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Le Università minori in Italia nel 19. secolo

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Porciani, Ilaria; Moretti, Mauro; Birocchi, Italo; Novarese, Daniela; Fois, Giuseppa Carmela Rita; Pepe, Luigi (1993) Le Università

minori in Italia nel 19. secolo. Sassari, Centro interdisciplinare per

la storia dell'Università di Sassari. 123 p. (Collana di studi del Centro interdisciplinare per la storia dell'Università di Sassari, 5). http://eprints.uniss.it/7237/

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Collana di studi del Centro interdisciplinare per la storia dell'Università di Sassari

5.

I. PORCIANI - M. MORETTI -I. BIROCCHI D. NOVARESE -G. FOIS -L. PEPE

Le Università minori in Italia nel XIX secolo

(4)
(5)

I.

Porci ani •

M. Moretti· I. Dirocchi

D. Novarese· G. Fois • L. Pepe

Le Università minori

in Italia nel XIX secolo

a cura

di

MARIO DA PASSANO

Centro interdisciplinare per

la storia dell'Università di Sassari

(6)

@ Centro interdisciplinare per la storia dell'Università di Sassari

(7)

Introduzione di

MARIo DA PASSANO

Negli ultimi tempi c'è stato in Italia un risveglio dell'attenzione per la storia dell'università, in particolare nell'età contemporanea', soprattutto per la consapevolezza che questo è un tema centrale nel quadro della storia nazionale e della costruzione dello Stato unitario. Basti citare in proposito alcune iniziative come il VII Congresso della Società italiana di Storia del diritto (Siena, 1991) su «Le scuole di diritto dall' antichità ai giorni nostri», i due convegni tenuti sempre a Siena nel 1989 e nel 1991, dedicati rispettivamente a «Università ieri e oggi: ollerta formativa e domanda sociale» e a «Università e scienza nazionale tra Otto e Novecento»2, quello di Napoli del 1992 su «Università e professioni giuridiche in Europa nell'età liberale», quello di Genova in occasione della pubblicazione del volume sulla storia della facoltà di Economia e commercioJ, i seminari periodici presso

I Vanno però segnalate anche iniziative relative ad altri periodi storici o di carattere più generale; ricordiamo ad esempio gli atti del convegno della Commissione internaziona-le per la storia delinternaziona-le università (Siena-Bologna, 1988) l collegi universitari in Europa tra il

XIV e il XVJ11 secolo, a cura di D. Maffei e H. de Ridder-Symoens, Milano, 1991, nella

collana ·Orbis academicus. Saggi e documenti di storia delle università raccolti da D. Maffei" (in cui sono stati pubblicati anche C. PIANA, 11 .Liber Secretus luris Caesarei»

dell'Università di Bologna, 1451-1500; C. PIANA, 11 .Liber Secretus luris Pontificii»

dell'Uni-versità di Bologna. 1451-1500; G. MINNUCCI, L KosurA, Lo studio di Siena nei seee.

XIV-XVI. Documenti e notizie biografiche; I codici del Collegio di Spagna di Bologna, a cura

di D. Maffei, E. Cortese, A. Garda y Garda, C. Piana, G. Rossi); gli atti del convegno

Dall'università degli studenti all'università degli studi, Messina, 1991, a cura di A. Romano,

a cui si deve anche la pubblicazione de I capitoli dello studio della nobile città di Messina (a cura di D. Novarese, Messina, 1990) e dei primi due volumi dei Monumenta historica

messanensis studiorum universitatis (Messina, 1992 e 1993); e ancora il convegno «In

supreme dignitatis» per il 6° centenario dell'università di Ferrara (1991), i cui atti sono in corso di pubblicazione.

2 Università e scienza nazionale tra 0110 e No~o, a cura di L Porciani, Napoli, 1993.

J Dalla Scuola superiore di commncio alla facolt4 di Economi4. Un secolo di elaborazione

(8)

l'Istituto storico italo-germanico di Trento del gruppo di ricerca su «Università e scienza nel sistema politico dell'Italia unita; modelli teorici e assetti istituzionali», la costituzione di «Unistoria. Centro di studi per la storia dell'università», con una convenzione fra le università di Napoli e Siena e l'Istituto trentito di cultura4 e, per quello che ci riguarda più direttamente, l'attività del Centro interdisciplinare per la storia dell' univer-sità di Sassari, diretto da Giampaolo Brizzi, presso il quale fra l'altro è

depositato, e attualmente in fase di riordino, l'archivio del nostro ateneo dalla "rifondazione" al 1945. E ancora vanno ricordate le numerose pubbli-cazioni apparse in questi ultimi anni'.

Tuttavia i vuoti da colmare sono ancora molti, soprattutto se ci si confronta con la storiografia sull'università francese e tedesca. A questo proposito, mi permetto indicare alcuni temi che a mio avviso andrebbero approfonditi.

Anzitutto se è vero che uno dei nodi centrali è il rapporto tra università e professioni e che si è ormai cominciato a delineare un quadro abbastanza Masso, Genova, 1992. Nella stessa collana (<<Atti della Società ligure di storia patria· Fonti e studi per la storia dell'Università di Genova») è in corso di pubblicazione anche il volume

Varchivio antico dell'università di Genova, a cura di R. Savelli.

4 Cfr. «Scienza e politics», n. 6, 1992, pp. 125 ss.

, Citiamo a titolo esemplificativo P. GROSSI, Stile fiorentino. Gli studi giuridici nella Firenze italiana. 1859-1950, Milano, 1986; La città del sapere, Milano, 1987; I luoghi del

conoscere, Milano, 1988; Vuniversità a &logna. Maestri, studenti e luoghi dal XVI al XX

secolo, a cura di G. P. Brizzi, L. Marini, P. Pombeni, Milano, 1988; Il politecnico di Milano

nella storia italiana (1914-1963), Bari, 1988; T. ToMASI, L. BELLATALLA, L'università italiana nell'età liberale (1861-1923), Napoli,1988; G. CIANFEROTII, Germanesimo e università in Italia alla fine dell'Ottocento. Il caso di Camerino, in Raccolta di scritti in memoria di A. Lener,

Napoli, 1989, pp. 349 SS.; Le cattedre di economia politica in Italia. La diffusione di una disciplina «sospelta», a cura di M. M. Augello, M. Bianchini, G. GioIi, P. Roggi, Milano, 1990; O. CONFESSORE, Le origini e l'istituzione dell'università degli studi di Lecce, Galatina,

1990; D. MUSIEDLAK, Université privée el /ormation de la classe dirigeante: l'exemple de

l'université L. Bocconi de Milan (1902-1925), Roma, 1990; A. SANTONI RUGIu, Chiarissimi

e Magnifici. Il professore nell'università italiana (dal 1700 al 2000); Firenze, 1991;

L'univer-sità in Italia Ira età moderna e contemporanea. Aspetti e momenti, a cura di G. P. Brizzi e A.

Varni, Bologna, 1991; A. ROMANO, Studi e cultura nella Messina del primo Novecento.

L'Università Ira crisi e terremoto, in -Atti dell' Accademia Peloritana dei Pericolanti", L VIU, 1991, pp. 31 ss. e ora in Studi e diritto nell'area mediterranea in età moderna, a cura di Id., Messina, 1993, pp. 7 SS.; G. FOIs, Per una storia delle facoltà di giurispruJmza: le due lauree

della riforma Matteucci, in -Annali dell'Istituto storico italo-germanico in Trento·, XVII,

1991, pp. 573 SS.; L. BERLINGUER, L'autonomia universitaria tra legge Casati e riforma Gentile. Prime considerazioni, in Scrilti di storia del diritto allerti dagli allievi aD. Maffei, Padova,

1991, pp. 557 SS.; A. CLEMENTI, L'università dell'Aquila. Dal Placet di Fe"ante I d'Aragona

alla statiwzione (1458-1982), Bari, 1992; M. UTI1NI, E. DECLEVA, A. DE MADDALENA, M.

