• Non ci sono risultati.

Prima lettura del d.lgs. n. 81/2015 recante la disciplina organica dei contratti di lavoro

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Prima lettura del d.lgs. n. 81/2015 recante la disciplina organica dei contratti di lavoro"

Copied!
42
0
0

Testo completo

(1)

Prima lettura del d.lgs. n. 81/2015

recante la disciplina organica

dei contratti di lavoro

di

Michele Tiraboschi

ADAPT

(2)

DIREZIONE

Michele Tiraboschi (direttore responsabile)

Lilli Casano

Pietro Manzella (revisore linguistico)

Emmanuele Massagli

Flavia Pasquini

Pierluigi Rausei

Francesco Seghezzi (direttore ADAPT University Press)

Silvia Spattini

Davide Venturi

SEGRETERIA DI REDAZIONE

Gabriele Gamberini

Laura Magni (coordinatore di redazione)

Maddalena Magni

Francesco Nespoli

Giulia Rosolen

Francesca Sperotti

@ADAPT_Press @adaptland @bollettinoADAPT

ADAPT LABOUR STUDIES E-BOOK SERIES

ADAPT – Scuola di alta formazione in relazioni industriali e di lavoro

(3)

Prima lettura del d.lgs. n. 81/2015

recante la disciplina organica

dei contratti di lavoro

di

(4)

© 2015 ADAPT University Press – Pubblicazione on-line della Collana ADAPT ISBN 978-88-98652-48-8

(5)

INDICE

1. Un testo organico del lavoro atipico e flessibile ... 1

2. Fine del lavoro a progetto, non delle collaborazioni ... 3

3. Stabilizzazione dei collaboratori e delle partite IVA ... 6

4. Associazione in partecipazione e lavoro a coppia (c.d. job sharing) ... 7

5. Il riordino delle tipologie di lavoro flessibile ... 8

5.1. Lavoro a orario ridotto e flessibile... 8

5.2. Lavoro a tempo determinato e somministrazione ... 12

5.3. Apprendistato... 16

6. Lavoro accessorio ... 20

7. Disciplina delle mansioni ... 22

8. La transizione al nuovo regime: il caso del lavoro intermittente o a chiamata ... 23

(6)

Nella Gazzetta Ufficiale del 24 giugno 2015 (serie generale n. 144, suppl. ordinario n. 34) è stato pubblicato il decreto legislativo 15 giugno 2015 n. 81 recante la disciplina organica dei contratti di lavoro e la revisione della normativa in tema di mansioni.

Il decreto, di attuazione all’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (c.d. Jobs Act), si propone il riordino e la revisione delle tipologie contrattuali flessibili con l’obiettivo di sostenere forme di lavoro a tempo indeterminato e rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione.

Il decreto – in vigore dal giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale e, dunque, dal 25 giugno 2015 – è composto di 57 articoli e (quasi) 200 corposi commi che, per complessità e persistente frammentazione del dettato normativo, ancora non si avvicinano alla idea di un codice semplificato del lavoro che pure era uno degli obiettivi della legge delega.

Oggetto del presente contributo (*) è, semplicemente, quello di offrire una prima lettura ragionata del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, e anche talune iniziali chiavi interpretative in attesa che il disegno di riforma del Jobs

Act si completi col varo definitivo dei restanti quattro decreti legislativi

approvati dal Consiglio dei Ministero dell’11 giugno 2015 e ora al vaglio del Parlamento per i relativi pareri non vincolanti.

(Modena, 25 giugno 2015)

* Il presente contributo, di prima lettura e interpretazione del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, costituisce una rielaborazione di analogo lavoro, apparso sul n. 26/2015 di Guida al Lavoro de Il Sole 24 Ore, che era stato elaborato sulla base di una bozza di decreto legislativo che diverge, anche per punti qualificanti, rispetto al testo ora pubblicato in Gazzetta Ufficiale.

(7)

1. Un testo organico del lavoro atipico e flessibile

Più che un codice semplificato dei contratti di lavoro (1) il decreto in commento pare, ad una più approfondita analisi, un testo di mero riordino di quello che il Legislatore italiano, ancora poco attento ai profondi mutamenti del mercato del lavoro e dei moderni modi di lavorare e produrre, continua a qualificare con malcelato sospetto in termini di lavoro atipico e, come tale, tendenzialmente precario. Sulla regolazione del contratto di lavoro a tempo indeterminato il Legislatore spende, in effetti, ben poche parole quanto basta cioè per precisare, secondo una fuorviante lettura giuridica del preambolo (ma non della parte prescrittiva) della disciplina comunitaria in materia di contratti a tempo determinato (2), che esso «costituisce la forma comune di rapporto di lavoro» (art. 1). Rispetto al nucleo centrale e caratterizzante del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, e cioè l’intensità del regime di tutele nel caso di licenziamento illegittimo, il vero salto di paradigma era stato già realizzato, come noto, con il decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, in termini di superamento, per i nuovi assunti a far data dal 7 marzo 2015, dell’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300. Di modo che, una volta venuta meno quella regola generale della reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo che è l’unica vera garanzia della “stabilità” contrattuale nei rapporti di lavoro, la contrapposizione tra contratti a tempo indeterminato e contratti temporanei risulta oggi alquanto stemperata e affidata a mere qualificazioni formali più che ai differenti nuclei di tutela protettiva del prestatore di lavoro. L’impiego della “vecchia” categoria della stabilità contrattuale nella lettura del nuovo contratto a tutele crescenti indica, in uno con la nascita di un nuovo osservatorio su precariato e stabilizzazioni presso

(1) Si veda il progetto promosso dal senatore Pietro Ichino, da ultimo in collaborazione con un gruppo di 200 ricercatori ed esperti coordinato da ADAPT, raccolto in G. Gamberini (a cura di), Progettare per modernizzare. Il Codice semplificato del lavoro, ADAPT University Press, 2014 (il volume è reperibile in modalità open access all’indirizzo http://moodle.adaptland.it alla voce ADAPT University Press, ADAPT e-Book series).

(2) Rinvio, in proposito, a M. Tiraboschi, Alcune note critiche sull’accordo collettivo europeo

(8)

l’INPS (3), come siamo ancora ben lontani dalla rivoluzione copernicana enfaticamente annunciata dal Governo (4).

Di indubbio rilievo, rispetto alla gestione del rapporto di lavoro, è certamente la nuova disciplina delle mansioni (art. 3) che tuttavia, oltre a trovare applicazione per tutte le tipologie contrattuali, ripristina per i casi di demansionamento funzionali a riorganizzazioni aziendali la vecchia distinzione tra lavoro impiegatizio e lavoro operaio sottesa alla nozione legale di “categorie dei prestatori di lavoro” di cui all’articolo 2095 del codice civile. Una impostazione questa da tempo superata dai sistemi di classificazione del personale contenuti nella contrattazione collettiva nazionale di lavoro incentrati sul c.d. inquadramento unico e che, al pari della mancata valorizzazione del lavoro autonomo e della palese ostilità verso schemi contrattuali che bene si attagliano alle dinamiche della sharing economy e del cosiddetto lavoro collaborativo (si pensi alla sorte del job sharing e della associazione in partecipazione), conferma una idea del lavoro alquanto arretrata (5) quantomeno rispetto alla più recente evoluzione tecnologica e ai cambiamenti indotti da imponenti fattori demografici e ambientali (6).

