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La gestione del capitale relazionale nell'Università: modelli a confronto

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Academic year: 2021

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I

NDICE

INTRODUZIONE ... 6

1. I DRIVER DEL VALORE NELLE UNIVERSITÀ ... 8

1.1 L’

EVOLUZIONE DEL FINALISMO UNIVERSITARIO

... 8

1.2 L

A DIFFUSIONE DELLA CULTURA STRATEGICA E LA CREAZIONE DI VALORE PUBBLICO

... 9

1.3 L

A VALUTAZIONE DELLE PERFORMANCE UNIVERSITARIE

... 13

1.3.1 L’approccio valutativo della VQR ... 17

1.3.2 La reportistica volontaria ... 19

2. IL CAPITALE INTELLETTUALE ... 31

2.1 I

TRADIZIONALI MODELLI DI GESTIONE E MISURAZIONE DEL CAPITALE INTELLETTUALE

... 33

2.1.1 Il modello Skandia Navigator ... 34

2.1.2 L’intangibles Assets Monitor ... 37

2.1.3 Il modello proposto dall’ OECD nel MERITUM Project ... 38

2.2 L

A CONFIGURAZIONE DEL CAPITALE INTELLETTUALE NELLE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE

... 41

2.3 U

N COSTRUTTO TEORICO PER IL CAPITALE INTELLETTUALE NELLE UNIVERSITÀ

... 42

2.4 I

L CAPITALE INTELLETTUALE NEL SISTEMA UNIVERSITARIO

:

LE RAGIONI DELLO STUDIO

... 48

2.5 L

A CONFIGURAZIONE DEL CAPITALE INTELLETTUALE NELLE UNIVERSITÀ

... 49

3. MODELLI DI GESTIONE E REPORTISTICA DEL

CAPITALE INTELLETTUALE PER LE UNIVERSITÀ ... 52

3.1 L’I

NTELLECTUAL

C

APITAL OF

U

NIVERSITY

R

EPORT DELL

’OUE ... 52

(4)

4

3.3 A

LTRI MODELLI DI REPORTISTICA VOLONTARIA DEL CAPITALE

INTELLETTUALE AL LIVELLO INTERNAZIONALE

... 68

3.3.1 The Poznan University of Economics (Poland) ... 68

3.3.2 PCI Project (Intellectual Capital Program): Madrid Region ... 70

3.4 L’

ESPERIENZA DEGLI ATENEI ITALIANI

... 74

3.4.1 Il modello del bilancio del capitale intellettuale

dell’Università di Trieste ... 74

3.4.2 La struttura del report del capitale intellettuale

dell’Università di Ferrara ... 78

3.4.3 Il modello di analisi del capitale intellettuale della Scuola

Superiore dell’Università del Salento. ... 82

4. IL CAPITALE RELAZIONALE ... 84

4.1 I

L CAPITALE RELAZIONALE NEL SETTORE UNIVERSITARIO

... 86

4.2 A

NALISI DEL CAPITALE RELAZIONALE DEL

D

IPARTIMENTO DI

E

CONOMIA E

M

ANAGEMENT DI

P

ISA

... 89

4.3 L

A RAPPRESENTAZIONE DEL CAPITALE RELAZIONALE DEL

D

IPARTIMENTO DI

E

CONOMIA

M

ANAGEMENT DI

P

ISA

:

UNA RASSEGNA DEI MODELLI

... 105

CONCLUSIONI ... 111

(5)
(6)

6

I

NTRODUZIONE

Il seguente lavoro ha lo scopo di analizzare le possibilità di impiego dei modelli di rendicontazione del capitale intellettuale per la gestione dello stesso da parte delle istituzioni universitarie, facendo particolare riferimento alla componente relazionale. Lo studio è stato effettuato sulla base di una ricerca empirica effettuata nel tentativo di analizzare e successivamente rappresentare il capitale relazionale del Dipartimento di Economia e Management di Pisa.

Nel primo capitolo viene brevemente ripercorso il processo di evoluzione del finalismo universitario fino all’apertura verso la cosiddetta terza missione ed all’introduzione del concetto di pianificazione strategica che vede nella creazione del valore pubblico il principale obiettivo strategico delle università. A tal proposito il lavoro procede con una rassegna dei modelli di valutazione delle performance universitarie, in qualità di processo cruciale per la pianificazione strategica, rispetto ai quali vengono valutate le caratteristiche e le possibilità di applicazione al contesto universitario.

Il secondo capitolo introduce il concetto di capitale intellettuale e fornisce una descrizione dei tradizionali modelli di misurazione impiegati procedendo poi con un’indagine sull’importanza e sulla configurazione dello stesso all’interno delle amministrazioni pubbliche per focalizzarsi poi sul settore universitario. Il capitolo intende indagare le principali teorie da poter ricondurre al capitale intellettuale al fine di individuare un costrutto teorico da cui partire per l’analisi della valenza e della tassonomia di quest’ultimo all’interno delle università.

Il lavoro prosegue nel terzo capitolo con un’indagine approfondita sui principali modelli di report del capitale intellettuale sviluppati dalle università ed altri enti di ricerca sia al livello nazionale che internazionale

Data l’evidente rilevanza nel contesto attuale della costruzione da parte delle università di solide ed efficaci relazioni, è risultato interessante focalizzarsi sulla componente relazionale del capitale intellettuale. Nell’ultimo capitolo viene così illustrato inizialmente il concetto di capitale relazionale con particolare

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riferimento al settore universitario ed a seguire viene riportata una ricerca empirica sulla misurazione e rappresentazione del capitale relazionale del Dipartimento di Economia e Management dell’Università di Pisa. L’analisi è stata svolta a partire dalla raccolta di una serie di dati, sulla base di criteri prestabiliti, ritenuti utili per la valutazione del capitale relazionale del dipartimento. Di seguito vengono così fornite una serie di rappresentazioni di suddetto capitale mediante l’applicazione di alcuni dei modelli di report del capitale intellettuale illustrati precedentemente ai dati che sono stati raccolti. A partire da tutto ciò è stato possibile elaborare un giudizio sull’utilità di tali strumenti per la gestione del capitale relazionale con il tentativo di fornire spunti di riflessione per l’individuazione di un miglior approccio alla gestione di tali risorse.

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8

1. I

DRIVER DEL VALORE NELLE UNIVERSITÀ

1.1 L’EVOLUZIONE DEL FINALISMO UNIVERSITARIO

Ripercorrendo il processo evolutivo delle istituzioni universitarie si osserva come esse esercitino da sempre una significativa influenza sulla società e sull’economia. In particolare, circa il finalismo proprio delle università, possiamo riscontrare una serie di “rivoluzioni”. Inizialmente infatti la mission universitaria si esplicitava nella sola didattica, l’università aveva cioè come scopo principale quello di trasmettere la conoscenza agli studenti che frequentavano i corsi di studio offerti dall’ateneo. In seguito si è registrata una prima trasformazione che ha portato l’affermarsi, ad integrazione delle attività di didattica, delle attività legate alla ricerca. Le istituzioni universitarie a questo punto non hanno più soltanto il compito di trasmettere la conoscenza già prodotta, in quanto al personale scientifico in esse operante viene richiesto di ricercare l’innovazione continua nella conoscenza futura al fine di aumentare l’attrattività dell’organizzazione e di favorire lo sviluppo sociale. Negli ultimi anni poi si è registrata un’ulteriore evoluzione che ha profondamente cambiato il sistema universitario favorendo il passaggio dello stesso da sistema inaccessibile e completamente distaccato dall’ambiente esterno, ad un sistema aperto ed in grado di interagire efficacemente con l’ambiente in cui si trova ad operare attraverso il trasferimento tecnologico e la partecipazione attiva alla vita sociale e politica. In quest’ultimo passaggio dell’evoluzione del finalismo universitario, è stata introdotta quindi, ad integrazione delle tradizionali mission di didattica e ricerca, la cosiddetta terza missione (third stream) che generalmente viene associata alla capacità di rispondere ai fabbisogni di diffusione della conoscenza per la promozione dello sviluppo e della crescita sociale ed economica. Molti studi legano tale missione esclusivamente “alle configurazioni di trasferimento tecnologico che l’università realizza a favore delle imprese che sono le principali utilizzatrici delle conoscenze scientifiche e tecnologiche sviluppate” (Sanchez M.P., Castrillo R., Elena S., 2006). Altri studi invece legano questa evoluzione

