che Hollingworth scrisse l’articolo che venne definito lo scoop del secolo: dopo essere riuscita ad entrare in Germania prendendo in prestito un’auto dall’ambasciata britannica a Katowice passò per una zona dove erano stati sistemati enormi teli mimetici22.

La giornalista vide che in quell’area vi erano moltissimi soldati tedeschi, insieme ai carri armati e all’artiglieria. Il giorno dopo, il 29 agosto 1939, il “Telegraph” uscì con in prima

21 Ivi, p. 320.

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pagina il titolo 1.000 carri armati ammassati al confine con la Polonia. Dieci divisioni sono

pronte per colpire23, anche se l’articolo non era firmato.

The military situation which i had to report was fairly critical. It appeared that there has been a break-through in the south-east, and the Germans were marching o Tarnopol, leaving Lwow untaken, the centre of heavy fighting on their left flank24.

Hollingworth continuò a scrivere articoli per tutta la seconda guerra mondiale dalla Turchia, dalla Grecia e dall’Egitto. Entrò a Tripoli con il generale britannico Bernard Montgomery, che però la rimandò al Cairo perché non sopportava di avere una donna con sé. La giornalista allora si unì alle truppe del generale americano Dwight Eisenhower. Durante la guerra si fece conoscere per la sua intraprendenza: tra le altre cose si era lanciata in diverse occasioni con il paracadute, per seguire le truppe Alleate25.

Celebre per la sua grinta e per il suo coraggio, anche Martha Gellhorn fu un esempio di spicco durante il secondo conflitto mondiale. Dopo aver conosciuto Ernest Hemingway durante un viaggio a Key West, in occasione del Natale 1936, i due si misero d'accordo per partire assieme in Spagna, dove lei fece da corrispondente per conto del “Coller's Weekly” durante la guerra civile spagnola. Più tardi, dalla Germania, la Gellhorn riportò dell'ascesa di Adolf Hitler e nel 1938 passò alla Cecoslovacchia. Dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale, avrebbe raccontato questi e altri numerosi eventi di portata storica nel suo libro A

Stricken Field (1940). Fu corrispondente anche in Finlandia, Hong Kong, Burma, Singapore

e Inghilterra. Dopo aver assistito, insieme a Indro Montanelli, al giorno del bombardamento sovietico di Helsinki, fu anche presente allo sbarco in Normandia. Non potendovi prendere parte come giornalista in quanto donna, pur di essere presente all'evento, si imbarcò fingendosi inizialmente un'infermiera e seguendo poi le truppe di nascosto. Fu persino la prima giornalista a portare testimonianza del campo di concentramento di Dachau, appena dopo la liberazione.

[I] followed the war wherever [she] could reach it26.

Dopo aver vissuto con Hemingway per quattro anni, i due si sposarono nel 1940. Sempre più irritato dalle lunghe assenze della Gellhorn dovute al suo mestiere di

23 https://www.ilpost.it/2017/10/10/clare-hollingworth-2/; consultato il 24/9/20. 24 C. Hollingworth, Three Weeks War in Poland, cit., p. 46.

25 J. Lo Dico, The woman who broke the news of WW2, in “Evening Standard”, 2015, p. 17. 26 M. Gellhorn, The face of the War, in “Grove press”, NY, 2018, p. 136.

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corrispondente, le scrisse quando lei dovette partire per il fronte italiano nel 1943, dicendole: “Are you a correspondent, or wife in my bed?”27 La sua scrittura ha offerto più della semplice

descrizione della strategia e dei risultati di battaglia, i suoi lettori leggendo gli articoli potevano percepire i rumori e persino gli odori della guerra. Nel gennaio 1945, descrisse come fosse essere un passeggero di un caccia notturno p61 - una vedova nera - in missione notturna sulla Germania28.

Le storie delle donne che coprirono il conflitto prevedono tutte una stessa base di coraggio e determinazione, ma allo stesso tempo dimostrano come si verificasse una sessualizzazione sempre maggiore della figura delle reporter. Alcune donne non sembrarono curarsi di questa ossessione che i colleghi o l’opinione pubblica palesavano per i loro corpi: forse perché non avevano scelta o forse perché la voglia di essere accreditate come corrispondente estero era più forte di tutto. Ci furono casi in cui le stesse giornaliste rivendicarono di poter offrire un approccio diverso rispetto a quello maschile, accettando che le differenze di genere potessero esser fatte valere anche come punto di forza. Secondo alcune testimonianze, le giornaliste menzionarono la possibilità di sfruttare il loro fascino femminile per ottenere informazioni e favori. Ciò ovviamente, oltre che potenzialmente svilente, poteva essere vero solo per le giornaliste giovani, di bella presenza e molto sicure di sé. Inoltre, offriva terreno fertile per le speculazioni sulle donne che avrebbero offerto favori sessuali in cambio di notizie.29