Non viene riproposto, molto opportunamente, il fallimentare schema restrittivo del perimetro di operatività del lavoro atipico e temporaneo che accompagnava l’opzione di politica del diritto sottesa alla legge 28 giugno 2012, n. 92 (c.d. legge Fornero) volta a individuare nel tempo indeterminato il modello contrattuale cosiddetto dominante. Nondimeno si fatica a cogliere la

ratio complessiva di un intervento parimenti di promozione del contratto di

lavoro subordinato a tempo indeterminato (ma non certo della stabilità del lavoro stante il contestuale intervento sul regime sanzionatorio in caso di licenziamento illegittimo) che, per ora, poggia quasi esclusivamente sulla

(3)Vedilo all’indirizzo http://www.inps.it/portale/default.aspx?iMenu=1&itemDir=10342. (4)Si veda, al riguardo, quanto sostenuto in F. Seghezzi, Se è vera rivoluzione copernicana è

sbagliato parlare ancora di stabili e precari, pubblicato su formiche.net con il titolo Tutte le contraddizioni del renzismo governativo, 13 maggio 2015.

(5) Si veda, sul punto, F. Seghezzi, Jobs Act, anatomia di un pensiero debole. Prima lettura di

sistema, in Bollettino ADAPT, 2015, n. 23. Con riferimento ai contenuti e ai modelli

organizzativi del lavoro propri della sharing economy si veda, in particolare, lo studio di E. Dagnino, Uber law: prospettive giuslavoristiche sulla sharing/on demand economy, in

Bollettino ADAPT, 2015, n. 24.

(6) Sui nuovi modi di fare impresa e organizzare i processi produttivi connessa alla evoluzione dei mestieri, delle competenze e delle professioni e, in generale, sulla sfida della modernizzazione del mercato del lavoro dovuta ai cambiamenti demografici e ambientali e alla innovazione tecnologica, rinvio ai contributi pubblicati in La Grande Trasformazione del

Lavoro, blog curato dal gruppo dei ricercatori di ADAPT per Nòva de Il Sole 24 Ore

(9)

misura (temporanea) di esonero contributivo di cui alla legge di stabilità per il 2015 (7); là dove, per contro, le tipologie flessibili vengono solo in parte arginate (esemplare il caso delle collaborazioni a progetto che tornano a vivere con minori tutele nelle vesti delle vecchie collaborazioni coordinate e continuative) e comunque via via affastellate in un unico contenitore al fianco di forme di lavoro senza contratto che vengono ulteriormente liberalizzate (vedi la nuova disciplina del lavoro accessorio) e, soprattutto, di strumenti di costruzione dell’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro come l’apprendistato e il lavoro tramite agenzie che, come indica l’esperienza internazionale e comparata, possono essere molto di più, in termini di funzioni e operatività, di un semplice contratto di lavoro flessibile tanto da meritare una disciplina a se stante in termini di vero e proprio Testo Unico (8).

2. Fine del lavoro a progetto, non delle collaborazioni

Dopo aver enfaticamente dichiarato che il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato «costituisce la forma comune di rapporto di lavoro» (art. 1) il decreto, nella versione scaturita dalla seconda lettura del Consiglio dei Ministri dell’11 giugno 2015 (9), si (pre)occupa subito – e con intento evidentemente simbolico – di superare lo schema contrattuale delle collaborazioni a progetto introdotte dalla “legge Biagi” (art. 61 e ss., d.lgs. 276/2003) e, a torto o a ragione, indicate nel dibattito politico e sindacale degli ultimi anni come la massima espressione della precarietà del lavoro. A far data dal 1° gennaio 2016, la disciplina del lavoro subordinato troverà così applicazione, in via di principio, «anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le

(7) Si veda quanto argomentato in A. Asnaghi, P. Rausei, M. Tiraboschi, Il contratto a tutele

crescenti nel prisma delle convenienze e dei costi d’impresa, in F. Carinci, M. Tiraboschi (a

cura di), I decreti attuativi del Jobs Act: prima lettura e interpretazioni Commentario agli

schemi di decreto legislativo presentati al Consiglio dei Ministri del 24 dicembre 2014 e alle disposizioni lavoristiche della legge di stabilità, ADAPT University Press, 2015 (il volume è

reperibile in modalità open access all’indirizzo http://moodle.adaptland.it alla voce ADAPT

University Press, ADAPT e-Book series).

(8) Così era previsto dal d.lgs. 14 settembre 2011, n. 167, ora abrogato, recante il Testo Unico dell’apprendistato e così era stato proposto, con riferimento alla somministrazione, nel progetto di codice semplificato del lavoro richiamato supra alla nota 1.

(9) Non così nello schema di decreto approvato in prima lettura dal Consiglio dei Ministri del 20 febbraio 2015 dove la disciplina delle collaborazioni era collocata nella parte finale del testo.

(10)

cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro» (art. 2, comma 1).

Il reale significato prescrittivo della nuova disposizione si coglie, invero, solo alla luce dell’articolo 52 del decreto in commento. Infatti, dopo aver precisato che «le disposizioni di cui agli articoli da 61 a 69-bis del decreto legislativo n. 276 del 2003 sono abrogate e continuano ad applicarsi esclusivamente per la regolazione dei contratti già in atto alla data di entrata in vigore del presente decreto» si dispone che «resta salvo quanto già disposto dall’articolo 409 del Codice di Procedura Civile». Con il che, se è vero che muoiono le collaborazioni “a progetto” e le relative tutele legali (10

), è altrettanto fuori discussione la rinascita dalle ceneri della disciplina introdotta dalla legge Biagi, sul punto abrogata, delle vecchie collaborazioni coordinate e continuative (le c.d. co.co.co) che potranno ora persino svolgersi anche a tempo indeterminato e, comunque, senza il necessario rispetto di determinati standard normativi e retributivi con evidente arretramento dei regimi di tutela del prestatore di lavoro.

Sulla riconduzione delle collaborazioni alla area del lavoro subordinato pesa del resto il superamento dell’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300: non tanto e non solo in termini di tutela del singolo prestatore di lavoro subordinato ingiustamente licenziato quanto piuttosto in ragione del conseguente venir meno del valore deterrente della minaccia di conversione di un rapporto di collaborazione fittizia in un contratto di lavoro subordinato vero e proprio. In altri termini, per le collaborazioni coordinate e continuative attivate a far data dal 7 marzo 2015 il regime sanzionatorio in caso di licenziamento ingiustificato, parametrato su due mensilità per ogni anno di servizio e non più sul regime di stabilità reale, non pare rappresentare un adeguato argine contro prassi abusive da parte dei committenti che, ai sensi della nuova disciplina, etero-organizzano la prestazione lavorativa. Sarà anzi molto probabilmente lo stesso collaboratore etero-organizzato a evitare un possibile contenzioso per il rischio, anche in caso di vittoria giudiziale, di perdere il lavoro e la continuità di reddito a fronte della possibilità per il committente di porre termine al rapporto subordinato costituito in via giudiziale corrispondendo al lavoratore poche mensilità di indennizzo.

Vero è, peraltro, che il tentativo di ricondurre le collaborazioni organizzate dal committente al lavoro dipendente, oltre a basarsi su elementi discretivi di dubbia efficacia (con riferimento ai tempi e luoghi di lavoro che potranno essere agevolmente affidati dal committente al prestatore di lavoro), è

(10) Rinvio a M. Tiraboschi, Il lavoro a progetto: profili teorico-ricostruttivi, in Studi in onore

(11)

fortemente stemperato da rilevanti deroghe introdotte dall’articolo 2, comma 2, del decreto in commento, con riferimento: 1) a casistiche disciplinate (anche prima della entrata in vigore del decreto) dalla contrattazione collettiva nazionale in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del settore che ben potranno individuare come modello di riferimento anche la disciplina di tutela del lavoro a progetto ora abrogata; 2) alle collaborazioni prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali (e questo anche se è noto come una buona percentuale di “professionisti”, specie giovani, lavorino in condizioni di piena etero-organizzazione senza reali margini di autonomia); 3) alle attività prestate nell’esercizio della loro funzione dai componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società e dai partecipanti a collegi e commissioni; 4) alle collaborazioni rese a fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal C.O.N.I. (art. 90, l. n. 289/2002); 5) alle collaborazioni nella pubblica amministrazione, in attesa della relativa riforma, fermo restando il divieto di un loro utilizzo a far data dal 1° gennaio 2017.