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all’affermazione del modello dell’università imprenditoriale nel quale l’organizzazione riesce ad attribuire una valenza economica alle conoscenze prodotte attraverso la commercializzazione delle stesse; di fatto però questa dimensione imprenditoriale è soltanto l’effetto prodotto dall’introduzione di questa nuova missione da parte delle università, non il nuovo fine perseguito dalle stesse. Ulteriori ricerche interpretative sulla terza missione legano la stessa al concetto della “tripla elica” il quale permette di rappresentare gli effetti in termini di innovazione tecnologica ed organizzativa derivanti dall’interazione fra tre attori principali quali l’università, l’industria e la pubblica amministrazione e di coordinare quindi in maniera ottimale i processi di innovazione con le politiche pubbliche di incentivo ed implementazione. Il fine ultimo quindi di tale modello è quello di dare una spinta al cambiamento ed all’innovazione tramite la diffusione delle tecnologie all’interno dei mercati.

1.2 L

A DIFFUSIONE DELLA CULTURA STRATEGICA E LA CREAZIONE DI VALORE PUBBLICO

L’evoluzione del finalismo universitario ed in particolare l’apertura verso la terza missione, hanno portato nelle università la necessità di sviluppare una cultura strategica ovvero di assumere un nuovo orientamento strategico che, nella dottrina aziendale viene definito “il modo di essere dell’azienda, la sua identità profonda, frutto di un intreccio di valori, esperienze, comportamenti che poi si traducono in scelte strategiche” (Coda V. 1988). Nelle università, la definizione di una strategia rappresenta un percorso che permette di individuare “le condizioni necessarie a garantire il buon funzionamento e duraturo dell’organizzazione, e il rispetto delle aspettative degli interlocutori sociali quali destinatari del valore pubblico creato” (D. Di Berardino, 2004).

A partire dagli anni Novanta, sulla base della normativa di riferimento, si afferma all’interno delle istituzioni universitarie il concetto di pianificazione strategica, che introduce così logiche di programmazione e pianificazione delle attività correlate e volte al raggiungimento di obiettivi ben definiti. Nonostante

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la loro natura giuridica pubblica infatti, le università non sono destinate a perdurare necessariamente sotto il sostegno dello stato, perciò si rivelano essenziali per il mantenimento dell’equilibrio economico e finanziario dell’organizzazione un’accurata pianificazione delle attività finalizzate al raggiungimento di obiettivi prestabiliti e un adeguato sistema di controllo, anche in considerazione del fatto che, nonostante queste possano creare valore anche in situazioni di disequilibrio, nel lungo termine si registrerebbero delle ripercussioni negative sul sistema gestionale ed organizzativo e quindi sulle performance di ricerca e didattica. La pianificazione strategica inoltre è anche uno strumento idoneo per fronteggiare al meglio la turbolenza ambientale a fronte della rigidità sia strutturale che operativa che caratterizza queste istituzioni.

Mentre alcuni atenei hanno introdotto la pianificazione strategica limitandosi a rispettare forme e contenuti definiti dalla normativa (legge n. 43/2005 sull’indirizzo dell’attività di programmazione triennale delle attività e controllo dei risultati) senza quindi adottare realmente comportamenti strategici, altri atenei hanno sviluppato una vera e propria cultura strategica basandosi molto sulle best practies internazionali adottando strumenti di pianificazione strategica e di controllo ed elaborando piani strategici dai contenuti molto più approfonditi ma soprattutto diffusi e comunicati, mostrando particolare attenzione verso la ricerca di un rapporto con i propri . Un ruolo importante nella gestione strategica inoltre è ricoperto dalla valutazione delle performance che, nel caso delle università, riguarda le aree strategiche di ricerca, didattica , attività amministrative e servizi.

Con l’introduzione della logica della pianificazione strategica e del controllo ovvero con lo sviluppo di una vera e propria cultura strategica, si conferiscono alle università i caratteri tipici aziendali e ciò porta alla necessità di individuare anche un obiettivo strategico: si parla quindi di creazione e distribuzione di valore ed in particolare nel settore pubblico si parla appunto di creazione del valore pubblico. In tale ambito, il valore pubblico viene definito secondo un’accezione molto ampia che tiene in considerazione non soltanto la differenza fra i costi sostenuti per l’erogazione del servizio e i benefici conseguiti ma i

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benefici complessivi derivanti dal servizio pubblico da valutare sia al livello individuale che collettivo. In particolare in merito al concetto di creazione del valore pubblico ci rifacciamo al triangolo strategico sul quale si basa il modello di Moore secondo il quale la produzione di valore pubblico è legata a tre principali aspetti:

1. MISSIONE SOCIALE: riguarda la capacità dell’attore pubblico di produrre risultati desiderabili e soddisfacenti per i destinatari.

2. CAPACITA’ ORGANIZZATIVE: sono legate alla capacità di ottimizzare l’impiego delle risorse utilizzandole efficacemente ed efficientemente rispetto agli obiettivi prestabiliti.

3. LEGITTIMAZIONE: riguarda il consenso ed il supporto ottenuto da parte dei vari interlocutori sociali, ovvero la capacità di costruire relazioni con gli attori rilevanti e di costruire una buona reputazione e credibilità.

I suddetti elementi rappresentano gli obiettivi che devono indirizzare l’organizzazione, la pianificazione e la gestione pubblica. Il modello permette quindi di individuare rispettivamente tre macro raggruppamenti di attività e risorse che determinano il cosiddetto triangolo strategico e che permettono la valutazione dei risultati raggiunti. La prima componente è appunto la mission sociale rispetto alla quale si vanno a valutare gli output creati ed erogati e la soddisfazione dei destinatari, si hanno poi le competenze organizzative in merito alle quali vengono tenuti sotto controllo i livelli di efficacia ed efficienza dell’organizzazione, il suo equilibrio economico e finanziario, il grado di innovazione introdotto e le competenze delle risorse umane. Infine, circa la legittimità e la costruzione del consenso si osservano le relazioni intraprese con i vari interlocutori sociali, la reputazione e la credibilità raggiunte all’interno del contesto sociale.

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Il triangolo strategico( Moore M. H.)

Applicando quindi l’approccio del valore pubblico al contesto universitario si evince che la valutazione delle performance non riguarda soltanto i risultati e gli output conseguiti nell’interesse dei soli utilizzatori ma si parla di natura multidimensionale del valore pubblico per cui si considerano i risultati complessivamente conseguiti nell’interesse dei più soggetti portatori di interesse fra i quali ricordiamo i seguenti: il ministero il quale rappresenta il principale finanziatore e supervisore delle attività svolte, i cittadini anch’essi finanziatori seppur indiretti dell’università, gli studenti quali clienti e quindi finanziatori diretti dell’università e particolarmente interessati alla qualità dei servizi erogati; altri interlocutori rilevanti per le università sono rappresentati ad esempio dalle altre organizzazioni di istruzione e ricerca in qualità di competitors o partner scientifici , dagli amministrativi e corpo docente i quali partecipano direttamente al processo di creazione del valore ed infine dalle imprese quali principali destinatari ed utilizzatori della conoscenza prodotta.