A. ROMANI, Storia di una libera univer'Sità, I, L'università commndale Luigi Bocconi dalle origini al 1914, Milano, 1992; F. CoLAO, Libertà t «stali/icaziono nell'universilà liberale,

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ampio e documentato della formazione culturale e scientifica dei nuovi gruppi dirigenti, dei gruppi sociali e politici dominanti nell'Italia unita, un' attenzione maggiore andarebbe a mio avviso riservata al ruolo svolto dalle facoltà scientifiche; in questo quadro andrebbe studiata, in modo più approfondito di quanto è stato fatto sino ad oggi, anche la funzione assolta dalle accademie militari, che, anche qui con l'eredità delle diverse tradizioni preunitarie, offrono in qualche misura un' istruzione superiore parallela e, con l'affermarsi di strumenti bellici sempre più sofisticati, contribuiscono alla diffusione del sapere tecnico-scientifico, mentre declina la casta aristocratico-militare piemontese e la base sociale di reclutamento si allarga alla borghesia6

E ancora, se finora si è studiata la questione della sèelta del modello di università, in rapporto anche alle diverse esperienze europee, ampiamente dibattuta nella fase della costruzione dello Stato unitario, la questione cioè sintetizzabile nella formula a quale università per quale società», andrebbe

anche affrontato il problema di come e quanto l'università italiana, pur con tutti i suoi squilibri e le sue diverse articolazioni, abbia comunque inciso nella crescita culturale e civile del paese, al di là dello scarto fra progetti politici e realtà. Riferendomi ai miei specifici temi di ricerca, è ad esempio innegabile ed evidente che, su un punto centrale quale quello del/' unificazio-ne legislativa in campo penale e in particolare del/' aboliziounificazio-ne della pena di morte, che pure rimane senza soluzione per oltre un trentennio, le facoltà di giurisprudenza abbiano avuto un ruolo di rilievo nel favorire la scelta abolizionista.

T ornando agli atti che qui pubblichiamo, questo seminario, nato da discussioni e scambi d'idee fra alcuni studiosi della nostra università, particolarmente interessanti a questi temi, e alcuni colleghi di «Unistoria», costituisce una sorta di premessa per un convegno sulle università periferiche di più ampio respiro, che il nostro Centro dovrebbe realizzare nel 1994.

L'iniziativa, organizzata dal Dipartimento di storia e dal Centro, con il contributo della Regione Autonoma della Sardegna, della Provincia, del Comune e dell'Ente regionale per il diritto allo studio di Sassari, dopo un' introduzione di Giampaolo Brizzi, le relazioni che qui si pubblicano e la discussione, a cui hanno partecipato anche altri studiosi (Luigi Berlinguer, Piero Del Negro, Paola Massa, Aldo Ma:a:acane, Vito Piergiovanni, Pieran-gelo Schiera, Cristina Vano) è proseguita con la presentazione del volume di Giuseppina Fois su l'Università di Sassari nell'Italia liberale, pubblicato in questa stessa collana, da parte di AIda Mazzacane e Pier angelo Schiera, per

, Qualche spunto in proposito si può trovare in alcune delle relazioni su Cultura e

ruoro sociak tkll'ulficiak al convegno Esercito e citlà dall'Unità agli anni Trenta, Roma,

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terminare con una tavola rotonda su «Gli studenti nelle piccole università dopo l'autonomia», con la partecipazione di due rappresentanti degli studenti del Consiglio d'amministrazione, del rettore e del prorettore· di Sassari, Giovanni Palmieri e Giuseppe Paglietti, conclusa da un intervento del rettore di Siena, Luigi Berlinguer.

Il tema delle università minori, allrontato nel seminario con due relazioni introduttive di carattere generale e poi nello specifico di alcune singole realtà, pur dissimili fra loro, mette bene in evidenza come la diversità di tradizioni e di storia degli stati preunitari abbia portato a notevoli squilibri quantitativi e qualitativi dopo l'Unità e come la mancanza di una reale volontà politica e di un chiaro disegno complessivo coerente, assieme alle resistenze localistiche, siano alla base del fallimento dei tentativi astratti di razionalizzare te"itorialmente il sistema dell'istruzione superiore e di elevar-ne il livello qualitativo, sopprimendo semplicemente le unità più marginali e peri/eriche, che molto spesso hanno però salde radici nelle società locali e stretti rapporti con le loro istituzioni.

Abbiamo cercato cosi di dare il nostro contributo, sia pure iniziando ad affrontare un problema specifico, alle ricerche che si stanno sviluppando sul tema più generale della storia dell'università italiana -Ira Otto e Novecento.

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LA QUESTIONE DELLE PICCOLE UNIVERSITÀ DALL'UNIFICAZIONE AGLI ANNI OTTANTA

ILARIA PORCIANI

Le piccole università italiane, finora assai poco indagate dagli studi che si sono concentrati soprattutto sugli atenei maggiori, possono invece costituire l'oggetto di ricerche di grande interesse alla luce dei nuovi interrogativi che si vengono aprendo alla storia dell'istruzione superiore. La vicenda dei piccoli atenei ben esemplifica infatti, nel suo versante locale, quel consolidato rapporto università-città che fu particolarmente evidente nel caso degli atenei ospitati in centri minori, come dimostra oggi la minuziosa indagine compiuta da Giuseppina Fois per Sassari1

• Al

tempo stesso però - ed è ancora l'esempio di Sassari il primo e il più citato - questa vicenda, ben lontana dall'interessare esclusivamente Siena o Catania, Messina o Macerata, costitul un nodo centrale nello sviluppo dell'istruzione superiore nell'Italia liberale, e assurse a vera e propria questione nazionale.

Se la costituzione del nuovo Stato e la dimensione nazionale successiva al 1860 mutarono in modo sostanziale le coordinate e le caratteristiche del problema, è tuttavia opportuno richiamare l'attenzio-ne sul fatto che non si trattava in alcun modo dell'emergere di un problema nuovo. L'esigenza di una razionalizzazione territoriale del sistema di istruzione superiore con la conseguente concentrazione di investimenti a danno delle istituzioni più periferiche era infatti apparsa in modo evidente nel Regno di Sardegna già nel decennio di preparazio-ne, quando si elaborarono le linee portanti e gli orientamenti fondamen-tali nel settore dell'educazione che in seguito sarebbero stati fatti propri dallo Stato unitario anche in materia universitaria.

Già il progetto Cibrario, che costitul il primo germe di quella che sarebbe poi stata la legge Casati, prevedeva l'abolizione di Sassari, giudicata la più fragile delle università del Regno e pletorica rispetto

l Cfr. GIUSEPPINA FOIS, L'università di Sassari neU'[talia liberale. Dalla legge Casati alla rinascita dell'età gioliuiana nelle relazioni annuali tki leuori, Sassari, Centro interdisciplinare

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lO Ilaria Porciani

all'ateneo di Cagliari, che sembrava essere sufficiente ai bisogni dell'isola. Questo progetto si inseriva in una tendenza alla centralizzazione e insieme alla razionalizzazione del sistema universitario del Regno di Sardegna già evidente a partire dal gennaio 1848, quando Carlo Baudi di Vesme aveva proposto di concentrare le due università sarde in una sola2, e che toccò il culmine con il disegno di legge del deputato Brunier che - all'inizio degli anni Cinquanta - avrebbe voluto conservare solo l'ateneo della capitale, abolendo tutti gli altrP. Dietro queste ipotesi stava la volontà di contrane il numero degli atenei per concentrare soltanto su alcuni di essi tutte le risorse di uomini e di mezzi, al fine di far decollare il settore dell'istruzione superiore che già appariva di vitale importanza per lo Stato.

La stessa ipotesi venne fatta proprio dalla legge Casati che infatti, come è noto, aboliva l'ateneo di Sassari. Ma a questa ipotesi reagi prontalmente Pasquale Stanislao Mancini, deputato del collegio, che si fece inviare in Sardegna per studiare la situazione della pubblica istruzio-ne istruzio-nell'isola e per valutare l'opportunità concreta di sostituire l'ateistruzio-neo con un istituto agrario tale - cosi si ipotizzava a Torino - da dare nuovo impulso all' agricoltura dell'isola". Mancini non mancò di mettere in evidenza come questa ipotesi gli apparisse in qualche modo di stampo giacobino, del tutto calata dall' alto e non rispondente alle caratteristiche peculiari della stessa agricoltura sarda. D'altra parte, furono proprio i sassaresi a insistere sulla necessità di conservare l'ateneo, che di per sé rappresentava comunque un patrimonio simbolico forte e quasi un vessillo di identità locale oltre che un' effettiva opportunità educativa per i figli dei notabili. Venne cosi messa in moto una dinamica destinata ad avere una certa fortuna:

fu

quasi un copione per una recita a soggetto che avrebbe portato sulla scena analoghi protagonisti in analoghi scenari. TI deputato locale, rappresentate delle élites e dei bisogni del collegio -questa volta spalleggiato in modo decisivo dai deputati degli altri collegi interessati a evitare una redistribuzione delle sedi universitarie - difende-va la conserdifende-vazione dell'esistente, per evitare che la città il cui ateneo veniva "minacciato" perdesse davvero una prerogativa della vita cittadina che appariva di grande importanza. La difesa delle piccole università, elementi di prestigio e in qualche modo anche centri di potere delle élites

2 Cfr. ITALO BIROCCHI, Le università sarde dopo la ·,usio~ perfet14-, in questo stesso volume.

) Cfr. lu.JuA PORCIANI, lA questio~ delle piccole università: il caso di Sima, relazione al convegno ·Università e Scienza Nazionale tra Otto e Novecento", Siena, aprile 1991.

