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Il lavoro atipico in Italia: trappola o ponte verso la conciliazione? Le interruzioni lavorative intorno alla maternità di tre coorti di donne

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Academic year: 2021

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Il lavoro atipico in Italia: trappola o ponte verso la conciliazione?

Le interruzioni lavorative intorno alla maternità

di 3 coorti di donne

Title

Is atypical work a trap or a bridge for reconciliation? Women’s employment interruptions around motherhood of three Italian birth cohorts

Abstract

While the link between atypical work and family formation has been widely explored in the literature, less attention has been paid to the impact of the type of contract on women's employment continuity around motherhood. By drawing on the last wave of "Indagine longitudinale sulle famiglie italiane" (2005), in this paper we analyze the life courses of Italian women from their first job to the age of 30-40 and their risk of moving from employment to unemployment or inactivity around the birth of the first child. In particular, we look at the interaction between type of contract and level of education in order to assess whether working in atypical jobs incentivises or disincentivises career continuity in the same way for high- and low-educated women. Moreover, by observing 3 successive cohorts of women, we consider whether this relationship varies in the different historical periods with different economic, institutional and cultural settings. Our results show that, in the cohorts observed, which have mostly built their careers and families in the 1980s and 1990s , that is, in a pre-flexibilisation regime, what matters is not so much the contract as the educational level: low educated women are those most at risk of withdrawing from the labour market to become "housewifes", regardless of whether they are temporary or permanent workers and/or self-employed. However, the type of contract seems to affect the timing of their decisions: women in temporary jobs exit at the same rate as those in permanent jobs, but when they exit, they tend to do so before having children, regardless of whether they are high or low educated. In addition, atypical workers are at greater risk of unemployment, which can also translate into discouragement and permanent withdrawal from the labour market and, once withdrawn, into the decision to have children.

Keywords

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1. Introduzione

Negli ultimi decenni i mercati del lavoro europei hanno subito un marcato processo di segmentazione, con il settore secondario caratterizzato dalla diffusione di diversi forme di lavoro atipico e precario, da crescente incertezza e instabilità e da alti rischi di disoccupazione. Come vari studi dimostrano, l’incertezza, sia in termini di reddito sia di tutele sociali e prospettive occupazionali, ha importanti conseguenze sui corsi di vita di uomini e donne, in particolare sui calendari famigliari, sempre più ritardati e sempre meno segnati dall’avere figli, in particolare nel Sud Europa (e.g: Heinz, 2001; Blossfeld et al., 2005; Blossfeld e Drobnic, 2011; Micheli, 2006; Barbieri et al., 2015; Bertolini, 2006). Meno studiato è stato invece il legame tra forma contrattuale e continuità lavorativa delle donne attorno alla maternità, e come tale legame vari nei diversi periodi storici in cui il lavoro atipico ha avuto non solo diffusione ma anche caratteristiche diverse.

Su questo punto intendiamo soffermarci in questo saggio: attraverso l’utilizzo di dati longitudinali provenienti dall’ultima ondata dell’ILFI (2005), osserviamo 3 coorti di donne, le nate tra il 1945-1954, 1955-64 e 1965-74, e, analizzando i loro corsi di vita dal primo lavoro ai 30-40 anni, applichiamo modelli di event history analysis per studiare i loro rischi di interruzione lavorativa attorno alla nascita del primo figlio. Confrontando donne di coorti diverse, che costruiscono le loro carriere e famiglie in decenni diversi, segnati da situazioni di mercato del lavoro, di welfare e di genere differenti, vedremo se l’impatto dell’atipico sulla conciliazione famiglia-lavoro sia cambiato nel tempo. Inoltre, poiché in Italia, più che altrove, l’istruzione fa differenza sia nei comportamenti relativi al mercato del lavoro e al fare famiglia (Mencarini e Solera, 2011), sia negli atteggiamenti (Scott, 1999; Fuochi et al., 2014), guarderemo all’interazione tra tipo di contratto e livello di istruzione al fine di valutare se l’atipicità (intesa come contratto diverso da quello “fordista” subordinato a tempo indeterminato) incentivi o disincentivi la continuità lavorativa allo stesso modo per donne a bassa o alta istruzione.

Il saggio è strutturato come segue. Nel prossimo paragrafo, dopo una breve ricostruzione del dibattito teorico intorno a cosa sia il “lavoro atipico” e a come condizioni le traiettorie femminili sul mercato del lavoro, illustreremo i mutamenti di regolazione nel mercato del lavoro e del welfare avvenuti in Italia negli ultimi trent’anni, per cercare di capire come sia cambiata nel corso degli anni la condizione di lavoratore atipico, in quelle dimensioni che la letteratura ha mostrato essere cruciali nel favorire o ostacolare carriere lavorative continue per le donne. Il paragrafo tre offre una breve descrizione dei dati, delle variabili e del metodo usati nelle analisi empiriche. I paragrafi successivi presentano i risultati. Dapprima, nel quarto, si offre una fotografia sul profilo dei lavori atipici nelle nostre tre coorti di donne e sul legame tra tipo di contratto al primo lavoro e tipo di carriera lavorativa intorno alla maternità (continua, interrotta prima del figlio, interrotta

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dopo il figlio). Poi, nel quinto, si svolge una analisi di event history sull’ “effetto”, ceteris paribus, del tipo di contratto e dell’istruzione sul rischio di interrompere il proprio rapporto di lavoro. Tali interruzioni possono essere di due tipi: passaggio dallo stato di occupazione a quello di inattività (“casalinga”) o a quello di disoccupata. In questo lavoro, concentrandoci sulle madri che hanno iniziato una carriera lavorativa, che hanno cioè avuto entro i 40 anni almeno una esperienza di lavoro e un figlio, modelleremo entrambe queste transizioni nel tratto del loro corso di vita che va dall’inizio del primo lavoro a due anni dalla nascita del primo figlio. Questo ci permetterà di vedere se e a quale dei due tipi di interruzione le donne con contratti atipici sono più soggette. Concluderemo con alcune riflessioni sulle possibili “spiegazioni” dei risultati trovati, e sulle implicazioni di policy.

La definizione di cosa rientri nel “lavoro atipico” è controversa. La tendenza più diffusa in sociologia è quello di considerarlo in negativo, come categoria residuale sia rispetto al lavoro tipico “fordista” dei decenni del dopoguerra (il lavoro subordinato standard caratterizzato da subordinazione gerarchica e organizzativa, tempo indeterminato, esclusività di rapporto e presenza di tutele sociali; Chiesi, 1990), sia rispetto al lavoro autonomo (caratterizzato da autonomia e retribuzione in base alla prestazione, ma non necessariamente esclusività di rapporto e con scarse tutele sociali; Bertolini, 2012). Si tratta dunque di una categoria eterogenea. In questa sede, poiché siamo interessate a quelle dimensioni del contratto che hanno implicazioni sui rischi di disoccupazione o di uscita dal mercato del lavoro quando si diventa madri, ci concentriamo su due assi: quello delle garanzie di continuità occupazionale (per rinnovo dei contrati a termine o per loro trasformazione in contratti a tempo indeterminato) e di continuità di reddito (ossia le tutele esistenti in caso di disoccupazione o di maternità). Seguendo Barbieri e Scherer (2005), il nostro focus quindi non verterà né sul contenuto professionale dell’impiego, né sull’orario, ma sul nesso lavoro-welfare.