Non solo. La presunzione (relativa, non certo assoluta) di subordinazione di cui all’articolo 2, comma 1, del decreto in commento, già ampiamente attenuata dal regime delle deroghe e dalla persistente vigenza dell’articolo 409, n. 3, del codice di procedura civile, può essere neutralizzata anche nell’ambito delle procedure di certificazione dei contratti di lavoro di cui all’articolo 76 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 (art. 2, comma 3) volte ad accertare l’insussistenza dei parametri di etero-organizzazione del lavoro fissati dal Legislatore.

Di rilevo, peraltro, è il venir meno nel testo pubblicato in Gazzetta Ufficiale del riferimento alla ripetitività delle mansioni, contenuto nell’articolo 47, comma 1 dello schema di decreto approvato nel Consiglio dei Ministri del 20 febbraio 2015. È significativo anche il mutamento della rubrica, da

Riconduzione al lavoro subordinato a Collaborazioni organizzate dal committente dell’articolo 2, a voler significare che l’accento nell’operazione

qualificatoria va posto sul requisito dell’etero-organizzazione del datore di lavoro, come risulta dalle recenti elaborazioni giurisprudenziali (11). È verosimile che tale modifica si sia resa necessaria per evitare dubbi interpretativi sull’ambigua nozione di ripetitività (12

).

(11) Cass. 22 maggio 2013, n. 1252, e 20 agosto 2012, n. 14573.

(12) Cfr. C. Santoro, Jobs Act: gli effetti del nuovo regime delle collaborazioni sull’ispezione

(12)

3. Stabilizzazione dei collaboratori e delle partite IVA

Nonostante il Governo parli, a proposito del Jobs Act, in termini di vera e propria “rivoluzione copernicana” resta ancora marcato, come detto, il richiamo a schemi e concetti del passato se è vero che, nonostante il superamento del regime di stabilità reale dell’articolo 18 e in attesa di conoscere quali saranno le nuove tutele sul mercato del lavoro (13), si torna insistentemente a parlare di stabilizzazione dei contratti precari.

Al fine di «promuovere la stabilizzazione della occupazione mediante il ricorso a contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato», nonché di garantire il corretto utilizzo dei contratti di lavoro autonomo, i datori di lavoro privati che procedano, a decorrere dal 1° gennaio 2016, alla assunzione con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato di loro collaboratori (anche a progetto) e di soggetti titolari di partita IVA possono infatti beneficiare di una vera e propria sanatoria riguardante «l’estinzione degli illeciti amministrativi, contributivi e fiscali connessi all’erronea qualificazione del rapporto di lavoro» (art. 54). Due le condizioni per accedere ai benefici e cioè che: 1) i lavoratori interessati alle assunzioni sottoscrivano, con riferimento a tutte le possibili pretese riguardanti la qualificazione del pregresso rapporto di lavoro, atti di conciliazione in una delle sedi di cui all’articolo 2113, quarto comma, del codice civile o avanti alle commissioni di certificazione di cui alla legge Biagi; 2) nei dodici mesi successivi alle assunzioni in questioni i datori di lavoro non recedano dal rapporto di lavoro, salvo che per giusta causa ovvero per giustificato motivo soggettivo. Sono esclusi dalla sanatoria unicamente gli illeciti già accertati «a seguito di accessi ispettivi effettuati in data antecedente alla assunzione».

(13) Davvero curiosa, al riguardo, la sorte del c.d. contratto di ricollocazione, simbolo delle moderne tutele del diritto del lavoro garantire “sul mercato” e non più “nel rapporto” di lavoro. Contemplato originariamente nello schema di decreto legislativo di disciplina del contratto a tutele crescenti approvato in prima lettura il 24 dicembre 2014, quale “compensazione” del superamento dell’art. 18, il contratto di ricollocazione è poi stato regolamentato dall’art. 17 del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 22 in materia di ammortizzatori sociali. Lo schema di decreto legislativo sui servizi per il lavoro, approvato in prima lettura dal Consiglio dei Ministri dell’11 giugno 2015, prevede tuttavia ora l’abrogazione della relativa disciplina di cui al citato art. 17 del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 22.

(13)

4. Associazione in partecipazione e lavoro a coppia (c.d. job sharing)

Fatte salve le collaborazioni, che sono superate solo in apparenza, due sono le vittime sacrificali sull’altare ideologico della lotta alla precarietà (che è cosa ben diversa dal contrasto dello sfruttamento del lavoro e della diffusa illegalità presente nel nostro Paese): le associazioni in partecipazione con apporto di lavoro, già ampiamente penalizzate dalla legge Fornero (14), e il lavoro ripartito meglio noto come lavoro a coppia ovvero job sharing.

Con riferimento alle associazioni in partecipazione, l’articolo 53 del decreto in commento novella l’articolo 2549 del codice civile abrogando il comma terzo (che regolava l’associazione in partecipazione con apporto di lavoro) e modificando il comma secondo che ora recita: «nel caso in cui l’associato sia una persona fisica l’apporto di cui al primo comma non può consistere, nemmeno in parte, in una prestazione di lavoro». Sono espressamente fatti salvi fino alla loro cessazione i contratti di associazione in partecipazione in atto alla data di entrata in vigore del decreto in commento, nei quali l’apporto dell’associato persona fisica consista, in tutto o in parte, in una prestazione di lavoro.

Invero, per come formulata la disposizione, la perentorietà del divieto pare facilmente aggirabile, almeno secondo le nota tradizione italiana di fare la legge e trovare l’inganno, posto che vale unicamente per le persone fisiche ma non per le società. Srl unipersonali o sas di comodo ben potranno dunque ora prestarsi alla reiterazione di forme dubbie di utilizzo del lavoro associato con prestazioni svolte in maniera sostanzialmente identica a quanto avviene oggi per le associazioni in partecipazione con apporto di lavoro.

Con riferimento al lavoro ripartito il decreto in commento si limita alla abrogazione della relativa disciplina legale di cui agli articoli da 41 a 45 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276. Va tuttavia ricordato, al riguardo, che l’operatività del lavoro a coppia non pare pregiudicata stante quanto già chiarito dal Ministero del lavoro con circolare n. 43 del 7 aprile 1998 a firma di Tiziano Treu (15), con cui si era legittimato l’utilizzo di questo peculiare schema contrattuale in termini di contratto atipico meritevole di tutela ai sensi dell’articolo 1322, comma secondo, del codice civile (16). Ciò a

(14) Cfr. G. Bubola, F. Pasquini, D. Venturi, L’associazione in partecipazione con apporto

lavorativo, in M. Magnani, M. Tiraboschi (a cura di), La nuova riforma del lavoro. Commentario alla legge 28 giugno 2012, n. 92, Giuffrè, 2012, 182-196.

(15) Vedila in www.adapt.it (indice A-Z, voce Job Sharing).

(16) Rinvio a quanto ho scritto in M. Tiraboschi, La disciplina del job sharing

(14)

maggior ragione là dove siano presenti espresse discipline collettive (17) che, anche recentemente, hanno segnalato una certa intraprendenza costruttiva come nel caso del settore del commercio che ha ripristinato il contratto di inserimento al lavoro nonostante la relativa disciplina legale di cui alla legge Biagi sia stata abrogata dalla legge Fornero (18).