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La questione delle piccole Università dall'unificazione agli anni Ottanta Il locali, era uno dei momenti in cui si realizzava il tenace attaccamento ai segni tangibili di antiche identità cittadine o regionali, tanto più accarez-zate quanto più vicine a perdersi nella nuova identità nazionale, ancora in fase di faticosa definizione ma che agli occhi di molti poteva presentare rischi concreti di omologazione e di appiattimento.

Fu cosI sconfitto un intervento che cercava di razionalizzare dall'al-to il sistema universitario per promuoveme uno di livello più adeguadall'al-to

ai nuovi bisogni di quello Stato nazionale che costituiva ormai il quadro complessivo di riferimento: un intervento auspicato da diverse figure di rilievo della Destra storica, e prima di tutto da Quintino Sella, che da allora in poi avrebbe stigmatizzato la tendenza a disperdere fondi per conservare tanti atenei deboli.

Vale tuttavia la pena di sottolineare con forza un elemento apparen-temente marginale, e non sufficienapparen-temente messo in evidenza dalla letteratura: il ripristino dell'università di Sassari avvenne proprio mentre veniva bocciato il disegno di legge governativo che tentava di promulgare la legge Casati anche nelle province dell'Emilia, e segnava una prima, significativa battuta d'arresto nella fortuna di questa legge relativamente al settore dell'istruzione universitaria.

Se nei primi mesi dopo la cacciata degli antichi governi il sentimento prevalente nella classe dirigente e il luogo comune più diffuso nella retorica accademica erano stati costituiti dalla fiducia in una facile palingenesi anche degli alti studi, che sarebbero risorti quasi spontanea-mente con la riacquistata libertà, ben presto agli osservatori più attenti apparve evidente la notevole fragilità del sistema di istruzione superiore ereditato dagli Stati preunitari. Al tempo stesso emerse l'esigenza di potenziarne l'apparato concentrando gli esigui mezzi disponibili per dare respiro europeo agli atenei maggiori'. Una brusca sterzata in questo senso

fu

costituita dall'intervento compiuto da Matteucci con la legge 31 luglio 1862 e con il successivo regolamento. Si trattò di una legge importante, e non soltanto perché

fu

la prima discussa dal parlamento del Regno d'Italia ed estesa a tutto il territorio nazionale, nel quale fino ad allora vigevano anche per l'istruzione universitaria, normative di vario tip06.

Partendo da un problema che in tempi in cui si discuteva di riform~ su larga scala poteva a prima vista apparire marginale (il pareggiamento delle tasse universitarie e una nuova definizione degli stipendi dei , Cfr. lLAJUA PoJtCIANJ, Lo Stato unitario di Ironie alLz questione tkll'universilJ, in

L'Universilll nell'elllliberale a cura di I. Porciani, Napoli, Jovine, 1993.

, La legge Matteucci non fu tuttavia estesa a Sassari. Cfr. ancora G. FOIS, L'univerrilll di Sassari cii., p. 23.

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12 Ilaria Porciani

professori), Matteucci creava una suddivisione degli atenei del Regno in due gruppi - quelli di primo e quelli di secondo grado - distinti da una netta linea di demarcazione. Gli atenei completi e più frequentati (Bologna, Napoli, Palermo, Pavia, Torino e Pisa) avrebbero avuto professori meglio pagati e il diritto di formulare i programmi per gli esami speciali e di laurea oltre che di ammissione. Le università minori (Genova, Cagliari, Siena, Catania, Messina, Parma, Macerata, Modena) si venivano dunque la trovare in una situazione svantaggiata, che avrebbe avuto immediate ripercussioni sul numero degli iscritti, da quel momento in calo più o meno netto: una tendenza, questa, che si sarebbe invertita soltanto con le parificazioni, quando anche gli atenei secondari avrebbe-ro riconquistato - almeno sulla carta - dignità pari a quella dei maggiori. Restavano fuori da questo schema le università libere di Urbino,Came-rino, Ferrara e Perugia la cui esistenza era tollerata dallo Stato, che tentava di esercitare su di esse un certo controllo attraverso l'approvazio-ne degli statuti da parte del Consiglio Superiore della pubblica istruziol'approvazio-ne.

Tre anni più tardi lo stesso Matteucci in qualità di vicepresidente del Consiglio superiore della pubblica istruzione avrebbe presentato al Re una relazione sullo stato degli studi universitari e avrebbe messo in evidenza come la necessità di mantenere comunque in vita tanti atenei costituisse di per sé un fattore di debolezza: sarebbe stato assai meno dispendioso per lo Stato mantenere gli studenti meritevoli negli atenei maggiori piuttosto che tenere in vita tanti piccoli atenei di per sé fragili, dotati di cattedre e di strumenti scientifici inadeguati rispetto agli sviluppi delle varie scienze.

Ma l'intervento di Matteucci suscitò una mobilitazione generale da parte di coloro che si fecero portavoci delle esigenze delle piccole università e difensori di quelli che presentavano come dei veri e propri diritti "offesi" e dunque in primo luogo dei rappresentanti dei comuni e delle province. La pressione esercitata sul nuovo Ministro fu evidente-mente molto forte, se nel marzo 1863 lo stesso organo ufficioso dello Ministero, la "Rivista italiana di scienze lettere ed arti" ospitava con grande rilievo il testo integrale della relazione Amari che raccoglieva la protesta e se ne faceva a sua volta interprete. La citazione è lunga ma di grande interesse, e dunque vale la pena di riportarla per esteso.

"TI consiglio provinciale di Messina con una petizione al Governo ed al Parlamento espose come il nuovo regolamento avesse trasceso il suo scopo, invaso il dominio della legge, ed offeso i più vitali interessi della provincia. Soggiunse che esigendosi studi troppo estesi, ed esami particolari d'ammissione,

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La questione delle piccole Università dall'unificazione agli anni Ollanla 13

un gran numero di giovani si erano allontanati dalle scuole, e che un cangiamento cosi improvviso e radicale avrebbe colpito a morte l'Università. Conchiuse che a molti esaminandi per la laurea mancanti di mezzi pecuniari sarebbe stato di grave peso

r

obbligo di portarsi nella residenza della commissione.

TI corpo accademico di Catania considerò ingiuriosa e nocevole la classifica-zione delle università in due ordini, contrario alla legge lo spogliare le università del diritto di dare gli esami di laurea, di fame compilare i programi dalle sole sei università primarie.

La Deputazione provinciale di Cagliari in una petizione diretta alla Camera dei deputati espose che il regolamento del 14 settembre 1862 esautorando l'università cagliaritana aveva gettato il malcontento e lo sconforto nell'isola intiera, e che arrogandosi la facoltà di revocare leggi anteriori, riservata al solo potere legislativo, aveva troncato una storia gloriosa, e ferite le affezione più legittime e care. Affermava che l'Università priva del diritto di conferire la laurea avrebbe perduto la sua autonomia; e che gli interessi morali e materiali dell'isola avrebbero immensamente scapitato quando i giovani fossero stati costretti a portarsi sul continente per subire gli esami di laurea.

Le stesse o presso che simili parole ripeteva il sindaco di Camerino, facendo istanza, perché a quella libera Università fosse lasciato ancora il diritto di accordare le lauree" [. .. ]7.

il peso degli interessi della periferia fu anche in questo caso decisivo, e il provvedimento venne immediatamente ritoccato in modo significati-vo a fasignificati-vore dei piccoli atenei.