LEGITTIMAZIONE E SUPPORTO COMPETENZE ORGANIZZATIVE MISSIONE SOCIALE

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13

1.3 L

A VALUTAZIONE DELLE PERFORMANCE UNIVERSITARIE

La valutazione delle performance rappresenta un processo essenziale per la pianificazione strategica, le principali finalità di tale processo sono riconducibili generalmente al supporto nelle decisioni politiche circa l’attribuzione dei finanziamenti e dell’intero sistema decisionale interno all’organizzazione valutata ed alle questioni di accountability sociale. Quest’ultimo è un concetto che rimanda al dovere da parte dell’istituzione di informare e rispondere circa il proprio operato agli interlocutori sociali la cui crescente richiesta di trasparenza nei confronti delle università ha condotto ad un’apertura da parte del sistema universitario nei confronti del contesto esterno. A tal proposito, gli ultimi anni sono stati caratterizzati dall’insorgere di nuovi strumenti di reportistica volontaria quali bilanci sociali, report sugli intangibili e piani strategici per la valutazione dell’operato delle università in aggiunta ai tradizionali documenti contabili ed amministrativi previsti dalle norme.

Con l’attuazione del processo di aziendalizzazione che vede l’introduzione di logiche, principi e strumenti tipici dell’economia aziendale all’interno dell’amministrazione pubblica, vengono introdotti criteri per capire se e in che misura l’università è responsabile della gestione di risorse umane e di creazione di valore per gli interlocutori sociali. Siamo negli anni ’70 -’80 e nonostante ciò non si può ancora parlare di concetti di valutazione e responsabilizzazione. Soltanto nel 2009 ( Legge delega 4 marzo 200, n 15 e d. lgs. 27 ottobre 2009 n. 150, c.d Decreto Brunetta) si ha il consolidamento del concetto di valutazione periodica delle performance sia organizzativa che individuale che viene resa obbligatoria per l’intero apparato della pubblica amministrazione.

Per quanto riguarda le università, il processo di valutazione è affidato ad appositi nuclei interni di valutazione ed a agenzie esterne indipendenti le quali hanno la possibilità di svolgere la valutazione secondo metodi e procedure proprie con l’obbligo però di includere nel processo sistemi premianti o sanzionatori predisposti in modo tale da favorire il miglioramento delle prestazioni. Il sistema di valutazione permette di valutare l’organizzazione nel suo complesso, le singole unità operative o centri di responsabilità fino ad

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arrivare al singolo individuo per cui ciascuna università definisce la propria struttura organizzativa ed operativa interna ed i rispettivi controlli di qualità da effettuare.

Il problema rispetto a tale processo di valutazione sta nel fatto che ciascun ateneo deve cercare di effettuare la valutazione secondo quelle che sono le caratteristiche della propria identità; pur essendoci infatti principi e linee guida anche al livello internazionale, per la definizione degli obiettivi e l’elaborazione dei rispettivi indicatori di performance, ogni università deve innanzitutto considerare la propria mission e l’insieme delle risorse disponibili, altrimenti incorre nel grosso rischio di effettuare una valutazione errata o comunque non attendibile e tutto ciò porta ad una serie di conseguenze negative (reputazione, immagine, attrattività, dotazione finanziaria ecc…).

Il sistema di valutazione all’interno delle Università può riguardare quattro ambiti:

- Ricerca - Didattica

- Trasferimento tecnologico - Strutture

Per quanto riguarda la ricerca questo è un settore molto importante al quale viene destinata una parte rilevante delle risorse pubbliche ma nello stesso tempo rappresenta l’ambito in cui si riscontrano molte difficoltà per la derivazione di modelli di valutazione e la causa di queste sta principalmente nel fatto che risulta piuttosto difficile definire con precisione il concetto e il contenuto delle performance da valutare e i rispettivi indicatori da monitorare. Secondo la teoria maggiormente condivisa comunque la performance legata alla ricerca viene associata alla nuova conoscenza prodotta dall’università la quale può essere distinta in base ai processi che l’hanno generata, ai contenuti ed infine ai tempi di manifestazione dell’impatto prodotto. Ai fini della valutazione risulta molto importante tenere in considerazione tutti questi aspetti in quanto condizionano in primis la definizione degli indicatori che possono avere natura qualitativa o

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quantitativa, la definizione degli obiettivi ed infine la misurazione dei risultati rispetto a questi che possono essere a loro volta rappresentati dall’outcome atteso (dove per outcome si intende il numero di pubblicazioni o di brevetti) o dai processi realizzati (intesi come la presenza di incentivi per la mobilità internazionale dei ricercatori o dei dottorandi). Riguardo ai modelli di valutazione da applicare, sorgono numerose perplessità, il principale dubbio riguarda la scelta fra metodi bibliometrici e altri metodi qualitativi in particolare il giudizio di merito dei pari sui prodotti di ricerca. I primi sembrano essere i preferiti nonostante vengano riscontrate alcune criticità: risultano spesso eccessivamente obiettivi, è probabile che portino ad un risultato in termini di produttività e visibilità che non corrisponde a quello che è il reale valore e qualità della conoscenza che viene prodotta e risultano maggiormente indicati per prodotti di ricerca estranei ad alcune realtà scientifiche dell’università italiana in quanto sono legati alla disponibilità di sistemi di raccolta e archiviazione delle pubblicazioni. Ai limiti dei sistemi di valutazione bibliometrici si tenta di ovviare con l’adozione di sistemi qualitativi come la peer review anche se permane comunque la necessità che il processo di valutazione conduca a misure numeriche per poter effettuare una successiva analisi comparativa fra le strutture. La letteratura ha inoltre ampiamente individuato le difficoltà legate all’applicazione dei metodi bibliometrici per le scienze umanistiche e sociali e nello stesso tempo ha ritenuto i metodi qualitativi fondati sulla peer review fin troppo onerosi e soggettivi per cui solitamente nei processi di validazione si usa impiegare distintamente i due approcci in base alle aree scientifico – disciplinari di riferimento.

Nell’ambito della didattica, la performance deve essere letta in un’ottica interna come un’attività progettata e gestita dall’ateneo (l’insegnamento) e secondo un’ottica esterna come un’attività non completamente gestibile, rappresentata dalla capacità di apprendimento dello studente. Gli outcome attesi relativi a questa dimensione possono essere diversi, i principali riguardano la qualità della conoscenza acquisita e trasmessa, la crescita professionale e umana degli studenti, lo sviluppo di competenze e capacità quali quelle relazionali e

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l’attitudine al problem solving così come la mobilità al livello internazionale e l’adeguato inserimento nel mondo del lavoro. Generalmente le esperienze valutative relative alla didattica prediligono come informazione la student

satisfaction, questo tipo di informazione sicuramente è molto utile ai fini del

miglioramento e dell’ottimizzazione dell’erogazione dei servizi relativi alla didattica, ma è piuttosto riduttivo considerarlo il principale indicatore di efficacia della didattica.

Monitorare la student satisfaction infatti, non è sufficiente ai fini di una corretta e completa valutazione poiché non fornisce informazioni esaustive circa la qualità della didattica offerta dall’ateneo ma semplicemente esprime la soddisfazione personale dello studente rispetto al servizio offerto dall’ateneo in termini di materiale didattico, strutture, esami, orari, docenti ecc.. attraverso il quale cioè si ha l’istruzione. Questa informazione inoltre è fortemente condizionata dalle caratteristiche personali del soggetto quali le competenze individuali possedute e la capacità di apprendimento per cui si rischia di ottenere un risultato non del tutto attendibile, che non deriva cioè direttamente dalla qualità del servizio erogato. Infine un’altra peculiarità riguarda le modalità di derivazione dell’indicatore, per valutare infatti la student satisfaction vengono spesso impiegati appositi questionari da far compilare ai destinatari del servizio in tempi non equivalenti a quelli necessari per la formulazione di un corretto giudizio, inoltre la ricerca viene effettuata su un campione di studenti che spesso non sono rappresentativi dell’intero corpo studenti per cui il giudizio non è estendibile a tutti.