Vari studi, infatti, mostrano che i movimenti delle donne dentro e fuori dal mercato del lavoro sono fortemente condizionati oltre che dall’istruzione, che è un veicolo di investimenti sia strumentali sia cognitivi/morali (e.g: Solera e Negri, 2008), dalle caratteristiche e dalla posizione del lavoro svolto. Particolarmente importanti sono il tipo di contratto e il settore: donne che hanno lavori ad alta professionalità e responsabilità, o lavorano nel settore pubblico o con contratti a tempo indeterminato, tendono ad avere carriere continue (e.g: Bernardi, 1999; Bratti et al., 2005; Istat, 2007; Casadio et al., 2008; Solera, 2009). Le spiegazioni date sono molteplici, e attingono ad un mix di fattori culturali, materiali e istituzionali, a livello micro e macro (Crompton, 2006;

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Steiber e Hass, 2012). Le donne che occupano posizioni professionali elevate sono più orientate al lavoro e alla carriera e ne traggono maggiori benefici, in termini di reddito ma anche di soddisfazione; d’altro canto, esse dispongono, insieme ai loro partner spesso “omogami”, di più risorse per poter comprare cura extrafamiliare e, data la “qualità” dei loro lavori e il forte investimento sottostante in capitale umano, tendono a non interrompere perché pagherebbero un costo-opportunità troppo alto (Shultz, 1995; Del Boca e Wetzels, 2007). Al di là della posizione professionale, le donne che lavorano nel pubblico sono meno a rischio di smettere di lavorare e diventare “casalinghe” o “disoccupate”, perché lavorare nel pubblico significa avere un lavoro sicuro, con orari “amichevoli”, con forti protezioni sociali, con scarse penalizzazione in caso della fruizione di congedi (Solera e Bettio, 2013).

Anche le maggiori interruzioni intorno alla maternità di donne atipiche possono essere l’esito sia di “preferenze” che di “vincoli”. Può essere che queste donne siano già in partenza più orientate verso la sfera famigliare, o che si ri-orientino verso essa in seguito alla loro prolungata instabilità lavorativa (Bettio, 2002; Reyneri, 2004; Saraceno, 2005). Può essere invece che le donne che sono impiegate con contratti a termine, siano, al di là del settore o della posizione professionale, più esposte a carriere discontinue per forti vincoli strutturali: per un minore accesso alle tutele sociali1 e per una minore tendenza dei datori di lavoro a concedere il rinnovo del contratto o la sua trasformazione in un tempo indeterminato a donne in età fertile. Come i teorici del corso di vita ben tematizzano, i corsi di vita individuali sono infatti profondamente embedded nei corsi storici, strutturati dalle configurazioni culturali, economiche e istituzionali del contesto in cui prendono forma (Mayer, 1991; Kohli, 2001). I vincoli strutturali e i frame culturali che guidano le scelte delle donne e delle coppie nel disegnare i propri corsi di vita variano perciò nel tempo e nello spazio: a seconda del tipo di regolazione del mercato del lavoro, del tipo di welfare e dei modelli di genere prevalenti, quelli praticati nelle famiglie e nei luoghi di lavori, quelli promossi più o meno esplicitamente dalle politiche e dai discorsi che le accompagnano (Pfau-Effinger, 2005; Plantenga e Remery, 2009; Gornick e Meyer, 2003; Naldini e Saraceno, 2011).

Un’analisi che tiene distinte queste dimensioni, definendo l’atipico sulla base della durata del contratto e delle tutele ad esso associate e non del contenuto/posizione professionale o dell’orario, e guardando a periodi storici differenti, risulta perciò proficua. Le donne del nostro campione appartengono infatti a coorti differenti che hanno sperimentato episodi di lavoro atipico in anni in cui la sua diffusione, ma anche il suo significato e le sue condizioni erano molto differenti. Come è

1 Berton et al. (2009) mostrano che non solo i contratti atipici hanno meno tutele in se, ma che solo un terzo riesce

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cambiata dunque le regolazione del mercato del lavoro e dei diritti sociali dagli anni '70 ad oggi?

La prime due coorti considerate si affacciano sul mercato del lavoro e costruiscono le loro carriere e famiglie tra gli anni '70 e gli anni '80, periodo in cui il lavoro atipico era giuridicamente considerato un’eccezione. Era un’eccezione sia rispetto al contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, che dal punto di vista “giuridico” veniva considerato la normalità e godeva di forti tutele in caso di malattia, maternità e disoccupazione, sia rispetto al contratto di lavoro autonomo, con deboli tutele ma alta diffusione, dato il tessuto produttivo italiano fatto di tante piccole-medie imprese (Chiesi, 1990; Reyneri, 2011). L’apposizione di un termine al contratto era giustificato soltanto nel caso di esigenze speciali. La Legge 230 del 1962 stabiliva che tutti i contratti a tempo determinato dovevano risultare da atti scritti, altrimenti si prevedevano come contratti a tempo indeterminato. L’unica forma di lavoro temporaneo prevista sistematicamente era, dal 1977, il lavoro stagionale, per le imprese turistiche e commerciali nei periodi di picco e in agricoltura, insieme ai contratti nella scuola. Pur se poco diffuso e fortemente regolato, da un punto di vista “empirico” il lavoro a tempo determinato coinvolgeva già in misura maggiore le donne degli uomini, soprattutto nel commercio e nella scuola, sotto l’assunto che la donna fosse una lavoratrice “aggiunta” quando non ci fossero figli e /o quando vi fosse necessità di integrare il reddito famigliare (Franchi, 1989). Il lavoro a tempo determinato delle donne era però per lo più concentrato come dipendenti nel settore pubblico, in particolare nella pubblica amministrazione e nell’istruzione. Si trattava cioè di settori fortemente stabili e tutelati. I contratti a tempo determinato pure ricevevano tutele, basti pensare a quelli nel settore scuola che, insieme al lavoro stagionale, erano gli unici due contratti a termine che prevedevano fin dall’epoca l’erogazione dell’indennità di disoccupazione sulla base del versamento di una certa entità di contributi. In specifici settori, per esempio la scuola, questi contratti venivano rinnovati annualmente. Negli anni '70 e negli anni '80 anche le altre forme di contratto atipico previste, quali quello di Formazione Lavoro (oggi contratto di inserimento, Legge 276/03) e di quello di Apprendistato (introdotti già nel ‘55 dalla Legge 25), che sancivano dopo il periodo di prova o la conversione in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato o l’estinzione dello stesso, prevedevano tutele per la maternità assimilate a quelle del tempo indeterminato.

A partire da metà anni '90, quando la nostra terza coorte si affaccia sul mercato del lavoro, lo scenario cambia: i contratti di lavoro atipico si moltiplicano (Legge Treu 1997, Legge 30 2003) e vengono introdotte forme contrattuali quali le collaborazioni coordinate e continuative (co.co.co.) e il lavoro interinale (L.I.) che non prevedono contrattualmente la trasformazione in un rapporto a tempo indeterminato, ma solo la possibilità di stipulare successivamente altri contratti simili, con

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lo stesso datore o con altre imprese. Infine, le forme introdotte dalla legge 30 del 2003 non solo prevedono il rinnovo, e non la trasformazione contrattuale, ma presuppongono periodi di lavoro sempre più brevi (viene estesa la possibilità di somministrazione di lavoro ecc…) o addirittura l’intermittenza del rapporto di lavoro (lavoro intermittente o a chiamata) (Bertolini, 2008).

Queste forme di lavoro introdotte alla fine degli anni '90 contengono, inoltre, una minore tutela in caso di malattia, maternità e disoccupazione. In particolare, per le forme coordinate, le co.co.co e co.co.pro, dal 2000 si ha diritto in caso di maternità ad una sospensione fino a 5 mesi con una indennità che è pari all’80% del reddito, ma non alla maternità anticipata e al congedo genitoriale facoltativo (introdotto solo nel 2007 e solo di 3 mesi). Per le forme subordinate a tempo determinato si attuano le stesse tutele del lavoratore dipendente a tempo indeterminato. Tuttavia, quando si applicano contratti molto brevi, come nel caso del lavoro interinale, la cui durata media è stata stimata di un mese (Contini, 2002), è difficile che il lavoratore possa usufruire delle protezioni sociali. Il lavoratore/trice che lavora con queste forme contrattuali, è, inoltre, soggetto a periodi di inattività in cui le tutele vengono sospese, inclusa la maternità. Una donna che entra in maternità nel passaggio da un contratto ad un altro non gode quindi di alcuna forma di tutela. Inoltre, molti dei servizi aziendali, tipo i nidi, valgono solo per i lavoratori dipendenti. Ciò crea disuguaglianze nelle chance di conciliazione tra donne della stessa generazione insider o outsider, ma anche tra donne di generazioni diverse (Bertolini, 2006; Saraceno, 2005).