Da allora in poi il tema della riduzione del numero delle università costitul un motivo ricorrente nel dibattito dentro il parlamento e al di fuori di esso. Ancora a questa esigenza si ispirava il progetto presentato da Berti nel 1866 e di nuovo nel 1869 nel quadro di una serie di provvedimenti proposti alla camera da Sella per attuare il pareggio. La necessità di contrare il numero degli atenei veniva di nuovo vivacemente dibattuta nel 1870 quando Correnti proponeva di abolire le università nelle quali, durante gli ultimi nove anni, gli studenti regolarmente iscritti non avessero raggiunto un numero otto volte maggiore di quello dei professori. Un provvedimento del genere veniva dato per scontato ancora nel 1871 e compariva &equentemente come motivo di discussione all'interno del Consiglio superiore della pubblica istruzione. Ma ogni volta che questa ipotesi veniva ventilata essa trovava oppositori

fermissi-mi, malgrado spesso - come nel progetto Berti - non si escludesse affatto la possibilità di lasciare ai comuni e alle associazioni private un qualche

1 -Rivista italiana di scienze lettere ed arti colle Effemeridi della pubblica istruzione",

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14 Ilaria Porciani

spazio per il finanziamento degli atenei e dunque per il mantenimento degli stessi, sia pure a carico degli enti locali e in una dimensione certamente più riduttiva.

In ciascuna di queste occasioni si attivò comunque un'analoga dinamica, con la mobilitazione di deputati e clientele, e talvolta anche con imponenti manifestazioni di piazza. Ogni volta gli esponenti di spicco delle classi dirigenti locali finirono per ripetere i motivi di lagnanza sopra esposti: l'abolizione dell'ateneo avrebbe costituito un immediato impoverimento per la vita culturale della città, avrebbe costretto i giovani a emigrare per poter compiere gli studi, avrebbe comunque costituito un attacco portato al cuore delle identità locali da parte di un governo percepito come lontano. I leader della protesta -professori universitari o sindaci, notabili o deputati - riuscirono a coagulare intorno a sé sul tema della difesa degli atenei consensi molto ampi, sindaci dei comuni limitrofi e associazioni dedite agli scopi più eterogenei e lontani dal mondo dell'accademia, circoli aristocratici, liberali e talvolta, nei decenni successivi, anche democratici e socialisti intervennero per difendere quegli atenei che appàrivano come prerogati-ve importanti della città che ne era sede. Rarissime - se non addirittura assenti - furono le voci discordi. E sarebbe interessante distinguere a seconda dei collegi di provenienza i deputati che si schierarono - in

ciascuna delle tappe considerate - per l'abolizione o contro di essa, al fine di individuare come i pochi che presero di volta in volta posizione per la riduzione del numero delle università fossero in grado di·muoversi più liberamente perché non subivano pressioni da parte di elettori direttamente interessati.

Un'inversione di tendenza, o piuttosto una concreta, significativa innovazione in tema di politica universitaria può essere individuata soltanto con l'ascesa al potere della Sinistra. Sotto il governo della Sinistra e dietro proposta del Ministro della pubblica istruzione Coppino cominciarono infatti i cosiddetti "pareggiamenti" degli atenei di secondo grado a quelli di primo, ottenuti per il tramite di un consistente intervento finanziario da parte degli enti locali. Essi furono in qualche modo preceduti da un primo significativo intervento per salvare l'Istituto superiore di Firenze: la legge 30 giugno 1872 aveva infatti approvato, sempre su proposta di Correnti, la relativa convenzione introducendo un concreto precedente nel finanziamento locale degli istituti di istruzione superiore.

Proprio Sassari venne quindi pareggiata alle università di secondo grado con una legge presentata da Coppino il 9 maggio 1877, approvata

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La questione delle piccole Università dall'unificazione agli anni Ottanta 15

il 20 giugno seguente e promulgata infine 1'11 luglio successivo, con un

iter rapidissimo. Fu cosi sancito definitivamente l'ingresso degli enti locali e degli istituti di credito nei consorzi sorti a tutela degli atenei minori: un esperimento non certo difficile dal realizzare quando si pensi a quanti docenti universitari sedevano nei consigli comunali e provinciali Prendeva in tal modo forma un "modello" destinato in seguito a fare in vario modo scuola anche per gli atenei maggiori, se è vero che il 7 aprile 1886 venne ratificata anche la convenzione relativa alla sistemazione di vari istituti scientifici dell'università di Pavia.

Ma già nel gennaio dell' anno precedente lo stesso Coppino aveva presentato alla Camera la convenzione con i consigli comunale e provin-ciale di Genova per il pareggiamento dell'università degli studi a quelle di primo grado, che fu approvata il 9 dicembre 1885 e promulgata quattro giorni dopo. Contemporaneamente venivano anche promulgate le leggi che ratificavano le convenzioni con il comune e la provincia di Catania e Messina per il pareggiamenteo delle rispetive università a quelle di primo grado.

Queste date sono importanti, perché segnano i tempi di una scelta: le leggi furono presentate, discusse e approvate quando era in discussione la legge Baccelli sull' autonomia universitaria, che - approvata alla Camera con alcuni emendamenti - veniva presentata al Senato da Cremona il 15 marzo 1885. La scelta delle convenzioni e dei pareggia-menti sanciva dunque la volontà di procedere per "leggine" parziali anziché attendere i risultati di una legge quadro che potesse articolare un riassetto complessivo dell'istruzione superiore. Veniva in tal modo imboccata la strada che nel tempo breve avrebbe portato al moltiplicarsi dei pareggiamenti che finivano per cancellare - almeno sulla carta - le differenze tra gli atenei più consolidati e quelli più &agili (è già del 1887 il pareggiamento delle università di Parma e Siena a quelle di primo grado, mediante l'assunzione di analoghi impegni finanziari da parte di enti e istituti di credito locali8, ma la stessa strada avrebbe portato, nel tempo lungo e lunghissimo, ad un ulteriore aumento delle sedi universi-tarie.

Nella questione delle piccole università versante locale e versante nazionale della medesima vicenda appaiono strettamente complementari:

• Sulla parificazione dell'ateneo senese, cfr. Iu.au. P01t.ClAN1, Un ateneo minacciato: l'univ~ità di Sima dall'Unità alla prima guura mondi4k, in -Annali della Facoltà di lettere e filosofia dell'università degli studi di Siena", voI. XII (1991), pp. 97-129 e voI. XIll (1992), pp. 271-288.

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16 Ilaria Porciani

la questione delle piccole università si snoda infatti dalla città alla nazione o forse piuttosto dalla nazione alla città. Studiarla consente di verificare le ipotesi portanti della Destra storica in materia -di costruzione di un'università nazionale - tanto importante in rapporto alla costruzio-ne dell'Italia unita - e poi le scelte concretamente maturate, soprattutto nell'età della Sinistra. Consente di verificare quella dialettica tra centro e periferia sulla quale oggi tanto si discute e che ha molteplici versanti: dalla concreta gestione dell'amministrazione al disegno - consapevole o meno - di lasciar vivere o piuttosto, talvolta, vegetare, centri universitari di importanza solo locale che non erano certo all' altezza dei tempi; per non dire, su un ben diverso terreno, del prendere forma dopo l'Unità di una nuova percezione dell'identità locale in rapporto a quella nazionale, la quale a sua volta aveva radici antiche ma trovava una nuova declinazio-ne all'interno dello Stato unitario.

L'analisi della questione delle piccole università consente di riflette-re sul ruolo svolto dai deputati che entro il sistema elettorale italiano si presentavano . come rappresentanti assai più del collegio che di un "partito" e che talvolta sembravano comportarsi quasi come se avessero un mandato imperativo. Analizzare le motivazioni di volta in volta presentate dai sindaci e dai prefetti, dai professori universitari, talvolta anche dagli studenti, ci dice molto sulla rete di rapporti dei deputati, sulla dinamica della rappresentanza degli interessi dei quali essi si facevano carico, e, infine, sulla loro stessa mentalità e sulla gerarchia dei valori alla quale facevano riferimento.

In questo senso è esemplare il fatto che Sassari rifiutasse di lasciarsi compensare della perdita dell' ateneo con l'acquisto di un istituto agrario, o Siena resistesse all'offerta di acquisire una corte d'appello in caso di soppressione dell'università, o - ancora - che fosse sconfitta la linea di quanti, almeno negli anni Ottanta, avrebbero proposto di differenziare l'offerta formativa "specializzando" gli atenei di Genova e di Messina in rapporto a interessi commerciali e marittimi a scapito della conservazione delle più tradizionali facoltà professionali di Giurisprudenza e Medicina, che però al ristretto numero dei notabili locali interessavano molto di più.

Emerge quindi anche il valore sociale e al tempo stesso simbolico dell'università per la città, in una precisa gerarchia percepita all'interno dell'offerta formativa in tema di facoltà e di istituti di istruzione in genere.