Circa la valutazione del trasferimento tecnologico, le esperienze risultano meno diffuse e piuttosto isolate anche perché generalmente questa viene effettuata in qualità di sottocategoria della valutazione dell’attività di ricerca o comunque viene effettuata nell’ambito di particolari analisi di singole unità di ricerca. Gli indicatori che solitamente vengono impiegati riguardano gli elementi mediante il quale si ha evidenza della manifestazione del trasferimento ovvero i brevetti, i contratti di ricerca stipulati con altre imprese, i convegni organizzati, gli spin-off ed in generale tutto ciò che prevede la condivisione della conoscenza.

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Un ultimo ambito di valutazione riguarda le strutture, anche queste infatti possono essere oggetto di valutazione ma anche in questo caso le esperienze valutative risultano molto isolate e non esaustive poiché descrivono solo in parte questa dimensione e non sono utili ai fini della responsabilizzazione. “Le iniziative in materia sono principalmente individuali e in alcuni casi si tratta di progetti di gruppi di atenei ma sempre coordinati da gruppi di ricerca” ( Catalano G.)

Nel processo di valutazione vengono impiegati essenzialmente indicatori di efficacia ed efficienza di tutte le funzioni amministrative ( sono incluse sia le attività amministrative centrali legate alla gestione del personale, alla contabilità e attività simili sia quelle periferiche quali ad esempio le segreterie di dipartimento e le biblioteche), delle procedure interne e dei servizi a supporto della didattica, della ricerca e del trasferimento tecnologico, si tratta ad esempio di indicatori legati alla dimensione degli uffici, ai tempi di esecuzione delle prestazioni ed alla strumentazione tecnica disponibile.

1.3.1 L’APPROCCIO VALUTATIVO DELLA VQR

“Il progetto di valutazione della qualità della ricerca (VQR) 2011 – 2014 riguarda la valutazione dei risultati della ricerca scientifica effettuata nel periodo di riferimento dello stesso progetto( ad esempio in questo caso riguarda tutte le attività di ricerca effettuate dal 2011 al 2014) dalle Università Statali e non Statali, dagli Enti di Ricerca pubblici vigilati dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR) e da altri soggetti pubblici e privati che svolgono attività di ricerca, su richiesta esplicita con partecipazione ai costi dell’esercizio di valutazione” (ANVUR, VQR 2011–2014). Lo scopo di tale valutazione è quello di permettere un controllo istituzionale della qualità delle attività di ricerca e di trasferimento tecnologico e fornire un supporto decisionale alle strutture al fine di garantire il miglioramento continuo. La VQR è articolata su una serie di aree di ricerca per ciascuna delle quali l’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca) ha costituito

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un gruppo di esperti per la valutazione dei prodotti scientifici. La valutazione è avvenuta impiegando in maniera differenziata a seconda del prodotto oggetto di valutazione, il metodo di valutazione qualitativo tra pari (peer review) mediante il quale il prodotto viene giudicato da esperti indipendenti (si tratta di colleghi, persone che operano nello stesso ambito dell’autore, dei cosiddetti “pari”), la metodologia quantitativa delle analisi bibliometriche che sono basate sul numero di citazioni dei prodotti e sugli indici di impatto delle riviste (impact factor), nonché una combinazione dei due approcci, il metodo informed peer review che permette di ridurre le distorsioni valutative. I soggetti valutati sono costituiti dai ricercatori, assistenti e professori di prima e seconda fascia, straordinari ed a tempo determinato. L’esito della valutazione si basa su appositi criteri, stabiliti dai GEV (Gruppi di Esperti della Valutazione) di concerto con l’ANVUR, di originalità, rigore metodologico e impatto attestato o potenziale e converge in un giudizio sintetico sul prodotto della ricerca, articolato su cinque livelli : eccellente, elevato, discreto, accettabile e limitato, si possono avere inoltre anche prodotti “non valutabili”.

Nell’ambito della VQR, la valutazione non riguarda soltanto i prodotti scientifici ma anche le strutture in relazione alle quali sono stati considerati oltre all’indicatore della qualità dei prodotti, ulteriori indicatori legati al contesto entro cui si svolge l’attività di ricerca e la terza missione. In particolare, vengono impiegati indicatori attinenti alla capacità delle strutture di attrarre risorse finanziarie esterne soprattutto sulla base di bandi competitivi, all’alta formazione effettuata dalle stesse e alla mobilità nei ruoli degli addetti nel quadriennio di riferimento della valutazione. Per le strutture viene inoltre valutata la qualità delle attività legate alla terza missione ed in particolare si è considerato il profilo di competitività delle istituzioni per queste attività. Tutto ciò secondo l’ANVUR è possibile mediante indicatori relativi alla valorizzazione economica della ricerca, ovvero analizzando i proventi derivanti dall’attività di terza missione, i brevetti ottenuti, spin off attivati e incubatori di impresa.

Infine anche per i dipartimenti viene valutata la qualità dei prodotti di ricerca, la capacità di attrarre risorse esterne attraverso appositi meccanismi competitivi,

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di svolgere attività di alta formazione del personale di ricerca ed inoltre si considerano anche gli altri indicatori relativi all’attività della terza missione.

In conclusione la VQR fornisce un panel di indicatori che costituisce un valido supporto per le decisioni future circa le politiche di ricerca e trasferimento tecnologico. A fronte di ciò questo approccio presenta anche qualche criticità evidenziata dalla stessa ANVUR: innanzitutto questa metodologia non è molto indicata per effettuare delle comparazioni di natura esterna fra organizzazioni eterogenee quali ad esempio università ed enti di ricerca, ma anche di natura interna fra le diverse aree scientifiche nonostante all’interno della struttura l’allocazione delle risorse potrebbe essere effettuata proprio sulla base del giudizio assegnato alle varie aree. Alcuni problemi inoltre possono sorgere nell’impiego della metodologia quantitativa basata sulle analisi bibliometriche in seguito all’indisponibilità delle banche dati. Infine possiamo notare che la valutazione tiene in considerazione anche la terza missione ma ancora in maniera periferica, le indagini su di essa sono ancora sperimentali perciò la stessa non costituisce ancora un vero e proprio driver nel processo di allocazione delle risorse.

In merito a questo approccio valutativo pertanto possiamo evidenziare la continua associazione della qualità delle strutture o dei dipartimenti ai concetti di efficacia operativa ed efficienza competitiva, è possibile inoltre comprendere come il prodotto scientifico ovvero la pubblicazione rappresenti secondo tale approccio, la principale forma di diffusione e commercializzazione della conoscenza e per questo motivo ciascun ricercatore viene giudicato unicamente in relazione a questa variabile.

1.3.2 LA REPORTISTICA VOLONTARIA

In seguito alle esigenze di accountability, ad integrazione dei modelli nazionali di valutazione delle attività, possiamo individuare ulteriori modelli extracontabili che sono stati adottati su base volontaria dalle strutture, molti dei quali sono stati sviluppati durante gli anni per colmare le lacune informative

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presenti nei tradizionali bilanci consuntivi e preventivi e sistemi di programmazione e controllo.

Si tratta di report volontari quali la Balanced Scorecard o i bilanci sociali ovvero modelli multidimensionali e analitici che vengono sviluppati con la duplice funzione di informativa interna ed esterna. Da un punto di vista interno fungono da supporto nelle decisioni degli organi di governo i quali vengono informati in maniera adeguata circa i risultati conseguiti, mentre per quanto riguarda le esigenze di informativa esterna, permettono di garantire trasparenza nei confronti degli interlocutori circa la destinazione e l’impiego del valore creato al fine di migliorare e rinforzare l’immagine e la reputazione dell’ateneo nei confronti degli attori sociali e di costruire con gli stessi solide relazioni, ponendo particolare attenzione alla categoria dei finanziatori.