5. Il riordino delle tipologie di lavoro flessibile

Indicato nel lavoro subordinato a tempo indeterminato il modello di riferimento nella gestione dei rapporti di lavoro e circoscritto l’ambito di operatività delle collaborazioni, il Legislatore affronta poi il tema del lavoro “flessibile” inteso come tale in relazione alla durata della prestazione di lavoro (part-time e lavoro intermittente o a chiamata), alla durata del vincolo contrattuale (lavoro a termine), alla presenza di un intermediario (lavoro in somministrazione), al contenuto anche formativo dell’obbligo contrattuale (apprendistato) e, infine, alla assenza di un vincolo di natura contrattuale (lavoro occasionale di tipo accessorio). Completa e chiude il quadro la revisione dell’articolo 2103 del codice civile in tema di mansioni del lavoratore posto che l’intervento sull’impiego di strumenti tecnologici, anche a fini di controllo del lavoratore ex articolo 4 della legge 20 maggio 1970, n. 300, è stato rinviato a un diverso decreto (quello sulle semplificazioni) approvato per ora solo in prima lettura dal Consiglio dei Ministri dell’11 giugno 2015.

5.1. Lavoro a orario ridotto e flessibile

Con riferimento al lavoro a tempo parziale le novità del testo pubblicato in Gazzetta sono notevoli e divergono non poco dal testo circolato a margine del Consiglio dei Ministri dell’11 giugno 2015. Per prima cosa il Legislatore non

(17) Si veda, per esempio, il contratto collettivo del terziario, distribuzione e servizi che, all’art. 93, prevede una ampia disciplina del lavoro a coppia con indicazioni puntuali circa la regolazione dei principali istituti della tipologia contrattuale affidata al contratto individuale di lavoro (es. percentuale, collocazione temporale, luogo di lavoro e trattamento economico), nonché degli obblighi di natura procedurale in capo ai lavoratori (es. obbligo di informazione preventiva sull’orario) e al datore di lavoro (es. comunicazioni all’ente bilaterale di settore). (18) Per una puntale ricostruzione della vicenda vediG. Pendolino, Esperimenti di flexicurity

nell’autonomia collettiva: prime riflessioni sul contratto di sostegno all’occupazione del nuovo CCNL Terziario, in DRI, 2015, 507-518.

(15)

richiama più la classica tripartizione orizzontale, verticale e misto che, dunque, perde rilievo a fini giuridici. Vero è, tuttavia, che detta tripartizione corrisponde a ben precise modalità organizzative del part-time che ben potranno dunque essere ancora richiamate dalla prassi contrattuale. Questo a maggior ragione se, in uno coi modelli di organizzazione del lavoro e di utilizzo di prestazioni a orario ridotto nei contesti produttivi, la contrattazione collettiva dovesse confermala assegnando a ciascuna tipologia di lavoro a tempo parziale anche precisi regimi di utilizzo come del resto fa ora la contrattazione collettiva, tanto nazionale quanto aziendale, che pare comunque destinata ancora a prevalere rispetto al nuovo disposto legislativo.

Resta in ogni caso fermo, ai sensi del nuovo articolo 5 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, che nel contratto di lavoro a tempo parziale va data puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e della esatta collocazione temporale dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno con ciò appunto rinviando, di fatto, ai diversi modelli organizzativi del lavoro a orario ridotto (orizzontale, verticale, misto). Quando poi l’organizzazione del lavoro è articolata in turni, l’indicazione dell’orario di lavoro può anche avvenire mediante rinvio a turni programmati di lavoro articolati su fasce orarie prestabilite.

Rispetto ai punti nodali dell’istituto, e cioè il ricorso a clausole elastiche (variazione in aumento della durata della prestazione) e/o flessibili (variazione della collocazione oraria della prestazione) e al lavoro supplementare, l’elemento di maggiore innovazione, ferma restando la necessità del consenso del prestatore di lavoro, sta nella possibilità di loro utilizzo, entro certi limiti, anche in assenza di specifiche regolazioni collettive (art. 6). Dal punto di vista definitorio, tuttavia, il Legislatore assorbe ora le c.d. “clausole flessibili” nelle “clausole elastiche” (art. 6, comma 4) che ora ricomprendono tanto la «variazione della collocazione temporale della prestazione lavorativa» quanto la «variazione in aumento della sua stessa durata». Il senso della novella è invero poco comprensibile e privo di razionalità pratica rispetto alle modalità organizzative del part-time tanto più che, in attesa dei rinnovi dei contratti collettivi nazionali di categoria, si alimenterà non poca confusione rispetto a definizioni da tempo invalse nella prassi del sistema di relazioni industriali con precisi significati non solo gestionali ma anche prescrittivi posto che sarà la contrattazione collettiva a governare ancora l’utilizzo del lavoro part-time nei diversi settori produttivi.

Con specifico riferimento alle nuove clausole elastiche, che ricomprendono appunto le ipotesi di clausole flessibili (variazione della collocazione oraria della prestazione), nel caso in cui il contratto collettivo applicabile non

(16)

contenga una specifica disciplina, queste possono essere pattuite per iscritto dalle parti avanti alle commissioni di certificazione ex legge Biagi. Le clausole elastiche prevedono, a pena di nullità, le condizioni e le modalità con le quali il datore di lavoro, con preavviso di due giorni lavorativi, può modificare la collocazione temporale della prestazione e variarne in aumento la durata, nonché la misura massima dell’aumento, che non può comunque eccedere il limite del 25 per cento della normale prestazione annua a tempo parziale. Dette modifiche dell’orario di lavoro inizialmente concordato comportano, a favore del prestatore di lavoro, una maggiorazione della retribuzione oraria globale di fatto pari al 15 per cento, comprensiva dell’incidenza della retribuzione sugli istituti retributivi indiretti e differiti.

Generica è anche la previsione relativa all’utilizzo di prestazioni di lavoro straordinario, con un rinvio generico all’articolo 1, comma 2, lettera c), del decreto legislativo n. 66 del 2003 e senza più alcuna precisazione in relazione al tipo di modello organizzativo della prestazione (verticale o misto) come invece fanno i contratti collettivi in vigore che, in ogni caso, prevalgono rispetto al nuovo disposto normativo.

Nel rispetto di quanto previsto dai contratti collettivi, il datore di lavoro mantiene poi la facoltà di richiedere, entro i limiti dell’orario normale di lavoro di cui all’articolo 3 del decreto legislativo n. 66 del 2003 e con preavviso di due giorni (salvo diverse intese contrattuali), lo svolgimento di prestazioni supplementari, intendendosi per tali «quelle svolte oltre l’orario concordato tra le parti anche in relazione alle giornate, alle settimane o ai mesi». Con il che, tuttavia, la distinzione pratica e operativa rispetto alle “clausole elastiche” in senso stretto pare sfumata e almeno in parte priva di un preciso riferimento normativo di modo che saranno plausibilmente i contratti collettivi a stabilire la reale differenziazione dei due istituti che, dunque, avrebbero potuto essere coordinati in termini di maggiore semplificazione e chiarezza.

Vero è che, nel caso in cui il contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro non disciplini il lavoro supplementare, il datore di lavoro può comunque sempre richiedere al lavoratore lo svolgimento di prestazioni di lavoro supplementare (a differenza di quelle elastiche che vanno concordate in sede di stipulazione del contratto) in misura non superiore al 25 per cento delle ore di lavoro settimanali concordate. In tale ipotesi, il lavoratore può rifiutare lo svolgimento del lavoro supplementare solo ove giustificato da comprovate esigenze lavorative, di salute, familiari o di formazione professionale. Al pari delle clausole elastiche, anche il lavoro supplementare è retribuito con una maggiorazione del 15 per cento della retribuzione oraria globale di fatto,

(17)

comprensiva della incidenza della retribuzione delle ore supplementari sugli istituti retributivi indiretti e differiti.