La

questione delle piccole università consente di mettere a fuoco le modalità dello sviluppo del sistema universitario in riferimento ad aspetti

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La questione delle piccole Università dall'unificazione agli anni Ottanta 17

diversi. Uno di essi deve tuttavia essere considerato assolutamente centrale: la costruzione di una geografia fragile e policentrica degli atenei e delle facoltà del Regno attraverso una serie di "leggine" anziché attraverso una legge quadro, una legge organica discussa dal parlamento. Ma a questo elemento di fondo se ne dovrebbe affiancare almeno un altro, ugualmente rilevante. Penso al progressivo spostamento - nei fatti - di un confine stabilito con precisione dalla legge Casati: quello del finanziamento statale dell'istruzione superiore, corollario indispensabile del principio dell'avocazione dell'università allo Stato stabilita dalla legge Casati ma anche da molte leggi dei governi provvisori. Questo principio fini per essere progressivamente disatteso, man mano che si impose il finanziamento sempre più largo concesso alle università da parte dei comuni e delle province attraverso la struttura dei consorzi e delle convenzioni.

Tale scelta non implicò comunque che lo Stato abdicasse in alcun modo al controllo sull'università. Questo principio continuò infatti a ispirare le leggi e regolamenti, e in Italia non si creò - almeno fino alla fondazione dell'Università cattolica - una situazione simile a quella dell'Inghilterra o del Belgio dove esistevano atenei a diverso titolo privati o confessionali. Tuttavia furono proprio il cospicuo intervento finanziario di province, comuni e banche, e il decisivo interessamento politico dei notabili a costruire una dialettica centro-periferia nella quale fini per consolidarsi un sistema universitario policentrico la cui esistenza precluse ogni possibilità di razionalizzazione e dunque di concentrazione di risorse in pochi, grandi atenei. Conseguenza necessaria di questo sviluppo disordinato e di basso profilo fu il permanere di una questione universitaria aperta e caratterizzata dalla larga consapevolezza della fragilità strutturale del sistema ben oltre gli anni Ottanta, quando pure la costruzione dello Stato aveva cominciato ad assumere caratteri più netti.

Ma tra gli ultimi decenni del secolo e la guerra mondiale iniziò a profilarsi anche all'estero un processo di frammentazione analogo a quello che aveva preso forma in Italia. E dunque la questione delle piccole università, di cui fin qui è stato sottolineato lo spessore locale e nazionale, andrebbe ulteriormente approfondita sul terreno internazio-nale in un' ottica comparativa. Se non è possibile farlo in questa sede, è almeno obbligato il riferimento a un processo parallelo che - sia pure con tempi parzialmente diversi - prese forma nel Reich tedesco e nella Terza repubblica francese rispettivamente con la fondazione di università come quella di Francoforte e con il potenziamento della Facultés grazie

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18 Ilaria Pomani

anche all'intervento - anche finanziario - degli enti locali e in genere della periferia. Di recente Vietor Karady ha sottolineato il ruolo giocato in Francia nell'ultimo decennio del secolo dalle lobbies locali come elemento di pressione per la costituzione di università complete in tutte le città che fino ad allora annoveravano soltanto facoltà staccate; ha ricordato l'impatto dei finanziamenti locali che nelle facoltà di scienze arrivarono a costituire il 75% del totale9; ha richiamato infine - ma si

tratta di un settore certamente più specifico -l'importanza del finanzia-mento privato per la costituzione di cattedre o corsi di storia regionale.

D'altra parte, per la Germania si comincia a tematizzare con chiarezza una tendenza alla decentralizzazione e "comunalizzazione" sia dell'istruzione superiore che della promozione della ricerca conseguente allo stretto rapporto tra investimenti nel settore scientifico e interessi della borghesia. Furono dunque proprio i comuni e le borghesie cittadine a realizzare questa tendenza e a creare un nesso specifico tra la seconda industrializzazione e la Leistungsverwaltung comunale: un processo che si verificò in parte in sintonia ma in parte anche in antagonismo con la pianificazione· su base statale e imperiale e che peraltro assunse precisi contorni soltanto nel nuovo secolo con la fondazione degli atenei di Francoforte sul Meno, Amburgo e Colonia (sorti il primo nel 1914, e gli altri due nel 1919) cui erano sottese iniziative e interessi soprattutto comunali l0.

, Cfr. VICfOR KAlw>Y, Il dualismo dell'insegnamento superiore in Francia (Facoltà·

Grandes Eeoles), in AA.VV., L'Università ~/l'età liberale at. e TERRY SHINN, The lrench

saence laculty system 1808-1914, institutional change and research potential in -Historical

studies in the phisical sciences" lO (1979), p. 312.

IO Cfr. ROnIGER VOM BRUOI, Die Universitiiten und die Nationalisierung des tkutschen Burgertums im 19. Jahrhundert, relazione al seminario -Dalla città alla nazione" (Trento, maggio 1992).

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LA QUESTIONE DELLE PICCOLE UNIVERSITÀ DAI DIBATTITI DI FINE SECOLO AL 1914*

MAURO MORETI'I

Nel marzo 1912 "La Voce" ospitava due articoli di Piero Jahier, scrittore importante negli anni a cavallo della grande guerra, ma per provenienza e interessi molto distante dai luoghi e dai temi centrali della discussione sull'università: articoli dedicati a Urbino, la città delle scuolel

TI quadro proposto, nel quale non mancava qualche positivo apprezza-mento, era però nel complesso assai critico. "Professori e studenti universitari di passaggio che si son dati appuntamento per gli esami, scolari a dozzina e in convitto. Città che si vuota e si riempie col calendario degli esami", osservava Jahier, e studentesca composita, costituita in parte da giovani provenienti da altre università, in parte da impiegati in cerca di laurea, che spendono, sacrificano congedi e ferie, hanno fretta e si annoiano, data anche la scarsità, ad Urbino, delle più consuete, triviali fonti di svago studentesco. L'aumento delle iscrizioni registrato negli ultimi anni e la relativa larghezza geografica del recluta-mento avevano, a parere di Jahier, una precisa motivazione economica:

gli studenti accorrono ove la merce diploma è a miglior mercato. Coll' au-mento delle tasse universitarie lo Stato si riprometteva di sfollare le aule universitarie e diminuire il numero dei cosiddetti spostati. Ha sortito l'effetto opposto. Le università provinciali equiparate alle Regie pel valore legale dei diplomi, libere di mantener le tasse entro limiti modestissimi, ,ravate di minori spese generali e di stipendio si sono impadronite del mercato .

Urbino era una delle quattro università 'libere' che il regno d'Italia aveva di fatto ereditato dalla struttura accademica dello Stato pontificio

* Le pagine che seguono sono parte di una più ampia ricerca sulla questione universitaria in Italia fra la fine del secolo XIX e la grande guerra. Nella presente stesura l'indicazione di connessioni tematiche e i riferimenti bibliografici sono limitati, e funzionali alla presentazione di un profilo d'insieme dd tema trattato.

I v. P. JAHIER, Urbino, la città delle scuole, in -La Voce", IV, n. 11, 14 marzo 1912, pp. 776-777; n. 12,21 marzo 1912, p. 780.