Il modello della Balanced Scorecard

Uno dei modelli maggiormente diffusi nell’ambito della pubblica amministrazione è il modello della Balanced Scorecard (BSC), esso “nasce con l’intento di indirizzare gli organi di governo ad un efficace e bilanciato sviluppo della strategia, si propone inoltre di consentire a posteriori un controllo strategico per indirizzare le azioni correttive e le strategie future. Questo modello “porta

anche alla valutazione delle principali dimensioni dell’attività

dell’organizzazione, qualificandosi maggiormente come uno strumento di indirizzo e di controllo interno” (Kaplan R. S., Norton D., 2004). La BSC in sostanza può essere inclusa negli strumenti di gestione strategica e di gestione delle performance, tuttavia nel tempo è stata rivista e reimpiegata appositamente per la rappresentazione e gestione degli intangibile assets nella prospettiva di creazione del valore; a tal proposito si parla per le università di valore pubblico che presenta quindi una duplice natura, per la maggior parte sociale e per l’altra economica per cui logiche di misurazione e rappresentazione unicamente monetarie o comunque basate sul rapporto prezzo/costo non risultano idonee.

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Tale modello permette di rappresentare e comunicare la strategia perseguita

attraverso la definizione di relazioni di causa - effetto fra obiettivi, indicatori con i rispettivi target e azioni individuati all’interno di alcune prospettive essenziali. In particolare le prospettive individuate dal modello base sono: quella economico-finanziaria, dei clienti, dei processi interni e la prospettiva della crescita e dell’apprendimento. Per ciascuna prospettiva possono essere individuati indicatori espressivi dei risultati conseguiti (lag indicator) e indicatori il cui valore è indicativo della performance futura(leading indicator). Nel tempo si sono susseguite una serie di configurazioni del modello.

Il modello tradizionale a croce mette in relazione in maniera diretta gli obiettivi dell’apprendimento e della crescita con quelli economico finanziari (asse verticale) e gli obiettivi e le politiche legati alla dimensione dei clienti con quelli legati alla prospettiva dei processi interni.

Fonte: Performance Management Review

Nell’evoluzione del modello i due autori Kaplan R. S. e Norton D. si sono resi conto che la BSC non era soltanto un semplice strumento legato alla strategia ma poteva diventare un valido strumento per la comunicazione della strategia e per il monitoraggio delle performance legate all’attuazione della stessa; ha quindi assunto un’importanza vitale la mappa strategica come strumento di

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rappresentazione delle catene di rapporti causa-effetto che legano i risultati

desiderati con i driver della performance futura. Si ha poi il modello sequenziale

che permette di evidenziare come gli obiettivi e le politiche debbano definirsi a partire dalla vision e dalla mission aziendale per passare poi alla dimensione dell’apprendimento e della crescita, per indirizzare poi le decisioni in merito ai rapporti con i clienti ed ai processi, per arrivare in fine alla prospettiva economico-finanziaria dove poter verificare i risultati che rappresentano la sintesi delle relazioni instaurate fra le altre dimensioni. Kaplan e Norton in questo caso propongono una configurazione della BSC che tenga conto e che evidenzi le relazioni che legano i vari aspetti appartenenti a dimensioni diverse rendendo la stessa non più un semplice strumento di reporting bilanciato ma uno strumento per la gestione strategica delle performance.

Il modello sequenziale della BSC

Fonte: Performance Management Review

Alcune rivisitazioni del modello permettono di ottenere uno strumento per la misurazione e il governo strategico degli intangibiles assets ma le principali esperienze empiriche riguardano il settore privato.

Prospettiva

Economico-Finanziaria Obiettivi Misure Target

Prospettiva

del Cliente Obiettivi Misure Target Iniziative

Prospettiva dei

Processi Interni Obiettivi Misure Target Iniziative

Prospettiva della

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Prendendo in considerazione le università, la declinazione degli obiettivi, misure ed azioni nelle quattro prospettive, non avviene secondo una sequenza comune, questa dipende molto dalla mission e dalla vision perseguite a partire dalle quali si hanno una serie di effetti a cascata sulle varie dimensioni cruciali per l’attuazione della strategia formulata. Mentre fra le varie aziende pubbliche il modello della BSC è stato adottato in maniera diffusa, nella realtà delle università italiane la sua applicazione risulta ancora piuttosto isolata ed i motivi possono essere ricollegati ad esempio al mancato sviluppo di una adeguata cultura strategica, all’assenza di un indirizzo strategico comune che sia diffuso all’interno dell’organizzazione e che favorisca la responsabilizzazione ed infine un’altra causa primaria è legata alla presenza di un sistema informativo improntato prevalentemente sulla contabilità finanziaria.

Per le università viene proposto un adattamento del modello teorico che prevede:

- un sistema di indicatori comune al fine di permettere la comparabilità dei risultati.

- Un adattamento della prospettiva clienti rispetto alla quale è necessario considerare distintamente gli studenti rispetto agli altri stakeholders.

- Un declassamento della prospettiva finanziaria dato che le risorse provengono in maniera prevalente da fonti ministeriali. (Di Berardino, 2014)

Numerosi sono gli studi sull’applicazione del modello della BSC nel settore dell’istruzione superiore (Culle et al. 2003, Lawrence e Sharma, 2002, Kettunen, 2005 ecc..) i quali dimostrano la complessità attorno all’impiego di suddetto modello.

Un esempio pratico di applicazione del modello è quello elaborato da Cugini et

al. per il dipartimento dell’Università di Padova che segue il modello della

mappa strategica elaborato da Kaplan e Norton ma anche in questo caso non si nota il contributo apportato dallo strumento al sistema decisionale e gestionale e

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neppure una corretta diffusione della strategia all’interno dell’organizzazione dalla quale è necessario partire per ottenere i risultati desiderati.

In conclusione il modello della BSC per il momento non risulta adeguatamente applicabile alle istituzioni universitarie in quanto presuppone la presenza all’interno dell’organizzazione di una vera e propria cultura strategica in particolare da parte degli organi centrali i quali sono tenuti a coordinare e non semplicemente a controllare le strutture periferiche (dipartimenti, centri di ricerca e scuole). La BSC è inoltre un modello che presenta una struttura fortemente rigida e quindi in contrasto con la natura dinamica delle attività universitarie.

I rendiconti sociali

Il bilancio o rendiconto sociale è un altro strumento tipico impiegato nell’ambito privatistico che è stato introdotto nel sistema universitario, in realtà risulta più consono impiegare il termine rendiconto poiché bilancio fa pensare ad appositi costrutti contabili caratterizzati da principi e proprietà uniformi che non ritroviamo all’interno dei rendiconti sociali. Il rendiconto sociale è un prospetto che viene redatto con lo scopo di informare gli stakeholders circa le politiche e le decisioni assunte e gli effetti di suddette azioni con particolare riferimento al modo in cui si è creato valore e l’impiego che ne è stato fatto ovvero il modo in cui è stato ridistribuito fra gli interlocutori sociali. Tale documento evidenzia il collegamento con la strategia di fondo perseguita dall’organizzazione ma nello stesso tempo trascurando la dimensione economica si focalizza sul rispetto di principi quali l’equità, la legittimità e la sostenibilità risultando quindi maggiormente coerente con le richieste di accountability e responsabilità tipiche del settore pubblico. L’esigenza di fondo infatti alla quale le università così come tutte le amministrazioni pubbliche, devono dare risposta è quella di essere efficaci e responsabili agli occhi degli stakeholders, in quanto una delle priorità che costituisce l’obiettivo di fondo dei processi di legittimazione del proprio operato è il miglioramento del livello di accountability ed uno dei mezzi per perseguire questo obiettivo è appunto la rendicontazione sociale. Il rendiconto

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sociale può essere ricompreso quindi fra gli strumenti di comunicazione esterna più che di supporto alle decisioni, in particolare è considerato uno strumento di costruzione del consenso e legittimazione e, diversamente da altri strumenti quali la BSC, la sua adozione è maggiormente diffusa fra le aziende pubbliche ed in particolare fra le università e i motivi possono essere ricondotti ai seguenti:

 La necessità di capire l’impatto delle azioni nel sistema ed incentivare l’adozione di comportamenti responsabili poiché per queste istituzioni non esistono meccanismi premianti o sanzionatori.  Con il rendiconto sociale inoltre si intende colmare le lacune del sistema di comunicazione esterna nei confronti della comunità e favorire una maggiore apertura delle università nei confronti del contesto in cui opera.