Oltre alle prese in giro e alle vere e proprio molestie subite sul posto di lavoro, le reporter di guerra venivano ostacolate anche in altri modi: a molte venne precluso di presenziare ad alcuni momenti salienti dei conflitti poiché non vi erano i servizi igienici per le donne. Nel caso in cui riuscivano a partire poi, le inviate dovevano essere competitive, coraggiose e risolute anche più degli uomini. Con la scusa di tutelarle per la pericolosità delle situazioni venivano creati sempre più ostacoli, come accadde a Margaret Bourke-White, a cui venne proibito di volare perché troppo rischioso per una donna, per cui dovette raggiungere le coste del Nord Africa in nave per riportare l’invasione degli Alleati30.

27 K. Bernice, The Hemingway Women: Those Who Loved Him, the Wives and Others, W.W. Norton & Co.,

NY, 1983

28 M. Gellhorn, The face of the War, cit., p. 226.

29 D. Chambers, L. Steiner e C. Fleming, Women and Journalism, cit., p. 202. 30 Ibidem.

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1.3 Il secondo dopo guerra: dalla Corea al Vietnam

La fine della seconda guerra mondiale rappresentò sicuramente uno spartiacque nella storia. Se da un lato pose fine alla fase delle guerre totali, dall’altro si connotò per l’apertura di centinaia di nuovi scenari bellici, con la grande contrapposizione dei due blocchi che provocò in ogni caso la morte di milioni di persone. Questo nuovo, complesso, scenario mise a dura prova la capacità dei giornalisti di raccontare i conflitti, ma soprattutto di capire come questi andassero interpretati nella cornice della guerra fredda. Sicuramente il fatto che da quel momento non si poteva più intendere la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali contribuì a modificare il taglio degli articoli: prima di allora non vi erano state delle vere e proprie denunce o dimostrazioni massicce contro la guerra poiché tutti, soprattutto i giornalisti, dovevano collaborare affinché lo sforzo bellico fosse sostenuto e valorizzato dalla propaganda nazionalista. Gli orrori della seconda guerra mondiale avevano dato una spinta significativa verso il ripudio delle barbarie. La guerra come mito fondante perse completamente la sua vena eroica che si spegne nell’insensatezza delle carneficine di massa. Non esisteva più la possibilità di una morte gloriosa per ideali quali patria e onore perché i numeri delle vittime superavano qualsiasi previsione. Nell’Europa del secondo dopoguerra era impossibile concepire che la partecipazione a un conflitto potesse avere fini altri dalla difesa.

Tuttavia, i giornalisti di guerra tra gli anni cinquanta e settanta del Novecento misero sì in discussione la guerra in quanto tale, ma sempre difendendo e appoggiando l’uno o l’altro blocco, senza attribuire pari dignità e importanza alle aree dove le guerre ancora si combattevano. Ciò rese quanto mai difficile comprendere le dinamiche reali che sottostavano a questi nuovi conflitti31.

Il primo scontro di grandi proporzioni post 1945 fu la guerra di Corea, combattuta tra il 1950 e il 1953. Dal 1951, i giornalisti furono sottoposti direttamente all’autorità militare, minacciati di gravi ripercussioni se avessero violato il regime di censura ufficiale imposto dal generale Mac Arthur. Quasi tutta la stampa mancò di riportare oggettivamente gli avvenimenti bellici e ben pochi misero in discussioni le tattiche applicate dalla coalizione ONU a guida statunitense. Gli aspetti più cruenti dei combattimenti furono passati sotto silenzio e non venne scritto dei numerosi soldati americani che si arresero al nemico senza opporre troppa resistenza32.

