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3.1 Le origini della resistenza cecena: dallo zarismo alla dominazione sovietica

Nel capitolo precedente si è accennato ai conflitti che negli anni Novanta videro contrapporsi la Russia e la Cecenia. In questo capitolo si cercherà di analizzare tali guerre, ripercorrendo l’intera storia del secolare scontro tra russi e ceceni. L’intento è quello di affrontare il lavoro di un’altra celebre giornalista che, a differenza di Colvin, si concentrò per l’appunto sulla regione cecena, volendone testimoniare i tragici avvenimenti: Anna Politkovskaja.

In seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica la regione caucasica è divenuta una delle aree di maggior rilievo strategico del mondo contemporaneo. Al di là dei problemi di definizione dei confini, la percezione piuttosto netta che si ha, risalente all’antichità, è che il Caucaso fosse una terra di frontiera211. L’attuale rilievo geopolitico va senz’altro spiegato alla luce della complessa dimensione storica e culturale. Per millenni, infatti, il Caucaso ha costituito un confine non solo geografico, quanto storico-culturale, tra due realtà molto diverse, anche se tra loro comunicanti: quella del Vicino Oriente e quella delle steppe euroasiatiche, a lungo dominate da popoli nomadi. Tanto gli imperi orientali, quanto quelli euroasiatici, hanno potuto esercitare un controllo solo parziale e temporaneo sul Caucaso. Soltanto la conquista russa ha inserito l’intero spazio caucasico in un unico sistema politico che è in larga misura venuto meno dopo il 1991212.

Per condurre uno studio approfondito sulla storia di questi territori, bisogna considerare che, oltre alle difficoltà derivanti dalla sua antichità e eterogeneità, numerosi sono i problemi metodologici legati soprattutto alla diffusa inclinazione odierna a proiettare nel passato realtà politiche e territoriali moderne, se non contemporanee, come quella dello

211 C. King, Il miraggio della libertà. Storia del Caucaso, Einaudi, Torino, 2014, p 25. 212 A. Ferrari, Breve storia del Caucaso, Carocci, Roma, 2018, p 11.

stato-nazione. Un anacronismo che nel caso della regione caucasica è particolarmente fuorviante. Un’ulteriore difficoltà è rappresentata dalla stessa definizione storico-geografica della regione caucasica: sarebbe opportuno definire “Caucasia” l’insieme di territori compresi tra il Mar Nero e il Mar Caspio213.

Per quanto concerne la lingua invece, il Caucaso è caratterizzato anche in questo caso da un’eccezionale complessità etnolinguistica, forse unica. Nella regione si parlano infatti attualmente lingue riferibili a tre grandi famiglie: caucasica, indoeuropea e uralo-altaica214.

L’ultimo fattore di complessità è rappresentato dalla religione. I popoli del Caucaso settentrionale sono quasi tutti mussulmani sunniti, ad eccezione di russi e osseti, che appartengono alla chiesa ortodossa; nel Caucaso meridionale, invece, il cristianesimo ha indelebilmente segnato l’identità nazionale di armeni e georgiani, mentre gli azeri sono mussulmani, prevalentemente sciiti215.

La questione cruciale oggetto di questo capitolo è il rapporto storico tra la Russia e il Caucaso, prendendo in analisi in particolar modo la secolare questione dei conflitti che videro contrapporsi la Russia ad una piccola regione caucasica: la Cecenia. L’arrivo sulla scena della potenza russa mutò significativamente la situazione della regione, orientandone la storia fino ad oggi. Si trattò di un processo lento e problematico, che impiegò oltre due secoli ad assumere i connotati di una vera e propria conquista216.

Scrivere della guerra in Cecenia comporta una riflessione che abbracci molteplici aspetti dell’identità di questa nazione. Analizzando il perpetuo scontro tra questa regione e la Russia, la prima domanda da porsi è senz’altro: perché i ceceni combattono. Il senso di rivalsa contro il nemico russo ha origini antiche, risalente addirittura al XVI secolo, al momento dell’insediamento nella regione dei primi cosacchi. La prima volta che i russi si interessarono al Caucaso, infatti, fu quando la conquista di Astrakhan nel 1556, progettata da Ivan il Terribile, pose la questione del controllo dei “territori selvaggi”217. Tali territori

erano contesi dalla Russia zarista, dall’impero persiano e da quello ottomano. Fu nel 1577 che si ebbe l’effettivo insediamento russo, quando i cosacchi si stabilirono nella regione del Terek.