 E’ uno strumento che descrive le performance del servizio erogato focalizzandosi cioè sull’attività core dell’organizzazione e non su aspetti marginali della gestione.

 Rispetto agli altri modelli di reportistica volontaria per cui si ha una regolamentazione piuttosto confusionaria e frammentata, per la rendicontazione sociale sono stati individuati chiari standard condivisi.

Risulta interessante evidenziare che alcune esperienze circa la rendicontazione sociale, legano questo strumento alle esigenze di rendicontazione delle risorse intangibili e ciò è giustificato dal fatto che buona parte dei contenuti dei due documenti, bilancio sociale e bilancio degli intangibili, risulta affine e compatibile offrendo così la possibilità di combinare gli indicatori sociali e le informazioni sugli intangibili (prevalentemente su capitale umano e relazionale) in un unico documento. In molti contributi quindi si ricorre alla redazione di report integrati in cui appunto la rendicontazione degli intangibili viene considerata parte integrante del sociale al fine di evitare ridondanze ed eccessi informativi e procedurali.

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Nelle università la struttura del rendiconto sociale è molto simile a quella prevista per la pubblica amministrazione, è un documento a carattere generale che può essere integrato da ulteriori documenti di approfondimento in base alle specifiche esigenze informative di comunicazione delle singole università. Gli elementi essenziali ed inderogabili del rendiconto sono:

 L’identità dell’ateneo: una prima parte descrittiva articolata in vari punti quali la missione, lo scenario e il contesto di riferimento, la

governance, gli ambiti di intervento e le strategie e politiche

assunte.

 La riclassificazione dei dati contabili secondo il sistema contabile e di bilancio adottato dalle università integrata da un prospetto informativo sul patrimonio per gli atenei pubblici.

 La relazione sociale che esprime i risultati ottenuti nelle diverse aree di attività e i benefici ottenuti per le varie classi di stakeholders identificate. (Gruppo Bilancio Sociale, 2008)

Circa la struttura del rendiconto possiamo notare che, a differenza della BSC, questo è maggiormente fedele alla triplice distinzione del finalismo universitario ovvero la formazione del capitale umano attraverso la didattica, la creazione diffusione di nuova conoscenza tramite l’attività di ricerca e la promozione dello sviluppo socio-economico dell’ambiente di riferimento tramite le attività di terza missione, inoltre il fatto che ci si focalizzi maggiormente sulle attività dell’organizzazione toglie staticità al modello a favore di un carattere maggiormente dinamico e quindi più coerente con le caratteristiche dell’istituzione.

Per quanto riguarda le esperienze applicative del modello, sono stati effettuati degli studi comparativi circa la configurazione del rendiconto sociale impiegata negli atenei, in particolare sono stati analizzati la Scuola Superiore Sant’Anna e la Normale di Pisa, l’Università di Bari e l’Università di Ferrara. Da questi studi si evince che le principali differenze nell’impiego di tale strumento risiedono nella sezione degli indicatori rendendolo quindi difficile da applicare per analisi

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di benchmarking. L’analisi dei bilanci sociali dei vari atenei mostra anche la ricerca di un’integrazione tra l’informativa istituzionale, contabile, di marketing e sociale cercando di trasmetterla all’esterno secondo quelli che sono i bisogni conoscitivi dei soggetti interessati in modo da valorizzare quelle che sono le attività svolte dall’ateneo (all’interno del bilancio sociale possiamo ritrovare ad esempio contenuti tipici della programmazione, del bilancio consuntivo o dei rapporti periodici di auto-valutazione). Infine da questa analisi comparativa possiamo comprendere le grosse potenzialità di questo modello legate alla capacità di rafforzare e migliorare l’immagine e la reputazione dell’ateneo e di permettere un maggior coinvolgimento degli interlocutori sociali esterni.

Come già evidenziato, all’interno del rendiconto sociale è possibile trovare informazioni relative alle risorse intangibili, questa integrazione si rileva principalmente nella sezione iniziale descrittiva riguardo al capitale umano e relazionale e nella relazione sociale di sintesi circa i risultati prodotti dalle attività intangibili. Per quanto riguarda il capitale umano il rendiconto esprime la consistenza e la composizione dello stesso distinguendo le risorse per ruolo e genere ( docenti, personale di ricerca e tecnici amministrativi). In merito alla componente relazionale invece vengono descritte in maniera dettagliata le relazioni con gli stakeholders opportunamente identificati dall’ateneo e le iniziative previste nei loro confronti così come il livello di fidelizzazione raggiunta con gli stessi. Infine ulteriori informazioni legate alle risorse intangibili possono essere tratte dalla sezione degli indicatori sottoforma di dati di risultato legati alle attività universitarie con particolare attenzione alla qualità dei processi di ricerca e di didattica ed all’attività di trasferimento tecnologico.

Il processo di redazione del bilancio sociale è piuttosto complesso e tanto più in organizzazioni complesse come le università. Alcuni studi individuano cinque fattori chiave sui quali porre particolare attenzione al fine di ottenere report accurati ed affidabili in relazione alle esigenze di accountability e garantirne l’efficacia informativa (Mion G.,. Melchiori M., 2011).

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1- Individuazione dell’assetto di governance per capire il ruolo attribuito dallo stesso alla comunicazione sociale e cogliere il grado di integrazione del processo nel sistema di controllo e governo dell’ateneo. 2- Individuazione dello staff di lavoro che provvede alla redazione del

report; è necessario cioè identificare le competenze necessarie per l’elaborazione del documento, le quali possono essere già disponibili all’interno dell’organizzazione oppure reperite presso esperti esterni. 3- Individuazione delle fonti dalle quali trarre i dati e le informazioni utili

alla compilazione del bilancio sociale: spesso la mole informativa degli atenei risulta piuttosto ingente per cui si ritiene necessaria l’integrazione con altri strumenti simili e con sistemi di programmazione e controllo al fine di evitare o ridurre inutili ridondanze di ruoli e dati.

4- Analisi e coinvolgimento degli stakeholders: rappresenta un momento cruciale del processo in quanto questi ultimi sono implicati nei processi gestionali e sono i principali fruitori della comunicazione sociale e i loro fabbisogni sono un elemento fondamentale per l’implementazione della rendicontazione sociale ma anche delle linee strategiche ed operative finalizzate alla creazione del valore (Wheeler, Colbert e Freeman, 2003)

Analisi degli stakeholder Governance Staff di lavoro Fonti informative Modello di riferimento

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5- Scelta fra l’adozione di un modello di rendiconto sociale di riferimento elaborato da istituzioni nazionali e internazionali o l’adozione di una forma del tutto libera.