31 O. Bergamini, Specchi di Guerra. Giornalismo e conflitti armati da Napoleone a oggi, cit., p. 131. 32 Ivi, p. 137.

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Chiaramente molti ostacoli vennero posti anche alle reporter, come successe a Marguerite Higgins che venne allontanata dalla Corea dall’esercito americano con la scusa dell’assenza dei servizi igienici per signore. Nonostante l’allontanamento fu lei, e non i suoi cinque colleghi uomini, a vincere il Pulitzer nel 1951 per la copertura del conflitto. Higgins aveva già scritto per il “New York Tribune”, vinto un premio per aver scritto della liberazione del campo di concentramento di Monaco e a soli 26 anni era diventata capo del bureau berlinese del “Tribune”. A respingerla era stato il generale Walton Walker, il quale sostenne che le donne non appartenevano al fronte e che l’esercito non aveva tempo di curarsi della loro protezione e ancor meno di creare delle strutture ad hoc per loro. Quando la Higgins si appellò direttamente a Mac Arthur, egli creò un importante precedente annullando l’ordine di allontanamento. Nonostante quindi i tentativi di ostacolare le donne, molte porte continuavano ad aprirsi per le giornaliste, offrendo i nuovi conflitti molte opportunità per loro anche nel settore del fotogiornalismo e nella radio33.

Un cambiamento realmente significativo si ebbe con la guerra del Vietnam. Durante questo conflitto si registrò infatti un’inedita presenza di giornaliste, che andarono a costituire un gruppo sostanzioso, cosa che decretò definitivamente il loro ingresso nella scena dell’informazione di guerra. Quasi settanta vennero accreditate al quartier generale americano e sudvietnamita34. Molte erano veterane, ma ci furono anche tantissimi casi di giovani reporter disposte ad affrontare qualsiasi pericolo per dimostrare il loro valore giornalistico: arrivavano in Vietnam con quasi nessuna esperienza, per cui la loro abilità nell’improvvisare divenne un aspetto cruciale del lavoro. Dal momento che non servivano permessi speciali, era sufficiente comprare un biglietto su un volo di linea per arrivare nell’area del conflitto, ulteriore aspetto che rese molto più facile seguire gli avvenimenti bellici anche senza un accreditamento ufficiale. Jurate Kazickas, per esempio, giunse in Vietnam comprando un biglietto con i 500 dollari vinti in un programma televisivo, dopo che il suo capo al “Look magazine” si era rifiutato di mandarla come corrispondente estero35.

In ogni caso le giornaliste dovettero fronteggiare ostacoli simili a quelli dei due conflitti mondiali, combattendo contro i pregiudizi costanti. La differenza di genere continuava ad essere argomento di dibattito, soprattutto per quanto concerneva il modo di scrivere e il taglio che le reporter decidevano di adottare: si continuava a sostenere che le giornaliste fossero

33 D. Chambers, L. Steiner e C. Fleming, Women and Journalism, cit., p. 203.

34 O. Bergamini, Specchi di Guerra. Giornalismo e conflitti armati da Napoleone a oggi, cit., p. 176. 35 D. Chambers, L. Steiner e C. Fleming, Women and Journalism, cit., p. 205.

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più propense a dar voce al “lato umano” della guerra, dando anche molto più spazio alla posizione vietnamita, mentre gli uomini scrivevano di strategie militari, senza interessarsi della popolazione asiatica.

Molte giornaliste volevano rompere questo schema costruito su stereotipi che le relegavano ad un solo genere di notizie, anche perché le storie che si dilungavano sulle conseguenze che la guerra aveva sulla popolazione locale potevano essere più facilmente tagliate. È per questo stesso motivo che raramente le giornaliste di guerra presero parte attiva alle contestazioni femministe che nel frattempo prendevano piede in patria: volendo essere accettate dai militari e dai loro colleghi giornalisti, portare avanti la lotta femminista in Vietnam avrebbe costituito un suicidio professionale. In ogni caso, pur condividendo le rivendicazioni di uguaglianza di genere alla base dei movimenti femministi, preferivano combattere le loro battaglie individualmente, più che come parte di una corrente. Le giornaliste erano prima di tutto ansiose di essere accettate come professioniste e solo in secondo luogo come “donne”. Così facendo, anche se non prendevano parte attiva pubblicamente, stavano riscrivendo le regole di genere, in modo tale che il titolo woman war

correspondent non sarebbe più stato visto come un ossimoro36.