213 Ivi, p 13. 214 Ivi, p 16. 215 Ivi, p 17. 216 Ivi, p 51.

217 A. Castellani, Storia della Cecenia. Memoria, tradizioni e cultura di un popolo del Caucaso, Rubbettino,

Nel 1594 i russi furono tuttavia costretti a retrocedere a causa della sconfitta contro gli ottomani sul campo di battaglia. La sorte venne poi ribaltata nel corso delle guerre russo- turche del Settecento, durante le quali i russi riuscirono a prevalere. In questi conflitti i principali alleati della Turchia erano state le popolazioni montane, specialmente ceceni e kobardi.

Se l’insediamento cosacco in principio era dovuto all’iniziativa di singoli, esso divenne sistematico solo alla fine del Settecento. Le ondate espansive verso il Caucaso di quel periodo si devono a Pietro il Grande, intensificate e perfezionate poi sotto Caterina (come testimonia la presenza della città Ekaterinodar, letteralmente “dono di Caterina”), quando l’intero Caucaso settentrionale venne inglobato nell’impero, subendo la sorte della “russificazione”.

Quando l’impero si affacciò sulla regione caucasica trovò un insieme di popoli accomunati unicamente dalla volontà di preservare la propria indipendenza. La comunità, articolata in tribù e clan, non permetteva lo sviluppo di uno Stato moderno, mentre la religione non aveva ancora un ruolo preminente e unificatore: l’Islam era predicato soltanto attraverso il sufismo, corrente mistica e moderata.

Lo scoppio del conflitto tra i russi e le popolazioni montanare del Caucaso settentrionale scaturì da diversi fattori: l’aumento della presenza russa nella regione era vista tanto come una minaccia alla loro esistenza tradizionale, quanto un’opportunità di ricavare qualche ricavo. Effettivamente l’ostacolo maggiore per i russi non era rappresentato dalle pur sempre aspre contese con l’Impero ottomano e la Persia, e dall’insofferenza di talune popolazioni della Transcaucasia come i georgiani, ma proprio dalla strenua opposizione dei montanari della parte settentrionale della regione218.

Gli scontri con i soldati russi furono feroci, caratterizzati da annientamenti di massa, deportazioni e genocidi. Fu così che le popolazioni nakh (ceceni, ingusci e kist) si unirono sotto la guida di Shaykh Mansur tra il 1785 e il 1791. Divenuto imam nel 1784 e turbato dalla brutalità dell’invasione, portò i suoi proseliti sul campo di battaglia, andando incontro alla sconfitta. La figura del leader della rivolta è ancora oggi intrisa di mistero: l’appellativo

mansur, che in arabo significa “il vittorioso”, è assai diffuso nel mondo mussulmano e non

aiuta quindi a ricostruire l’identità del condottiero. Quello che è noto è che Shaykh per primo comprese l’importanza di unificare le diverse etnie e tribù per avere una chance contro i

russi. Ciò andava fatto sotto un’unica bandiera ideologica, morale e religiosa219. Mansur non

fu infatti solo un capo militare, ma anche e soprattutto un riformatore in campo religioso. La sua impresa durò in tutto sei anni e tutt’oggi il mito del condottiero rimane vivo; basti pensare che nel 1991, in occasione della dichiarazione d’indipendenza della Cecenia, gli fu intitolato un aeroporto.

Dopo pochi anni di relativa pace toccò all’Imam Shamil affrontare, tra il 1824 e il 1859, l’offensiva russa. Quando si pose al comando delle truppe aveva 37 anni: da quel momento si cercò di costruire intorno alla sua figura il mito dell’invincibilità. Shamil seppe mobilitare un vero esercito facendo leva su un abbozzo di Stato ceceno e, riprendendo il disegno di Mansur, superò la dialettica delle tribù e nominò governatori locali, affiancandoli a un muftì (interprete della legge islamica). A partire da quel momento la fede mussulmana diventò la base sulla quale costruire un eventuale Emirato caucasico. Shamil infatti si prodigò per la sostituzione dell’adat, il diritto consuetudinario, con l’istituzione della legge islamica. Fu proclamato imam nella Cecenia orientale, titolo a cui se ne aggiunsero altri due:

Mekhk da (padre della patria) e Tur da (padre della sciabola). Egli non solo distrusse

innumerevoli villaggi cosacchi, ma palesò la sua ferocia anche nei confronti dei ceceni che non vollero abbracciare la sua causa. Tuttavia, nonostante la tenacia che dimostrò sul campo di battaglia e la sua abilità a circondarsi di proseliti, non riuscì a portare a compimento il suo progetto. L’imamato che aveva creato non finì mai per essere un reale territorio unificato: varie parti si smembrarono, non essendo capaci di comunicare l’una con l’altra. La sconfitta definitiva giunse nel 1861, anno in cui le ostilità tra le truppe di Shamil e l’esercito russo si conclusero ufficialmente con una schiacciante vittoria dell’impero. Il sogno di Shamil continuò tuttavia ad essere riproposto e riformulato regolarmente durante tutti i grandi cambiamenti storici che interessarono la Cecenia: la rivoluzione bolscevica, la seconda guerra mondiale e la svolta degli anni Novanta del Novecento.