Ricordiamo, inoltre, che in Italia, come negli altri paesi del Sud Europa e in alcuni dell’Europa Continentale (Blossfeld et al, 2012), la flessibilità è stata introdotta “a margine” in modo “parziale e selettivo” perché ha riguardato pressoché esclusivamente i nuovi accessi al mercato del lavoro, fatti non solo di contratti a termine ma di scarsissime tutele, lasciando invece intatte le protezioni normative e di welfare assegnate ai rapporti di impiego a tempo indeterminato. L’esito è stato una forte segmentazione nella distribuzione del lavoro temporaneo lungo le linee del genere (più le donne) e della coorte (più i giovani), con una larga quota di giovani, in particolare donne, esclusi anche dalle politiche per la conciliazione. Pur assumendo nuove forme, la struttura insider-outsider del mercato del lavoro italiano si è così rafforzata (Esping-Andersen e Regini, 2000; Barbieri e Scherer, 2009).

Riassumendo, possiamo quindi dire che prima degli anni '90 il contratto atipico era un fenomeno marginale, ristretto ad alcuni settori e circostanze, quindi anche a specifiche figure femminili e non necessariamente legato all’età. Le donne con contratti atipici erano concentrate in settori più protetti, pubblico o lavoro stagionale, e le prospettive di trasformazione in tempo indeterminato erano maggiori. Dopo metà degli anni '90 lavorare con contratti a termine diventa un fenomeno diffuso, che, pur riguardando tutte le età, diviene fortemente concentrato sulle

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giovani, che lavorano in molti settori anche privati con contratti meno tutelati, talvolta più brevi e con meno prospettive di assunzione a tempo indeterminato.

Tutte queste trasformazioni nella regolazione del mercato del lavoro non sono andate di pari passo con trasformazioni nelle politiche di welfare e nei modelli di genere, che rimangono relativamente tradizionali. Dopo la spinta degli anni '70, l’offerta di servizi per l’infanzia non cresce: nel 2000 solo il 7,4 dei bambini italiani di età compresa tra 0 e 2 anni aveva un posto in un asilo nido, pur con differenze territoriali rilevanti (Del Boca e Saraceno, 2005). Inoltre, in Italia gli orari delle scuole materne o elementari continuano ad essere poco compatibili con genitori lavoratori, e, a differenza di quasi tutti i paesi europei, mancano ancora trasferimenti monetari universalistici al costo dei figli, che potrebbero essere anche usati per comprare cura (Saraceno, 2009). Parallelamente, sul piano dei comportamenti, dai dati sulla distribuzione dentro le coppie del lavoro domestico e di cura, l’Italia emerge come uno dei paesi più asimmetrici, in cui gli uomini dedicano meno tempo al lavoro famigliare, anche a parità di tempo speso nel lavoro per il mercato2, seppure con importanti segnali di

cambiamento soprattutto tra le coppie e i padri più istruiti (Tanturri, 2006; Canal, 2012; Todesco, 2014). Sul piano degli atteggiamenti, varie ricerche mostrano che l’Italia è anche uno dei paesi con il minor cambiamento nel tempo nell’approvazione di un coinvolgimento delle madri nel lavoro remunerato e la maggiore polarizzazione tra uomini e donne e tra uomini e donne ad alta e bassa istruzione (Künzler, 2002; Treas e Widmer, 2000; Scott, 1999). D’altra parte uno studio recente mette in evidenza come alla nascita del primo figlio anche nelle coppie ad alta istruzione il lavoro di cura continui ad essere ritenuto appannaggio prevalentemente femminile, e come questo venga narrato col repertorio di una “naturale” indispensabilità della madre, repertorio a cui anche le coppie ad alta istruzione, seppure più paritarie nei comportamenti, comunque attingono (Naldini, 2015).

Come questi scenari economici, istituzionali e culturali hanno influenzato i modelli di partecipazione delle donne al mercato del lavoro intorno alla 2 Dati dell’HETUS (the Harmonised European Time Use Survey) mostrano che, rispetto agli altri paesi europei, le

donne italiane hanno il record per il maggior tempo speso in media nei compiti domestici (ben 312 minuti al giorno) e il minor tempo speso per il mercato (poco più di due ore in media). I dati comparativi mostrano, soprattutto, come l’Italia sia uno dei paesi con la maggior differenza tra uomini e donne nel tempo medio giornaliero dedicato al lavoro familiare: la differenza è di quasi tre ore per le coppie senza figli (contro ad esempio meno di due in Francia o meno di una in Germania) e quasi sei ore per le coppie con almeno un figlio sotto i 6 anni (contro più di tre in Francia e quasi quattro in Germania) (Francavilla et al., 2010).

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maternità? Nelle conclusioni, dopo una illustrazione empirica di come questi modelli varino tra coorti e a seconda del tipo di contratto e dell’istruzione, proveremo a legare i dati osservati a questi scenari, aprendo possibili piste “esplicative” e riflettendo sulle loro implicazioni di policy.

3. Dati e metodo

Le analisi proposte in questo saggio si basano sull’Indagine Longitudinale sulle Famiglie Italiane (ILFI), uno studio panel iniziato nel 1997 su un campione di 9770 individui appartenenti a 4714 famiglie, articolato in cinque rilevazioni a cadenza biennale, che combina un disegno retrospettivo con uno prospettico, raccogliendo informazioni in una varietà di ambiti (movimenti sul territorio, istruzione e formazione professionale, mercato del lavoro, famiglia). In questo saggio le analisi si indirizzano sui corsi di vita tra il primo lavoro e i 30-40 anni di 3 coorti di donne, le nate tra il 1945-1954, 1955-64 e 1965-74. Nel complesso, considerando appunto solo donne che hanno iniziato a lavorare e per cui si hanno informazioni complete sul contratto, il campione è costituito di 2193 donne, che scende a 1280 se ci si concentra solo sulle donne che hanno avuto almeno un figlio. Di queste, 686 sono a bassa istruzione, ossia con al massimo un diploma di scuola secondaria inferiore, 594 ad alta istruzione, aventi diploma o laurea3.

Come detto, per queste donne intendiamo esplorare il legame tra posizioni atipiche nel mercato del lavoro e continuità lavorativa delle donne intorno alla maternità e, seguendo Barbieri e Scherer (2005), distinguiamo 4 categorie di contratto che seguono il nesso welfare-lavoro: i lavoratori dipendenti a tempo determinato (inclusi i contratti di formazione lavoro, i lavori interinali, i lavori a chiamata, i co.co.co4), i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato, quelli

senza contratto (“in nero”) e i lavoratori autonomi (con o sena dipendenti e inclusi i coadiuvanti familiari)5.

3 Diplomate e laureate sono messe insieme come donne ad “alta istruzione” poiché nelle coorti vecchie il peso delle

laureate è basso. Esso passa infatti dal 5% nella coorte 1945-54 al 20% nella coorte 1965-74. Inoltre una distinzione a due livelli di istruzione (basso, alto) piuttosto che a tre (separando diploma e laurea) consente di costruire una tipologia di interazione tra contratto e istruzione “leggibile”, a 8 categorie, invece che a 12.

4 Queste diverse forme di contratti a termine, presentando profili di tutele e diffusione diversi, è probabile che siano

associate a diversi rischi di interruzioni di carriera lungo il corso di vita. Tuttavia, per la loro scarsa numerosità nel nostro campione, soprattutto nelle coorti più vecchie, non è stato possibile tenerle distinte.