Uno dei nomi più noti legati al conflitto vietnamita è quello di Oriana Fallaci, scrittrice, giornalista e attivista italiana. Fallaci partecipò giovanissima alla Resistenza italiana e fu la prima donna italiana ad andare al fronte in qualità di inviata speciale. Nel 1967 si recò in qualità di corrispondente di guerra per “L'Europeo” in Vietnam, per poi tornarci dodici volte in sette anni. Quando vi fece ritorno alla fine del 1968, con il fotografo Gianfranco Moroldo, diventarono incessanti i suoi reportage spediti alla redazione dell’“Europeo”, che li pose in grandissimo rilievo, facendo accrescere la fama della giornalista in Italia come all’estero; i suoi articoli infatti venivano acquistati e tradotti dalle maggiori testate internazionali. Dal diario di un anno di guerra nacque il libro Niente e così

sia, edito da Rizzoli nel 1969, il cui successo fu clamoroso. La scrittrice era già conosciuta

per aver pubblicato quattro libri basati sulle interviste fatte per l’“Europeo” e un’opera

Penelope alla guerra37. Fu con questa raccolta infatti che la giornalista aveva creato un nuovo modo di fare informazione: arricchendo la pura cronaca con le rivelazioni e gli stati d’animo dei soldati e dei civili che aveva intervistato, cercando di rispondere alla domanda

36 S. Allan, Women and war photography, cit., p. 324.

37 V. Motta, The courage of rhetoric: Niente e così sia by Oriana Fallaci, in “Italianist”, volume 31, 2011 p.

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che la sorella le aveva rivolto: la vita, cos'è? Continuerà a tornare sul campo perché la guerra l’aveva stregata, come confessò più tardi:

impegnata com’ero a condannare la guerra, della guerra io ho sempre raccontato gli orrori e basta. Non ho mai avuto la forza di confessare il fascino oscuro, la seduzione perversa, che essa esercita. Una seduzione, Dio mi perdoni, che nasce dalla sua vitalità. La vitalità di quella sfida, appunto. Io non mi sono mai sentita così viva come quando, vinta la sfida con me stessa, viva sono uscita da un combattimento anzi da una guerra38.

Giorno dopo giorno la giornalista aveva scritto i suoi appunti, presenziando a tutti i momenti più salienti della guerra, riuscendo a trovarsi sempre nelle zone più calde: dalla battaglia di Dak To all’offensiva del Tet e all’assedio di Saigon. Di risonanza mondiale furono le sue interviste ai massimi esponente dei due schieramenti vietnamiti: il generale nord-vietnamita Võ Nguyên Giáp, e il presidente sud-vietnamita Thieu.

Il conflitto in Vietnam segnò inoltre un altro cambiamento: alla luce degli ostacoli imposti alla libertà di espressione nei primi decenni del secolo scorso, risulta chiaro come non si fosse riusciti a parlare apertamente del PTSD (post-traumatic stress disorder). Un’analisi più approfondita dello shock post-traumatico avvenne solo a partire dalle esperienze dei veterani del Vietnam. L’evoluzione dei mass media aveva reso più diretta la testimonianza in tutte le fasi e di tutti gli aspetti della guerra in Vietnam.39 .

1.4 Nuovi conflitti: dal journalism of attachment al news management

Dal 1980 i numerosissimi conflitti esplosi nelle più disparate parti del mondo hanno offerto molte occasioni per l’evoluzione del giornalismo di guerra: dalle rivoluzioni dell’est Europa al collasso dell’Unione Sovietica, dalla dissoluzione di Jugoslavia, Bosnia e Cecenia fino ad arrivare alle due guerre del Golfo. Durante questi avvenimenti le donne continuarono a fronteggiare gli episodi di sessismo mentre facevano il loro lavoro.

38

http://orianafallaci.altervista.org/la-sporca-guerra/?doing_wp_cron=1601200571.6016891002655029296875; consultato il 27/9/20

39 A. Natale, Per-formare il trauma. Evoluzioni narrative dai conflitti mondiali al terrorismo, in Edizioni

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La guerra delle Falkland del 1982, tra la Gran Bretagna e l’Argentina, è un classico esempio in cui la copertura mediatica venne controllata dall’alto, in questo caso dal Ministero della Difesa britannico. Essendo le isole Falkland distanti 400 miglia dalle isole più vicine, per recarvici si necessitava di una task force marittima. Erano quindi le autorità militari a decidere chi potesse raggiugere il luogo, ammettendo tra l’altro solo corrispondenti inglesi. Il gruppo di giornalisti che partirono era costituito interamente da uomini, mentre le poche giornaliste che trattarono del conflitto furono costrette a farlo a distanza40.