Quanto sia ora sfumata, sul piano pratico e normativo, la distinzione tra clausole elastiche e lavoro supplementare lo dimostra poi il regime sanzionatorio, là dove si dispone (art. 10, comma 3), che lo svolgimento di prestazioni in esecuzione di clausole elastiche senza il rispetto delle condizioni, delle modalità e dei limiti previsti dalla legge o dai contratti collettivi comporta semplicemente il diritto del lavoratore, in aggiunta alla retribuzione dovuta, a una ulteriore (e generica) somma a titolo di risarcimento del danno non quantificata dal legislatore. La conversione del contratto di lavoro part-time in un contratto di lavoro a tempo pieno è infatti prevista unicamente in difetto di prova in ordine alla stipulazione a tempo parziale del contratto di lavoro ovvero quanto qualora nel contratto scritto non sia determinata la durata della prestazione lavorativa (art. 10, commi 1 e 2). Di indubbio rilievo infine – alla luce degli imponenti cambiamenti demografici che incidono sulla età di accesso alla pensione e del costante incremento di malattie croniche in età di lavoro (19) – è poi la disciplina in materia di trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale e viceversa (art. 8) con estensione delle tutele rispetto a quanto già previsto dalla legge Biagi. Tanto nel settore pubblico che in quello privato, i lavoratori affetti da patologie oncologiche nonché da gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti hanno diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale orizzontale, verticale o misto. Ciò a condizione che la malattia (parzialmente) invalidante sia accertata da una commissione medica istituita presso l’unità sanitaria locale territorialmente competente. A richiesta del lavoratore il rapporto di lavoro a tempo parziale è trasformato nuovamente in rapporto a tempo pieno al termine della malattia.

Una priorità nella trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale è poi riconosciuta in caso di patologie oncologiche o gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti riguardanti il coniuge, i figli o i genitori del lavoratore, nonché nel caso in cui il lavoratore assista una persona convivente con totale e permanente inabilità lavorativa (con rinvio all’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104).

(19) Rinvio a quanto ho scritto in M. Tiraboschi, Le nuove frontiere dei sistemi di welfare:

occupabilità, lavoro e tutele delle persone con malattie croniche, in M. Tiraboschi (a cura di), Occupabilità, lavoro e tutele delle persone con malattie croniche, ADAPT University Press,

2014 (il volume è reperibile in modalità open access all’indirizzo http://moodle.adaptland.it alla voce ADAPT University Press, ADAPT e-Book series).

(18)

Il lavoratore che abbia trasformato il rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro a tempo parziale ha diritto di precedenza nelle assunzioni con contratto a tempo pieno per l’espletamento delle stesse mansioni o di mansioni di pari livello e categoria rispetto a quelle oggetto del rapporto di lavoro a tempo parziale.

L’ampia apertura verso clausole elastiche non ha infine inciso sulla operatività del lavoro intermittente o a chiamata che viene fatto salvo sulla falsariga della normativa della legge Biagi e successive modifiche e integrazioni (artt. 13-18). Il lavoro a chiamata, che non opera nelle pubbliche amministrazioni (art. 13, comma 5), è dunque ancora consentito nei limiti previsti dalla contrattazione collettiva, anche con riferimento alla possibilità di svolgere le prestazioni in periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno, ovvero, in mancanza di contratto collettivo, nei casi di utilizzo individuati con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali (infra, § 8).

Il contratto di lavoro intermittente o a chiamata può in ogni caso essere concluso con soggetti con meno di 24 anni di età, purché le prestazioni lavorative siano svolte entro il venticinquesimo anno, e con più di 55 anni. Resta confermato che, con l’eccezione dei settori del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo, il contratto di lavoro intermittente o a chiamata è ammesso, per ciascun lavoratore con il medesimo datore di lavoro, per un periodo complessivamente non superiore a quattrocento giornate di effettivo lavoro nell’arco di tre anni solari (20). In caso di superamento del predetto periodo il relativo rapporto si trasforma in un rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato.

5.2. Lavoro a tempo determinato e somministrazione

In relazione al contratto a tempo determinato il decreto conferma le innovazioni già introdotte nella fase I del Jobs Act (21) con un opportuno intervento di manutenzione volto a superare alcune persistenti criticità interpretative. Si precisa, in particolare, che nelle ipotesi di superamento delle percentuali di contingentamento stabilite dalla legge o dalla contrattazione

(20) Cfr. M. Giovannone, R. Scolastici, Il lavoro intermittente, in M. Tiraboschi (a cura di), Il

lavoro riformato, Giuffrè, 2013, 244-246.

(21) Rinvio a quanto ho scritto in M. Tiraboschi, Jobs Act: il cantiere aperto delle riforme del

lavoro, ADAPT University Press, 2014 (il volume è reperibile in modalità open access

all’indirizzo http://moodle.adaptland.it alla voce ADAPT University Press, ADAPT e-Book series).

(19)

collettiva, è posta a carico del datore di lavoro una sanzione pecuniaria amministrativa di importo variabile per ciascun lavoratore in base alla durata del rapporto di lavoro (per ogni mese o frazione di mese superiore a quindici giorni), pari al 20 per cento della retribuzione nel caso di un solo lavoratore assunto in sovrannumero e al 50 per cento della retribuzione quando il numero dei lavoratori assunti in violazione del limite percentuale è superiore a uno. La disposizione, d’altra parte, chiarisce espressamente che in caso di violazione del limite percentuale rimane comunque esclusa la trasformazione dei contratti a termine interessati in contratti a tempo indeterminato (art. 23, comma 4). Decisamente ambiguo, per l’imprecisione tecnica dei termini utilizzati, è invece il passaggio sulle conseguenze della c.d. conversione dei contratti a termine illegittimi in contratti a tempo indeterminato. Il decreto in commento (art. 28, comma 2), parla infatti, più genericamente, delle conseguenze della “trasformazione” del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato (e cioè una indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione) nel tentativo, invero maldestro e in contrasto con le regole del diritto civile, di porre riparo alla dubbia disposizione di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 sul campo di applicazione del contratto a tutele crescenti che, come noto, si riferisce unicamente ai nuovi assunti per espressa delega legislativa (22).

Più complesso e articolato è il giudizio sulla somministrazione di lavoro (artt. 31-40) che, in parte, risente ancora dei pregiudizi del passato sui fenomeni interpositori nei rapporti di lavoro e, anche, di un deleterio processo legislativo di assimilazione tipologica e funzionale al contratto di lavoro a termine (23). Dall’impianto del decreto ancora fatica a emergere l’idea della somministrazione quale leva della costruzione dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro, anche in termini di specializzazione produttive e di rete di relazioni tra imprese e territorio, rimanendo piuttosto ancorata a una vecchia prospettiva di mero impiego flessibile della forza-lavoro che viene ora messo in concorrenza con la rinnovata centralità (e convenienza) del contratto di

(22) Sul punto cfr. M. Tiraboschi, Conversione o semplice trasformazione dei contratti per

l’applicazione delle cosiddette “tutele crescenti”?, in DRI, 2015, n. 2, 518-523.

(23) S. Spattini, M. Tiraboschi, La somministrazione di lavoro dopo il decreto Poletti: una

prospettiva di flexicurity?, in M. Tiraboschi (a cura di), Jobs Act: il cantiere aperto delle riforme del lavoro. Primo commento al d.l. 20 marzo 2014, n. 34 convertito, con modificazioni, in l. 16 maggio 2014, n. 78, ADAPT University Press 2014, 61 ss.; M.

Tiraboschi, Esternalizzazioni del lavoro e valorizzazione del capitale umano: due modelli

inconciliabili?, in M. Tiraboschi (a cura di), Le esternalizzazioni dopo la riforma Biagi. Somministrazione, appalto, distacco e trasferimento d’azienda, Giuffrè, 2006, 1 ss.

(20)

lavoro subordinato a tempo indeterminato. Eliminata già lo scorso anno la necessità di una causale giustificativa (24), la nuova disciplina conferma la legittimità di ricorso a forme di somministrazione di lavoro, tanto a tempo indeterminato che a termine, entro precisi limiti di contingentamento quantitativo (e non qualitativo in termini di specializzazioni produttive o competenze professionali) stabiliti dalla legge e/o dalla contrattazione collettiva (art. 31).