5 Pure gli autonomi potrebbero essere distinti in tipici e atipici, quest’ ultimi includenti i lavoratori autonomi senza

dipendenti, le collaborazioni professionali, i lavori pseudo-autonomi (come le “false” partite IVA). Tuttavia, queste forme si sono diffuse particolarmente negli ultimi decenni, con le coorti più giovani, a partire dalla riforma Treu, mentre erano numericamente irrilevanti nelle coorti più vecchie che invece noi prendiamo in considerazione. Inoltre in termini di tutele di welfare gli autonomi tipici e atipici si differenziano poco: le tutele in Italia continuano a valere soprattutto per i lavoratori dipendenti, anche quelle connesse alla genitorialità.

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Per stimare l’ “effetto” del contratto e dell’istruzione sul rischio di discontinuità lavorativa delle donne intorno alla maternità usiamo modelli discreti di event history analysis. Una donna non più occupata può ritirarsi dal mercato del lavoro e diventare inattiva, ossia “casalinga”, oppure divenire “disoccupata”, cioè non avere un’occupazione, ma continuare a cercarla. In questo lavoro, concentrandoci sulle donne che hanno iniziato una carriera lavorativa e che diventano madri, modelliamo entrambe queste transizioni al fine di vedere se e a quale di queste due le donne con contratti atipici sono più soggette. La variabile dipendente è quindi la probabilità condizionata di smettere di lavorare per il mercato e diventare “disoccupata”, oppure inattiva come “casalinga”, in ogni particolare mese dall’inizio del primo lavoro a due anni dopo la nascita del primo figlio (dato che la donna ha lavorato fino al mese precedente). Al fine di verificare l’impatto dei cambiamenti di regolazione del mercato del lavoro post riforma Treu, i modelli vengono applicati prima per tutte le coorti, incluse quelle che costruiscono le loro carriere e famiglie in un regime pre-flessibilizzazione, e poi solo per l’ultima coorte, quella delle donne nate tra il 1965-74, donne che alla fine degli anni '90, quando il processo di flessibilizzazione inizia, hanno tra i venti e i trent’anni.

L’ “effetto” del contratto e dell’istruzione vengono stimati al netto di altre variabili che la letteratura indica come importanti determinanti della partecipazione femminile al mercato del lavoro: l’area geografica di appartenenza; la storia lavorativa precedente, misurata come tempo speso finora come occupata e episodi di disoccupazione sperimentati in precedenza6, il settore

(pubblico o privato), e il tempo (pieno o parziale). I modelli stimano anche l’ “effetto” dell’età del figlio, al fine di vedere in quale momento le donne sono più a rischio di interrompere, se lontano dall’evento maternità, non quindi per ragioni legate all’assunzione di responsabilità famigliari (“nessun figlio”), se “nell’anno precedente alla gravidanza” quando probabilmente il progetto di fare figli ha già preso forma, se “durante la gravidanza”, oppure dopo che il figlio è nato (“nei due anni dopo la nascita”).

Altre variabili sulla condizione lavorativa e familiare influenzano le scelte delle donne se stare o lasciare il lavoro: ad esempio la posizione occupazionale raggiunta dalla donna (la classe sociale o il prestigio dell’occupazione) oppure se la donna è in coppia, sposata o convivente, oppure sola, e se è in coppia con un partner ad alta o bassa istruzione (Blossfeld e Drobnic, 2001).

6Vari studi infatti mostrano che aver accumulato esperienza lavorativa senza interruzioni nel periodo precedente la nascita del figlio sia un buon predittore della partecipazione femminile al mercato del lavoro dopo (Paggiaro, 2005; Bratti et al., 2005). Qui più nello specifico, nel caso della transizione da occupata a casalinga la variabile “precedenti episodi di disoccupazione” segnala se la donna ha avuto fino a quel momento carriere continue o frammentate; la seconda condizione potrebbe renderla più debole sul mercato del lavoro e rinforzarla nella scelta di ritirarsi per dedicarsi a tempo pieno alla famiglia. Nel caso invece della transizione da occupata a disoccupata questa variabile indica se si sta parlando della prima o della seconda o più transizione a disoccupata che la donna ha sperimentato e ci si aspetta che chi ha già sperimentato episodi di disoccupazione più sia vulnerabile ad averne altri.

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Abbiamo provato ad includere queste variabili nei nostri modelli, in particolare quelle sul partner. Poiché i risultati del tipo di contratto e del livello di istruzione, ossia delle nostre covariate cruciali, non cambiano, abbiamo successivamente deciso di escluderle per motivi di parsimonia, soprattutto in vista del modello con la variabile interazione tra contratto e età del figlio (vedi tabella 5).

4. Lavoro atipico e tipi di carriera intorno alla maternità: analisi descrittive

Seguendo la nostra classificazione a quattro di tipi di contratto come specificata sopra, ossia basata su una definizione di tipico/atipico lungo due assi (quello delle garanzie di continuità occupazionale e delle tutele sociali in caso di maternità o disoccupazione), la tabella 1 mostra come si sia modificata nel tempo l’incidenza dei diversi tipi di contratto7 e come sia il loro profilo

in termini di istruzione, di classe occupazionale, di settore. L’incidenza dei contratti a tempo determinato è aumentata nel tempo, passando dal 15% nella prima coorte, al 28% nell’ultima. Come la ricostruzione della regolazione del lavoro temporaneo nei decenni pre-riforme suggeriva, nelle nostre coorti i lavori a tempo determinato hanno, mediamente, un profilo alto: il 76% di chi li occupa ha un diploma o una laurea; il 43% sono in una classe occupazionale alta e nel settore pubblico. Inoltre, proprio in virtù del loro concentrarsi nel settore pubblico, il 19% dei contratti a tempo determinato sono a tempo parziale, contro solo il 5% di quelli a tempo indeterminato. Se confrontiamo i dati tra coorti8, questo profilo però cambia nel tempo: nella coorte più vecchia il

60% dei contratti a tempo determinato era nella classe di servizio e nel pubblico; nella coorte più giovane solo il 30%.

Come la tabella 2 mostra, iniziare la propria carriera con contratti a termine pare poi portare a una rilevante differenziazione nei percorsi successivi nel mercato del lavoro e nel fare famiglia. Le donne il cui primo lavoro è stato a tempo determinato paiono più esposte al rischio di divenire disoccupate rispetto alle lavoratrici tipiche e ugualmente esposte rispetto alle lavoratrici in nero, sia che siano ad alta o a bassa istruzione. L’istruzione conta maggiormente nelle interruzioni per diventare casalinghe, molto meno numerose tra le donne più istruite, indipendentemente dalla forma contrattuale. Il tipo di contratto sembra piuttosto ostacolare l’altra faccia della conciliazione, non la continuità lavorativa ma l’avere figli: tra le donne che iniziano a lavorare con contratti a tempo determinato il 47% ha figli entro i 30 anni, contro il 52% delle autonome, e circa il 60%

7 In queste analisi descrittive il tipo di contratto viene misurato al primo lavoro, ossia all’inizio della nostra finestra

di osservazione, quando tutte le donne sono osservabili. Misurarlo infatti in un altro punto del corso di vita, ad esempio un anno prima del primo figlio, comporterebbe una selezione, escluderebbe cioè quelle donne che sono disoccupate o si sono ritirate già prima. In un mercato del lavoro piuttosto “immobile” e “rigido”, soprattutto nei decenni delle nostre coorti, quando i tempi di ricerca di un lavoro sono molto lunghi e i cambiamenti piuttosto rari, la posizione al primo lavoro è una buon indicatore della posizione più avanti nel corso di vita.