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20 Mauro Moretti

- per il tramite della decretazione d'urgenza dei mesi dell'unificazione-, con Ferrara, Perugia, Camerino. A queste università, mantenute sul piano finanziario dagli enti locali, era stato riconosciuto

il

diritto di rilasciare titoli di studio legalmente equiparati a quelli delle università regie purché si uniformassero alla normativa universitaria vigente nel loro ordinamento degli studi e degli esami; ma su questo terreno, come molte voci del tempo denunciavano, il controllo era tutt' altro che severo ed efficace. Situazione particolare, dunque, quella presa in esame da Jahier, che aveva ben presente questa specificità, e la evidenziava, si è visto, a proposito della politica seguita in materia di tasse universitarie, fortemente accresciute per gli atenei statali da una legge del maggio

1903'. La concorrenza al ribasso per attrarre studenti, del resto, poteva non essere solo di natura economica, continuava Jahier, e riguardare invece la disciplina e la serietà degli studi, andando ben oltre la peculiare condizione delle università libere:

L'indulgenza plenaria dilaga qui come più o meno in parecchie Università Regie dato il vizio radicale del sistema degli ·esami in cui il maestro è giudice e parte perché giudica se stesso nell'alunno L .. ]. Non le sole università libere (in

cui non mancano insegnanti egregi e provetti) ma tutta la· vita universitaria italiana è malata di questo male e per risanarla non c'è altro mezzo che restituire al maestro il compito di insegnare e avocare allo Stato il diritto di conferire diplomi mediante esami come si fa in altri paesi. Perciò un'azione severa dello Stato contro queste Università sarebbe ingiusta finché nelle Università Regie si paga di più una merce spesso altrettanto scadente4

) Fra le università libere, comunque, Perugia non aveva seguito la via dei bassi costi, mentre l'università regia di Macerata in materia di tasse godeva di prerogative simili a quelle delle università libere. Sulla questione delle tasse nelle università libere si veda la nota di T. MOZZANI, Le tass~ n~lk università l~, in -L'Università italiana", IX, 1910, pp. 173-174, e la polemica che ne segui, nella stessa rivista, fra la fine del 1910 e l'inizio del 1911. Interessante, per le informazioni che contiene e per un profilo generale sul tema nella prospettiva in cui era affrontato in quegli anni, il saggio di F. V ASSALLl, La questione delk

università li~, in -Nuova Antologia", CCXLVI, 16 novembre 1912, pp. 242-261 (che

sottolineava soprattUtto le grandi difficoltà materiali in cui versavano le università libere, per le quali suggeriva una riduzione delle facoltà e una specializzazione concordata, specie per le sedi marchigiane). Sull'università di Perugia fra Stato pontificio e regno d'Italia, v. G. ERMINI, Storia dell'Università di Pmlgia, Brenze, Olschki, 1971, vol il, pp. 676-726; sulle complesse vicende e sul particolare caso istituzionale rappresentato dall'università di Macerata si veda l'importante ricostruzione di G. AltANGIo-RUIZ, L'Università di Macerata nell'~ moderna (1808-1905), Macerata, s. i. tip., 1905, parto pp. 4}-14. Sulla vita

materiale e scientifica dei docenti di Camerino v. G. CL\NFEltOTIl, Germanesimo ~ univ~ità in Italia alla fi~ dell'800. Il caso di Cammno, in AA.VV., &zecolla di scrilti in mmroria di

Angelo Len~r, a c. di B. Carpino, Napoli, E.S.I., 1989, pp. 349-365.

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La questione delle piccole Università dai dibattiti di fine secolo al 1914 21

Se sul piano generale il rimedio auspicato da Jahier sarebbe stato quello dell'istituzione dell'esame di Stato, e della connessa abolizione del corso forzoso dei titoli di studio, per quel che riguardava la dimensione 'regionale' della questione universitaria Jahier non mancava di segnalare l'eccesso rappresentato dalle tre facoltà legali marchigiane, suggerendo forme di accorpamento, e la negativa incidenza di un simile primato culturale e istituzionale sulla vita locale, che avrebbe tratto maggior giovamento da centri di insegnamento superiore orientati in senso tecnico e agrario.

L'articolo di }ahier accostava, non senza varie semplificazioni, questioni partitamente discusse in quei mesi in organi specialistici', proponendo spunti di critica al sistema universitario in una delle sue articolazioni fondamentali, e più circostanziate osservazioni sui caratteri e sui limiti dell'esperienza di insegnamento e di studio in un centro universitario minore. li tema della 'concorrenza', dei compromessi indotti dalla necessità di assicurarsi un certo numero di iscritti a danno della qualità dei corsi e degli esami e della stessa regolarità formale dello svolgimento delle sessioni di esame, con studenti e professori di passaggio in una università, scriveva Jahier, tramutata in esamificio, non poteva che essere evocato in rapporto alle piccole università, libere o statali che fossero, e si poneva oggettivamente in alternativa al motivo, tanto caro

ai non pochi difensori delle università minori, dell'eccellenza didattica e disciplinare della vita accademica nei piccoli centri, dove il rapporto fra professori e studenti era più diretto ed intenso, minori erano le tentazioni e le occasioni di svago per gli studenti, meno sentita la spinta alla protesta ed all'agitazione di natura anche politica.

A quella data, del resto, era mutata, almeno sul piano formale, la tipologia delle piccole università. Superata, grazie allo strumento delle convenzioni con gli enti locali e delle connesse leggi di 'pareggiamento',

, v., ad esempio, oltre Il quanto è citato nella nota 3, A. MONTI, La questione del

numero delle Università, in -L'Università italiana", X, 1911, pp. 25-26; M. SIOno-PINTOR,

In difesa delle Università libere, ivi, pp. 8-10; La Rivista,

u

Università libere, ivi, XI, 1912, pp. 54-56. Jahier aveva del resto toccato una questione di stretta attualità, che proprio in quei giorni sarebbe venuta alla nba1ta dei lavori parlamentari in sede di dibattito sul bilancio della pubblica istruzione, con la presentazione e l'esame di un ordine dd giorno ddIa souo-giunta del Bilancio contro le università libere, nel quale si invitava il governo a prendere provvedimenti, specie considerate le -facilitazioni" d't'gru genere concesse in quegli atenei agli studenti. L'ordine dd giorno sarebbe stato comunque ritirato su richiesta dd ministro Credaro (per un resoconto sommario ddIa vicenda, e ddIa discussione sul bilancio della pubblica istruzione alla Camera &a il 21 e il 27 marzo 1912 v. Il Bilancio del14 Pubblica lstruz. all4 umera, in -L'Universitl italiana-, XI, 1912, pp. '~1).

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22 Mauro Morelli

la distinzione in università primarie e secondarie fissata nel 1862, restava però evidente anzitutto la differenza fra università complete, dotate delle quattro facoltà e di almeno alcune delle scuole universitarie annesse, e incomplete - che comprendevano anche le quattro università libere -, localizzate in centri urbani relativamente modesti e periferici6; e il

numero degli studenti iscritti costituiva in ogni caso un indicatore accreditato, sempre tenuto presente nei numerosi progetti di riduzione del numero delle università che si erano susseguiti senza mai approdare a risultati concreti. E su questo terreno, proprio in quegli anni, si erano registrate polemiche da parte di esponenti di università regie minori, come Siena, nei confronti della politica dei bassi costi praticata a scopo concorrenziale dalle università libere: nella sua prolusione del 1909, ad esempio, il docente senese Carlo Manenti non aveva mancato di dar risalto, con tono assai critico, allo stesso fenomeno più tardi denunciato da Jahier; fenomeno del quale comunque occorrerà tener presente l'effettiva portata quantitativa7

Jahier, dal suo punto di vista meno tecnico, meno interno al dibattito politico e professorale sull'università nell'età giolittiana, e sensibile semmai a motivi tipicamente vociano-salveminiani - si pensi alla sottolineatura, in negativo, dell'assoluto prevalere degli studi giuridi-ci in realtà giuridi-civili e sogiuridi-ciali nelle quali sarebbe stato auspicabile un diverso tipo di formazione per i nuovi "gruppi dirigenti -, metteva in evidenza con una certa immediatezza alcuni tratti generali della questione univer-sitaria nella forma in cui dovettero apparire a parte almeno dell'opinione colta del tempo. E a parte le indicazioni relative al sistema degli esami, occorrerà rilevare soprattutto il permanere di una sorta di disagio e di insoddisfazione nei confronti della distribuzione territoriale e del nume-ro delle sedi universitarie, e le riserve sul livello scientifico e didattico delle università minori, e in parclcolar modo di quelle libere.

6 Nell'anno accademico 1911-1912 le università regie incomplete erano quelle di

Cagliari, Macerata, Modena, Parma, Sassari e Siena.

7 v. C. MANENn,A proposito di riforme universitarie, Siena, L. Lazzeri, 1910, pan. pp.

48-54. Per dare un'idea del rilievo numerico dell'affluenza degli studenti nelle università libere, si potrà ricordare, ad esempio, che nel 1911·1912 la facoltà giuridica di Camerino aveva 249 iscritti, quella di Ferrara 320, quella di Perugia 93, quella di Urbino 229; mentre fra le università regie la facoltà di Parma ne contava 98, quella di Sassari 76, quella di Siena 139, quella di Modena 145, quella di Cagliari 102 (traggo questi dati dalIa StatistiC4 degli

studenti iscritti nelle Università del Regno nell'anno acC4demico 1911-1912 in -Bollettino

ufficiale del Ministero della Istruzione Pubblica", 1912, pp. 2149·2150). L'aumento delle iscrizioni nelle università libere era un dato di fatto: Camerino, che nel 1902-1903 aveva in totale 311 iscritti, era passata a 500 nel 1908-1909.