In particolare, nel caso di somministrazione di lavoro a tempo indeterminato (c.d. staff leasing) il limite percentuale è fissato, salva diversa previsione dei contratti collettivi applicati dall’utilizzatore, nel 20 per cento del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l’utilizzatore al 1° gennaio dell’anno di stipula del predetto contratto, con un arrotondamento del decimale all’unità superiore qualora esso sia eguale o superiore a 0,5. La grande novità del decreto in commento, rispetto a quanto previsto dalla legge Biagi, è che «possono essere somministrati a tempo indeterminato esclusivamente i lavoratori assunti dal somministratore a tempo indeterminato» (art. 31, comma 2).

Quanto alla somministrazione di lavoro a tempo determinato è ammessa nei limiti quantitativi individuati dai contratti collettivi applicati dall’utilizzatore, intendendosi per tali quelli sottoscritti a livello nazionale, territoriale o aziendale «da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale» ovvero, per i contratti aziendali, «dalle rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria» (art. 51). Rispetto allo schema di decreto approvato in prima lettura dal Consiglio dei Ministri del 20 febbraio 2015, il testo pubblicato in Gazzetta Ufficiale non prevede più che l’utilizzatore comunichi alle rappresentanze sindacali, oltre al numero anche i motivi di ricorso alla somministrazione. Se tale scelta appare coerente rispetto all’impianto generale e agli indirizzi di politica legislativa che ne hanno guidato la costruzione, va evidenziato come tale norma fosse diretta, nella sua formulazione precedente confermata peraltro dal decreto legislativo n. 24 del 2012, non tanto a introdurre un ulteriore appesantimento burocratico, quanto semmai a promuovere la somministrazione come sistema condiviso dell’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro, affidando all’interno di questo alle rappresentanze sindacali una funzione di garanzia e monitoraggio.

È in ogni caso esente da limiti quantitativi la somministrazione a tempo determinato di lavoratori in mobilità (articolo 8, comma 2, legge n. 223 del

(24) Cfr. M. Tiraboschi, P. Tomassetti, Il nuovo lavoro a termine, in M. Tiraboschi, Jobs Act: il

(21)

1991), di soggetti disoccupati che godono, da almeno sei mesi, di trattamenti di disoccupazione non agricola o di ammortizzatori sociali, e di lavoratori «svantaggiati» o «molto svantaggiati» ai sensi dei numeri 4) e 99) dell’articolo 2 del regolamento (UE) n. 651/2014 della Commissione, del 17 giugno 2014, come individuati con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali. Una delle principali novità introdotte dal regolamento (UE) n. 651 riguarda, come noto, l’inclusione all’interno dell’alveo definitorio dei soggetti svantaggiati dei giovani under 25 a prescindere dal loro status occupazionale. Tale previsione si affianca a quella relativa agli over 50. La somministrazione di tali lavoratori oltre a essere evidentemente acausale sarebbe dunque esente dai limiti quantitativi. Anche tale previsione, che per essere operativa richiede in ogni caso un decreto ministeriale, avrebbe l’apprezzabile obiettivo di incentivare la somministrazione non tanto come contratto ma come sistema dell’incontro tra la domanda e l’offerta e come strumento di regolazione delle transizioni occupazionali dei giovani e degli adulti.

Rimangono inoltre confermate le disposizioni che escludono l’applicabilità di taluni vincoli previsti per il lavoro determinato (in particolare durata massima e stop and go) ma viene meno il riferimento alla possibilità anche per il lavoratore somministrato a termine di esercitare il diritto di precedenza invece prevista dallo schema di decreto legislativo (art. 34 comma 2).

Altra novità di indubbio rilievo, in termini di sostegno all’inserimento nel mercato del lavoro di gruppi svantaggiati, è la possibilità per l’utilizzatore di computare nella quota di riserva di cui all’articolo 3 della legge 12 marzo 1999, n. 68 i lavoratori disabili in caso di «missioni di durata non inferiore a dodici mesi».

Rispetto, infine, al regime sanzionatorio collegato alla somministrazione di lavoro, l’articolo 39, ponendo fine ai contrasti giurisprudenziali e accogliendo l’orientamento maggioritario, prevede da una parte che il termine per l’impugnativa del contratto del lavoratore sia di 60 giorni decorrenti dalla data in cui lo stesso abbia cessato di svolgere la propria attività presso l’utilizzatore (il termine è invece di 120 giorni in caso di lavoratori a termine), e dall’altra che, nel caso il giudice accolga il ricorso, questi potrà condannare il datore al risarcimento del danno stabilendo unicamente un’indennità omnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita dal lavoratore. Infine viene confermata l’abrogazione della fattispecie della somministrazione fraudolenta (art. 55). Tale previsione oltre a mettere in discussione i procedimenti sanzionatori in atto con evidenti conseguenze sul contenzioso, depotenzia la tutela riconosciuta ai lavoratori somministrati e danneggia anche le stesse

(22)

agenzie per il lavoro che operano per la costruzione di un modello virtuoso di terziarizzazione produttiva (25).

5.3. Apprendistato

Di difficile lettura è poi la revisione del contratto di apprendistato (artt. 41-47) che, dopo tanti anni di mancato rilancio e di reiterati interventi riformatori, ancora fatica a trovare uno stabile assetto regolatorio che, come indica l’esperienza internazionale e comparata (26), è poi la vera precondizione per un suo ampio e convinto utilizzo.

Non convince, in termini generali, l’idea del Governo di ricondurre l’apprendistato nell’ambito del testo organico delle tipologie contrattuali. Non solo e non tanto perché, come detto, si tratta di un testo destinato a disciplinare le tipologie di lavoro cosiddetto atipico o temporaneo, là dove l’apprendistato è, per struttura e ora persino per espressa definizione legislativa, un contratto a tempo indeterminato. Più ancora una siffatta operazione sembra non cogliere l’essenza dell’istituto che altro non è se non un tassello dell’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro: quello relativo alla integrazione tra sistema di istruzione e formazione e mercato del lavoro. Un tassello prezioso che, come tale, merita una disciplina a sé come è quella del Testo Unico del 2011.

In termini di affermazioni di principio, invero, l’apprendistato voluto dal legislatore del Jobs Act è costruito attorno alla promozione del metodo della alternanza formativa. Conseguentemente, le principali modifiche alla normativa del Testo Unico interessano il primo e terzo livello che, sulla carta, diventano sempre di più l’apprendistato “a scuola” e l’apprendistato “della alta formazione”. Non pochi difetti tecnici, tuttavia, emergono dal decreto in commento, tanto da meritare una prossima e differente trattazione monografica a cui sin d’ora rinviamo, a conferma della mancata comprensione delle finalità dell’istituto e della distanza tra le (buone) intenzioni e le soluzioni normative prospettate.

Nonostante le velleità del Legislatore, che espressamente richiama il celebre modello duale tedesco di alternanza tra formazione e lavoro (art. 41, comma

(25) A. Asnaghi, P. Rausei, Il Jobs Act e quel piccolo, pericoloso, “cadeau” ai mercanti di

braccia, in Bollettino ADAPT, 2015, n. 8.

(26) Si veda U. Buratti, C. Piovesan, M. Tiraboschi, Apprendistato: quadro comparato e buone

prassi, ADAPT University Press, 2014 (il volume è reperibile in modalità open access

all’indirizzo http://moodle.adaptland.it alla voce ADAPT University Press, ADAPT e-Book series).

(23)

3), pare insomma facile prevedere anche nei prossimi anni un trend di costante declino dell’apprendistato in Italia come del resto indicano le periodiche rilevazioni del Ministero del lavoro (con il sistema delle comunicazioni obbligatorie) a far data dall’avvio del processo di implementazione e attuazione del Jobs Act che ha cannibalizzato – anche grazie alla misura di esonero contributivo di cui alla legge di stabilità per il 2015 – un istituto che pure, ma oramai solo a parole (27), resta lo strumento privilegiato dell’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro.