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delle lavoratrici a tempo indeterminato o in nero. Tale “ritardo” nella fecondità non pare solo un “effetto composizione” per istruzione: anche tra le donne ad alta istruzione, coloro che iniziano con contratti a termine meno spesso hanno figli entro i 30 anni rispetto alle lavoratrici stabili.

Tabella 1- Il profilo del lavoro atipico nelle nostri coorti: per istruzione, classe, settore e orario (situazione al primo lavoro)

A Tempo

determinato indeterminatoA Tempo contrattoSenza Autonome N Coorte di nascita (% entro ogni coorte)

1945-54 15,1 56,7 18,7 9,5 688

1955-64 19,8 49,7 17,4 12,9 727

1965-74 28,4 41,8 17,7 12,0 778

Istruzione

Quota di donne con diploma o laurea

(% entro ogni tipo di contratto) 76,4 52,1 35,8 58,3 1269

Classe

Quota di donne nella classe di servizio (% entro ogni tipo di contratto, solo per lavoratrici dipendenti)

42,8 22,4 11,8 -- 519

Settore

Quota di donne nel settore pubblico (% entro ogni tipo di contratto, solo per lavoratrici dipendenti)

42,9 25,4 13,9 -- 555

Orario

Quota di donne con un lavoro part-time

(% entro ogni tipo di contratto) 19,5 5,3 21,3 16,1 286

N 467 109

7 388 241 2193

Fonte: Elaborazioni sui dati ILFI, 2005.

La figura 1 si concentra solo sulle donne che hanno avuto figli e mostra quanto accade intorno alla nascita del primo figlio: la quota di donne che lavorano sia un anno prima che due anni dopo la nascita (“continue”), quelle che un anno prima lavoravano ma due anni dopo no (“interrotto dopo”), e quelle che già non stavano lavorando un anno prima della nascita (“interrotto prima”). Nelle coorti da noi analizzate la continuità intorno alla nascita del primo figlio non pare dipendere dal tipo di contratto: la quota di coloro che non lavorano è superiore solo se si tratta di lavoratrici in nero, pressoché identica invece per le lavoratrici autonome e quelle dipendenti sia a tempo indeterminato che determinato, quest’ultime anzi leggermente più continue. La differenza tra lavoratrici tipiche e atipiche emerge piuttosto nel timing delle interruzioni: donne con contratti atipici sembrano interrompere meno, ma tra coloro che interrompono, la quota che già non lavora un anno prima della nascita del figlio è superiore, pari al 63%, non distante dalla quota delle lavoratrici autonome e dalle lavoratrici in nero, contro il 44% invece delle tipiche, le lavoratrici a tempo indeterminato.

(12)

Se si separa per istruzione (figura b e c), si nota che il 56% delle donne a bassa istruzione è continua, contro l’80% ad alta istruzione, sia che abbiano iniziato la loro carriera con contratti a tempo determinato o indeterminato. Ossia l’ “effetto contratto” pare più un “effetto composizione” per istruzione. Ciò non avviene invece per il timing delle interruzioni: tra coloro che non lavorano, le lavoratrici a tempo determinato più spesso già hanno smesso prima di avere figli, sia che siano ad alta che a bassa istruzione; tra le indeterminate invece l’istruzione pare fare differenza, quelle poco istruite tendono a interrompere prima di quelle più istruite.

Tabella 2- Il legame tra contratto al primo lavoro e percorsi nel mercato del lavoro e nel

fare famiglia fino ai 30 anni (% entro ogni tipo di contratto)

A tempo

determinato indeterminatoA Tempo contrattoSenza Autonome N TUTTE

N. episodi di disoccupazione

0 70,5 86,1 72,1 91,6 1771

1 20,2 10,6 21,3 7,6 314

2+ 9,3 3,3 6,6 0,8 108

N. episodi di inattività (“casalinga”)

0 86,9 77,3 62,4 80,4 1686 1 13,1 22,7 37,6 19,6 507 N. di figli 0 53,1 40,2 36,8 48,1 913 1 26,8 34,3 28,9 22,5 688 2+ 20,1 25,5 34,2 29,4 592

DONNEABASSAISTRUZIONE

N. episodi di disoccupazione

0 70,5 81,6 73,5 94,0 770

1 21,4 13,5 18,2 6,0 122

2+ 8,1 4,9 8,3 0 31

N. episodi di inattività (“casalinga”)

0 69,6 64,3 50,8 67,0 578 1 30,4 35,7 49,2 33,0 345 N. di figli 0 34,5 29,1 23,4 27,0 237 1 28,5 36,4 31,7 27,1 323 2+ 37,0 34,5 44,9 45,9 363

DONNEADALTA ISTRUZIONE

N. episodi di disoccupazione

0 70,5 90,2 69,6 89,6 1000

1 19,8 8,1 26,9 8,9 191

2+ 9,7 1,8 3,5 1,5 78

N. episodi di inattività (“casalinga”)

0 92,5 89,5 83,4 90,4 1142

(13)

N. di figli

0 57,4 49,8 60,2 58,7 675

1 27,2 32,7 24,3 21,3 374

2+ 15,4 17,5 15,5 20,0 220

Note: “ Bassa istruzione” = licenza elementare o media; “Alta istruzione” = diploma o laurea Fonte: Elaborazioni sui dati ILFI, 2005.

Figura 1- Tipi di carriere intorno alla nascita del primo figlio: incidenza per

contratto al primo lavoro

A) SENZADISTINGUEREPERISTRUZIONE:

% SUTUTTE, CONTINUEEDISCONTINUE % SOLOTRACOLOROCHEHANNOINTERROTTO

B) DISTINGUENDOPERISTRUZIONE:

% SUTUTTE, CONTINUE

% SUTUTTE, INTERROTTOPRIMA INTERROTTO DOPO

(14)

C) DISTINGUENDOPERISTRUZIONE:

% SOLOTRACOLOROCHEHANNOINTERROTTO

INTERROTTOPRIMA INTERROTTO DOPO

Note: Carriere continue e discontinue sono definite per le donne che hanno iniziato una carriera lavorativa

(registrato almeno un episodio di lavoro) e hanno avuto almeno un figlio, e si basano sulla situazione occupazionale un anno prima e due anni dopo la nascita del primo figlio. “Continue”= lavoravano sia un anno prima che due anni due anni dopo la nascita; “Interrotto, prima” = non lavoravano un anno prima della nascita ; “Interrotto, dopo”: lavoravano un anno prima, non lavoravano due anni dopo la nascita.

“Bassa istruzione” = licenza elementare o media; “Alta istruzione” = diploma o laurea.

Fonte: Elaborazioni sui dati ILFI, 2005.

5. Smettere di lavorare: l’ “effetto” del lavoro atipico e dell’istruzione secondo i modelli di event-history analysis

Pur offrendo un quadro di insieme sulla diffusione dei comportamenti e suggerendo possibili associazioni, le analisi descrittive, per loro natura, sono parziali. Spostandoci in un ambiente multivariato e dinamico, e osservando le donne dal primo lavoro a due anni dopo la nascita del primo figlio9, in questo paragrafo applichiamo modelli di event-history analysis e, come anticipato,

9 A differenza che nelle descrittive, dove abbiamo scelto come chiusura della finestra di osservazione i 30 anni, al

fine di calcolare le incidenze dei diversi tipi di carriere su tratti del corso di vita della medesima lunghezza per tutte le coorti, qui chiudiamo la finestra di osservazione ai 40 anni. Nei modelli di regressione la minor durata di osservazione per l’ultima coorte (che nel 2005, anno ultima ondata ILFI, hanno tra i 30 e 40 anni) non è un problema, poiché si controlla per durata e fasi del corso di vita familiare.