In quegli anni, la reporter Kate Adie della BBC contribuì a scrivere un nuovo capitolo della storia del giornalismo di guerra al femminile. Aveva già ottenuto successo per i suoi articoli sull’assedio all’Ambasciata iraniana a Londra, ma il suo nome divenne noto per i reportage della guerra in Libia del 1986 e della strage di piazza Tienanmen del 1989. Fu dopo queste pubblicazioni che venne attaccata da un parlamentare e dal “Daily Express” di simpatizzare per il regime di Gheddafi, poiché aveva scritto della morte della figlia adottiva del dittatore, avvenuta durante il bombardamento americano di Tripoli. La Adie non solo si difese con risolutezza ma citò anche in giudizio il “Daily”, vincendo la causa. Fu anche premiata dalla Royal Television Society con il International News Story

Award dell’86 per i reportage libici. E fu proprio nel mondo del nuovo giornalismo

televisivo che la giornalista disse di aver riscontrato di più gli svantaggi legati all’essere donna, poiché l’attenzione veniva posta maggiormente sul suo aspetto fisico e non sulle sue competenze, cosa che non accadeva ai suoi colleghi maschi. Fu afflitta ad esempio da commenti sui suoi capelli, cosa che la costrinse a portare all’estero con sé l'adattatore elettrico e il ferro per arricciarli. Eppure il suo zelo e la sua bravura avrebbero dovuto proteggerla da questi commenti non pertinenti all’ambito lavorativo. Durante i fatti di piazza Tienanmen, sebbene fosse stata colpita da un proiettile, si era dimostrata più preoccupata per i feriti e i morti intorno a lei che per la sua salute e non aveva smesso di lavorare41.

L’enfasi sull’apparenza delle corrispondenti sembrava essere una conseguenza della commercializzazione delle notizie che stava crescendo esponenzialmente. Probabilmente l’alto profilo richiesto alle giornaliste televisive era legato al “wow

40 D. Chambers, L. Steiner e C. Fleming, Women and Journalism, cit., p. 208. 41 Ibidem, p. 209.

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factor”42, come sostenne la giornalista Hilary Andersson la quale era convinta che il

pubblico volesse vedere e ascoltare una donna sullo schermo:

pretty faces leaven the sight of body bags and that audiences may even enjoy seeing women doing what is epitome of maleness43

L’aumento delle donne nelle zone di guerra si inseriva in quella che gli studiosi chiamano la femminilizzazione dei nuovi media. La reporter britannica Emma Daly, dopo essere stata corrispondete nei Balcani dal 1994 al 1996, osservò che le persone avevano la percezione che il giornalismo di guerra si stesse “femminilizzando”, poiché il più freddo e distaccato approccio del bystander journalism era stato sostituito dal più emotivo journalism of attachment. Fondamentalmente si insiste sul cambiamento registrato nei toni giornalistici, al di là del genere dell’autore: se prima si raccontavano gli eventi bellici, senza far trapelare un giudizio in merito (a meno che non si trattasse di opera propagandistica), adesso i giornalisti andavano oltre. La brutalità dei conflitti e la necessità di giustificare gli interventi degli occidentali spingevano non solo i giornalisti a palesare le loro opinioni, ma anche a portare avanti delle vere e proprie denunce delle efferatezze che venivano commesse. In più l’attenzione alle vittime, che prima era considerata prettamente femminile, adesso diventava la norma.

Così successe ad esempio durante le guerre che sconvolsero i Balcani negli anni novanta del Novecento, guerre che furono raccontate mostrando questo lato “umano” del giornalismo, dato anche il fatto che la maggior parte della violenza si era concentrata sui civili. Una giornalista che mostrò uno dei lati più atroci della guerra fu Seada Vranić. Per il suo libro Pred zidom sutnje (Breaking the Wall of Silence, nella traduzione inglese) raccolse e documentò oltre 300 testimonianze delle vittime degli stupri di guerra in Bosnia-Erzegovina, riportandone 12, assieme ad un’analisi sull’impatto sociologico e psicologico dell’accaduto. La portata delle esperienze che le donne le raccontavano era così devastante che la giornalista raggiunse l’orlo del collasso fisico e psicologico. Vranić fu una delle prime a riconoscere e ad attestare il fatto che lo stupro fosse usato come strategia di guerra nel conflitto serbo-bosniaco:

All’inizio non riuscivo ad accettare l’idea che lo stupro potesse essere una strategia per la guerra espansionistica. Pensavo: uno stupro non può essere commesso per ordine di qualcun altro, non è che si possa ordinare ad un’altra persona di avere un’erezione. Una strategia implica