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La questione delle piccole Università dai dibattiti di fine secolo al 1914 23

Nelle discussioni sull'assetto dell'università italiana la pregiudiziale abolizionista, la richiesta di una riduzione del numero delle università esistenti non era mai venuta meno. Ancora nell'ottobre 19101 traendo

spunto dall'avvio dei lavori della Commissione reale per il riordinamento degli studi superiori, nominata nel gennaio dello stesso anno, un periodi-co di cultura periodi-come il60rentino "Marzocperiodi-co" era intervenuto periodi-con durezza contro lo spirito localistico e gli interessi elettorali che avevano sino ad allora impedito ogni concreta misura in questa direzione8L'ipotesi, tante

volte prospettata, di drastici tagli, di soppressione di sedi e di razionaliz-zazione della spesa stava tuttavia lasciando il posto ad altri progetti che andavano nel senso della diversificazione, della specificazione funziona-le. Aprendo, nell'aprile 1912, il congresso dell'Associazione nazionale fra

i professori universitari, lo storico del diritto Pietro Bonfante - uno fra i protagonisti dei dibattiti universitari di quegli anni - osservava:

Un tempo si è levato alto il clamore che le nostre Università erano troppe: e benché questo grido sia ora più fievole, esso non è spento. Eppure la fioritura di nuove scuole e Istituti superiori non è stata mai cosl imponente in Italia, dietro l'esempio di tutto il mondo civile, come ai nostri giorni. Dovrebbc essere pertanto evidente, che le nostre Università non sono troppe, ma sono troppo uniformi, arcaiche, irrigidite, stereotipc; che non l'ccccssivo numero dcgli Atenei ci nuoce, ma l'impossibilità di procedere a qualunque differenziazione, pcrché, dati gli ordinamenti attuali, queste apparirebbero una intollerabile rnenomazionc della dignità accademica 9

In anni recenti, nel 1902, era stato aperto in Italia un istituto superiore privato di studi commerciali, la "Bocconi"; e soprattutto erano state approvate leggi ed emanati decreti per l'equiparazione alle lauree dei diplomi rilasciati dalle Scuole superiori di commercio, nel 1903, per la fondazione del Politecnico di Torino, nel 1906, e dell'Istituto superio-re di studi commerciali, coloniali ed attuariali di Roma nel 1907-1908; e la vitalità di istituzioni che erano formalmente extrauniversitarie venne registrata, anche con qualche preoccupazione e con vari propositi di recupero e di riassorbimento, in numerosi testi di quel periodo.

L'evoluzione auspicata da Bonfante avrebbe potuto trovare appro-priata cornice istituzionale in una riforma orientata in senso

autonomisti-• v. La pregiudiziale necessaria per LJ riforma delle Universi!';, in "II Marzocco", XV, n. 43,23 ottobre 1910.

, L'intervento di Bonfante è in Associazione nazionale fra i profeswri univen.itari,

Alli MI Congresso unit'ersitario, Roma 11-13 aprile 1912, Pavia, Tip. Cooperativa, 1912, pp. 5-11; la cito a p. 6. Bonfante era allora presidente dell'Associazione.

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24 Mauro Morelli

co, come quella vanamente presentata, a più riprese, dal ministro Guido BaccellilOMa in realtà a quella prospettiva si era guardato con perplessità

da diversi punti di vista, condizionati comunque dalla proiezione di quel nuovo principio giuridico e amministrativo sulle situazioni locali, ed in specie su quella delle sedi universitarie minori. Da una parte era stato segnalato il pericolo, particolarmente evidente nei piccoli centri, di un eccesso di ingerenza non solo politico-amministrativa, ma anche sul piano delle scelte didattiche e scientifiche, di quelle forze locali che sarebbero state chiamate a contribuire materialmente alla vita degli atenei; e ancora nel 1906 il giurista e storico delle università Biagio Brugi, riprendendo preoccupazioni manifestate già nei decenni precedenti -da personaggi di primo piano, come Ruggero Bonghi e Silvio Spaventa, scriveva:

Guai se i nostri istituti di cultura superiore fossero degradati alla condizione di enti locali soggetti perciò all'influenza di tutti i partiti che, succedendosi nel governo della città, potrebbero pretendere che l'Università riflettesse via via il

loro colore! Siamo ben lungi in Italia dal non aver bisogno ancora di un alto e illuminato potere centrale, che custodisca gelosamente, a garanzia di tutti, la libertà di pensiero nell'Università. Non ci lasciamo ingannare qui da fatui desiderii di autonomiall

Se in questa chiave

r

autonomia poteva anche apparire come una minaccia per la qualità e la libertà della ricerca e dell'insegnamento - e il cattivo funzionamento delle università libere, che con qualche ragione

10 Non è disponibile, a mia conoscenza, uno studio approfondito specificamente

dedicato ai vari progetti Baccelli, ed alle discussioni che li accompagnarono, v. comunque, M. ROSSI, Univ~ità e società in Italia alla fine dell'800, Firenze, La Nuova Italia, 1976, pp. 80-90; troppo rapido e superficiale è l'articolo di L. BE1.L.ATALLA,1l progello di legge Baccelli: la 'triplice' autonomia deU'univ~ità, in ·Scuola e città", XLI, n.7, 1990, pp. 277-285. Sul problema giuridico e politico dell'autonomia in rappono alle vicende dd sistema universi-tario italiano v., fra l'altro, B. PALMA, L'Univ~tà fra accm/ramento ed autonomia, Urbino, Università degli Studi - Arti Grafiche Editoriali, 1983; A. SACCOMANNO, AulonomUz universitaria e costituzione. I. L'autonomUz universitaria nello Stato liberale, Torino, G. Giappichelli, 1989; L. BERLINGUEJt, L'autonomia universitaria tra legge Casati e riforma Gentile. Prime considerazioni, in Scritti di storia del diriuo ollerti dagli allievi a Domenico

Mal/ti, a c. di M. Ascheri, Padova, Antenore, 1991, pp. 557·573.

Il v. B. BRUGI, AutonomUz Universitaria, in -Bullettino della Associazione Nazionale

fra i Professori Universitari", I, n. 2, 1906, pp. 25·26, p. 26. Tradizionalmente, posizioni come questa avevano avuto una fone valenza anticlericale; ed occorrerebbe svolgere a proposito una particolareggiata esposizione, in questa sede impossibile, tenendo conto del fatto, che in quegli anni le opinioni dei cattolici in campo universitario - come è

testimoniato anche da fonti molto autorevoli - erano in sostanza favorevoli all'adozione del principio dell'autonomia.

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La questione delle piccole Università dai diba/li/i di fine secolo al 1914 25

veniva ritenuto esemplare dei possibili guasti prodotti da un regime autonomistico, era a volte evocato in questo quadro -, d'altra parte, e soprattutto per opera di rettori e docenti di regie università minori, si denunciava nei progetti autonomistici il disegno o in ogni caso il pericolo

di una graduale soppressione, di una 'eutanasia', come si scrisse, delle piccole università. Una delle caratteristiche dei disegni di legge sull'auto-nomia era infatti quella della conversione in dotazione fissa - che non escludeva peraltro aggiornamenti, revisioni e interventi straordinari -delle spese statali per ciascuna università; gli atenei avrebbero potuto trarre altri proventi da una quota delle tasse universitarie, da convenzioni con gli enti locali e con possibili altri finanziatori, come banche e fondazioni, da lasciti e donazioni che si intendeva agevolare con l'espli-cito riconoscimento della personalità giuridica alle università. Tale situazione, che sarebbe venuta ad instaurare un regime di almeno parziale concorrenza, sembrava favorire i centri maggiori, le grandi università complete, capaci, per varie ragioni, di attrarre un più cospicuo numero di studenti, dove il contributo finanziario locale sarebbe facilmente risultato più rilevante, dove i migliori docenti, in particolar modo quelli delle facoltà professionali, avrebbero potuto trovare maggiori opportuni-tà di guadagno, oltre a quelle offerte loro da una riforma del sistema delle retribuzioni - con un ritorno alle norme previste dalla legge Casati, che attribuiva ai professori una quota delle tasse di iscrizione ai corsi - che avrebbe dovuto accompagnare la più generale riforma universitaria12In

questo senso i timori e le resistenze furono radicati, diffusi e duraturi. E di fronte alla ripresa, dopo il 1910, di una linea autonomistica che nel primo decennio del secolo aveva trovato qualche freno nella legislazione universitaria del periodo giolittiano, e che veniva invece rilanciata nei