(15)

studiamo l’ “effetto” del contratto e dell’istruzione sul rischio di abbandonare il mercato del lavoro, passando da occupata a casalinga (tabella 3) o sul rischio di diventare disoccupata (tabella 4), al netto dell’area geografica, della precedente storia lavorativa, del settore e dell’orario. In entrambe le tabelle due sono i tipi di modelli stimati: il primo stima l’ “effetto” del contratto e dell’istruzione al netto l’uno dell’altro (prime due colonne); il secondo stima un “effetto” interazione contratto per istruzione (ultime due colonne), al fine di vedere se, ceteris paribus, le donne a tempo determinato ad alta e bassa istruzione si comportano analogamente alle donne a tempo indeterminato con uguale titolo di studio.

Tabella 3- Il rischio per le donne di passare da occupata a inattiva (“casalinga”) dal primo lavoro a due anni dopo la nascita del primo figlio (modelli discreti di event-history analysis con specificazione logit; coefficienti Beta) TUTTELE COORTI MODELLO 1 ULTIMA COORTE MODELLO 1 TUTTELE COORTI MODELLO 2 ULTIMA COORTE MODELLO 2 Coorte di nascita: 1945-54 (rif.)

1955-64 -0,07 -0,01

1965-74 0,01 0,05

Area geografica: Nord (rif.)

- Centro 0,09 0,11 0,09 0,08

- Sud 0,19 0,55* 0,20* 0,62**

Età figlio: nessuno (rif.)

- nell’anno precedente alla gravidanza 2,01*** 1,34*** 1,97*** 1,27***

- durante la gravidanza 2,85*** 2,47*** 2,74*** 2,33***

- nei due anni dopo la nascita 1,75*** 1,43*** 1,75*** 1,51***

Durata in occupata, dal primo lavoro -0.001 0,001 -0.001 0,001

Precedenti episodi d disoccupazione: nessuno (rif)

- almeno uno -0,42** -0,83** -0,41** -0,90**

Istruzione: Licenza elementare o media (rif.)

- Diploma -0,62** -0,68***

- Laurea -2,15*** -2,22***

Contratto: dip. a tempo indeterminato (rif.)

- dipendente a tempo determinato 0,12 -0,27

- senza contratto 0.89*** 0,64**

- lavoratrici autonome -0,18 -0,32

Settore: dipendente privato (rif.)

- Lavoratrice dipendente nel pubblico -0,68*** -0,36 Orario: tempo pieno (rif.)

(16)

Contratto per istruzione: determ., bassa (rif.)

- tempo determinato, alta -0,95*** 0,06

- tempo indeterminato, bassa -0,04 0,95

- tempo indeterminato, alta -1,02*** -0,15*

- senza contratto, bassa 0,84*** 1,61***

- senza contratto, alta 0,16 0,23

- autonoma, bassa -0,10 0,54 - autonoma, alta -0,86*** 0,13 Costante -6,82*** -6,60*** -6,96*** -7,61 LOG-LIKELIHOOD -2779,2 -628,4 -2880,8 -667,7 NUMERO DI MESI-PERSONA 153193 34384 153193 34384 NUMERO DI DONNE 1280 385 1280 385 NUMERO DI TRANSIZIONI 450 100 450 100

Note: Stime usando l’opzione « cluster »; * p< .10; ** p< .05 ***p< .01

“Bassa istruzione” = licenza elementare o media; “Alta istruzione” = diploma o laurea;

Fonte: Elaborazioni sui dati ILFI, 2005.

Come già le descrittive suggerivano, e come anche Bratti et al. (2005) hanno trovato usando i dati ILFI della prima ondata, la tabella 3 mostra che il contratto non pare fare differenza nello spingere le donne a ritirarsi dal mercato del lavoro intorno alla nascita del primo figlio: le autonome, le lavoratrici dipendenti a tempo determinato e quelle a tempo indeterminato hanno il medesimo rischio. Come il modello due conferma, la variabile chiave sembra essere l’istruzione piuttosto che il contratto: le donne a bassa istruzione interrompono di più, indipendentemente se sono lavoratrici temporanee o permanenti o autonome. Solo se in nero le donne mostrano un rischio superiore di uscire dal mercato del lavoro. Un misto di agency e structure può essere all’opera. Data l’assenza totale di tutele, chi lavora in nero è certamente debole nel mercato del lavoro, ma anche forse auto selezionato negli orientamenti: a lavorare in nero e continuare a farlo potrebbero trovarsi soprattutto donne che si pensano come “lavoratrici aggiunte” al marito, fintanto che non arrivano i figli, a cui preferiscono poi dedicarsi a tempo pieno una volta nati.

Che l’istruzione pesi più del contratto emerge anche per l’ultima coorte (seconda colonna). Qui tuttavia, se si fa interagire contratto con istruzione (quarta colonna), si intravede un indebolimento della capacità protettiva dell’istruzione: probabilmente per effetto delle politiche di flessibilizzazione post-1997, le donne ad alta istruzione che lavorano a tempo determinato hanno lo stesso rischio di ritirarsi di quelle a bassa istruzione, sia a tempo determinato che indeterminato, mentre hanno un rischio superiore rispetto alle donne ad alta istruzione che lavorano a tempo indeterminato (inferiore sempre invece alle donne a bassa istruzione senza contratto, che continuano ad essere le più discontinue).

(17)

La storia cambia invece in tabella 4, quando si guarda al rischio di passare da occupate a disoccupate. Qui il contratto fa differenza: a parità di istruzione, le donne che lavorano a tempo determinato più frequentemente diventano disoccupate, al pari delle donne che lavorano in nero, e se lo diventano è per ragioni non legate all’assunzione di responsabilità famigliari (coefficienti età figlio non significativi). Se si separa per istruzione, si vede che tale maggiore rischio lo sperimentano anche le donne più istruite: le donne con contratti a termine ad alta istruzione diventano disoccupate con la stessa frequenza delle donne a bassa istruzione e delle donne senza contratto. Il rischio per le lavoratrici atipiche è maggiore sia rispetto alle lavoratrici autonome che a quelle dipendenti tipiche, soprattutto, quest’ultime, se ad alta istruzione.

Tabella 4- Il rischio per le donne di passare da occupata a disoccupata dal primo lavoro a due anni dopo la nascita del primo figlio (modelli discreti di event-history analysis con specificazione logit; coefficienti Beta)

TUTTELE COORTI MODELLO 1 ULTIMA COORTE MODELLO 1 TUTTELE COORTI MODELLO 2 ULTIMA COORTE MODELLO 2 Coorte di nascita: 1945-54 (rif.)

1955-64 0,02 0,09

1965-74 0,49*** 0,53***

Area geografica: Nord (rif.)

- Centro -0,26* -0,03 -0,32** -0,16

- Sud -0,25* -0,28 -0,22* -0,23

Età figlio: nessuno (rif.)

- nell’anno precedente alla gravidanza 0,21* 0,09 0,20* 0,07

- durante la gravidanza -0,10 -0,13 -0,13 -0,06

- nei due anni dopo la nascita -0,32* -0,50 -0,35* -0,49

Durata in occupata, dal primo lavoro -0,01*** -0,01*** -0,01*** -0,01*** Precedenti episodi d disoccupazione: nessuno (rif)

- almeno uno 1,40*** 1,21*** 1,39*** 1,17***

Istruzione: Licenza elementare o media (rif.)

- Diploma -0,06 -0,14

- Laurea -0,38* -0,71**

Contratto: dip. a tempo indeterminato (rif.)

(18)

- senza contratto 1,07*** 1,24***

- lavoratrici autonome -0,32 -0,27

Settore: dipendente privato (rif.)

- Lavoratrice dipendente nel pubblico -0,31** -0,03 Orario: tempo pieno (rif.)

- tempo parziale -0,01 0,19

Contratto per istruzione: determ., bassa (rif.)