Allo scoppio della prima guerra mondiale la Russia dovette nuovamente affrontare sul fronte caucasico l’impero ottomano, suo tradizionale rivale già nel corso dell’Ottocento. Entrambe le potenze avevano al proprio interno popolazioni in qualche modo legate allo stato nemico: nell’impero ottomano vivevano numerosi mussulmani di origine caucasica, mentre gli armeni dell’impero russo erano legati a doppio filo con i loro connazionali dell’Anatolia220. Allo scoppio della guerra gli armeni russi appoggiarono con molto

entusiasmo la causa zarista e numerosi si arruolarono volontariamente. I partiti armeni erano

219 A. Castellani, Storia della Cecenia. Memoria, tradizioni e cultura di un popolo del Caucaso, cit., p 34. 220 A. Ferrari, Breve storia del Caucaso, cit., p 83.

stati convinti dalle promesse del governo russo sull’eventuale liberazione dell’Armenia occidentale221. L’atteggiamento di altre popolazioni caucasiche invece era molto diversificato: poco favorevoli erano ovviamente i montanari della parte settentrionale, così come i georgiani che non avevano nulla da guadagnare con l’entrata in guerra. Lo stesso valeva per gli azeri che, per quanto fossero prevalentemente sciiti, non auspicavano un ulteriore indebolimento dell’Impero ottomano.

Nel 1917, approfittando della destabilizzazione seguita alla Rivoluzione di febbraio, un congresso del Caucaso del Nord si riunì dando vita all’Unione dei montanari del Caucaso

del Nord. L’Unione auspicava di trovare un posto nell’ambito di una futura Repubblica

federale russa. Dopo la rivoluzione di ottobre i popoli del Caucaso espressero con determinazione di non voler sottostare al nuovo giogo comunista, proponendo di creare un’entità autonoma. Nell’autunno del 1917 fu così votata la costituzione di una nuova repubblica: la Repubblica delle montagne, che proclamò ufficialmente la sua indipendenza nel 1918.

Una voce fuori dal coro era rappresentata dai mussulmani radicali, desiderosi di fondare non una repubblica, ma uno stato teocratico; si opponevano dunque a qualunque trattativa, mentre i repubblicani cercavano il confronto con i bolscevichi. A rendere ancora più debole la neo-Repubblica, che partecipò alla conferenza di pace di Parigi222, furono le alleanze che essa tentò di stringere in politica estera, in special modo con le potenze che erano state nemiche della Russia durante il primo confitto mondiale. A dimostrazione di ciò la Repubblica fu da subito riconosciuta dalla Germania, dall’Austria-Ungheria e dalla Turchia.

Fu dopo la vittoria dell’Armata rossa e la fine della guerra civile in Russia che gli eventi precipitarono: la rivolta terminò nel maggio del 1921 e la resistenza fu sedata nel sangue. La prima repubblica transcaucasica a venire riconquistata dai rossi fu l’Azerbaigian, mentre la repubblica armena perse l’indipendenza circa sei mesi dopo. La Georgia, patria di Stalin, era riuscita a consolidarsi meglio nel breve periodo di indipendenza, ma allo stesso modo non riuscì a difendersi dall’invasione dell’Armata rossa223.

Tuttavia, era pressoché impossibile negare un qualsiasi tipo di riconoscimento formale alle comunità montanare. Fu così che Stalin nel celebre discorso del 20 gennaio 1921 suggerì la creazione di una repubblica sovietica del Caucaso del Nord con governo

221 Ibidem. 222 Ivi, p 85. 223 Ivi, p 92.

autonomo. Un aspetto particolarmente innovativo del regime sovietico rispetto all’epoca imperiale riguardò la politica delle nazionalità224. Se durante la dominazione zarista numerose etnie erano state discriminate, si voleva adesso che tutti i popoli sovietici godessero di pari diritti politici e culturali, appiattendo così le disuguaglianze che caratterizzavano la regione. Le condizioni che posero i montanari furono tre: il riconoscimento dell’adat e della sharia, la restituzione delle terre confiscate in epoca zarista e la rinuncia da parte del governo centrale ad intervenire nella regione. Inizialmente l’accordo venne rispettato e la “decosachizzazione” venne attuata, ma durò solo fino al 1924. Il territorio cominciò allora ad essere frammentato in molteplici entità amministrative autonome. L’ultimo stravolgimento fu quello decisivo del 1934, anno in cui l’Inguscezia venne accorpata alla Cecenia, con l’istituzione, due anni dopo, della Repubblica Socialista

Sovietica Autonoma della Ceceno-Inguscezia, con centro amministrativo a Groznyj.