In conclusione gli studi effettuati in merito all’impiego del rendiconto sociale negli atenei italiani non mostrano in maniera evidente come tale strumento possa effettivamente fornire supporto al livello decisionale e gestionale confermando così la sua natura di strumento di comunicazione. Volendo effettuare un’ analisi comparativa fra i suddetti modelli di misurazione delle performance risulta quanto segue:

Fonte: D. Di Berardino, La valutazione e la disclosure delle risorse intangibili nelle università

BSC Bilancio Sociale Valutazione della Qualità Struttura Sequenziale sistemica, nessi causa-effetto Concatenazioni sistemiche di coerenza Lineare, atomistica

Teorie Resource-based Legittimità Legittimità

Destinatari primari Organi politici e

decisionali interni Stakeholder esterni MIUR, ANVUR Grado di

integrazione dell’informativa

Medio Elevato Medio

Natura prevalente degli indicatori di performance Quantitativa (numerico-contabile) Ibrida (numerica, contabile, qualitativa) Quantitativa (numerico-contabile) Prospettiva dati Preventiva e

consuntiva Consuntiva, in parte preventiva Consuntiva Capacità descrittiva delle risorse di conoscenza

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In conclusione, a partire dai numerosi studi che si sono susseguiti in questi ultimi anni con lo scopo di capire quali fossero gli indicatori più idonei per la valutazione delle performance universitarie si afferma l’idea che per ottenere un efficace sistema di indicatori sia prima di tutto necessario far riferimento ad un

framework teorico e concettuale condiviso che fornisca principi, metodi e linee

guida che ne facilitino la comprensione da parte degli utilizzatori, è inoltre necessario che il panel di indicatori individuato sia maggiormente indirizzato verso la terza missione universitaria. A tal proposito si sviluppa un nuovo filone teorico che riconosce nel costrutto del capitale intellettuale l’approccio più adatto per la derivazione di nuovi modelli di gestione e valutazione delle performance universitarie.

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2. I

L CAPITALE INTELLETTUALE

La società attuale viene definita la società della conoscenza in quanto questo

elemento rappresenta ormai un fattore critico di successo, in particolare, si parla

oggi di “knowledge-based economy” poiché anche in campo economico la competizione fra le aziende è sempre più improntata su ciò che si conosce e si è in grado di fare piuttosto che sulle risorse fisiche possedute. In altri termini, gli elementi immateriali dell’azienda, i cosiddetti intangibles, rappresentano l’espressione diretta della conoscenza propria di un’organizzazione e sono diventati determinanti nel processo di creazione del valore.

Per cercare di descrivere e concettualizzare l’insieme delle risorse immateriali aziendali, a partire dalla seconda metà degli anni ‘90, si è diffuso il concetto di Capitale Intellettuale (CI). In letteratura possiamo trovare diverse accezioni e ripartizioni del capitale intellettuale ma, nonostante ancora oggi non vi sia una definizione unica, “le numerose definizioni formulate dai diversi autori presentano differenze spesso più formali che sostanziali” (Bontis, 2001). Volendo dare una definizione maggiormente esaustiva e condivisa possiamo definirlo come una risorsa intangibile aggregata avente natura sistemica in quanto deriva dalle interazioni fra le sue componenti ovvero le risorse di conoscenza possedute dalle risorse umane, le quali sono stanziate nella struttura dell’organizzazione e nella sue rete di rapporti e relazioni. I maggiori studiosi a tal proposito concordano nel ripartire il capitale intellettuale in tre principali categorie:

 CAPITALE UMANO: esprime l’insieme delle conoscenze delle risorse umane operanti in azienda, è rappresentato quindi dall’insieme delle abilità, capacità ed esperienze di chi opera all’interno dell’organizzazione. Si tratta di conoscenze principalmente tacite poiché legate alle esperienze, intuizioni ed ai giudizi personali per cui risultano anche scarsamente trasferibili nello spazio e nel tempo.

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 CAPITALE STRUTTURALE/ORGANIZZATIVO: esprime la

conoscenza insita nell’ organizzazione (procedure, databases, struttura operativa, meccanismi operativi ecc..). Questa conoscenza a differenza della prima risulta trasferibile nello spazio e nel tempo dato che viene immagazzinata e formalizzata dall’azienda e rappresenta inoltre la struttura portante dell’organizzazione perché permette di conservare, trasferire ed accrescere la conoscenza nell’operare quotidiano (Cabrita, Bontis, 2008).

 CAPITALE RELAZIONALE: esprime la conoscenza derivante dalle relazioni formali ed informali che l’azienda istaura con i propri interlocutori nel contesto competitivo e sociale. Questa conoscenza è molto importante perché da questa deriva il consenso esterno e quindi la reputazione e l’immagine dell’organizzazione. Anche quest’ultima non risulta facilmente trasferibile poiché non è di proprietà dell’azienda ma viene condivisa con i soggetti che si rapportano con essa.

Le tre categorie di capitale intellettuale e le rispettive risorse sono strettamente interconnesse fra di loro (Edvinsson, Malone, 1997) ed è per questo che in merito al capitale intellettuale si parla di sistema integrato e non di semplice somma delle diverse componenti.

Questo concetto viene studiato in un primo momento con riferimento alle imprese con lo scopo di capire in che misura questo sistema di risorse interagisce

Capitale Intellettuale

Capitale Relazionale Capitale Strutturale

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con le risorse appartenenti al capitale fisico e finanziario per la produzione di valore economico- finanziario per l’impresa. Spostando poi l’attenzione in ambito pubblico, il capitale intellettuale viene studiato in qualità di fattore di produzione di vari output quali valore pubblico, le performance ecc.. Certo è che in ogni caso il capitale intellettuale debba ritenersi un insieme non del tutto equivalente a quello delle risorse intangibili in quanto quest’ultimo rappresenta un insieme più ampio e generale mentre l’altro un insieme più specifico, ristretto e sovraordinato alle risorse intangibili, è possibile infatti che fra queste vi siano delle risorse che pur non facendone parte ma derivano e sono alimentate dal capitale intellettuale. Persino al livello contabile a partire dagli anni 2000 si registra una netta distinzione fra la contabilità degli intangibili e i vari sistemi di misurazione e gestione del capitale intellettuale. Per quanto riguarda questi ultimi inoltre, il cambiamento che sta interessando il contesto operativo in cui le imprese operano riguarda proprio la necessità di avere una piena comprensione del ruolo esercitato dal capitale intellettuale nel processo di creazione del valore; cambia infatti anche il ruolo che dovrebbero avere i modelli di rappresentazione del capitale intellettuale i quali non devono rappresentare più semplici report che individuano le risorse di cui è costituito il capitale ma devono diventare strumenti capaci di supportare il management nella pianificazione delle azioni future.

2.1 I

TRADIZIONALI MODELLI DI GESTIONE E MISURAZIONE DEL CAPITALE INTELLETTUALE

“Nonostante il consenso generale circa la necessità di individuare nuovi strumenti e tecniche di misurazione del capitale intellettuale,è utile riconoscere alcuni limiti in proposito” (Foray, 2004) molti dei quali riguardano la conoscenza la quale non è facilmente osservabile, è composta per lo più da elementi eterogenei e una parte della stessa è implicita, inoltre i termini del rapporto fra la sua creazione e diffusione e la crescita economica non sono ben noti. Infine possiamo osservare dei limiti in termini di comparabilità degli indicatori per gli intangibili rispetto a quelli per gli elementi tangibili e nella quantificazione della

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relazione causa-effetto fra gli intangibili e la creazione di valore aggiunto, anche se questa relazione è stata ormai confermata. Nonostante ciò una vasta gamma di iniziative per la gestione e misurazione del capitale intellettuale nelle imprese ha riscosso successo nella dottrina e nella pratica. Fra i più rilevanti e diffusi ricordiamo:

 Skandia Navigator (Edvinsson, Malone, 1997)

 Intangibles Assets Monitor (K. E. Sveiby, 1997)

 Progetto MERITUM (Measuring Intagibles to Understand and Improve Innovation Management 1998-2001)

2.1.1 Il modello Skandia Navigator

Lo Skandia Navigator è un modello sviluppato dall’autore Leif Edvinsson nel 1998 all’interno di una compagnia assicurativa svedese chiamata appunto Skandia. Secondo l’impostazione adottata dal modello, il capitale intellettuale viene generato a partire dallo sviluppo delle risorse umane. Queste risorse risultano però piuttosto “volatili” e le aziende dovrebbero cercare di accumulare competenze in modo da garantire il mantenimento in azienda del capitale intellettuale. Si sviluppa così il capitale strutturale che può essere riassunto in brevetti, copyright, marchi (elementi sui quali l’azienda ha una proprietà intellettuale). Il capitale strutturale può essere analizzato in un’ottica esterna considerando gli investimenti nell’immagine dell’azienda, i rapporti con i propri clienti, i canali distributivi ecc. si parla in questo caso di customer capital. Analizzando il capitale strutturale considerando la prospettiva legata ai processi interni, si parla invece di organizational capital, per cui si fa riferimento agli elementi necessari al funzionamento dell’azienda come i processi manageriali, i sistemi informativi, le relazioni, la cultura aziendale, gli investimenti in hardware e software appartenenti ad una sottodimensione dello stesso (process capital) e i fattori che contribuiscono allo sviluppo dell’azienda stessa i quali vengono ricondotti ad un’altra sottodimensione ovvero quella dell’innovazione (innovation capital).