- tempo determinato, alta 0,09 -0,06

- tempo indeterminato, bassa -0,98*** -0,79**

- tempo indeterminato, alta -1,82*** -1,82***

- senza contratto, bassa -0,31* -0,01

- senza contratto, alta 0,02 0,21

- autonoma, bassa -1,52*** -2,42*** - autonoma, alta -1,13*** -0,76* Costante -6,07*** -5,59*** -4,91*** -4,44*** LOG-LIKELIHOOD -2420,1 -870,2 -2481,2 -879,9 NUMERO DI MESI-PERSONA 153470 35528 153470 35528 NUMERO DI DONNE 1280 385 1280 385 NUMERO DI TRANSIZIONI 375 144 375 144

Note: Stime usando l’opzione « cluster »; * p< .10; ** p< .05 ***p< .01 “Bassa istruzione” = licenza elementare o media; “Alta istruzione” = diploma o laurea; Fonte: Elaborazioni sui dati ILFI, 2005.

Tabella 5- Il rischio per le donne di passare da occupata a inattiva o a disoccupata dal primo lavoro a due anni dopo la nascita del primo figlio: interazione del contratto con età dei figli (modelli discreti di event-history analysis con specificazione logit; coefficienti Beta)

A CASALINGA TUTTELE COORTI A CASALINGA ULTIMACOORTE A DISOCCUPATA TUTTELE COORTI A DISOCCUPATA ULTIMACOORTE Coorte di nascita: 1945-54 (rif.)

- 1955-64 -0,03 0,08

- 1965-74 0,10 0,54***

Area geografica: Nord (rif.)

- Centro 0,09 0,18 -0,28* -0,04

- Sud 0,15 0,52* -0,24* -0,23

Durata in occupata, dal primo lavoro -0,001* 0,000 -0,01*** -0,01***

Precedenti episodi d disoccupazione: nessuno (rif)

- almeno uno -0,45** -0,88** 1,39*** 1,23***

Istruzione: Licenza elementare o media (rif.)

- Diploma -0,75*** -0,63** -0,11 -0,08

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Contratto per età figlio: determinato,nessun figlio (rif.)

- determ., nell’anno prima della gravidanza 1,69*** 0,55 -0,25 -0,50

- determ., gravidanza fino a 2 anni dopo 1,68*** 1,53** -0,73*** -1,11**

- indeterminato, nessun figlio -0,47* -0,16 -1,66*** -1,54***

- indeterm., nell’anno prima gravidanza 1,58*** 1,16* -1,42*** -1,43*** - indeterm., gravidanza fino a 2 anni dopo 1,91*** 2.01*** -1,65*** -1,31**

- senza contratto, nessun figlio 0,51* 0,68 -0,69*** -0,37

- senza contratto, nell’ anno prima 2,42*** 2,15*** 0,001 0,39

- senza contratto, gravid. fino a 2 anni dopo 2,78*** 2,37*** -0,76* -0,28

- autonoma, nessun figlio -0,30 -0,10 -1,83*** -1,82***

- autonoma, nell’anno prima gravidanza 1,91*** 1,43** -1,17*** -1,31** - autonoma, gravid fino a 2 anni dopo 1,47*** 1,59** -1,75*** -1,71**

Costante -6,52*** -6,63*** -4,52*** -4,12***

LOG-LIKELIHOOD -2890,1 -668,7 -2484,2 -880,7

NUMERO DI MESI-PERSONA 153470 35528 153470 35528

NUMERO DI DONNE 1280 385 1280 385

NUMERO DI TRANSIZIONI 375 144 375 144

Note: Stime usando l’opzione « cluster »; * p< .10; ** p< .05 ***p< .01 Fonte: Elaborazioni sui dati ILFI, 2005.

Inserendo nel modello una variabile che incrocia contratto e età del figlio, tabella 5 mostra l’esistenza di differenze anche nel timing delle interruzioni. In tutte le coorti, compresa l’ultima, le donne con contratti tipici, se interrompono per ritirarsi dal mercato del lavoro e diventare “casalinghe” (prime due colonne), tendono a farlo intorno alla nascita del figlio (coefficiente di “indeterminato, gravidanza fino a due anni dalla nascita” significativamente maggiore del coefficiente di “indeterminato e determinato, prima di avere figli”). Nelle interruzioni lavorative dovute a disoccupazione (ultime due colonne), le donne che lavorano a tempo determinato risultano più vulnerabili in entrambe le fasi, quando ancora fare figli è lontano e probabilmente nemmeno pensato e quando il figlio arriva. Per le lavoratrici dipendenti a tempo indeterminato e per le lavoratrici autonome, invece, il rischio di diventare disoccupate è minore e pare indipendente dalle fasi del corso di vita famigliare. Come noto (e.g: Bagnaso, 1988; Trigilia, 2007), in Italia il tessuto produttivo è tradizionalmente fatto di tante piccole-medie imprese a conduzione famigliare, in cui le donne hanno sempre potuto lavorare con tempi e modalità flessibili, se necessario accudendo i figli anche portandoli sul luogo di lavoro.

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La maggior parte degli studi presenti in letteratura sul legame tra flessibilizzazione del mercato del lavoro e formazione della famiglia si è concentrata su come l’avere lavori atipici influenzi la transizione alla vita adulta. In questo lavoro invece abbiamo spostato l’attenzione su cosa accade intorno alla nascita di un figlio se le donne lavorano con contratti flessibili, ossia se il lavoro atipico faciliti o meno la conciliazione famiglia-lavoro e dunque la continuità lavorativa delle donne. Utilizzando i dati ILFI del 2005 e osservando donne che appartengono a tre coorti successive, ci siamo in particolare chieste come vari questa relazione in periodi storici diversi, in cui il lavoro atipico ha avuto non solo diffusioni ma anche caratteristiche e significati diversi.

Tre sono i risultati che in sintesi emergono. 1) Nelle coorti da noi analizzate, fatte di donne nate tra il 1945 e il 1974, il lavoro atipico non sembra né aiutare né impedire la conciliazione, perché non ha effetto sul rischio di smettere di lavorare per diventare inattive (“casalinghe”), rischio che pare invece essere fortemente guidato dal livello di istruzione: le madri a bassa istruzione interrompono di più il lavoro, indipendentemente se sono lavoratrici dipendenti con contratti temporanei o permanenti, oppure lavoratrici autonome; solo se in nero il loro rischio di uscire dal mercato del lavoro è maggiore. A partire dalla terza coorte il contratto inizia però a pesare, in interazione con il titolo di studio: donne ad alta istruzione con contratti a termine hanno un maggior rischio di uscita dal mercato del lavoro delle donne parimenti istruite con contratti permanenti; 2) se non il quanto, il contratto risulta invece influenzare il quando si interrompe: in tutte le coorti da noi osservate quando le lavoratrici a tempo determinato interrompono tendono a farlo non solo intorno ai figli ma anche molto prima di avere i figli, sia che siano ad alta che a bassa istruzione; 3) chi lavora a tempo determinato, se è vero che non più frequentemente riduce il suo attaccamento al mercato del lavoro diventando casalinga, più frequentemente diventa però disoccupata, cioè subisce una perdita involontaria di lavoro, e lo fa allo stesso modo di chi lavora in nero, sia quando ha figli che quando i figli sono ancora lontani, e indipendentemente dal titolo di studio.