Un nuovo scontro con le forze sovietiche si ebbe nel 1940. A capeggiarla questa volta fu Hassan Israilov, un intellettuale che aveva denunciato l’oppressione della popolazione in Cecenia in numerosi articoli sui giornali di Mosca. Dopo essere stato arrestato due volte, tornò in patria e decise di dar vita ad uno scontro armato. Questa nuova ondata di disordini si differenziò dalle precedenti in quanto era l’intellighenzia adesso a coordinare delle missioni di opposizione, sostituendosi agli esponenti religiosi.

La seconda guerra mondiale coinvolse il Caucaso in maniera differente rispetto alla prima, ma con conseguenze altrettanto tragiche. L’evento più cruento, che segnò tutta la storia dei ceceni da quel momento in poi, condannando definitivamente i rapporti con la Russia, fu la deportazione staliniana del 1944. Il 23 febbraio Ceceni e Inguscezi furono deportati in Asia Centrale, destino comune ai balcari, karaci, tatari di Crimea e tedeschi del Volga. Il pretesto fu la falsa accusa che additava i ceceni come collaborazionisti della

Wermacht durante la seconda guerra mondiale: l’obiettivo, in realtà, era l’eliminazione di

una popolazione giudicata inaffidabile, mostratasi poco incline ad accettare il processo di “sovietizzazione”. Effettivamente quando i tedeschi avviarono l’Operazione Barbarossa nel 1941 prestarono attenzione ai movimenti insurrezionali in Cecenia, pensando di poter sfruttare le rivolte per i propri interessi. Nel 1942 la propaganda tedesca era stata addirittura formulata in modo da far risultare la Germania nazista la potenza liberatrice del Caucaso, che avrebbe garantito libertà di culto e possibilità di autogoverno. La questione tutt’oggi è molto intricata, l’unica certezza è che alla fine del 1942, quando i tedeschi si ritirarono dal

sud della Russia non erano mai penetrati nel Caucaso, né tanto meno in Cecenia- Inguscetia.225

La deportazione, a cui venne dato il nome “Operazione Lentil” (per via dell'assonanza della parola russa čečeoica, “lenticchia”, con il nome del popolo ceceno), riguardò circa mezzo milione di persone, 100.000 delle quali morirono lungo il viaggio che durò dalle tre alle sei settimane. L’operazione di carico sui treni si svolse in 5 giorni, dal 23 al 28 febbraio ed ebbe inizio con il pretesto dei festeggiamenti per il ventiseiesimo anniversario dalla fondazione dell’Armata Rossa, occasione in cui si tenne un’adunanza della popolazione. Una volta riunita la popolazione si diede invece l’annuncio che per l’indomani la donne avrebbero dovuto preparare i bagagli e tenersi pronte per partire, mentre gli uomini furono chiusi nei granai.226 L’unico treno passeggeri fu riservato all’élite

politica e intellettuale con destinazione Alma Ata, città del Kazakistan, mentre il resto della popolazione fu caricato su dei treni merci, in condizioni molto dure227.

L’episodio più drammatico della deportazione ebbe luogo a Khjabakh, un villaggio di alta montagna. Il 27 febbraio, dopo che gli abitanti della pianura erano stati deportati, gli ufficiali dell’NKVD iniziarono le operazioni per il trasporto in pianura delle popolazioni montane. Dopo una forte nevicata divenne ancora più complicato trasportare vecchi, donne e bambini. Circa 700 persone furono radunate in una stalla di un kolkhoz, che doveva fungere da punto di raccolta. Per ordine del colonnello Gvisiani la porta venne inchiodata e venne dato fuoco alla struttura e quando la porta riuscì ad essere abbattuta dalle vittime, all’esterno queste trovarono le mitragliatrici russe pronte a sparare. Fino al 1990, anno in cui venne istituita una commissione speciale d’inchiesta, le autorità sovietiche continuarono a negare perfino l’esistenza di un villaggio chiamato Khjabakh.