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La suddivisione del capitale intangibile in Skandia Navigator

Secondo il modello il management dovrebbe avere un "navigatore" che può indirizzare al meglio il processo decisionale. A tal proposito lo Skandia Navigator si focalizza su cinque diversi aspetti:

1. Financial focus: prende in considerazione i risultati finanziari dell’impresa e si basa sulla capacità della stessa di per creare valore in termini monetari. “A differenza delle altre dimensioni inoltre, quella finanziaria non è orientata al futuro, ma al passato in quanto considera le transazioni economiche passate” (Edvinsson, L. e Malone, M.S. 1997).

2. Customer focus: in questa prospettiva diversi aspetti sono presi in considerazione quali ad esempio le caratteristiche dei clienti, i redditi,la frequenza di contatto e di acquisto dei clienti, i servizi post vendita, ecc.. Gli autori a proposito specificano che le relazioni con i clienti sono la chiave per il successo dell’impresa.

3. Process focus: l’attenzione ai processi interni considera tutti i fattori tecnologici che supportano il processo di creazione del valore quali ad esempio sistemi informatici, banche dati, procedure aziendali ecc..

4. Innovation focus: si focalizza sugli elementi che potrebbero creare nuove opportunità di crescita economica dell’impresa quali ad

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esempio la capacità dell’impresa di attrarre nuovi investitori o clienti, di sviluppare nuovi prodotti o servizi, di attrarre figure professionali valide ecc..

5. Human focus: questa prospettiva viene posta al centro del modello poiché rappresenta la principale fonte del capitale intangibile e viene valutata considerando diversi aspetti quali la motivazione, l’età, l’esperienza, lì istruzione ecc…

Per la derivazione del valore degli intangibles, gli autori hanno elaborato una serie di indicatori per ciascun focus particolarmente adatti per la valutazione di questi aspetti.

Il modello Skandia Navigator

Lo Skandia Navigator fornisce un contributo molto importante alla misurazione del capitale intellettuale, nonostante ciò presenta diversi svantaggi e il principale e più limitante è legato al fatto che “è stato sviluppato “su misura” per una specifica impresa, la Skandia e per poter essere utilizzato in diverse aziende

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operanti in diversi settori, dovrebbe essere rivisto e riadattato secondo le specifiche condizioni” (Marr, B., Schiuma, G.Neely, A. 2004).

2.1.2 L’intangible Assets Monitor

L’intangible Assets Monitor è un modello innovativo di valutazione delle performance elaborato da K. E. Sveiby a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta che permette la rappresentazione e nello stesso tempo la misurazione degli intangibles assets mediante un apposito sistema di indicatori la cui scelta dipende dalla strategia adottata dall’azienda. L’idea alla base del modello è simile a quella dello Skandia Navigator, questo si basa sul fatto che nelle aziende e soprattutto nelle cosiddette knowledge companies sono le risorse umane la principale se non l’unica fonte di vantaggio competitivo e di creazione di valore. La centralità di questa dimensione umana dipende dal fatto che “il risultato economico-finanziario derivante dai vantaggi competitivi è totalmente riconducibile alle persone che operano in un’organizzazione e quindi alle loro azioni. Gli effetti di queste azioni si manifestano in strutture interne o esterne e sono da considerarsi come veri e propri elementi attivi del capitale in quanto influenzano la generazione di flussi futuri di risultato”. (Sveiby K.E., 1998)

Lo strumento permette quindi di individuare, a fianco alle risorse tangibili, le risorse intangibili classificandole in base a tre dimensioni:

1. Competenze individuali (consistono nella capacità dei soggetti di agire nelle più svariate situazioni e dipendono, o comprendono, abilità, conoscenze, esperienze, valori, capacità relazionali, analitiche ecc...)

2. Struttura interna ( comprende elementi quali hardware,

software,investimenti in R&S, brevetti, sistemi informativi, procedure e tutto ciò che riguarda l’organizzazione dell’impresa)

3. Struttura esterna ( fa riferimento a risorse quali marchi, relazioni con clienti e fornitori, immagine e reputazione dell’azienda ecc..)

L’intangibles assets monitor si presenta quindi come una sorta di tabella contenente una serie di indicatori relativi alle risorse intangibili articolati secondo

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le suddette dimensioni della struttura interna, della struttura esterna e delle competenze individuali che a loro volta vengono monitorate in funzione di altri quattro aspetti cruciali:

1. growth and innovation: ovvero del tasso con cui queste risorse sono in grado di svilupparsi e rinnovarsi

2. efficiency: il livello di efficienza con il quale vengono utilizzate 3. stability / risk: il rischio di poterle disperdere

2.1.3 Il modello proposto dall’ OECD nel MERITUM Project

Il MERITUM Project è un progetto di ricerca finanziato dalla Commissione Europea nel Novembre 1998 della durata di 30 mesi al quale hanno preso parte sei paesi europei (Danimarca, Finlandia, Francia, Norvegia, Spagna e Svezia). Tale progetto ha elaborato una serie di guidelines utilizzabili per qualsiasi tipo di azienda, per la rappresentazione, gestione e misurazione del capitale intellettuale al fine di poter migliorare le performance aziendali e migliorare la trasparenza e la comunicazione nei confronti degli stakeholders mediante un apposito strumento di rendicontazione degli intangibili. Le linee guida elaborate dal

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progetto prendono spunto dall’osservazione dalle best practices osservate in circa ottanta imprese europee.

Fra le varie parti in cui è suddiviso il documento in esame, possiamo distinguerne tre principali:

1. Il framework concettuale. In questa sezione viene fornita una precisa definizione della terminologia e della tassonomia degli intangibles impiegata. Il capitale intellettuale viene definito come la combinazione fra risorse umane, organizzative e relazionali di un’organizzazione specificando però che questo non deve essere considerato una semplice somma dei tre componenti in quanto riguarda le modalità con cui l’azienda gestisce la conoscenza al fine di creare valore. Il documento inoltre individua la separazione fra risorse ed attività intangibili.

2. Management del capitale intellettuale. Il modello di gestione del

capitale intellettuale proposto nelle linee guida prevede tre fasi essenziali del processo di gestione: identificazione, misurazione e azione. La prima fase di identificazione prevede una chiara definizione della vision, della mission e degli obiettivi strategici dell’impresa quali punto di partenza per l’individuazione dei “critical intangibles” determinanti per il raggiungimento degli obiettivi. In seguito vengono definite le risorse legate agli intangibles critici e le attività che permettono di agire sulle risorse immateriali (in realtà il confine fra intangibile critico e la risorsa che lo rappresenta risulta piuttosto labile). Emerge così un network di beni immateriali in grado di fornire informazioni circa le risorse intangibili attuali e quelle che dovrebbero essere sviluppate nel futuro e delle attività che devono essere intraprese al fine di raggiungere gli obiettivi strategici. La fase di misurazione prevede la definizione di indicatori specifici da impiegare come misure proxy delle risorse ed attività immateriali che sono state identificate nella fase precedente. Le linee guida individuano le caratteristiche che tali indicatori dovrebbero presentare, in particolare essi dovrebbero esprimere il legame esistente fra risorse e attività immateriali con la creazione di valore. Infine l’ultima fase, quella dell’azione, prevede

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