42 S. Allan, Gender, risk and war reporting, cit., p. 166. 43 Ibidem.

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subordinazione, sottomissione ad un superiore. Ma dopo quattro mesi il mosaico mi divenne chiaro: località completamente differenti mostravano lo stesso svolgimento degli eventi, avevo testimonianze di vittime di stupro da ognuno di questi luoghi. Mano a mano che registravo le loro storie, la mia visione sulla natura dei crimini che avevano subito cambiava.44

Le forze serbe infatti seguirono una strategia di abusi sessuali con migliaia di ragazze e donne musulmane di origine bosniaca. Non esiste alcun dato sicuro su quanti, donne e bambini, furono sistematicamente violentati dalle forze serbe, ma si stima che il numero delle vittime sia tra le 20 e le 50 mila.45 Tutto ciò venne testimoniato anche dal giornalista americano Roy Gutman, il quale aveva già vinto il Pulitzer per le sue inchieste sui campi di concentramento serbi a Omarska. I media ebbero quindi il merito di documentare questi orrori, tutti denunciati a più riprese da giornali, televisioni e radio.

Tuttavia questo non significa che dagli anni novanta le notizie non venissero comunque filtrare dagli stati; si decideva a priori quali atrocità raccontare, soprattutto in base a chi le aveva commesse. Come si è già osservato, le denunce della comunità internazionale erano sicuramente figlie di un nuovo clima geopolitico di maggiore cooperazione, ma queste erano in particolar modo mirate a giustificare gli interventi delle “nazioni civili” nei conflitti che apparentemente non li dovevano riguardare. Il governo americano non si poteva più permettere una gestione approssimativa dell’informazione come era avvenuto per il Vietnam; così dagli anni ottanta si afferma il “news

management”: una vera e propria strategia nuova per cui non si optava più per la censura

o per la propaganda, troppo rigide e anacronistiche, ma per il controllo. Si puntava a minimizzare le notizie che potevano essere più sgradite, mettendo in luce e sottolineando invece quelle positive, influenzando il pubblico a sua insaputa46. I reporter così dovevano fronteggiare la rete di comunicazioni istituzionali e militari già preconfezionate.

Se alcuni media sottolineavano che gli atti di barbarie venivano perpetrati da tutti i gruppi coinvolti, molti invece tendevano a scegliere comunque un “cattivo”47 . Per i

giornalisti raccogliere le informazioni era un’impresa difficile, a causa degli accessi limitati alle diverse zone del conflitto; in più la velocizzazione dei cicli-notizia accorciava significativamente il tempo a disposizione per l’invio dei pezzi. Il rischio era quello di non verificare le notizie per seguire sempre il sensazionalismo.

44 S. Vranic, Breaking the wall of silence - The Voices of Raped Bosnia, Antibarbarus, Zagabria, 1996, p 204. 45https://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2019/03/13/news/il-diritto-di-essere-innocenti-1.332392; 46 O. Bergamini, Specchi di Guerra. Giornalismo e conflitti armati da Napoleone a oggi, cit., p. 198. 47 E. De Angelis, Guerra e mass media, Carocci, Roma, 2007, p. 71.

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I postulati su cui si basa il “news management” sono tre, come riportato da Claudio Fracassi nel suo libro Bugie di guerra. L’informazione come arma strategica: “alla gente non interessa la realtà. Il pubblico ha la memoria corta. L’immagine è la cosa più importante”48.

La prima guerra del Golfo del 1991 costituì il primo vero dispiegamento di queste nuove strategie di controllo mediatico. Le regole a cui i giornalisti si dovettero attenere comprendevano il non poter divulgare informazione sulle reali forze o debolezze della coalizione, così come sulle tecniche e mezzi di combattimento. Anche le posizioni e le località dovevano sempre essere trattate in modo generico, così da evitare di avvertire o mettere in allarme il nemico. La difficoltà stava nello gestire l’altissimo numero di giornalisti che partirono: a gennaio del 1991 già 1400 giornalisti avevano raggiunto il campo. Poiché l’opinione comune era che la guerra del Vietnam fosse stata persa per colpa dell’incontrollata copertura mediatica, gestirla divenne un fattore di primaria importanza. In primo luogo perché l’effetto mediatico era proprio ciò che si ricercava con questo conflitto, l’obiettivo strategico, anche se non l’unico, dell’azione militare; in secondo luogo perché la stessa condotta bellica sembrava essere determinata dalle strategie mediatiche, che dovevano quindi essere pianificate parallelamente a quelle militari 49. In questa occasione le strategie di produzione del consenso vennero messe in opera mesi prima, per costruire un ambiente ideale alla giusta fruizione della guerra. Nello scegliere la narrazione più adatta da utilizzare, un primo obiettivo fu quello di creare una nuova personalità al presidente Saddam Hussein: venne così demonizzato come leader inviso al mondo arabo e al suo stesso popolo, sanguinario e psicopatico, mentre Bush paragonava l’invasione del Kuwait al Blitzkrieg in Europa e Saddam a Hitler 50.