Certamente importante, per preservare l’unica esperienza di apprendistato duale oggi esistente in Italia, è la previsione dell’articolo 43, comma 8, secondo cui, nelle regioni e nelle province autonome di Trento e Bolzano che abbiano definito un sistema di alternanza scuola-lavoro, i contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale possono prevedere specifiche modalità di utilizzo del contratto di apprendistato, anche a tempo determinato, per lo svolgimento di attività stagionali (28). Ma è evidente che è ancora ben poco e che nulla si è fatto per recepire sull’intero territorio nazionale l’impostazione culturale – prima ancora che tecnica e progettuale – la buona prassi della provincia autonoma di Bolzano.

Da segnalare è anche la previsione di cui all’articolo 47, comma 4, del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, là dove dispone che, ai fini della loro qualificazione o riqualificazione professionale è possibile assumere in apprendistato professionalizzante, senza limiti di età, i lavoratori beneficiari non solo della indennità di mobilità ma ora anche, rispetto al Testo Unico del 2011, di un trattamento di disoccupazione. In questo caso trovano applicazione, in deroga alle previsioni di cui all’articolo 42, comma 4, del decreto in commento in tema di libera recedibilità al termine del percorso formativo, le disposizioni in materia di licenziamenti individuali, nonché, per i lavoratori beneficiari di indennità di mobilità, il regime contributivo agevolato di cui all’articolo 25, comma 9, della legge n. 223 del 1991 e l’incentivo di cui all’articolo 8, comma 4, della medesima legge.

(27) Occorrerà ovviamente valutare se una inversione di rotta proprio sull’apprendistato “scolastico” sarà agevolata dalle misure di incentivazione economica previste all’art. 32 dello schema di decreto legislativo recante disposizioni per il riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e politiche attive approvato in prima lettura dal Consiglio dell’11 giugno 2015.

(28) Il Legislatore pare aver accolto le preoccupazioni e gli inviti che formulavo in M. Tiraboschi, Non distruggiamo l’unico modello di apprendistato scolastico che davvero

(24)

Quel che è certo, tornando a considerazioni di sistema, è che l’impianto del Testo Unico del 2011, costruito attraverso una paziente opera di concertazione tra Governo e parti sociali (29), è ora completamente smantellato come dimostra il maldestro intervento sugli standard professionali e formativi (di cui in precedenza all’articolo 6 del decreto legislativo n. 167 del 2011) che, nel confondere gli “standard formativi” con gli “standard professionali” (concetti ora assimilati dall’articolo 46 del decreto in commento) (30) denota una scarsa conoscenza dell’istituto da parte del Legislatore.

L’improvvisazione e l’approssimazione sui contenuti formativi dell’apprendistato e sui percorsi di certificazione delle competenze è del resto totale se è vero che mentre il decreto in commento richiama insistentemente il libretto formativo di cui all’articolo 2, comma 1, lettera i, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, il successivo schema di decreto legislativo sulle politiche attive, approvato in prima lettura dal Consiglio dei Ministri dell’11 giugno 2015, ne decreta la formale abrogazione (art. 34). Lo stesso raccordo con il sistema di validazione degli apprendimenti non formali ed informali e certificazione delle competenze – istituito con il decreto legislativo n. 13 del gennaio 2013 ma non ancora operativo, a distanza di più di due anni (31) – è affidato a richiami rituali, che ancora una volta tradiscono la mancanza di una visione di sistema finalizzata ad una reale integrazione tra formazione e lavoro.

L’articolo 41, comma 3, identifica in effetti nel solo apprendistato volto al conseguimento di un titolo di studio una organica forma di integrazione tra formazione e lavoro (l’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore e quello di alta formazione e ricerca, qui impropriamente assimilato tout court all’ambito della formazione formale). Tale raccordo tra lavoro e formazione sarebbe confermato dal riferimento di tali percorsi ai titoli di istruzione e formazione e alle qualificazioni professionali contenuti nel Repertorio nazionale di cui all’articolo 8 del

(29) Si vedano i contributi raccolti in M. Tiraboschi (a cura di), Il Testo Unico

dell’apprendistato e le nuove regole sui tirocini – Commentario al decreto legislativo 14 settembre 2011, n. 167, Giuffrè, 2011.

(30) Cfr. L. Rustico, M. Tiraboschi, Standard professionali e standard formativi, in M. Tiraboschi (a cura di), Il Testo Unico dell’apprendistato e le nuove regole sui tirocini ecc., cit., 423-444.

(31) Per un primo commento sistematico al sistema istituito dal decreto n. 13 del 16 gennaio 2013 vedi U. Buratti, L. Casano, L. Petruzzo (a cura di), Certificazione delle competenze.

Prime riflessioni sul decreto legislativo 16 gennaio 2013, n. 13, ADAPT University Press,

(25)

decreto legislativo 16 gennaio 2013, n. 13, nell’ambito del Quadro europeo delle qualificazioni.

L’articolo 46, sempre nell’ottica di assicurare tale raccordo tra formazione e lavoro, prevede che al fine di armonizzare le qualifiche e le qualificazioni professionali conseguibili in apprendistato e correlare standard formativi e standard professionali sia istituito, presso il Ministero del lavoro, il repertorio delle professioni, predisposto sulla base dei sistemi di classificazione del personale contenuti nei contratti collettivi. Ora, se è plausibile l’ipotesi che i titoli di istruzione e formazione professionale insieme ai diversi titoli dell’istruzione superiore e terziaria conseguibili in apprendistato confluiscano nel Repertorio nazionale di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 16 gennaio 2013, n. 13 citato – ancora molto lontano da una concreta attuazione, come evidenziato anche dal CEDEFOP in un recente rapporto sui quadri nazionali delle qualifiche in Europa (32) – ad oggi fumosa appare la prospettiva di una reale integrazione delle qualificazioni professionali in tale Repertorio. Essa presupporrebbe, infatti, la compiuta realizzazione di un sistema di validazione degli apprendimenti non formali, uno straordinario sforzo di codifica e aggiornamento dei profili professionali ad opera della contrattazione collettiva, collegato ad un ammodernamento dei sistemi di classificazione del personale, operazioni difficilmente realizzabili in seno ad un “comitato tecnico” ministeriale, come ampiamente dimostrato dallo stallo finora registratosi su questo preciso fronte.

L’impressione che il Repertorio nazionale si limiti ad una operazione di sommatoria di repertori già esistenti e sia destinato a rimanere monco della componente realmente in grado di assicurare un raccordo tra formazione e lavoro (quella legata agli standard professionali) è forte, ed è supportata dalla letteratura sui National Qualification Frameworks istituiti per esigenze di conformità con il Quadro europeo delle qualifiche (richiamato espressamente nel testo in commento): orientati più verso una operazione di referenziazione su scala europea di titoli e qualifiche formali che verso una veritiera operazione di collegamento tra formazione mondo del lavoro, tali quadri hanno finito per servire più gli interessi delle istituzioni educative che quelli del mercato del lavoro, con scarso impatto sul fronte del sostegno alle transizioni occupazionali (33).

(32) CEDEFOP, National qualifications framework developments in Europe, maggio 2015, vedilo anche in ADAPT International Bulletin, 2015, n. 8.

(33) Cfr. L. Casano, Quadri nazionali delle qualifiche: la situazione italiana alla luce degli

(26)

Sempre l’articolo 46 prevede, al comma 4, che le competenze maturate dall’apprendista siano certificate dall’istituzione formativa di appartenenza, secondo le disposizioni di cui al decreto legislativo n. 13 del 2013. Invano sembrano essere passati i due anni dall’approvazione di tale norma, durante i quali la certificazione delle competenze degli apprendisti ha rappresentato un verso e proprio rebus per gli operatori e le imprese. Affidando alle «istituzioni formative di appartenenza» la funzione di certificare le competenze, il decreto in commento ripropone una soluzione semplicistica che nessuna risposta offre, ad esempio, alla domanda su chi abbia il compito di certificare le competenze maturate in contesto di lavoro nell’ambito dell’apprendistato professionalizzante.