La perdita del popolo ceceno non riguardò solo vite umane, esso si scontrò di fatto con la volontà russa di eliminare sistematicamente la loro intera memoria e la tradizione. Fu per questo motivo che i beni non ritenuti preziosi dai soldati, che saccheggiarono merci quali tappeti e sciabole intarsiate, furono accatastati e dati alle fiamme; si trattava di manoscritti in arabo, trattati di medicina e astronomia, libri delle antiche leggende e cronache genealogiche dei clan.228 Parole quali “Cecenia” o “ceceni” scomparvero dalle pubblicazioni ufficiali e il territorio venne spartito tra quello di Stavropol, dell’Ossezia del nord e della

225 F. Vietti, Cecenia e Russia. Storia e mito del Caucaso ribelle, Massari Editore, Bolsena, 2005, p 49. 226 A. Castellani, Storia della Cecenia, cit., p 99.

227 A. Rognoni, La deportazione di ceceni e ingusci del febbraio 1944 nelle testimonianze femminili,

Deportate, esuli, profughe (DEP), n.9/2008.

Georgia, i toponimi ceceni sostituiti con quelli russi. L’esperienza della deportazione segnò la percezione del conflitto per sempre: si comprese che resistere strenuamente era l’unica possibilità per evitare di essere soppressi per sempre. Tutti gli scontri successivi sarebbero rimasti permeati della “memoria dello scontro” e dalla “ paura di scomparire”.229

La situazione cambiò nel 1956 quando Kruscev, durante il XX Congresso del PCUS, condannò i crimini di Stalin, dando il via al processo di “destalinizzazione”. Fu l’anno seguente che si permise ai ceceni di tornare a casa con l’intenzione di riabilitarli agli occhi dell’Unione. Per poter parlare e scrivere dell’esperienza della deportazione tuttavia si dovette aspettare la fine degli Ottanta, essendo i sovietici ben attenti a censurare qualsiasi fonte o notizia in merito. Un altro impedimento alla ricostruzione storica subentrò nel 1994, con lo scoppio del primo conflitto ceceno, che di fatto impedì qualsiasi tipo di ricerca o raccolta di informazioni e testimonianze sul suolo ceceno come su quello russo.

3.2 Dalle rivendicazioni del 1957 al primo conflitto ceceno

In Arkhipelag Gulag così Solzenicyn avrebbe parlato della deportazione:

Ci fu una nazionalità che si rifiutò di accettare la psicologia della sottomissione, non in casi isolati di qualche ribelle, ma proprio una nazionalità del suo complesso. Si trattò dei ceceni. […] Nessun ceceno cercò mai di compiacere i capi o accattivarsene le simpatie. La loro attitudine fu sempre fiera e addirittura apertamente ostile230.

A causa della deportazione, un’intera generazione era nata in esilio; tutti i ceceni venuti al mondo prima del 1957 avevano vissuto tale esperienza ed erano ormai cresciuti lontano dalla loro terra.

Già nel 1956 era stato eliminato il blocco alla libertà di spostamento dei popoli deportati, mentre il 9 gennaio 1957 fu ufficialmente istituita la nuova Repubblica Ceceno-Inguscetia. Il problema centrale del ritorno in patria fu il crearsi di tensioni dovute al fatto che i territori caucasici erano stati occupati, così come le case, da russi e ucraini. Gli scontri si ebbero quindi tra i sopravvissuti ceceni, che ebbero il coraggio di affrontare il viaggio di ritorno per riabbracciare la loro terra, e le famiglie russe che, nel frattempo, ne erano entrate in possesso. Molti ceceni subirono l’umiliazione di dover

229 Traduzione dal francese di F. Varchetta. Comitato Cecenia, Cecenia. Nella morsa dell’impero, Guerrini e

associati, Milano, 2003, p 43.

230 Cit. in A. Castellani, Storia della Cecenia. Memoria, tradizioni e cultura di un popolo del Caucaso, cit., p

ricomprare le proprie abitazioni; altri che non potevano permettersi l’acquisto si facevano ospitare da parenti, o si accampavano per strada, in attesa di recuperare le risorse necessarie. Il reinsediamento comportò anche un ricambio etnico, dal momento che i ceceni che vivevano in regioni montuose prima del ‘44 furono costretti a sostare in pianura, dato che questa si prestava più agevolmente ad essere controllata dalle autorità del PCUS, rispetto alle zone montuose di difficile accesso.

La ricostituzione nascondeva anche altre insidie, come ad esempio l’accorpamento al territorio della Repubblica di distretti a nord del Terek, a maggioranza abitati da popolazione russa. Questa unione aveva lo scopo di ridurre la percentuale di ceceni e ingusci: prova ne è il fatto che il censimento di fine anno nel 1959 indicava la presenza cecena al 42,5%, rispetto al 58% del 1939231. Il clima di perenne tensione in

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