Si apriva inoltre un’altra grande questione con questo conflitto, ossia la contrapposizione tra la crudezza delle scene atroci degli scenari di guerra e la capacità degli occidentali di recepirle, soprattutto valutando il fatto che dalla fine della seconda guerra mondiale questi guardavano alle guerre ormai solo come spettatori. In televisione tutto doveva essere spettacolo ed era controproducente pensare di inserire nel palinsesto delle immagini perturbanti che avrebbero spinto lo spettatore a cambiare canale. In più

48 O. Bergamini, Specchi di Guerra. Giornalismo e conflitti armati da Napoleone a oggi, cit., p. 198. 49 E. De Angelis, Guerra e mass media, cit., p. 81.

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l’accelerazione dei tempi dell’informazione rendeva sempre più complessa la comprensione delle vere dinamiche e soprattutto le conseguenze degli avvenimenti che venivano raccontati. Nacque il modello del “giornalismo da piscina”: i reporter, ironicamente chiamati hotel warrior, presenziavano alle conferenze stampa che il comando americano teneva ogni giorno. A essere raccontati, più che la guerra, erano i briefing dei generali. Per offrire una parvenza di realismo veniva distribuita una grande quantità di materiale, a cominciare dalle fotografie televisive simulate, ai disegni schizzati a mano che rappresentavano gli obiettivi colpiti o ancora da colpire.

Molly Moore, una giornalista del “Washington Post”, scrisse nel suo libro A

woman at War a proposito delle nuove tecnologie usate durante la prima guerra del

Golfo, sostenendo che fossero ancora imperfette. Dopo l’invasione delle truppe irachene in Kuwait, Moore era stata inviata nel centro petrolifero dell’Arabia Saudita, Dhahran, come unica donna tra 38 colleghi. Descrisse lo scontro di 100 ore che portò alla liberazione del Kuwait nel febbraio del 1991, parlandone come la più grossa operazione militare dal secondo conflitto mondiale, che però era stato mancato dalle telecamere e dai giornali. Le scarse comunicazioni avevano inoltre impedito agli articoli della giornalista di essere pubblicati in tempo. Moore testimoniò anche come le donne in Arabia Saudita non potevano viaggiare o fare il check-in in albergo senza essere accompagnate da un uomo.

Quando le venne chiesto di scrivere articoli sulle “women stories” una volta arrivata, rispose così:

I winced at the thought that my first war story would be an article on women’s problems for the Style section. I wanted to do stories on the US plans for defending Saudi Arabia and how the harsh desert environment was going to affect the capability of American troops and equipment.51

Un contesto diverso da quello del Golfo si ebbe in Somalia, dove i giornalisti ebbero una libertà di movimento decisamente maggiore. L’intervento umanitario iniziò con lo sbarco a Mogadiscio del 1992 e fu significativo per il rapporto che si sviluppò tra guerra e informazione: per la prima volta i giornalisti erano giunti per primi, così da filmare in diretta l’arrivo dei marines americani in Somalia. L’orario dello sbarco coincise con il “prime time” statunitense. La volontà era quella di accreditare l’operazione Restore Hope delle Nazioni Unite a guida statunitense. In realtà l’intervento

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in Somalia si concluse in tragedia; durò fino al 1995 e degenerò già nelle sue prime fasi in un conflitto brutale e instabile, il ché rese la regione un posto pericoloso dove recarsi, anche per i giornalisti. Tra i reporter che persero la vita, tristemente famoso fu il caso dell’italiana Ilaria Alpi, giovane inviata del Tg3. Ricostruire gli avvenimenti dell’assassinio non fu affatto facile e tutt’ora le circostanze sono poco chiare. Un’ipotesi accreditata è che la giornalista avesse indagato e scoperto qualche traffico armi e rifiuti tossici tra ambienti istituzionali italiani e gruppi locali52.