Una lettura micro-macro che connetta i risultati osservati nei comportamenti femminili ai contesti istituzionali e culturali in cui tali comportamenti hanno preso forma può essere utile. Una ragione plausibile per cui nelle nostre analisi troviamo che l’atipico non pare differenziare la partecipazione continua al mercato del lavoro risiede nel profilo che il lavoro a termine ha avuto negli anni '80 e '90, gli anni in cui la maggior parte delle nostre donne ha costruito le proprie carriere lavorative e famigliari. Sono infatti quelli gli anni di scenario “fordista” in cui l’atipico era non solo poco diffuso ma anche per lo più concentrato nel settore pubblico, con più garanzie sia di trasformazione in tempo indeterminato sia di copertura in caso di disoccupazione o maternità. L’emergere solo nella terza coorte, la coorte “post-riforme Treu”, dell’effetto negativo del

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contratto e la perdita del potere protettivo dell’istruzione suggeriscono che l’espansione dei lavori a termine avvenuta a partire da fine anni '90, in assenza di una riforma degli ammortizzatori sociali e delle politiche di conciliazione in direzione più universalistiche, facilita l’uscita delle donne dal mercato del lavoro. Inoltre, il permanere in tutte le coorti di un forte effetto “lavoratrici in nero” (quelle che corrono il maggior rischio di transizioni da occupata a casalinga, e un ugual rischio, rispetto alle lavoratrici a termine, da occupata a disoccupata) segnala come vada meglio esplorato il legame tra lavoro in nero e lavoro a tempo determinato, per comprendere se questi due tipi di lavoro assorbano lo stesso tipo di donne e se, come alcuni sostenitori della legge Treu argomentavano, la flessibilizzazione del mercato del lavoro abbia portato a una emersione del lavoro in nero, spingendo le imprese ad assumere con contratto atipico chi veniva prima assunto in nero (Bison et al., 2010).

I nostri risultati sembrano suggerire anche che per rimanere sul mercato del lavoro in prossimità dei carichi familiari, contino non solo i tipi di contratto, ma anche gli orientamenti e le preferenze delle donne che si strutturano prima della maternità, che possono modificarsi lungo il corso di vita, che sono embedded nei contesti istituzionali e culturali. Il fatto che in Italia l’istruzione influenzi cosi marcatamente la continuità lavorativa suggerisce che in contesti dove non solo il mercato del lavoro e la protezione sociale sono segmentate ma anche l’approvazione di nuovi modelli di genere non è universale, l’istruzione abbia più che altrove rendimenti non solo monetari-strumentali. Essa serve certamente a collocarsi in posizioni migliori sul mercato del lavoro, e disporre anche di redditi per comprare la conciliazione famiglia-lavoro. Ma, in contesti dove le norme sono ancora piuttosto tradizionali, l’istruzione serve anche a ottenere maggiore “legittimità sociale”: è più probabile che sia socialmente accettabile che una donna continui a lavorare, pur in presenza di figli e pur se atipica, se “ha tanto studiato”, e che questa legittimità contribuisca a rinforzare le sue preferenze “non tradizionali” e le dia più potere di negoziazione per perseguirle (Solera e Bettio, 2013).

In secondo luogo, il fatto che donne con contratti temporanei escano con la stessa frequenza di quelle con contratti permanenti, ma che, quando lo fanno, tendono a farlo prima di avere dei figli, suggerisce che la perdita del lavoro in momenti del corso di vita in cui ancora non si hanno responsabilità familiari può però tradursi in scoraggiamento e ritiro definitivo dal mercato del lavoro e in uno spostamento di investimenti dalla sfera lavorativa a quella famigliare. Ossia, il lavoro atipico pare porre la scelta tra lavoro e famiglia prima della maternità, in tempi ancora non sospetti. Un mix di fattori culturali, materiali e istituzionali può essere all’opera. Può essere che in partenza si collochino in lavoro instabili donne che già non sono decisamente, alla Hakim (2000), work-oriented. Può essere che queste donne, pur essendo partite motivate, sperimentandosi più a

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lungo del previsto come deboli sul mercato del lavoro, e inserite in un contesto dove ancora forte è la visione della insostituibilità “naturale” della madre (Naldini, 2015), diventino poi più

family-oriented. Può anche essere che le preferenze si strutturino e si consolidino al contrario: che coloro che hanno investito nella carriera lavorativa, pur nell’instabilità, continuano a perseguire tale strada, soprattutto se sono ad alta istruzione. Al di là delle preferenze, le lavoratrici atipiche comunque corrono un rischio maggiore di disoccupazione rispetto alle lavoratrici tipiche, che si può anche tradurre in uno scoraggiamento e ritiro definitivo dal mercato del lavoro, anche per fare figli.

Per cogliere meglio quanto l’ “effetto” istruzione assorba o interagisca con l’ “effetto” contratto, quanto ciò sia l’esito di agency o di structure, sarebbero necessari altri tipi di dati e di tecniche: dati che includono anche informazioni sui desideri e gli orientamenti culturali, che integrano dimensioni micro con dimensioni macro, che stimano gli effetti causali con tecniche di “quasi esperimento”, come il propensity score matching.

Pur con i loro limiti, nel loro complesso i nostri risultati sono interessanti e aprono a riflessioni di policy. Ci dicono che non si possa stabilire a priori se il contratto atipico faciliti o complichi la conciliazione famiglia-lavoro e la continuità delle carriere al femminile, ma che conti molto il contesto istituzionale in cui i contratti atipici vengono regolati e utilizzati. Certamente occorre lavorare molto sull’incontro domanda-offerta di lavoro e sulle politiche di inserimento delle giovani nel mercato del lavoro. Inoltre, occorre lavorare nella direzione di migliorare le politiche di welfare legate alle forme contrattuali seppur a scadenza. Non è il lavoro atipico di per sé ad impedire la conciliazione e la continuità lavorativa, ma avere al momento della maternità un debole profilo lavorativo o una scarsità di tutele per la maternità. Cruciali sono cioè quelle politiche attive del mercato del lavoro che aiutino a costruire prima dell’evento maternità dei profili lavorativi forti specialmente delle donne, e quegli opportuni schemi di sostegno al reddito che rafforzino la capacità degli individui di stare sul mercato e in occupazioni qualificate.

Ma queste politiche da sole non bastano a sostenere carriere femminili continue. Poiché le scelte di entrata e uscita dal mercato del lavoro sono negoziate dentro la coppia e la famiglia, e seguono gli eventi del corso di vita famigliare con le mutevoli esigenze sia di cura che di reddito, nel disegno delle concrete politiche l’attenzione non può essere posta solo sul “lavoro” e sul diritto al lavoro, ma anche sulla “cura” e sul diritto al tempo, in un mix di servizi, congedi e sostegni monetari a cui abbiano accesso sia madri che padri, e indipendentemente dal tipo di posizione lavorativa (Gornick e Meyers 2003).

Le recenti riforme del governo Renzi in campo di lavoro e di welfare (soprattutto il cosidetto Jobs Act) paiono in parte, ma non ancora fortemente, andare in queste direzioni. Esse ampliano la

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platea di coloro che hanno diritto alle tutele di indennità di disoccupazione, rendendo meno stringenti i requisiti in termini di contribuzione e giornate, ma in alcuni casi, soprattutto se si hanno carriere frammentate e discontinue riducono l’entità di tale indennità in quanto la legano ai contributi effettivamente versati (Rizza, 2015). Si riducono le tutele del lavoro a tempo indeterminato, che diviene a tutele crescenti. Inoltre, nel campo delle politiche di conciliazione, se da un lato viene esteso da 1 a 2 giorni il congedo di paternità obbligatorio (più 2 facoltativi) e viene reso più elastico il congedo parentale (in quanto se ne può usufruire fino ai 6 anni del bambino e anche ad ore), dall’altro non viene previsto un aumento di investimento sui servizi per la prima infanzia, se non nella sola forma di voucher per uso di babysitter o asili nido ma solo per 6 mesi e solo “in cambio” del rientro precoce dopo la maternità, ossia della rinuncia a fruire del congedo facoltativo parentale. Queste riforme sono però troppo recenti per poterne valutare gli effetti sulla capacità delle donne di stare sul mercato e di conciliare maternità e lavoro. La parola va lasciata a nuovi dati, che occorrerà raccogliere concentrandosi sulle coorti più giovani e osservando attentamente i cambiamenti sia nei comportamenti individuali e famigliari sia nelle “narrative” che vengono date, per poter cogliere quel mix complesso tra agency e structure, tra fattori culturali, materiali e istituzionali che pure le nostre analisi sembrano suggerire.

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