Lo stesso articolo 46, al comma 2 affida, d’altra parte, al datore di lavoro il compito di registrare sul libretto formativo la formazione svolta dall’apprendista (e non le competenze maturate), continuando ad incoraggiare, così, pratiche burocratiche di compilazione di registri che poco possono dire dei reali processi formativi sviluppatisi in azienda.

6. Lavoro accessorio

Il decreto ridefinisce il campo di applicazione e la disciplina del lavoro accessorio (artt. 48-50) ampliandone il raggio di azione (fino a 7.000 euro) e i limiti di operatività rispetto agli interventi restrittivi introdotti, con rapidi ripensamenti, nel corso degli ultimi anni (34). Si conferma, in ogni caso, che nei confronti di committenti imprenditori o professionisti, le attività lavorative rese col sistema dei buoni lavoro possono essere svolte a favore di ciascun singolo committente per compensi non superiori a 2.000 euro.

Con l’intervento restrittivo sul lavoro autonomo e sulle collaborazioni a progetto sarà probabilmente il lavoro accessorio a rappresentare d’ora in poi la vera valvola di sfogo per il sistema delle imprese in termini di accesso a lavoro flessibile e a costi ridotti come del resto indicano le periodiche rilevazioni a cura dell’INPS che segnalano un costante incremento della vendita dei buoni lavoro a fronte di un calo sistematico dal 2012 a oggi, con le restrizioni della legge Fornero, del ricorso alle collaborazioni a progetto ben prima della entrata in vigore del decreto in commento.

(34) Cfr. P. Rausei, La riforma del lavoro occasionale di tipo accessorio, in M. Magnani, M. Tiraboschi (a cura di), La nuova riforma del lavoro. Commentario alla legge 28 giugno 2012,

(27)

A conferma di un precedente orientamento interpretativo dell’INPS e del Ministero del lavoro, sconfessato da alcune sentenze di merito (35), si dispone tuttavia, e molto opportunamente stante natura e funzioni dell’istituto, che «è vietato il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio nell’ambito della esecuzione di appalti di opere o servizi», fatte salve specifiche ipotesi individuate con decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, sentite le parti sociali, da adottare entro sei mesi dall’entrata in vigore del decreto.

Il decreto legislativo mette a regime, inoltre, l’utilizzo dei voucher per i percettori di sostegno al reddito, prevedendo che le prestazioni di lavoro accessorio possono essere rese, in tutti i settori produttivi, compresi gli enti locali (nei limiti del patto di stabilità) e nel limite complessivo di 3.000 euro di corrispettivo per anno civile, consentendone il cumulo con i trattamenti di sostegno al reddito.

Viene anche confermata la disciplina speciale relativa all’agricoltura, con la precisazione che per tale settore il compenso orario è parametrato alla retribuzione stabilita per i lavoratori subordinati dalla contrattazione collettiva. Invece, per gli altri settori la norma stabilisce che in via transitoria il valore del buono orario sia di 10 euro.

Per le modalità operative dell’utilizzo del voucher, la norma prevede che il committente imprenditore o professionista, a differenza del committente che non sia né imprenditore né professionista, possa utilizzare esclusivamente il voucher telematico (art. 49, comma 1). Per le imprese e i professionisti, poi, viene introdotto un obbligo di comunicazione preventiva telematica della prestazione alla Direzione Territoriale del Lavoro competente analoga a quella già in essere per il lavoro intermittente ai sensi dell’articolo 35, comma 3-bis, del decreto legislativo n. 276/2003 (36). Rispetto a queste novità operative, la norma prevede che resti ferma fino al 31 dicembre 2015 la previgente disciplina relativa all’utilizzo dei buoni già richiesti alla data di entrata in vigore della riforma (25 giugno 2015).

(35) Cfr. la sentenza del Trib. Milano n. 318/2014. Per la ricostruzione della vicenda (e il testo della sentenza) vedi G. Carosielli, Il divieto dei voucher negli appalti nel Jobs Act, in

Bollettino ADAPT, 23 febbraio 2015.

(36) Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali con la nota n. 3337 del 25 giugno 2015 ha precisato che nelle more della attivazione delle procedure telematiche, la comunicazione telematica della prestazione di lavoro accessorio (art. 49, comma 3) va effettuata mediante la comunicazione telematica preventiva all’Inps secondo le attuali procedure.

(28)

7. Disciplina delle mansioni

Da ultimo si segnala l’intervento sulla disciplina delle mansioni (art. 3 del decreto che sostituisce integralmente il vecchio testo dell’articolo 2103 del codice civile) che, indubbiamente, assume un rilievo centrale negli assetti organizzativi di impresa, nelle dinamiche della produttività del lavoro, nella gestione del personale e dei percorsi di crescita professionale e carriera.

In via di principio il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero, ed è qui il primo elemento di novità che supera il vecchio concetto di equivalenza che non poco aveva irrigidito gli assetti organizzativi di impresa, a «mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte». Inoltre, «in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore», il prestatore di lavoro può anche essere assegnato a «mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale» con ciò ripristinando la risalente contrapposizione codicistica (art. 2095) tra operai e impiegati da tempo superata dai sistemi di inquadramento della contrattazione collettiva. Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore possono poi essere previste dai contratti collettivi anche in questo caso purché rientranti nella medesima categoria legale.

Opportunamente, il decreto legislativo in commento dispone che il mutamento di mansioni del lavoratore debba essere accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo per adattare le competenze del prestatore ai nuovi compiti. In realtà non pare corretto parlare di vero e proprio obbligo e tanto meno di onere in capo al datore di lavoro posto che, per espressa previsione legislativa, «il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni». Il precetto, a ben vedere, pare privo di sanzioni salvo la materia non venga adeguatamente presidiata dai contratti collettivi tanto nell’interesse dei lavoratori che della stessa impresa a investire sulle competenze dei propri collaboratori magari col concorso dei fondi interprofessionali per la formazione continua (che comunque escono decisamente male dalla riforma delle politiche del lavoro contenuta nel Jobs Act) (37) e/o di altri sistemi bilaterali di governo del mercato del lavoro.

(37) Sulle misure relative ai fondi interprofessionali contenute nello schema di decreto legislativo su servizi al lavoro e politiche attive approvato l’11 giugno 2015 vedi il puntuale

Riferimenti

Documenti correlati

Figura 2 – Totale degli occupati alle dipendenze permanenti (scala di destra) e a termine (scala di sinistra) in Italia da settembre 2008 ad agosto 2015 – dati

In conclusione si registra, per il periodo gennaio-settembre 2015, un saldo dei contratti a tempo indeterminato - vale a dire la risultante dei movimenti di assunzioni,

Il comma 1202 stabilisce che “… al fine di promuovere la stabilizzazione dell’occupazione mediante il ricorso a contratti di lavoro subordinato nonché di garantire il

Per effettuare una prima valutazione tecnica dell’impatto degli sgravi fiscali a favore delle assunzioni a tempo indeterminato, pubblichiamo alcuni dati relativi

anche in un altro 28% di casi, l’ultimo precedente rapporto di lavoro era stato intrattenuto presso la medesima impresa, concluso in genere a non molta distanza

1 Nella voce “Altro” vengono classificate le seguenti forme di lavoro: contratti di inserimento lavorativo; contratto di agenzia a tempo determinato e indeterminato;

Nei due paragrafi di questa Misura – relativi rispettivamente alla complessiva dinamica dei contratti a tempo indeterminato (assunzioni, cessazioni e trasformazioni) e ai flussi

Presidente della Commissione di certificazione, DICEA - Università Politecnica delle Marche Codice dei contratti, statuto del lavoro autonomo e certificazione:. il ruolo