12 Senza riandare al ricchissimo dibattito parlamentare che ebbe luogo alla Camera fra la fine del 1883 e l'inizio del 1884 sul primo disegno di legge Baccelli, basterà rammentare che già nella relazione ministeriale che accompagnava il progetto originario si prendeva in considerazione, pur minimizzandone le conseguenze, l'eventualità della chiusura di qualche università minore: "Forse in taluno non sarà estraneo il dubbio che per qualcuna delle nostre scuole minori, in questo ritorno alle antiche libertà, anziché di una emulazione di gloria, si abbia a trattare dei supremi rischi della esistenza. Ma si rassicurino quei timidi. Se la necessità portasse taluno dei piccoli centri a soccombere nella lotta, non dovrebbe per questo seguirne la mone, bensl la trasformazione in un nuovo centro d'insegnamenti più conforme alle condizioni di luogo e di tempo, epperò sicuramente più utile" (v. Alli

Parl4mmtari, Camera, Documenti,leg. 'XV, 1882, n. 26, p. 2). La commissione

parlatnen-tare emendò il progetto del ministro, insistendo sulla impossibilità di sopprimere delle università con un tratto di penna, sul fatto che il governo avrebbe sempre potuto intervenire in via straordinaria nel finanziamento delle università, e dedicando un apposito articolo di

legge alla possibilità, per le università minori, di concentrare le risorse in una o due facoltà o di istituire scuole speciali (ivi, doc. n. 26A).

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26 Mauro Moretti

lavori della Commissione reale per il riordinamento degli studi superio-ri 13, l'Associazione nazionale fra i professori universitari, per evitare lacerazioni troppo profonde al suo interno,

fu

costretta ad escogitare la compromissoria ipotesi di una sorta di autonomia volontaria, a seconda dei desideri e degli orientamenti delle singole sedi, accompagnata dall' esortazione a non riprendere la polemica sulle università minori, dato che il numero delle sedi universitarie in Italia non era ormai da considerarsi eccessivo14

Non era, del resto, solo questione di numero. Appena compiuta l'unità politica si era osservato che le università erano anche mal distribuite dal punto di vista territoriale, ed era subito risultata particolar-mente evidente l'anomalia rappresentata dal Mezzogiorno continentale, con la sola università di Napoli accompagnata da alcune scuole universi-tarie di ostetricia, notariato, farmacia a L'Aquila, Bari, Catanzaro. Varie iniziative erano state intraprese, in particolare a Bari; e il primo disegno

U v. M. MORETI1 -1. PORCIANl, Università e Stato nell'Italia liberale: una ricerca in corso, in "Scienza e politica", 3, 1990, pp. 41-54, parto pp. 50-54; L. BERUNGUER,

L'autonomia universitaria, cit., pp. 570-571.

14 Nel 1911 era stato presentato, quale primo passo verso la riforma, un disegno di legge sull'autonomia amministrativa delle università che non ebbe poi seguito. All'interno dell'Associazione nazionale fra i professori universitari l'idea dell'autonomia volontaria fu

sostenuta soprattutto da Bonfante, che ironizzava, a ragione, sul semplicismo con il quale a volte ci si rifaceva ad una sorta di ideale 'medievale'; "Ora l'Università è una istituzione completamente di Stato e non può più tornare in quelle condizioni. Dirò di più, dirò che è pericolosa questa illusione che vi si possa tornare: potrebbe darsi che l'Autonomia, se attuata con una certa precipitazione, conducesse alcune Università a perire ovvero le conducesse a languire sotto la dubbia tutela dei corpi locali, o le trasformasse in Istituti locali". La sone delle quattro università libere, proseguiva Bonfante, poteva servire da ammaestramento, mentre la riforma avrebbe dovuto poggiare su due principi:

"n

primo è un po' contrario alla tendenza che in noi prevale: l'autonomia, secondo me, non dovrebbe essere imposta da una legge generale dello Stato a tutte le Università, ma dovrebbe essere chiesta dalle Università stesse e accordata dallo Stato [. .. ]. Nel mio concetto non sarebbe necessario che tutte le Università domandassero l'autonomia a un momento dato, ma piuttosto dovrebbe essere accordata alle Università singole la facoltà di chiedere questa autonomia. Quindi vi sarebbe una esperienza da tenersi presente caso per caso. E, d'altra parte, sarebbe eliminato forse quel sospetto in cui alcune Università vivono sempre, che cioè l'autonomia sia istituita a loro danno, sospetto contro il quale naufragò il progetto Baccelli [ ... ]. Valtro punto è per me di grande importanza. Vautonomia non deve significare una maggiore ingerenza degli enti locali, non deve abbandonare l'Università ai

Comuni" (l'intervento di Bonfante è in Associazione nazionale fra i professori universitari,

Alli dell'Assemblea Gtnnale, Roma 5-7 gennaio 1911, Torino, Tip. Gussoni, 1911, pp.

67-69). L'Associazione adottò in sostanza gli orientamenti di Bonfante nella preparazione del congresso del 1912: V. Associazione nazionale fra i professori universitari, La riforma

degli studi supmori. Relazioni al Congrmo universitario, Roma aprile 1912, Pavia, Tip. Cooperativa, 1912, parto pp. 109-117 (anche per la difesa dd ruolo delle università minori).

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La questione delle piccole Università dai dibattiti di fine secolo al 1914 27

di legge Baccelli sull' autonomia universitaria - nella versione rivista dalla commissione parlamentare - contemplava la possibilità dell'apertura di una nuova università nella zona adriatica meridionale, qualora fosse stato assicurato anche il contributo degli enti loca1i15La disposizione aveva suscitato resistenze di parte napoletana; ma il progetto, è noto, non fu

approvato, e del resto l'intervento sulla distribuzione territoriale delle sedi universitarie, con soppressioni e magari qualche nuova fondazione, si era rivelato una via nei fatti difficilmente percorribile già agli albori dello Stato unitario, come aveva provato la vicenda di Sassari16. Ma il problema rimaneva comunque aperto, specie per il Sud, e si sarebbe riproposto, come si vedrà, dopo il terremoto del dicembre 1908 e la distruzione di Messina.

Nell'ultimo decennio del secolo XIX voci autorevoli avevano continuato a levarsi per deplorare la sopravvivenza di università troppo modeste, periferiche e mal dotate per poter impartire un insegnamento veramente fruttuoso. Nel 1890 il filosofo Carlo Cantoni, uno fra i più interessanti e acuti scrittori di cose universitarie nell'Italia unita, tornava a denunciare l'impotenza legislativa del parlamento in materia, e a criticare l'opera dei ministri costretti da questa stessa impotenza ad agire "per via di decreti reali e di regolamenti, i quali o erano per solito in contrasto con la legge o riuscivano mezze misure, ed in ogni caso non producevano nulla di durevole e di vitale"17; ed individuava con chiarez-za una delle cause di questa situazione nella impossibilità di riordinare veramente il lascito, sul terreno universitario, degli antichi Stati e dei governi provvisori:

TI provvedimento più razionale, quello di ridurre le Università italiane ad un

U Sulle vicende relative all'ateneo barese v. T. PEDIO, Lotte e contrasti per l'istituzione

dell'Università degli Studi di Bari, Galatina, Congedo, 1977, ed anche, per quel che riguarda

discussioni e motivazioni locali in favore dell'istruzione superiore in Puglia, il primo capitolo dello studio di O. CoNFESSORE, Le origini e l'istituzione dell'Università degli Studi

di Lecce, Galatina, Congedo, 1990. Per le scuole universitarie meridionali, oltre alle notizie

riportate in Ministero della pubblica istruzione, M01Wgrafie delle Università e degli Istituti

Superiori, Roma, Tip. Operaia Romana Cooperativa, voI. II, 1913, pp. 621-633, v. ora A.

CLEMEmI, L'Università dell'Aquila dal placet di Fe"anle I d'Aragona alLz staliUl1zione.

1458-1982, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 175-220.

16 Su Sassari si veda ora la ricca ricostruzione proposta da G. FOIS, L'Università di

Sassari nell']taIUz liberale. Dalla legge Casali alLz rinascita dell'età gioliuiana ndle relazioni annuali tki Rettori, Sassari, Centro interd.isciplinare per la storia dell'Università di Sassari, 1991, pp. 9-159.

17 v. C. CANTONI, Dell'unione e libertà degli studi nelle nostre Università (1890), in In

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