Dato lo scarso accesso sul campo consentito ai reporter durante la prima guerra del Golfo, un’ulteriore novità fu introdotta nei primi anni del Duemila con il cosiddetto

embedded journalism: il giornalista inviato si aggregava ad un soldato e poteva

raccontare le operazioni militari attraverso gli occhi di quest’ultimo. Il vantaggio era quello di essere in prima linea e di poter essere costantemente difeso, lo svantaggio quello di non avere una visione d’insieme. Questo nuovo modo di seguire i combattimenti fu usato per la prima volta nella seconda guerra del Golfo. La necessità di concedere maggiore accesso al campo era dovuta alle lamentele che avevano accompagnato la prima “guerra al terrore”, ovvero l’invasione dell’Afghanistan dopo l’11 settembre, che aprì la strada alla guerra in Iraq nel 2003. Anche gli scontri in Afghanistan infatti furono pressoché “invisibili”, anche se le condizioni rispetto alla guerra del 1991 erano diverse, in questo caso il regime talebano non permise che i giornalisti entrassero nel paese. Governi e comandi militari tuttavia continuavano ad esercitarsi allo stesso modo in forme sempre più persuasive del “news management” e non solo quelli dello schieramento occidentale. Anche il mondo arabo si attrezzò in questo senso e significativa fu la nascita di Al Jazeera, la prima televisione all-news non occidentale53. Anche i nemici designati della guerra al terrore si preoccuparono da quel momento di creare i loro canali di comunicazione, ne sono un esempio i video diffusi su internet dai terroristi, allo stesso tempo inviati alle televisioni panarabe per essere trasmessi via satellite. Venivano così mostrati i rapimenti e le esecuzioni per dettare le proprie condizioni o semplicemente intimidire il pubblico occidentale. La manipolazione del linguaggio risultava essenziale nella pratica di radicalizzazione. In quest’ottica la costruzione del “noi contro loro” assegnava delle parti ben definite nella narrazione del conflitto. Se i paesi coinvolti nei conflitti mondiali sembravano aver scoperto l’insensatezza delle carneficine e la pericolosità di una superiorità religiosa o razziale,

52 O. Bergamini, Specchi di Guerra. Giornalismo e conflitti armati da Napoleone a oggi, cit., p. 233. 53 Ivi, p. 262.

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segnando così il declino irrimediabile dell’immagine del soldato come eroe predestinato, la propaganda della jihad la nobilita nuovamente in nome della glorificazione del martirio 54. L’uso strumentale del terrore però fu un marchio di fabbrica di entrambe le fazioni: basti pensare alle immagini del 2004 dei militari americani che torturano i prigionieri nel carcere di Abu Ghraib che, trasformavano:

anche l’America in uno stato terrorista. […] non c’è più bisogno di giornalisti embedded. Grazie alle tecnologie digitali sono adesso i soldati stessi a produrre delle immagini che vanno pienamente ad integrarsi nella guerra. […] la guerra è costretta a diventare anche intensamente oscena e immorale. Costrette a mostrare tutto (queste immagini), a rendere tutto esplicito e trasparente, hanno perso la capacità di comunicare55.

Spesso furono proprio i giornalisti ad essere vittime di sequestri e uccisioni, come nel caso di Giuliana Sgrena, rapita il 4 febbraio 2005 dall'Organizzazione del Jihād

islamico, mentre si trovava a Baghdad. La giornalista era già stata autrice di numerosi

resoconti da zone di guerra, tra cui Algeria, Somalia ed Afghanistan, occupandosi particolarmente della condizione della donna nell'Islam56.

I giornalisti erano diventati dunque strumenti della guerra mediatica che correva parallela alle ostilità militari. L’accanimento contro i reporter sottolineava come l’informazione, o la disinformazione, potessero essere delle vere e proprie armi capaci di determinare le sorti dei conflitti. Per questo era fondamentale controllare la divulgazione. Il pubblico poté avere solo una visione parziale e distorta delle operazioni in Afghanistan e anche quando ai giornalisti venne concesso l’ingresso al paese, restò difficile per loro essere esaustivi sugli effetti dei raid. I comandi militari americani non diedero alcuna stima delle vittime civili afgane, mentre i bombardamenti continuavano ad essere spacciati come “di precisione”, quando in realtà furono colpiti tantissimi obiettivi non considerati militari. Nel frattempo il controllo dell’informazione si affinava sempre più e raggiungeva nuovi vertici negli States: secondo il “The Guardian”, il

54 A. Natale, Per-formare il trauma. Evoluzioni narrative dai conflitti mondiali al terrorismo, cit., p. 73.

55 Recensione di J. Baudrillard, Pornografia del terrorismo, a cura di V. Codeluppi, FrancoAngeli, Milano,

2017, p 21.

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